Ci eravamo quasi abituati nel Partito Democratico ad adottare dopo ogni risultato elettorale lo spirito non poco saturnino di Delio Tessa: “L’è el dì di Mort, alegher!” E invece questa volta il day after delle elezioni di maggio è stata grande allegria e giubilo comunicativo diffuso e unitario per le disperse legioni del Partito. Il mantra è finalmente cambiato, e con un rapido meticciato, come s’usa perfino in Brianza, di inglese e meneghino, ecco coniato il nuovo mantra: “L’è el Day after, alegher!”… Dopo le sconfitte e le vittorie di Pirro ecco finalmente una performance quanto ai numeri, e soprattutto alle percentuali, indiscutibile.
Le chiacchiere dei sondaggisti (che anche questa volta hanno totalmente cannato) intorno alla mole delle astensioni, dicono semplicemente le condizioni di voglia e di salute dell’elettorato. E non c’è bisogno di aver studiato Parsons o Kissinger per constatare che anche l’elettorato italiano si sta da tempo avviando per la frequenza al voto sui livelli delle democrazie occidentali che consideriamo “mature”, anche se la loro tiepidezza non ci soddisfa ed anzi ci inquieta. Detenevamo infatti, dal tempo dei padri fondatori, un primato in Europa che ci faceva onore e che sarebbe bene riagguantare. Quanto ai sondaggisti, i nostri non sono meno avvertiti e tecnicamente equipaggiati degli altri e degli anglosassoni: quel che resiste alle loro indagini è l’indole degli italiani, inaffidabile all’uscita dai seggi non per propensione alla menzogna, ma resi diffidenti dal loro essere fin dai tempi del Leopardi (1824) il popolo “più filosofo” d’Europa, anche dei francesi che quanto a sofisticazioni non la sanno meno lunga di noi…
Dunque Matteo Renzi ha dilagato, e il partito un po’ meno. O meglio hanno dilagato entrambi ma in maniera diversa e a diverso titolo, una sorta di concordia discors dove il comune interesse è riuscito – la politica, finalmente! – a capitalizzare insieme il consenso dei concittadini. “Matteo” rappresenta infatti un’irruzione politica nel tessuto tenacemente corporativo del Paese. In questo tessuto – gran corpaccione storico dove il malaffare e la corruzione stanno sempre più emergendo come categorie del politico – istituzioni e società civile si tengono in un intreccio difficilissimo da sciogliere; le caste, al plurale, si saldano con l’area massiccia del sottogoverno e l’andazzo che ne risulta appare incorreggibile anche se imbocca di volta in volta dei vicoli ciechi. Dove il vecchio e il tradizionale si difendono in nome di una non invidiabile tradizione e il nuovo rischia di muoversi senza fondamenti affidandosi alle gride manzoniane. Dopo la renziana scomunica per “alto tradimento”, minacceremo la prossima volta i corrotti con la pena di morte (modalità cinese)?
È tuttavia concorde e condivisibile il giudizio: ha vinto la speranza! E la speranza a ben guardare è Renzi, assunto come personificazione di questa voglia collettiva di gettare il cuore finalmente oltre l’ostacolo. Renzi e il suo impeto cinetico, che gli fa scegliere ogni volta il passo di corsa, obbligando gli intervistatori a rincorrerlo e a intervistarlo in movimento. Non è un vezzo: è un’icona e un messaggio. Ormai così consustanziale al leader che se non corre si appanna e rischia di inciampare. Non a caso il programma delle riforme è un cronoprogramma e i tempi degli annunci e dei traguardi del voto delle riforme stesse contano più della sostanza istituzionale in gioco. La diatriba e il tira e molla sul nuovo Senato delle regioni (il federalismo dev’essere salpato sull’arca di Noè e ce ne siamo tutti scordati) nascono così e trovano qui la chiave di interpretazione e la legittimazione.
Gli italiani sono dunque tornati a sperare? Grazie a Dio, pare proprio di sì. Era tempo che l’ottimismo della volontà, comunque giustificato, tornasse tra di noi. E il mantra questa volta va scritto e letto in romanesco: “famo a fidasse”.
Proviamo a mettere i pensieri a capitolo. Non ci sarebbe Renzi senza le primarie. Perché le primarie lo legano e lo contrappongono al PD e ne democratizzano l’innato narcisismo populistico, nel senso che addomesticano almeno parzialmente alla democrazia rappresentativa il suo dirompente plebiscitarismo mediatico. Il sindaco di Firenze, il giovane ed esuberante successore di La Pira ha sfondato. Ovviamente nelle condizioni date e quindi relativamente ai dati di astensionismo che affliggono Grillo e Berlusconi. Ma è questo il relativismo democratico, bellezza! Perché “Matteo” prende meno voti dell’ultimo Walter Veltroni (che pure si atteggiava non poco a fare l’americano kennediano) ma raggiunge una percentuale “bulgara” se raffrontata alle abitudini della Seconda Repubblica. E dire che Renzi avrebbe vinto poco perché troppo forte è l’astensionismo che ha penalizzato i suoi competitori è come pensare ad una partita del campionato di calcio che duri 10 o 120 minuti invece che 90 o veda i passaggi fatti a mano e all’indietro come nel rugby.
Le regole esistono dappertutto, e non sono soltanto temporali. Piuttosto l’interrogativo vero è sulla natura del mutamento. Perché forse le Repubbliche cambiano anche in Italia, o strombazzandolo ai quattro venti o senza dirlo troppo in giro, traendo linfa, quanto limpida resta da stabilire, dai mutamenti – corposi – della cosiddetta “costituzione materiale”.
Se approcciamo così il problema, Renzi cessa di essere soltanto un personaggio, un giovane leader cui dare fiducia, per palesarsi come un processo collettivo.
E dentro questo processo è tempo di incominciare a guardare, andando oltre le descrizioni ricche di numeri e raffronti, come accade anche e virtuosamente nel mio partito territoriale, perché la descrizione aiuta ma raramente mette in cammino. Lo ha capito come al solito benissimo papa Francesco che nella Evangelii gaudium usa un sacco di verbi di moto che invitano ad uscire dai tradizionali steccati e se la prende con le comode inerzie che discendono dall’eccesso diagnostico.
È tornata la politica, rumorosamente e narcisisticamente. Ma come flusso collettivo, indotto da sopra e da fuori. E sono anche tornate le riforme dall’alto. Che si sforzano di stare tra la gente e di mimare i comportamenti di massa: autorità senza più cravatta, piuttosto casual (in tutti i sensi) che vogliono tutte apparire normali, popolari e naturalmente di corsa. Mai un’intervista da fermo. Correre e agitarsi, brandendo il twitt, necesse est. Più per la telecamera che per il budget. Sembra perfino che non ci sia regia perché basta per il canovaccio e il backstage lo spirito del tempo. E forse anche per la riuscita… perché è lo stesso spirito del tempo che si incarica di dissolvere nell’aria tutto ciò che è solido.
Invece degli antichi ragionamenti politici, non sempre acuti e talvolta perfino pedanti, con la Dc e il Pci che trovavano modo di litigare su tutto, si diffondono le narrazioni. Così è finalmente approdata al governo la politica “senza fondamenti”. Dopo tante correzioni di rotta e di immagine è arrivata trionfalmente a Palazzo Chigi. Vi è affinità elettiva tra la politica senza fondamenti e il plebiscitarismo che prescinde dai partiti e dai loro apparati.
Si estenua progressivamente nel Paese il voto di appartenenza e cresce ovunque il voto d’opinione in cerca di un programma, di un leader e di una bandiera. Magari per una sola elezione e per danzare una sola estate. Questa è la metamorfosi dell’elettore italiano. Se avessero votato il 25 maggio soltanto le donne il PD avrebbe raggiunto quota 46%… Quante altre proiezioni favorevoli e curiose sono possibili! E d’altra parte superare i demoni della paura e della società liquida significa allontanare la politica dai poteri e avvicinarla alla società, dove i media impazzano (anche i media sono un potere: ce lo ha insegnato tanti decenni fa Orson Wells) e la fanno da padroni creando nuove regioni dell’elettorato e nuovi profili per chi intende fare incetta di voti.
Il voto è questo: volatile – il che non significa non riflessivo – non più di appartenenza. Più difficile da inseguire e da interpretare perché si ha l’impressione che in Italia sondaggi sondaggisti non funzionino mai. Il voto è per tutti così, salvo, per tutti, i residui di vecchie stagioni e vetusti apparati. I voti non appartengono più se non a chi li esprime nell’urna.
È così che Renzi guida un partito diverso da quello dei fondatori. I feticci di Fonzie hanno sostituito la deamicisiana pompa di benzina emiliana. La personalizzazione del voto si consegna a nuove armi, a nuove vittorie ed a nuove anomalie italiane. È così che una personalizzazione da derby e tutta francamente provinciale del voto tra Renzi e Grillo ci ha regalato il maggior partito europeista europeo: il PD, finalmente confluito nel Pse, ha cumulato ben 31 eurodeputati. Una forza se non proprio una legione da spendere sul campo per incalzare Angela Merkel e tamponare Cameron. Una forza costituitasi intorno a una contesa che non ha dimenticato lo Strapaese e i suoi toni.
Restano per noi, tra molti, due problemi principali. Incominciamo dal più recente e incombente: le primarie e il loro rapporto con il partito. Le primarie in Italia le pratica soltanto il PD, che rinverdisce una tradizione artigianalmente importata da Giuseppe Dossetti nel 1956 a Bologna in occasione dello scontro alle municipali con il comunista Dozza. Le primarie sono un comportamento collettivo americano applicato a un partito che resta dalla testa ai piedi completamente europeo, un po’ socialdemocratico e un po’ democristiano: il nostro centrosinistra. Con l’avvertenza tuttavia che le vecchie culture sono per tutti obsolete e che se permane tra gli antichi militanti superstiti il richiamo della foresta sono tuttavia scomparse per tutti le foreste.
Con un vantaggio: che la lontananza che produce e fortunatamente tiene attive sul campo schiere di reduci e di antichi militanti, vede anche svanire le vecchie ragioni di contesa e i confini che risalivano alla guerra fredda. Davvero non c’è bisogno di essere papa Giovanni XXIII per constatare che quel che unisce è assai più – quasi naturaliter – di quel che divide.
E però le primarie sono altra cosa rispetto ai riti e al sentire ereditati da questo partito. Il rapporto non si aggiusta automaticamente, perché mi risulta palesemente impensabile l’impegno organizzativo richiesto dall’allestimento delle primarie senza l’apporto vocazionale e professionale e perfino nostalgico delle vecchie culture della militanza. Nulla di irrisolvibile, ma bisogna metterci la testa.
È stata saggezza di Bersani volerle a tutti i costi (nel turno precedente) e volervi la presenza di Renzi come competitor. Sapendo e dicendo in giro, anche se evidentemente non se lo sarà augurato, che tanto presto dopo di lui sarebbe arrivata la chance di Matteo. Renzi l’esuberante alle europee ha sbaragliato il campo e ha trovato consensi ben al di là dei confini di un’esausta socialdemocrazia italiana. Il nuovo vitalissimo “barbaro” sa tuttavia di non aver ancora conquistato il cuore e tutta la fiducia dei vecchi “imperiali” dla decaduta romanitas. Il buon Bersani è comunque riuscito a interpretare meglio la parte del generoso Boezio piuttosto che quella dello smacchiatore di giaguari…
In cima alla piramide vince e simpatizza empaticamente la nouvelle vague brillante, Femminile e renziana. Ma non basta: così il partito è domato, non trasformato, alla maniera con la quale Tony Blair prima cambiò il Labour party e poi andò a Downing street. E quindi resta sul tappeto la questione non di scuola del rapporto tra primarie e partito (primo problema).
Cui segue l’interrogativo generale su quale sia il soggetto e lo strumento politico più adatto a interpretare il nuovo voto d’opinione, le stratificazioni sociali e culturali che copre ed interpreta, la necessaria canalizzazione della società civile – rispettandone le autonomie – verso le istituzioni, la selezione di una classe dirigente tuttora latitante, e non soltanto a livello politico.
Questo quadro favorevole e irrisolto la vittoria di maggio ci consegna, non soltanto a iscritti e simpatizzanti del Partito Democratico. (E mette i brividi pensare quali avrebbero potuto essere gli esiti elettorali se la magistratura veneta avesse proceduto con un’altra scelta dei tempi a svelare gli ultimi malaffari del nuovo consociativismo in laguna: e la chiamavano Serenissima!). Discuterne nell’abbondanza della vittoria è più agevole che interrogarsi dopo una sconfitta o una vittoria mancata. Non è più el dì di Mort, ma il Day after servirà a tenere allegri non solo noi ma gli italiani se sullo slancio della corsa susseguente al voto non smetteremo di pensare ai problemi che abbiamo di fronte prima di pensare di averli risolti.