David Bidussa. Il libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi.

La violenza dei fondamentalismi la diamo, per così dire scontata e non ci soffermiamo a raccontarla. Lo sforzo che abbiamo fatto è stato quello di ritrovare o comunque di cercare il bandolo originario della matassa, di ricostruire il percorso teologico, politico, culturale compiuto dai fondamentalismi prima di giungere ai loro esiti finali. Ed ecco un altro plurale: i cosiddetti fondamentalismi non hanno un unico approdo, necessariamente predefinito al loro sorgere. Vi sono storie diverse, dialettiche e scontri interni anche assai vivaci che ci confermano che non siamo di fronte a monoliti privi di contraddizioni.

1. leggi il testo dell’introduzione di Giuseppe Trotta

2. leggi la trascrizione della relazione di David Bidussa

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Testo dell’introduzione di Giuseppe Trotta a David Bidussa

Fondamentalismi al plurale

Abbiamo invitato David Bidussa a parlarci di un libro scritto a più mani (la sua, quella di Stefano Allievi e quella di Paolo Naso) e dal titolo emblematico: Il libro e la spada. Il sottotitolo chiarisce ulteriormente l’argomento: la sfida dei fondamentalismi. I fondamentalismi di cui si parla sono quelli legati al monoteismo: fondamentalismo cristiano, ebraico e islamico. E’ bene tuttavia chiarire subito, e già questa potrebbe essere una prima questione, che i fondamentalismi non sono legati solo al “libro”, Bibbia o Corano. I drammatici avvenimenti indiani di queste settimane hanno posto in primo piano il fondamentalismo Indù, oltre a quello già conosciuto dei mussulmani. Dalla tentazione, o dalla deriva fondamentalista non sono dunque esenti anche le regioni orientali, e questo per sfatare in parte, il mito di una violenza originaria del monoteismo rispetto alle più miti e tolleranti religioni del sol levante.

Quest’accenno spiega una prima motivazione che ci ha portato a scegliere questo libro. Si dice nell’introduzione.

“La violenza dei fondamentalismi la diamo, per così dire scontata e non ci soffermiamo a raccontarla. Lo sforzo che abbiamo fatto è stato quello di ritrovare o comunque di cercare il bandolo originario della matassa, di ricostruire il percorso teologico, politico, culturale compiuto dai fondamentalismi prima di giungere ai loro esiti finali. Ed ecco un altro plurale: i cosiddetti fondamentalismi non hanno un unico approdo, necessariamente predefinito al loro sorgere. Vi sono storie diverse, dialettiche e scontri interni anche assai vivaci che ci confermano che non siamo di fronte a monoliti privi di contraddizioni. Se per fondamentalismi s’intendessero quindi piattaforme teologico-politiche omogenee di un ebraismo, un cristianesimo ed un islam radicalizzati e protesi a occupare ogni spazio dell’agorà, potremmo paradossalmente scoprire che i fondamentalismi non esistono. Essi vanno declinati al plurale anche all’interno delle varie famiglie confessionali”.

Una domanda di senso

Insistere sulla pluralità dei fondamentalismi mi pare essenziale. Pluralità all’interno stesso delle singole confessioni religiose. Essenziale perché questo apre alla seconda domanda che sottostà al lavoro del volume. Sentiamola:

“Per i fondamentalismi il libro e la spada coincidono come in un’endiadi; la cultura della laicità, faticosamente emersa nel mondo moderno, al contrario, le divide e le separa. Come interpretare allora il fatto che in tutte le grandi tradizioni religiose si esprimono tendenze alla costruzione di un unico universo che tutto abbraccia e non distingue più tra religione e politica, tra la sfera della coscienza individuale e quella dei valori comuni?”.

A questa domanda ovviamente il volume non risponde. Essa resta una domanda aperta.

Un retrotitolo

In che senso questa domanda resta aperta? Per capirlo io credo che bisogna leggere il titolo di questo libro sulla falsariga di un retrotitolo. Qui si dice: il libro e la spada; il retrotitolo potrebbe essere: la ragione e la spada. Lo sfondo del fondamentalismo religioso, non dimentichiamolo, è anche il fondamentalismo laico. C’è un fondamentalismo laico. C’è. C’è stato. Per il passato basti pensare a tutto il grande positivismo dell’800; per il presente basti pensare al nostro senso comune per cui, attraverso la tecnica, è possibile rispondere ad ogni domanda dell’uomo. Una domanda aperta sui fondamentalismi esige questa critica della ragione laica, la sola che sia in grado di cogliere il senso dei fondamentalismi stessi, per quanto ci si distanzi dai loro metodi e dalle loro procedure. Non a caso la nascita dei fondamentalismo si pone in questo confronto-scontro con il moderno. In questo senso il crinale per comprendere le motivazioni e gli itinerari dei fondamentalismi è la critica alla modernità, è la critica al concetto di laicità, la critica al concetto di tolleranza. La laicità del moderno è stata troppo spesso omologante, la tolleranza è stata troppo spesso indifferenza. La ragione moderna ha oscillato tra omologazione e indifferenza. Se prima si combattevano apertamente le grandi idee metafisiche, oggi, meno rispettosamente, le si ignora. Sono semplicemente irrilevanti. Voglio dire che troppo spesso la distinzione dei piani (quello della politica e della religione, quello della fede e quello della scienza ecc.) è stato un autentico cavallo di Troia che condannava all’insignificanza domande diverse da quelle della modernità.

Il convenire etico tra culture

Una critica della “religione” laica non può portare d’altra parte ad un relativismo generico. Ricordo il tormentato percorso che ci ha illustrato due mesi circa fa il prof. Cesare Bori: quella lettura “secolare” e sapienziale del Libro in cui attraverso sentieri propri e singolari si poteva presumere di costruire un consenso etico tra culture. Nessuna deduzione, ma la tessitura paziente, ostinata di esperienze, relazioni, raccordi che facessero crescere e consolidassero un convenire su valori tendenzialmente universali.

Quel discorso di Bori è l’esatto contrario dei fondamentalismi. Al convenire etico si sostituisce un progetto egemonico, anche a costo della violenza.

Non vorrei che dimenticassimo mai che quel convenire di Bori nasceva da una lucida critica al concetto occidentale di laicità, critica alla rimozione della domanda religiosa, critica alla banalizzazione di ogni discorso sul trascendente e sul mistero. La lucidità di quella critica stava proprio nella consapevolezza del carattere dissolvente, corrosivo della lettura “secolare” del Libro. Senza cogliere la domanda di senso dei fondamentalismi avremmo una visione semplificata, riduttiva del fenomeno e una pretesa del tutto velleitaria allora di venirne a capo.

Perché il fondamentalismo ebraico

Ma a questo punto per andare avanti, il discorso deve entrare nel merito, entrare cioè nelle singole storie dei fondamentalismi. Gli organizzatori del corso hanno scelto di entrare nel merito di una singola storia, di una vicenda particolare, quella del fondamentalismo o dei fondamentalismi ebraici. Il saggio di David Bidussa ne traccia le coordinate di fondo. Io l’ho pregato di esporre, da storico quale egli è, alcuni itinerari emblematici del fondamentalismo ebraico. Ma prima che risponda lui, devo chiarire io perché si è scelto in questa occasione di approfondire il fondamentalismo ebraico.

Non è semplice rispondere. Innanzitutto un confronto, anche in questo caso, con l’esperienza ebraica, può aiutarci ad entrare nel merito di quelle domande di senso e di quella critica della ragione laica di cui si parlava prima. E’ singolare avventura dell’occidente quella di non avere mai potuto pensare l’esperienza di Israele come altra dalla sua storia. Se il mussulmano è stato l’altro, l’altro che sta fuori, che resta fuori; l’ebreo è l’altro interiore, impossibile da omologare e impossibile da distruggere. Mai come nel caso dell’antisemitismo si è dimostrato il fallimento della ragione laica e dei progetti di società che essa ha realizzato. Il superamento della differenza ebraica o era superamento dell’alienazione religiosa o assimilazione alla cristianità occidentale. E’ possibile fare una storia dell’identità occidentale dai modi in cui ha vissuto la differenza ebraica; forse è possibile fare anche il reciproco. Questo non vuol dire che le storie di questo rapporto coincidono con le storie della loro identità.

Le ambivalenze della coscienza occidentale

Ora è indubbio che nel secolo scorso c’è stata una cesura storica epocale nella storia di questo rapporto, paragonabile, a mio avviso, solo ai tempi della nascita del cristianesimo, quando la chiesa si staccò dalla sinagoga. Questa cesura è stata la nascita dello Stato di Israele e il sionismo. E’ mia impressione che sia la cultura laica che quella cristiana abbiano in qualche modo rimosso, ridotto, nascosto la portata di questo fatto. La sinistra in tutte le sue declinazioni ha visto sempre con sospetto, quando non con prevenzione, il sionismo. La nascita dello Stato di Israele o è stata minimizzata a un movimento nazionale come gli altri, a un altro “risorgimento” in pieno ventesimo secolo, o è stato visto come una sorta di protesi americana nel Medio Oriente islamico. D’altra parte la nascita di questo stato non era il prezzo da pagare dopo i terribili avvenimenti della Shoa? La fragile simpatia verso il nuovo stato nasceva anche da un senso di colpa e di liberazione dalla colpa da parte di chi era stato a guadare, di chi aveva visto e non immaginava, di chi aveva taciuto per evitare altri guai, di chi aveva approfittato delle disgrazie del vicino di casa.

Insomma gli ebrei avevano finalmente una patria, erano divenuti stato anche loro e allora poteva ben porsi una pietra sul passato.

L’Europa ha guardato con indifferenza e con distacco le vicende mediorientali. Con un distacco sempre più preoccupato, sempre più assillato da una parte dalla esigenza di avere buoni rapporti con il mondo arabo, dall’altro dalla consapevolezza sempre più chiara che Israele era una scheggia occidentale in un Medio Oriente ormai quasi completamente islamizzato. Fino all’ultima proposta radicale di fare entrare Israele nell’Unione Europea.

Da questa duplice consapevolezza si è sviluppato un atteggiamento che è possibile affrontare non solo con il linguaggio della geopolitica ma anche con quello della psicanalisi. Basti pensare a quello che è stata l’atteggiamento dell’Europa dopo l’11 settembre: condanna unanime del terrorismo islamico, ma anche insofferenza verso lo Stato do Israele che con la sua intransigenza quel terrorismo in qualche modo produceva. Israele come figura sdoppiata dell’occidente stesso, della sua ambiguità, della sua ambivalenza. Israele come pretesto di un rapporto tra Occidente e mondo islamico. Sembrava rinata una sorta di “nuova questione ebraica”: in questo caso lo Stato di Israele come intralcio ai rapporti con i mussulmani buoni, contro i mussulmani cattivi.

Sionismo e coscienza ebraica

Questo è certamente un versante del discorso. Ma solo uno. L’altro attiene alla coscienza ebraica stessa: lo sconquasso, la rivoluzione che il sionismo porta nell’identità stessa del popolo ebraico. In Israele si costruiva con un’ideologia laica e socialista, un ebreo nuovo, un ebreo radicato alla terra, la sua terra, che usciva dai margini della storia degli altri per essere protagonista della sua storia. E’ davvero impossibile pensare alla rinascita dell’ebraismo, rinascita spirituale, religiosa, culturale, politica senza il movimento sionista, senza le reazioni che quel movimento suscitò nelle varie comunità ebraiche, senza i suoi sogni appassionati, i dibattiti interminabili, le esperienze radicali, le autentiche conversioni alla fede dei padri. David Bidussa ha ricostruito in un altri lavori momenti peculiari di questa storia, anche italiana, penso a Oltre il ghetto, a Ebrei moderni, a Il sionismo politico. Sempre Bidussa in questo saggio mette in evidenza come è impossibile oggi capire il fondamentalismo ebraico senza questo confronto serrato con ciò che è stato il sionismo e ciò che ha rappresentato la costruzione dello Stato di Israele. Il fondamentalismo ebraico si origina da questo confronto interiore con la modernità ebraica rappresentata dallo Stato di Israele e dalla cultura laica e socialista dei padri fondatori. Troviamo scritto a pag. 101:

Il sionismo è un progetto contemporaneamente di secolarizzazione e di modernizzazione: ossia include un’opzione laica e una riscrittura del codice teologico. Al centro della sua costruzione presiede la categoria Stato. La crisi del progetto sionista, una crisi che è stata accolta spesso con indifferenza per non dire con entusiasmo da molte componenti del mondo ebraico contemporaneo, tanto ortodosse quanto laiche, non è solo l’eclisse di un progetto politico appartenente alla più vasta famiglia delle esperienze socialdemocratiche, è anche la improvvisa affermazione di un ‘vuoto culturale’: la crisi del sionismo non perviene solo al tramonto del ‘secolo socialdemocratico’, ma trascina nel suo declino, anche la versione storica dell’identica ebraica contemporanea”.

Sionismo e radicalismo religioso

Mi pare questa una riflessione centrale del saggio di Bidussa. Sionismo, crisi del sionismo, fondamentalismi ebraici. Nodi di un problema e di un processo da leggere insieme se si vogliono cogliere i legami interiori. Non è un caso che proprio il sionismo sarà al centro della riflessione del radicalismo religioso. Bidussa schematizza in questo modo il quadro:

Il problema della legittimità religiosa conferita al sionismo si muove su cinque gradi diversi di lettura cosi sintetizzabili:

Negazione. I Guardiani della Legge. Unica soluzione è l’era messianica. Inutilità e sacrilegio della soluzione politica.

Rifiuto Associazione di Israele. Il carattere ebraico è oltre la forma Stato

Pedagogia dello Stato Partito nazionale religioso. Il problema è quello della conservazione di una cultura religiosa, ma senza caricare lo Stato teologicamente, anzi riconoscendo il primato politico della istanza laica.

Stato minimo. Quest’area, che non si esprime in una organizzazione politica autonoma, si configura come un gruppo culturale di ortodossi attivi all’interno di Peace Now e il cui leader storico è stato Leibowitz. Per quest’area lo Stato è solo una macchina funzione per la quale gli ebrei governano se stessi: è solo una premessa, non può trasformarsi in un fine. Allorché si trasforma in un fine si afferma il modello filosofico politico del fascismo.

Messianesimo spaziale Blocco dei fedeli (Gush Emunim) Il loro principio costituente deriva da due premesse logiche: da una parte il legame inscindibile tra possesso della terra e completezza dell’esperienza religiosa; dall’altra il fatto che solo la presenza ebraica sulla totalità di Eretz Israel permette l’accesso alla redenzione.

I radicalismi religiosi, il loro diffondersi e il loro pesare si situano così in un contesto preciso: la crisi della identità ebraica dovuta a crisi del sionismo e alla fine di quella forma stato basata sullo Stato sociale. Questo radicalismo religioso va colto dunque anche nella sua ambivalenza: un aspetto costruttivo, legato alle domande che pone all’interno di un cammino non certo semplice e non certo facile; e un aspetto distruttivo, di negazione dell’atro. Cosa altro esige in concreto il “messianesimo spaziale”?

Le componenti laiche e le componenti religiose della società israeliana si trovano così in una passaggio storico comune, dagli esiti ancora largamente imprevedibili. Ma a questo punto lascerei la parola a David Bidussa.

La prima cosa che chiederei a Davide è quella di farci un quadro di questi movimenti di radicalismo religioso.

Trascrizione della relazione di David Bidussa

Mi preme chiarire tre argomenti. Il primo è come è nato questo libro e perché è nato mettendo insieme tre personaggi che hanno percorsi tra loro diversi. Questo libro è stato originato dal fatto che Paolo Naso, Stefano Allievi ed io ci siamo trovati a dover coordinare un gruppo di lavoro su questo tema per una sessione alla Mendola. Queste tre persone dovevano trovarsi a ragionare a partire da alcune questioni comuni, e ciascuno di questi doveva affrontare uno specifico tema. Per chiarezza e per precisione, perché è giusto dirlo, se no non si capiscono alcune cose, Stefano Allievi, Paolo Naso ed io siamo su due posizioni diverse, di partenza, non per ciò che uno scrive e che sostiene. Io credo che ci sia molto vissuto dentro questo volume. E’ bene precisarlo. Io credo che Paolo Naso ed io stiamo da una parte e Stefano Allievi sta dall’altra. Dove sta la differenza? Paolo Naso quando parla del mondo cristiano in gran parte parla degli evangelici e io quando parlo del mondo ebraico in gran parte parlo di me. Facciamo i conti con noi stessi, con quello che ci trasportiamo dietro, con la mamma, col nonno, col papà, con lo zio, con il tizio con cui hai litigato, con quello che ti ha mandato a quel paese. Stefano Allievi fa una riflessione su un mondo che per lui è solo un oggetto di studio, ma non è in un rapporto di appartenenza.

E qui, in qualche modo, entra la seconda questione. L’Ego histoire in italiano vuol dire la “storia dell’io”, e riguarda gli storici che scrivono. Ormai siamo abituati a pensare che gli storici siano una massa di persone asettiche che guardano la realtà mascherata e nascosta sotto pile di documenti e di libri che hanno letto. E’ falso! Gli storici sono persone che non solo vivono nella società in cui operano, ma si pongono problemi. Chiunque si occupa di antichistica, di medio-evo, di fascismo e di sindacato risponde ad un problema specifico della sua personalità culturale. Poi si può essere più o meno onesti e affrontarlo in maniera più o meno lacerante. Dichiarare esattamente ciò che si è, porre all’inizio delle prime pagine la tesi che si vuol sostenere, è un modo di agire dello storico, ma non è essere storico. Fare il mestiere dello storico, per certi aspetti, è anche buttare in pubblico delle domande che si hanno dentro. Per cui ci sono delle domande che derivano da delle esperienze che ciascuno si porta dentro e delle questioni che uno non è stato in grado di risolvere per via razionale, per cui si fornisce gli strumenti alti per rispondere a quelle.

Perché è importante questa connessione tra la storia del movimento operaio e queste questioni? Io credo che la modernità non è uno stile astratto del pensiero, è un modo con cui noi viviamo, osserviamo, guardiamo, commentiamo ciò che ci circonda. Ora per me la modernità implica che ci sono linguaggi sovrapposti tra realtà vissute come distinte. Per cui se io voglio andare a guardare, osservare e analizzare i comportamenti sociali di un attore sociale o politico, gli strumenti di cui mi servo per comprendere quell’attore si manifestano come sua esperienza culturale. Io che lo osservo e quell’attore che si manifesta, ci comprendiamo attraverso i linguaggi collettivi del tempo in cui opera.

Per dirla chiara, il linguaggio che noi usiamo parte dal linguaggio televisivo, cinematografico, gestuale visuale, non parte dal linguaggio scritturale. Cinquanta anni fa, per capire quale era l’immaginario collettivo di un soggetto potevo leggere il romanzo che lo aveva formato; per capire l’immaginario collettivo di un soggetto degli anni ’90 devo andare a veder che film ha costruito l’identità di una generazione, o quel complesso di film, di serial televisivi, di gadget, di fumetti che hanno costruito l’identità. Il che vuol dire che non esiste un problema fra fonte nobile e fonte bassa, ma chi io devo mettere tutto assieme.

Io sono nato come storico del movimento operaio, mi sono occupato di storia dell’internazionale comunista, di storia del partito socialista francese, tutte cose che con la questione del fondamentalismo ebraico non c’entrano assolutamente niente. Però, contemporaneamente, la mia vita è stata anche un’altra cosa. Non l’ho mai detto: io sono stato per 7 anni, dall’età di 11 anni all’età di 18 anni, una delle giovani promesse del movimento giovanile del sionismo ortodosso religioso in Italia. In questa veste sono stato per 2 anni vice-segretario generale della realtà ortodossa che negli stessi anni è andata a fondare Gush Emunim in Israele, come movimento politico. Io sono appartenuto ad una generazione, che si è formata tra il 1967 e il 1974, che a un certo punto ha deciso di non andare a vivere in Israele e che ha optato per un’altra opzione culturale. Questa generazione ha con sé una formazione culturale come gli ultra-ortodossi, ma poi ha scelto altre opzioni politiche.

L’idea di fondamentalismo nel mondo ebraico nasce esattamente da questo: che si può avere una formazione culturale, un processo di acculturazione, e però non avere un certo sbocco politico. Vi posso fare tanti nomi che hanno attraversato quella esperienza, che oggi continuano a vivere in Italia e non a vivere in Israele. Ne faccio solamente quattro che a qualcuno di voi probabilmente diranno qualcosa.

La prima persona, che è un mio coetaneo, che ha un anno meno di me e con cui abbiamo attraversato circa 7 anni di lavoro comune, è Alessandro Guetta. Oggi è uno degli ebraisti più formati, attualmente insegna a Parigi. Guetta è quello che ha tradotto gran parte della letteratura israeliana contemporanea e si è occupato della filosofia Elia Benamozegh, attualmente sta lavorando sull’ortodossia fra il ‘500 ed il ‘700 e sui rapporti culturali fra mondo ebraico orientale, sefardita, e mondo islamico.

Altro personaggio, che era uno dei leader della mia generazione, è stato David Megnagi, oggi insegna a all’università di Roma e fa l’analista.

Un’altra persona ancora è Enzo Neppi, un ragazzo di Bologna che attualmente insegna alla Sorbona filosofia contemporanea. Egli ha fatto la tesi su Sartre e la questione ebraica.

Queste quattro persone hanno avuto esiti diversi. Ci sono poi altre persone della stessa generazione che oggi sono esponenti di punta a Gerusalemme e appartengono alla ala fondamentalista. So benissimo chi sono, che cosa hanno fatto. Hanno fatto le mie stesse letture, quando avevano 11-18 anni. Scusate, non è per insistere su un fatto autobiografico, ma conta, conta moltissimo, perché io credo che noi, ciascuno di noi, siamo, ripeto, i film che abbiamo visto, i fumetti che abbiamo introentrato, i gesti che abbiamo assunto come modo di esprimere noi stessi in pubblico. Non siamo i tanti libri che ciascuno di noi ha letto a casa propria e che guardiamo con la sosta in libreria. Siamo un vissuto, siamo una traduzione di ciò che leggiamo o vediamo in termini di esposto. Questa è, secondo me, la cultura che ci portiamo dentro.

Ciò è importante per capire perché mi sono messo a scrivere questo saggio. Vedete, di fondamentalismo si può ragionare in tanti modi: si può prendere come fenomeno sociale, culturale, storico. Chi si è occupato di fondamentalismo tra gli anni ’80 e ’90 in gran parte ha fatto questo: ha preso i fenomeni dell’ortodossia religiosa, antimodernista, ha valutato quando sono noti quei movimenti che si contrapponevano a un modo consolidato di intendere la teologia del proprio sistema di fede e li ha guardati come movimenti sociali, chiamiamoli di opposizione. Tutto si risolve nella storia, come dire, di gruppi tra loro in conflitto, tra modelli interpretativi.

Ora questo è non dico errato, ma parziale. Le ortodossie teologiche sono anche delle repliche, come dire, delle ortodossie non teologiche o, delle ortodossie laiche. Questo aspetto del mondo ebraico è significativo. A differenza del cattolicesimo, il mondo ebraico non ha una gerarchia legittimata per rappresentarsi. Ci può essere il tuo rabbino di riferimento, ma tu puoi intervenire sul testo e interpretarlo allo stesso titolo con cui lo sta interpretando lui. Non c’è una dottrina ebraica, a differenza della dottrina della Chiesa. Questo, secondo me, è il motivo per cui in gran parte del cattolicesimo si può parlare di integralismo mentre invece nell’ambito dell’islamismo e dell’ebraismo si può parlare di fondamentalismo. Io preferisco parlare di radicalismo religioso che può essere ironico pacifico o violento. Questa è un’altra distinzione da tener presente. Il fondamentalismo nel sistema ebraico esiste perché esiste quello che in uno straordinario saggio, uscito nella Rassegna Italiana di Sociologia, Samuel Einsenstadt (un sociologo generale israeliano di cui Donzelli ha pubblicato un libro di civiltà ebraica 7-8 anni fa), chiama l’anarchismo religioso di principio. Non esiste all’interno del collettivo ebraico qualcuno che possa dire a qualcun altro: tu non hai diritto di parola. Ora questo fatto, tu non hai diritto di parola, cioè tu non hai possibilità di interpretazione, implica che tu non hai, come dire, una codificazione, una biblioteca storicistica, ma tu hai la possibilità di intervenire sul testo.

Ora, questa distinzione è essenziale perché allo stesso tempo è la forza del fondamentalismo ebraico e la sua debolezza oggi. Perché la sua forza e la sua debolezza? La grande forza è che è uno degli effetti del processo di modernizzazione all’interno della minoranza ebraica in Europa, ma sopratutto la nascita dello Stato di Israele (e per certi aspetti anche lo Shohà) è quello delle riproduzioni generative culturali interne.

Vi faccio un esempio molto immediato. La capacità del mondo ebraico di aver vissuto nel tempo è stata determinata non da una scommessa della storia, ma dal fatto che un gruppo umano vive perché ha una soglia al di sotto della quale quel gruppo si dissolve e una soglia al di sopra della quale quel gruppo si mantiene. E’ una soglia numerica e una soglia, come dire di capacità magnetica che ha un pezzo di un attore di sopravvivere nel tempo. Ora gli ebrei sono sopravvissuti nella storia per tutte e due queste componenti, secondo me più per la seconda che per la prima. Nel lungo arco delle diaspore ebraiche voi non vi occuperete di tutti gli ebrei, in tutti i posti, ma vi occuperete degli ebrei in un posto. E perché? Perché in quel posto, in quel momento, quel polo ha costruito, definito, messo insieme la cultura di sopravvivenza per tutti gli ebrei. Uno è stata Alessandria d’Egitto per il mondo islamico, poi Berlino, poi l’Italia del Rinascimento, poi la Polonia, oggi Israele e USA. Non sono io che costruisco la storia culturale ebraica oggi, è qualcun altro per me che la costruisce. Io la uso. Il fatto che io la usi non significa che io sono un attore passivo. Io la posso usare solo se ho gli strumenti linguistici-culturali per usarla. Non semplicemente se io leggo. Quanti conoscono l’ebraico nelle ultime quaranta generazioni del popolo ebraico? Chi lo conosce, dove lo conosce, qual è la ragnatela di questo sistema?

Voi scoprirete che negli ultimi 100 anni la capacità di parlare, leggere in ebraico degli ebrei è stata ridotta. Oggi legge ebraico due tipi di popolazione: gli israeliani e alcuni gruppi della diaspora. L’ebraico moderno nasce come calco di una lingua chiusa, che, in quanto si pensa sacra, non può avere un vocabolario che si sviluppa nel tempo, se no non è più sacra, diventa una lingua profana. L’ebraico è forse la lingua più autoritaria della storia. Tutti i significati devono stare dentro a quel significante, a quel segno, non ce ne possono stare altri, se no quella lingua non è più lingua di Dio, diventa lingua dell’uomo e, a quel punto, perde la sua capacità sacrale che è contemporaneamente il limite e la forza della lingua ebraica. Io la posso tradurre nel mio linguaggio esattamente perché quella lingua è bloccata. Se quella lingua si fosse nel tempo sviluppata, voi avreste la dottrina dell’ebraismo, mentre invece non l’avete esattamente perché quella lingua è bloccata.

Su quel testo possono operare o alcuni degli israeliani che hanno ritradotto l’ebraico, oppure gli ortodossi che sanno l’ebraico. La maggior parte degli ebrei non ortodossi, che non vivono in Israele, l’ebraico non lo sa. E questo li rende usufruttuari passivi di un sistema culturale e rende oggi le componenti neo-ortodosse fondamentaliste, produttori attivi della cultura ebraica.

Non so se è chiara questa distinzione. Essa è fondamentale: chi ha le chiavi in mano per produrre il rinnovamento culturale e chi si limita ad essere commentatore del rinnovamento culturale e quindi usufruttuario di una produzione culturale a cui non è in grado di partecipare. Può solamente leggerla, al massimo, e sforzarsi vagamente di comprenderla.

In questo contesto perché il sionismo è un elemento di grande scuotimento? Perché il sionismo mette sotto la luce del sole due fenomeni affascinanti. Il primo è quello di presentare, improvvisamente, il fatto che gli ebrei sono una massa e non sono più un problema individuale, cioè sono un gruppo umano che è fatto da centinaia di migliaia di persone. Non so quanto questo vi risulti chiaro, però vi posso dire questo: io sono uno che ha avuto sempre la percezione di vivere da minoranza. La cosa che mi ha sconcertato di più la prima volta che sono andato in Israele (vi sono vissuto due anni e mezzo) è stata quella di pensare che la maggior parte delle persone che camminavano vicino a me erano uguali a me. Sembrerà una stupidata ma vi garantisco che è micidiale. Improvvisamente devi importi il problema di essere maggioranza e quindi di rispettare qualcuno, un problema che non ti sei mai posto a casa tua. Il fatto che improvvisamente gli ebrei si facciano stato, è una grande sfida all’identità ebraica moderna, perché pone il problema agli ebrei di radicalizzare il loro pensiero. Cioè non c’è più una sfera in cui tu ti puoi garantire una sopravvivenza in quanto trasferisci ad altri i problemi che tu non sei in grado di risolvere. Tu sei obbligato a risolverli. Fino al 1948 pensare di essere ebrei in gran parte si riduceva alla comunicazione di un vissuto; in fondo tu eri una pratica religiosa con alcuni diritti civili. Dopo la nascita dello Stato di Israele tu devi dire perché non sei ortodosso. Essere ebrei non corrisponde solo, o unicamente, a un fatto teologico e religioso, di pratica. Non è che la nascita dello Stato di Israele risolve il problema, secondo me lo acutizza, anzi rende ancora più esplicita una distinzione che, in qualche modo, per lungo tempo poteva rimanere sopita.

Un ultimo elemento: gli ebrei e la loro memoria. Il mondo ebraico ha avuto enormi problemi a raccontarsi storiograficamente e storicamente. C’è un bellissimo libro su “Memoria e storia ebraica” Zahor, di Yerushalmi. Il tema di questo libro è come il mondo ebraico è arrivato (tardissimo) a costruirsi un paradigma di analisi storiografica, mentre invece ha avuto (prestissimo) la costruzione di un paradigma mnemonico, per cui ha raccontato la sua storia attraverso la sua memoria e non ha mai raccontato la sua storia attraverso le sue fonti storiche, o quando ha cominciato a farlo, ha cominciato solo nel ‘700. Si potrebbe dire che il primo testo in cui si pone il problema della storicità del mondo ebraico non è nemmeno un testo di storia, è un testo di filosofia: il trattato teologico-politico di Spinosa. Qui per la prima volta si pone il problema della storicità dei testi che tu hai davanti.

Ma perché dico questo? Perché dentro alle correnti di fondamentalismo ebraico oggi esistenti, che hanno matrici tra loro diverse, storie diverse, culture diverse, in qualche modo tutti questi aspetti ritornano; ritornano forme culturali di appartenenza, tornano esperienze storiche e sociali in cui ciascuno di questi attori è stato inserito, ritornano pratiche ermeneutiche o esegetiche a cui questi sono mescolati.

Allora possiamo dirla così: il sionismo pone il problema di un ingresso nel mondo profano degli ebrei. Il primo shock è se il progetto politico degli ebrei nella storia deve essere un progetto politico profano o deve essere un progetto politico teologicamente fondato. Per circa trenta anni il mondo degli ortodossi rifiuta il sionismo come ipotesi, considera i sionisti degli apostati. La prima componente che voi trovate elencata all’inizio di questo libro è quella dei guardiani che parlano tra di loro in aramaico, nemmeno in ebraico moderno, perché considerano che l’ebraico moderno sia una desacralizzazione dell’ebraico biblico. Essi parlano la lingua adottata per la comunicazione esilica dell’esperienza ebraica. Visivamente vi posso descrivere una serie di sceneggiate, di sceneggiature da film, di cinegiornali di Gerusalemme; li avete incrociati cinquanta volte sul video. Sono dei signori che hanno delle grandi cappe a righe, sembrano dei personaggi di un affresco del ‘500 o del ‘600. La cosa vi garantisco più comica è di averli visti un giorno cambiare la ruota di una macchina. Era un incontro fra un uomo del ‘400 e la tecnologia del 2000. In qualche modo aveva anche un suo fascino. Sono in gran parte persone che generazionalmente vengono dall’Europa orientale, o dall’area balcanica, e che, a parte alcuni casi di new age ultima generazione (new age è un fenomeno che c’è da tutte le parti), sono in gran parte residenti nel territorio palestinese da almeno tre secoli. Cioè sono accanto al fenomeno della mistica hassidica , quelli che negli ultimi 350 anni sono vissuti lì. In qualche modo rappresentano una sorta di presenza ebraica nel tempo sulla terra di Israele.

Il secondo gruppo, in ebraico Agudat, è un partito politico che è nato in Polonia, antisionistico, ortodosso, i cui esponenti decidono solamente negli anni ’50 di migrare nello Stato di Israele e di fare un partito, di essere eletti alle elezioni. Sono assolutamente contrari a qualsiasi politica praticata da qualsiasi governo, sia esso di centro, di unità nazionale o di sinistra. Il loro unico scopo è quello di essere, col linguaggio del sistema politico italiano, dei percettori di rendita politica. Per 40 anni hanno avuto una posizione notevole nel sistema delle scuole e siccome Israele è uno stato che si definisce ebraico, le deve mantenere. La prima volta che sono andati al governo è nel 1977 con le destre. Fra l’altro la prima crisi del governo Begin nel 1981 in base a scandali derivava da uno scandalo di questo partito, un sistema di minitangentopoli locale. La loro posizione fino ad allora era chiara: non entrare dentro le leve amministrative dello stato, quindi di non sottostare al sistema, ma avere delle rendite di posizione. Quindi loro hanno un sistema scolastico separato rispetto al sistema scolastico statale, hanno sempre usufruito di una serie di sovvenzioni da parte del Ministero della Religione.

Il Partito Nazionale Religioso nasce agli inizi degli anni ’10. Ma la sua componente fondamentale è tra Polonia e Germania, il suo ispiratore fondamentale è quello che diventa il primo grande rabbino in Israele durante il mandato britannico, che è il papà di quello che poi fonda il Gush Emunim , negli anni ’60. Secondo questo raggruppamento ci deve essere una separazione tra la sfera della teologia e la sfera dello stato. Tradizionalmente il Ministero dell’Educazione in Israele, cioè quello che si occupa della scuola, è sempre appartenuto a questo partito dal 1948, sia nei governi di centro-sinistra, sia in quelli di centro-destra.

Il quarto gruppo di quest’area ruota intorno a Leibowitz , è più un gruppo di opinione, che un gruppo politico.

Altra questione interessante di questo gruppo di ortodossi è stata quella di essersi contrapposti all’altra parte di ortodossi “accademici” di Israele. In Israele ci sono due forme di produzione, chiamiamola così, e riflessione teologico-intellettuale universitaria: una all’interno dell’Università Ebraica di Gerusalemme, l’altro all’interno dell’università di Tel Aviv. Bene, i due gruppi sono produttori di riflessione teologica, quelli di Gerusalemme in senso non statalista, quelli di Tel Aviv in senso statalistico. Hanno provato due caratteristiche sovrapposte, se volete, incrociate.

I Gush Emunim, il gruppo più studiato degli ultimi anni in occidente, ha due componenti essenziali. Il messianismo spaziale che propugna ha il fascino della storia della frontiera mobile americana che per queste persone è enorme. E’ enorme, intanto, perché la maggior parte di loro viene dagli USA e sono, generazionalmente, i fratelli minori, o i figli più grandi, dell’esperienza dei figli dei fiori americani, che hanno avuto, come dire, processi di conversione rispetto al loro vissuto interpretato come lassismo etico dei primi anni ’60. Voi provate a mettere David Crocket con la missione dello spazio e sopra tutto a pensare che lo spazio di cui si deve occupare non è lo spazio che sottrae a qualcun altro ma è il suo spazio. I Gush Emunim sono da questo punto di vista assolutamente sconvolgenti. Il problema è capire il perché della loro capacità di comunicazione politica, verbale, teologica così forte. Secondo me, è forte perché il problema in un paese di grande laicizzazione sta in chi ha il codice identitario in grado di rispondere nelle situazioni di grande incertezza.

Qui diventa essenziale la crisi del sistema politico e del sionismo politico. Il sionismo è stato per 80 anni quello che ha permesso la modernizzazione culturale del mondo ebraico e, al tempo stesso, la costruzione dello stato sociale novecentesco: sistema previdenziale, sistema educativo, accompagnamento. Ora questo meccanismo, questo stato sociale i Gush Emunim non vogliono distruggerlo come impalcatura, vogliono distruggerlo come codice politico di quella impalcatura; vogliono cominciare a porre il problema di come si fa il sistema educativo per l’infanzia, di quali simboli va riempito, quali le leggende, le fiabe che io racconto ai bambini, come costruisco l’identità collettiva. Questa crisi è israeliana, ma insieme di tutto l’occidente. Noi abbiamo pensato lungo il ’900 che bastava essere inclusivi per eliminare le punte di errore. Quando il codice fino allora vincente dell’inclusione non lo è più, passa un altro codice. Allora, o si hanno gli strumenti culturali per rifondarlo, per renderlo vivo, a partire dalle domande (culturali, politiche, identitarie) da cui quel codice si era originato, o, se non le hai, è il codice di qualcun altro che vincerà. Molto semplice. E vincerà alla grande, senza nessun tipo di confronto culturale.

Vi do un esempio numerico, molto brutale che vi dice molto di quel che significa oggi la crisi (politica, culturale e anche, generazionale) israeliana. Io sono stato in Israele fra il 1982 e il 1984, ci sono arrivato il 21 aprile 1982, me ne sono venuto via il 12 ottobre 1984. Le date sono importanti perché vuol dire che sono andato in Israele un mese e mezzo prima che scoppiasse la guerra in Galilea e me ne sono andato, più o meno, nei giorni in cui l’Italia girava in Israele nella versione cinematografica, un film che si chiamava “Oltre le sbarre”. E’ stato il primo film in cui è stato fatto vedere un pezzo, retorico quanto volete, ma non più di contrapposizione netta. Ora, quando è scoppiata la guerra in Libano, nel 1982, dopo un mese, per fatti molto più banali di quelli accaduti negli ultimi 18 mesi, ci sono stati fenomeni di diserzione militare, di gente che ha rifiutato di andarci. Erano centinaia di persone. Oggi ce ne sono 50 che hanno rifiutato di andare a fare il servizio nei territori occupati. E uno si domanda perché 20 anni fa ce n’erano centinaia, se non migliaia, e oggi sono 50. Si possono trovare infinite motivazioni. Però io voglio essere molto brutale e porvi, se volete, un pugno nello stomaco perché è così, secondo me, che si fa una discussione, se no ci si consola.

Israele è un paese che ogni 8 anni ha un ricambio demografico pari a circa il 20-25 % della sua popolazione: non che la gente muore e nasce, ma la gente se ne va e arriva altra gente. Oggi il gruppo ebraico-israeliano omogeneo più forte non sta a Tel Aviv, sta a New York: sono 900.000 israeliani usciti negli ultimi 10 anni, sono i figli ed i nipoti di quelli che avevano deciso di andare in Palestina addirittura prima della nascita dello Stato di Israele. Bene, se io volessi misurare il tasso di crisi d’Israele, questo sarebbe già sufficiente per dimostrarlo. Potrei anche dire che la quantità di ebrei morti dopo la nascita delle Stato d’Israele dimostra che il paese meno sicuro per gli ebrei oggi al mondo è Israele. La propaganda sionistica per 100 anni mi ha detto che il paese più sicuro dove io potevo andare a vivere era là.

Perché il problema non è chi se ne è andato a casa, il problema è chi se ne è andato e chi è arrivato, ed è questa che fa la differenza. Ora chi è arrivato in Israele negli ultimi 12 anni sono due tipi di popolazioni. Sono una parte, numericamente abbastanza ridotta, di ebrei etiopi, e una parte, enorme, di ebrei russi, che in gran parte non sono russi bianchi, ma sono russi transcaucasici, cioè a dire, gente che viene dalle repubbliche islamiche. Guardate, nessuno l’ha fatto in Italia, ma sarebbe estremamente interessante fare una onomastica dei soldati israeliani morti, scoprireste che l’80 % dei soldati morti sono perone che hanno un cognome che non è né europeo occidentale, né americano, ma slavo.

Io ho la sensazione che la differenza per cui erano centinaia nel 1982 e ora sono 53 è la stessa per cui uno dice che il pacifismo di Gandhi non avrebbe funzionato in Germania, nella Germania nazista, perché la Germania nazista non è l’Inghilterra. Perché un signore che fa lo sciopero della fame possa sopravvivere occorre che ci sia un potere dall’altra parte che si pone il problema della vita e non semplicemente della morte; per cui non è solo il digiuno di Gandhi che vince il confronto fra Gandhi e l’impero britannico, ma è la “legge comune” dell’impero che vince.

Allora il problema è: dentro il raffronto in Medio Oriente oggi c’è, per tanti aspetti, una ex guerra combattuta ad un parallelo che si è trasportata ad un altro parallelo. Prima stava dalle parti del Caspio, ora sta dalle parti del Giordano, ma è la stessa guerra, con lo stesso immaginario. Per cui quello che sta dall’altra parte non è uno con cui ti sei abituato, con cui devi in qualche modo pensare che deve coabitare con te. Tu ti sei portato dietro il tuo nemico, te lo sei portato dietro a 3 mila chilometri di distanza e te lo sei ritrovato lì. Dopo di che, dall’altra parte, esiste una scotomizzazione, si direbbe in gergo, per cui 35 anni di occupazione producono non memoria, producono rabbia, producono disperazione, producono delusione.

Quando è nata la prima intifada, la prima operazione che ha fatto un tipo di popolazione israeliana oggi non si potrebbe assolutamente ripetere, non perché intellettualmente non può ripetersi, ma perché umanamente non può darsi. Io conosco una persona di queste, una persona che oggi ha 60 anni, all’epoca ne aveva 45; il suo gesto è stato quello di andare a rintracciare il vecchio proprietario della casa con l’ulivo in cui lui stava abitando, di andare nel villaggio arabo al di là del vecchio confine del ’67, andare a prendere questo signore che in quel momento aveva 80 anni, cieco e di portarlo in quella casa. E la cosa più drammatica di questo signore di 80 anni, ormai cieco, che ha fatto è stata quella di andare esattamente a toccare l’ulivo che si ricordava dove era.

Il dramma oggi lì dentro è che non trovereste più nessuno che ha abbandonato quella casa e cioè che ha un rapporto con un oggetto e che quindi non c’è una cosa comune da condividere, magari anche da litigare. Voi troverete della rabbia da tutte e due le parti, si è perduta la storia che sta dietro degli oggetti. Il che vuol dire, in termini molto semplici, che ognuno pensa che il proprio morto sia più morto di quello dell’altro. E probabilmente non è così, probabilmente, il processo, il dialogo si può avere solamente se ognuno pensa che ciascuno a quel tavolo si porta il proprio morto in base al fatto che il proprio morto deve garantire la vita di un altro bimbo che è a casa. E’ molto semplice.

Ecco, il problema brutale della parte ebraica è che questo passaggio è possibile se dentro un cosmo culturale, per un pezzettino, c’è un’identità culturale che permette di leggere la realtà, la storia, il passato e il futuro, con delle dimensioni che non sono soltanto quelle teologiche, messianiche.

Ecco, io ho finito.

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