Anche questa volta Don Ciotti “graffia” le coscienze e offre buone ragioni per reagire al decadimento politico e culturale che ci circonda. Tutti conosciamo la concretezza del lavoro da lui svolto, la fondazione del “Gruppo Abele” e” di Libera”, la sua opera contro le mafie e a supporto degli “ultimi” (anche se Ciotti sottolinea di non amare le definizioni di “prete di mafia” “di strada” o “antidroga”che rischiano di far passare come eccezionale ciò che dovrebbe essere normale visto che “un sacerdote non può che schierarsi con forza contro le mafie, la corruzione, le ingiustizie sociali, la violenza e l’illegalità diffusa essendo la parola del Vangelo parola di vita, di liberazione, di speranza.)
1. leggi il testo dell’introduzione di Stefano Guffanti
2. leggi la trascrizione della relazione di don Luigi Ciotti
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1 premessa di Giovanni Bianchi 11’10” – 2 introduzione di Stefano Guffanti 31’32” – 3 relazione di don Luigi Ciotti 1h 25’56” – 4 serie di domande 13’11” – 5 risposte di don Luigi Ciotti 52’00”
Testo dell’introduzione di Stefano Guffanti a don Luigi Ciotti
E’ un vero onore per me poter presentare, in compagnia di Don Ciotti, il suo libro: “la Speranza non è in vendita”. Pubblicato nel 2011 con il doppio marchio Giunti-Edizioni Gruppo Abele, il senso del titolo appare chiaro fin dalle prime righe: “Finchè c’è vita c’è speranza” detto antico, spiega Ciotti, ma vero solo per metà. “Non basta infatti essere vivi, per sperare: bisogna anche credere nella giustizia e impegnarsi a costruirla.”
Anche questa volta Don Ciotti “graffia” le coscienze e offre buone ragioni per reagire al decadimento politico e culturale che ci circonda. Tutti conosciamo la concretezza del lavoro da lui svolto, la fondazione del “Gruppo Abele” e” di Libera”, la sua opera contro le mafie e a supporto degli “ultimi” (anche se Ciotti sottolinea di non amare le definizioni di “prete di mafia” “di strada” o “antidroga”che rischiano di far passare come eccezionale ciò che dovrebbe essere normale visto che “un sacerdote non può che schierarsi con forza contro le mafie, la corruzione, le ingiustizie sociali, la violenza e l’illegalità diffusa essendo la parola del Vangelo parola di vita, di liberazione, di speranza.)
Il libro è un invito all’impegno sociale in un momento storico in cui disillusione e indifferenza convivono con forti ingiustizie. La strada dell’impegno, afferma Ciotti, è scandita da tre parole:
- corresponsabilità: la nostra democrazia non si sarebbe ammalata se i cittadini avessero vissuto con coscienza maggiormente inquieta, coinvolta, aperta al dubbio, di chi vive con generosità il proprio ruolo di cittadino;
- continuità: troppo spesso l’indignazione degli italiani è passeggera e svanisce come neve al sole senza trasformarsi in un sentimento stabile su cui costruire azioni efficaci ed incisive
- condivisione: l’individualismo ha minato la politica, la preoccupazione per la propria vita individuale deve essere sostituita dalla preoccupazione per il bene comune.
Guidato da queste tre “parole chiave”, Ciotti illustra un percorso “tra denuncia e proposta”. Una serie di grandi temi scandiscono i capitoli del libro: Disuguaglianze, Migranti, Solidarietà e Diritti, Democrazia, Costituzione, Mafie, Chiese che “interferiscono”, Legalità, Educazione e Responsabilità, Speranza.
Esaminando la nascita del Gruppo Abele e, successivamente, di Libera si può capire l’approccio e lo spirito con il quale Ciotti svolge il suo percorso di fede e di vita.
Nel capitolo “solidarietà e diritti” ripercorre il suo lavoro a fianco degli ultimi che dura da quarantasette anni, da quando, nel 1965, partendo dalla constatazione che l’emarginazione era un fenomeno prodotto, un effetto collaterale della città industriale, iniziò con altri a mettere le basi per la fondazione del Gruppo Abele. Scrive Ciotti: “siamo partiti dalla strada, nell’incontro con chi vive situazioni di disagio e di sofferenza, dalla voglia di ascoltare, di capire e di condividere la fatica di tanta gente e di ricercare insieme soluzioni possibili.” Inizialmente l’associazione, che poi è diventata il Gruppo Abele, si focalizza sulle persone alcool dipendenti, sulle ragazze costrette a prostituirsi, sui giovani del carcere minorile. Successivamente, negli anni ’70, emerge il problema gravissimo delle tossicodipendenze affrontato attraverso il metodo della condivisione e della solidarietà.
Sia il Gruppo Abele che Libera nascono da uno “sguardo strabico” verso problemi come la droga e la mafia, “uno sguardo capace sia dilungimiranza – occhi che sappiano scorgere nel presente i segni del futuro – sia di profondità.” Uno sguardo che cerca le cause dei problemi e capisce che non basta un approccio terapeutico per combattere la droga ma occorre anche agire sul piano della prevenzione e dell’educazione da un lato e sul piano della repressione dall’altro, perché non si capisce il problema se non si parte dal fatto che esiste un vero e proprio “mercato” della droga controllato dalle mafie.
Come spiega Ciotti: “ci impegnammo perché le istituzioni e l’opinione pubblica ponessero l’attenzione sull’offerta degli stupefacenti: il problema della droga era anche il problema delle mafie, anzi delle “narcomafie” considerato il peso crescente che stava assumendo il traffico di stupefacenti nei fatturati delle organizzazioni criminali.”
E un capitolo del libro riguarda proprio, le mafie, la “disonorata società” come la chiama Ciotti criticando quell’immagine creata, spesso inconsapevolmente, da film e fiction televisive che riprendono i codici della sottocultura mafiosa parlando di “uomini d’onore” che si “fanno rispettare”. Il rischio è che i giovani pensino veramente che l’onore abbia a che fare con l’esteriorità della persona mentre “esso non si trova nelle cosche, nelle caste, nelle corti né in qualunque luogo dove i rapporti umani siano servili e strumentali bensì nella sfera più intima dell’animo umano, tanto che, come scriveva S. Agostino, è l’onore che deve cercare te non tu l’onore.”
Contro la mafia nasce, nell’estate del 1992, l’estate delle stragi di Capaci e via D’Amelio, Libera.
Libera è la storia di una “speranza”, che nasce da un gruppo di cittadini i quali, nell’angoscia e nella disperazione di quel momento, hanno, come le definisce Ciotti, “tre piccole convinzioni”:
- indignarsi non basta più,
- il contrasto alla criminalità riguarda tutti, non solo i magistrati e le forze di polizia;
- le mafie non saranno mai sconfitte se non cambia tutto ciò che sta loro intorno.
Il primo passo di Libera prende spunto dalla nota intuizione di Pio La Torre, sindacalista e poi deputato siciliano ucciso dalla mafia nel 1982, che chiedeva, oltre alla confisca dei beni appartenenti ai mafiosi, l’uso sociale dei beni stessi. Libera coglie la forza simbolica di questo nuovo elemento e avvia una mobilitazione per raccogliere un milione di firme a sostegno della approvazione della legge n. 109/1996, legge che abbandona una logica emergenziale del contrasto alla mafia e affianca alla magistratura e alle forze dell’ordine uno strumento che agisce in un’ottica di responsabilità condivisa (tornano le tre parole chiave: corresponsabilità, continuità, condivisione).
Uso sociale, scrive Ciotti, deve dunque significare: “diritti invece di favori, dignità invece di sottomissione, coraggio invece di paura, speranzainvece di rassegnazione, cultura invece di ignoranza, libertà invece di dipendenza, lavoro invece di sfruttamento, democrazia invece di oppressione”
A quindici anni dalla legge 109 sono nati tanti piccoli baluardi di una cultura antimafia: cooperative sui terreni confiscati, volontari che resistono di fronte alle intimidazioni e ai vandalismi lavorando quelle terre e vendendo prodotti che fanno parte di una economia “giusta e sana”. E ancora percorsi nelle scuole e nelle università, settori dell’imprenditoria che si ribellano e denunciano estorsioni e soprusi, strumenti d’informazione e ricerca per evitare che di mafie si parli solo in modo estemporaneo, senza il rigore necessario, e tante storie più o meno note di riscatto. Il tutto nella vicinanza ai familiari delle vittime delle mafie e, contemporaneamente, cercando di guardare oltre i confini nazionali diffondendo i principi della legge 109 in tutta Europa.
Occorre però perseverare con continuità, evitando quelle che Borsellino chiamava “perniciose illusioni” di fronte a una mafia che ha saputo mutare, come un virus, la propria natura mimetizzandosi nell’economia legale. Non possiamo dimenticare poi il tema, comprovato da un gran numero di inchieste e di procedimenti giudiziari, dei rapporti tra mafia e politica. Ciotti critica le reticenze e le falsificazioni come “l’acrobazia verbale con la quale il primo telegiornale del servizio pubblico ha dato, nel giugno del 2010, la notizia della condanna di un senatore per concorso in associazione mafiosa per fatti accertati fino al 1992 spacciando la condanna come una vittoria soltanto perché la pena era stata ridotta in appello”
Scrive Ciotti: “presenti da più di un secolo le mafie hanno trovato inedite sponde nella “società dell’io” e del narcisismo, nel suo diffuso analfabetismo etico”. E ancora “la forza delle mafie è fuori dalle mafie”, in quelle “zone grigie” che permettono l’infiltrazione delle organizzazioni criminali nelle vita economica e sociale. Nei reati “non propriamente mafiosi” di corruzione, evasione fiscale, abusivismo edilizio, traffici illeciti di rifiuti che affliggono questo paese.
Pensavo a queste parole leggendo una recente intervista di Piercamillo Davigo su Repubblica (10-2-2012 ad Alberto Statera), dice il noto magistrato: “Edwin Sutherland che, negli anni Trenta, creò un modello criminologico, sosteneva che è più pericoloso per la società il crimine dei colletti bianchi che il crimine comune. In Italia è definito ladro chi ruba una bicicletta o una mela al supermercato e soltanto disonesto chi fa la cresta su una fornitura. E infatti i corpi di polizia tendono a privilegiare l’attività di sicurezza pubblica rispetto a quella di polizia giudiziaria.” E ancora: “Quanto possono scippare a una signora per la strada? Mille euro? Nel processo Parmalat c’erano 40mila parti civili, tra cui gente che ha perso tutti i risparmi della vita. Quanto ci mette uno scippatore a fare 40mila scippi? “.
Il mercato della corruzione ha prodotto un sistema di regole non scritte antagonistico rispetto a quello che disciplina il corretto esercizio della pubblica amministrazione, per cui il mercato legale tende via via ad adeguarsi all’illegalità imperante, riducendo anche la propensione alla denuncia. Nell’arco di un ventennio sono state pronunciate due condanne per corruzione nel distretto di Reggio Calabria, meno che in Finlandia, paese tra i meno corrotti del mondo.
Qualcuno ammalato di realpolitik può pensare che le proposte di don Ciotti siano troppo idealistiche, pecchino di scarso realismo e non tengano conto dei dati dell’economia reale, ma proviamo a fare due conti…
Quanto ci costano le “dimissioni” del colonnello della Guardia di Finanza Rapetto che per cinque anni ha seguito i componenti delle organizzazioni che gestivano il gioco d’azzardo in Italia senza pagare le imposte, ha fatto arrestare quindici persone, con migliaia di pagine di prove e con conti precisi: le società dei videopoker sotto accusa devono allo Stato 98 miliardi, 456 milioni. Cifra mostruosa, superiore persino alle ultime quattro manovre finanziarie messe assieme. Gli imputati che sono stati tutti condannati penalmente hanno patteggiato, anche se Rapetto era contrario, e sono stati condannati al pagamento di appena 2,5 miliardi di euro con uno sconto del 96,5%! Questa notizia l’ho ripresa dalla rete e l’ho riportata perché so che don Ciotti si è occupato di recente del tema del gioco d’azzardo e del business che ci gira intorno.
E ancora, in un paese in cui si calcolano 120 miliardi di evasione fiscale, nonostante la tanto temuta Equitalia, si riscuote solo il 10% dell’accertato. Cosa succederebbe, mi domando, se anche in Italia la percentuale delle riscossioni si avvicinasse a quella degli altri stati europei ? La nostra economia crescerebbe più di quelle dei paesi nordici.
E quanto costa all’anno la corruzione in questo paese ? Secondo le stime riportate da Ciotti l’ammontare annuo nel 2011 è stato di 60 miliardi di euro tra mazzette e prezzi gonfiati delle opere pubbliche una tassa occulta di 1000 euro per ogni italiano. Se la eliminassimo, se utilizzassimo gli stessi provvedimenti di confisca e uso sociale previsti per la mafia potremmo non solo restituire risorse alla collettività ma dimostreremmo la “profonda contiguità tra illegalità diffusa, corruzione e crimine organizzato.
Ecco quindi imporsi il tema della legalità. La legalità, dice Ciotti, è la bandiera di Libera ma è solo uno strumento ed è soggetta a volte a strumentalizzazioni, è vero infatti che solo in un contesto in cui vigono e vengono fatte rispettare le regole si può tutelare chi è “meno uguale” è anche vero però che, a volte, la legalità viene invocata da pulpiti poco credibili e che esiste una profonda differenza tra la legalità formale e quella sostanziale che attraversa la storia e la filosofia.
L’uso corretto della legalità presuppone la compresenza di due elementi: la responsabilità individuale e la giustizia sociale. La legalità in sostanza non può sostituire la politica. Premesso che viviamo in un paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate, occorre definire delle priorità, è questa è una scelta politica. Ciotti espone numerosi esempi in proposito: “si può cominciare lottando contro le mafie o liberando le città dalla presenza fastidiosa di accattoni e lavavetri, contrastando la speculazione edilizia e l’inquinamento ambientale o perseguendo chi protesta (magari con qualche eccesso) a tutela della salute propria e dei propri figli, impegnandosi per combattere l’evasione fiscale oppure sgomberando edifici abbandonati, occupati da contestatori o marginali.”
“Che tipo di “legalità” vogliamo ?” si domanda Ciotti affrontando il tema dei migranti, vi è oggi in Italia e in Europa un atteggiamento di fronte al fenomeno della immigrazione che tende a “rimuovere” il problema non prestando attenzione alla nascita di forme di xenofobia ( e a volte di razzismo) e alla presenza di organizzazioni criminali che sfruttano e prosperano sulla pelle di uomini e donne migranti
L’immigrazione è vista da Ciotti come il “luogo simbolo” della disuguaglianza. Il problema innanzi tutto non riguarda i “migranti” in quanto tali ma i soli migranti poveri (non vi è alcun problema infatti ad accogliere i migranti “ricchi”, anche se provenienti dal terzo o quarto mondo). La reazione al fenomeno migratorio oscilla infatti tra un “rifiuto” generalizzato (vanno respinti, non importa dove…) a una sorta di cittadinanza di serie B vincolata da una legislazione che, a parere dell’autore, risulta essere spesso inutilmente crudele creando eserciti di fantasmi privi di diritti e sottoposti a vari tipi di ricatto che finiscono non di rado a rifornire il mercato nero (anche nei cantieri di Milano la paga oraria è di 3 euro l’ora, dice l’autore, non solo a Villa Literno) oppure a costituire manovalanza per la criminalità e lo spaccio di droga.
Tante sono le storie e i casi disperati descritti da Ciotti, le sue conclusioni sul tema sono che gli esclusi e le vittime sono diventati i fuorilegge e icolpevoli e anche il tema della sicurezza è stato affrontato con la stessa logica “emergenziale”. Come non pensare, scrive Ciotti, alle parole di padre Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino dal 1977 al 1989: “Voi mi chiederete una citazione e io rispondo con Matteo 25: “ero forestiero e mi avete accolto” E poi, direte? E poi basta. Sono stanco dei distinguo di certi sociologi e politici. Con il Vangelo non si bara”.
Ciotti non nega che la sicurezza sia un bene, né che sia assai complessa l’integrazione dei migranti. Propone una via basata sull’inclusione: “sicure sono le città animate dalla corresponsabilità, da una comune gestione dello spazio pubblico. Sicuro è il paese dove i diritti alla casa, al lavoro, all’istruzione e alla cura sono non solo enunciati ma praticati, e dove il problema degli altri è sempre un po’ anche il mio problema. Sicuro è quel contesto dove le leggi – poche e chiare –servono a formulare la regola che ogni persona conosce per averla incontrata nel proprio cammino formativo: il rispetto degli altri e di se stessi, la complementarietà tra i diritti e i doveri, il legame inscindibile tra libertà e responsabilità.” Permettetemi un inciso: quanto sento vero questo richiamo alle leggi “poche e chiare” in un paese dalla legislazione barocca, farraginosa, come l’Italia, “patria del diritto” come la descrivono i moderni Pangloss ma anche regno degli “azzeccagarbugli” che prosperano sulla crisi dell’amministrazione.
Nel capitolo sulle “disuguaglianze” Ciotti sottolinea che viviamo all’interno di una crisi dalla quale non si uscirà facilmente e, quando accadrà, avverrà con trasformazioni sociali profonde. Vista dalla strada la crisi riguarda le condizioni di vita delle persone che sono sempre più difficili, non riguarda certi termini (il PIL, le borse…) troppo lontani per poter essere compresi dalla maggior parte della gente comune. Nel mondo, 2 miliardi di persone su 7 vivono in condizioni di povertà assoluta; in Italia otto milioni di persone vivono in condizioni di povertà relativa ovvero con un reddito di 983 euro al mese per una famiglia di 2 persone.
Si riduce il ruolo del pubblico nel sociale e non si adottano misure in grado di garantire a tutti condizioni di vita dignitose come il reddito minimo, cresce purtroppo la tendenza a rimuovere o a gestire in maniera repressiva i fenomeni che nascono dal disagio esistenziale.
Vi è poi il problema di una concezione del lavoro subordinata al profitto, che perde il suo ruolo sociale e la “dignità” che le deriva dall’essere un elemento di identità, l’insieme delle attitudini, delle passioni e dell’intelligenza delle persone che contribuisce a “costruire” la società.
Anche nel capitolo su “cittadinanza e diritti sociali” tornano i temi della corresponsabilità e della condivisione: Non è infatti possibile affrontare i problemi dell’emarginazione senza il coinvolgimento dell’intera società che deve garantire non solo i diritti di libertà ma, richiamando la Dichiarazione Universale dei diritti umani, anche i diritti sociali. L’obiettivo delle istituzioni non deve essere più il governo della povertà e della marginalità, ma la loro eliminazione.
Fino agli anni 80, sia pur in maniera “accidentata”, la prospettiva condivisa che ha guidato le politiche del nostro paese è stata quella di una maggiore eguaglianza sociale, con la conquista del sistema sanitario nazionale, dei diritti del lavoro, dell’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti.
Dagli anni ’80, scrive Ciotti: “la riduzione delle disuguaglianze non è più un obiettivo condiviso, si fa strada la concezione di derivazione statunitense secondo cui è giusto che il più capace e intraprendente sia premiato da Dio con la ricchezza”. Le storture del sistema verrebbero temperate, secondo il cosiddetto conservatorismo compassionevole, dalla beneficienza dei cittadini.
Cosa ha portato a questo cambiamento ? La signora Thatcher e Reagan ? La libera circolazione dei capitali e la finanziarizzazione dell’economia ? i lavoratori visti come “risorse umane”? cittadini sempre più “consumatori” e non membro di una comunità? un “multiculturalismo” in realtà profondamente razzista che accetta nei paesi del terzo mondo cose che non accetterebbe mai nei nostri paesi ?
Noi, scrive Don Ciotti, non ci stiamo! Non dobbiamo accettare una prospettiva che vuole ridurre la presenza dello Stato sostituendo i diritti e l’intervento pubblico con la solidarietà e il volontariato.
Dobbiamo riscoprire e modificare il nostro modo di vivere, riscoprire “per chi e per cosa vivere: i progetti, gli obiettivi, le aspirazioni che rendono la vita personale degna di essere vissuta e quella collettiva generatrice di speranza e di futuro”.
Quali sono questi progetti ? questi obiettivi ? Tanti sono gli esempi citati da Ciotti: ridare un nome e una dignità alle persone più deboli e meno tutelate, permettere a tutti di sviluppare e vedere riconosciuti i propri talenti, rompere i monopoli i privilegi e le corporazioni, difendere i beni comuni, rispettare l’ambiente e le altre specie viventi, restituire tutele e dignità al lavoro, promuovere la cultura, diventare cittadini del mondo uscendo dagli egoismi nazionali.
Ma in questo contesto, quale deve essere il ruolo della Chiesa ? Nel settimo capitolo Ciotti parla di Chiese che “interferiscono”, intendendo con ciò il fatto che la Chiesa non può, come purtroppo è avvenuto in diverse occasioni, minimizzare o addirittura tacere di fronte alla presenza delle mafie.
La fede non può essere un salvacondotto che solleva dalle responsabilità civili, sociali, politiche. La Chiesa deve: “interferire, risvegliare le coscienze, denunciare non solo gli affari criminali e le ingiustizie sociali, ma l’illegalità diffusa e le morali di convenienza.” E’ inaccettabile tollerare la religiosità mercenaria, di facciata, del boss mafioso che finanzia la processione a patto che sosti, con deferenza, sotto la sua casa.
Citando padre Bartolomeo Sorge: “Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo delle Beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione”.
Uomini come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, come il pastore Valdese Pietro Valdo Panascia (ecco perché Ciotti parla di “Chiese”…..) non tacquero, presero posizione, perché il Vangelo raccomanda la parresia, quel “parlare chiaro” che è il contrario dell’ipocrisia che tante volte regna nel bel Paese, soprattutto ai piani alti del potere.
A questo proposito rincuora, scrive Ciotti, il “grido” lanciato da Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993, quando invitò i mafiosi a convertirsi perché “verrà il giudizio di Dio”. Quell’accorato appello scaturì dalla visita ai genitori di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” come qualcuno lo definì, ucciso dalla mafia, che aveva scritto nel suo diario “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”. Rincuora poi che l’appello di Giovanni Paolo II sia stato ripreso da Benedetto XVI che, nell’ultima visita a Palermo, a chiamato la mafia “strada di morte”.
Nel capitolo sulla “democrazia” Ciotti si chiede come possiamo affrontare la profonda crisi, che viviamo da diversi anni, con una vita pubblica condizionata da poteri volti a rafforzare, grazie a una rete di complicità e connivenze, un sistema di abusi e privilegi ?
La politica, da parte sua, molto spesso ha contribuito a delegittimare la democrazia attraverso “conflitti di interesse” che usano strumenti pubblici per interessi privati condizionando la magistratura o votando leggi che difendono istanze private o ancora pilotando i canali d’informazione o cercando di monopolizzare settori dell’economia. In Italia, scrive Ciotti, ad affrontare questo argomento: “si rischia di passare per moralisti”, come se in gioco non ci fosse un principio fondamentale della democrazia la cui violazione si ripercuote pesantemente sulla vita economica e sociale del Paese.”
La politica non è però la sola colpevole dello stato della crisi del concetto di democrazia e l’antipolitica rappresenta una scorciatoia che non tiene conto del fatto che c’è stato un ritiro dall’impegno, un eccesso di delega, un’interpretazione avara del nostro ruolo di cittadini che devono concorrere alla gestione e alla crescita del bene comune.
Come ci ha insegnato Primo Levi l’ingiustizia ha due facce. La prima faccia è l’assenza dei diritti, la cui mancanza porta la società a spaccarsi in due: “da una parte chi sale dall’altra chi scende. Da un lato i “sommersi” dall’altro i “salvati”, in una partita dove i destini delle persone non sono più tutelati dall’appartenenza alla comunità ma decisi da fattori indipendenti e individuali: ti salvi se hai i mezzi per farlo o se godi delle protezioni necessarie per essere salvato”.
L’altra faccia dell’ingiustizia è la zona di confine in cui scivolano le coscienze di chi “finge di non vedere e di non sentire, di chi agisce solo per calcolo o per paura, di chi è severo con gli altri quanto indulgente con se stesso e pur lamentandosi di come vanno le cose non muove mai un dito per cambiarle”.
Ciotti vede la Costituzione come il progetto in grado di fornire una tensione e una prospettiva alla nostra libertà, una libertà che, all’uscita dal ventennio fascista e dagli orrori della guerra: “ci era stata affidata perchè fossimo capaci di organizzarla e mantenerla viva, metterla al riparo non solo da chi poteva insidiarla, ma da un rischio non meno grave: quello di darla per scontata, lasciando che si trasformasse in abitudine, in presenza a cui non far più caso, avendone dimenticato il valore e la necessità”.
Tornano anche in questo caso le tre parole chiave. La “corresponsabilità”, in particolare, viene richiamata citando il Presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini: “l’Assemblea ha pensato e redatto la Costituzione come un patto di amicizia e di fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perché se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore”.
Osservando la situazione attuale si nota però che esponenti politici e grandi opinionisti dichiarano che la Costituzione è uno strumento sorpassato e inadeguato ad affrontare i problemi dei nostri tempi, che pone troppi vincoli al potere politico “ingessando” l’agire del Governo, che bisogna modificarla non solo nella seconda parte ma anche nella prima, quella dei principi fondamentali.
Chi sostiene queste tesi, scrive Ciotti, si fa scudo del concetto di “volontà popolare” dimenticando o ancora peggio ignorando che la sovranità appartiene al popolo ma deve essere esercitata “nelle forme e nei limiti” stabiliti dalla Costituzione stessa, e lo fa proprio perché desidera forzare quelle forme e quei limiti.
Un altro “nemico” della nostra Costituzione è una sorta di analfabetismo costituzionale, un atteggiamento deferente, cerimonioso che la rende “imbalsamata come uno di quei reperti di museo di cui non si capisce il valore ma che si finge di ammirare per convenzione.”
La Costituzione non vuole formalismi o onori di circostanza, deve vivere con noi le fatiche e le speranze di tutti i giorni. Ben lo spiega Giuseppe Dossetti che, nel periodo in cui guidava i Comitati per la difesa della Costituzione, si rivolgeva ai giovani con queste parole: “Non abbiate prevenzione rispetto alla Costituzione del 1948, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. Cercate di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi farvela amica e compagna di strada”.
In conclusione scrive Ciotti la Costituzione non ci dice “né cosa siamo, né cosa dobbiamo essere ma ciò che possiamo essere. La libertà che la Costituzione ci ha riconsegnato va quindi vissuta come un impegno fondato sull’etica della responsabilità: la Repubblica e chiamata a garantire i diritti dei cittadini, i cittadini a contribuire affinchè la Repubblica possa realizzarli.”
E cosa significa vivere in maniera etica ? Nel capitolo su educazione e responsabilità significa cercare di essere autentici, l’etica “deve essere scritta prima di tutto nelle nostre coscienze, tradotta in parole e gesti coerenti, deve potersi leggere nei nostri comportamenti”.
Nel contesto lavorativo, professionale, l’etica rappresenta il primo argine all’illegalità, dobbiamo “professare” l’etica. Professare in latino significa “confessare pubblicamente” e quindi anche “insegnare”. Ecco quindi, nella visione di Ciotti, un’etica che chiama in causa l’integrità della nostra vita, che ci chiede di “stare all’erta”, di “riscoprire la propria responsabilità” contro le tante zone grigie di un potere a volte falsamente mite, di percorrere un cammino spirituale e personale in cui la responsabilità verso gli altri diventa “fedeltà a se stessi, strada da percorrere per non perdere la propria dignità e libertà”.
Ma come si impara ad essere liberi ? La libertà è un percorso nel quale dobbiamo “prendere posizione” di fronte ai tanti bivi della vita, decidendo, senza timori, da che parte stare anche quando si tratta di scelte scomode. Occorre poi coltivare una “sete di conoscenza” che ci faccia immaginare le mete più difficili e ci dia la forza di raggiungerle.
L’etica individuale è però condizione necessaria ma non sufficiente. Non è sufficiente indignarsi, riempire le piazze, esibire mani pulite, un profilo morale trasparente, per fermare il mercato delle “false” speranze bisogna trasformare la denuncia dell’ingiustizia in impegno per costruire giustizia
Ma come possiamo guardare al futuro con un po’ di speranza ? Si domanda Ciotti e mi domando anch’io che ho l’impressione di assistere allo sfacelo di un sistema verticista, centralista e autoreferenziale, un sistema di deleghe in bianco al potere, a una “classe dirigente” (come mi piacerebbe se si definissero “servitori dello Stato”….) venditrice di illusioni, un sistema che:
- ha distrutto l’economia con il peso insostenibile della compravendita del consenso e della spesa che ne consegue;
- ha distrutto l’ambiente vendendo il territorio ai cementificatori della ‘ndrangheta perché costruisse case e capannoni di cartapesta sotto i quali noi potessimo morire sepolti dalle macerie;
- ha permesso ai migliori offerenti di inquinare le nostre acque e l’aria che respiriamo;
- ha distrutto qualunque sistema di promozione professionale basato sul merito, e qualunque trasparenza negli “investimenti pubblici” con l’uso familistico e clientelare delle risorse pubbliche e degli appalti.
Risponde Ciotti a questa difficilissima domanda dicendo che la vera speranza non è attesa fatalistica ma è “stretta parente del realismo, è quella che risveglia il desiderio di capire, di reagire, di rialzare la testa”.
Si può ricostruire la speranza solo se si parte da chi è stato escluso dalla speranza, dai disperati di questa terra. La crisi si supera attraverso una rivoluzione delle coscienze che potrà condurci a “riconoscerci uguali come cittadini e diversi come persone. Consci che se vivere per gli altri è la forma più alta di libertà vivere come gli altri è la più rassicurante e insidiosa delle schiavitù”.
Contemporaneamente dobbiamo ricercare la verità (e per questo servono educazione e cultura, così mortificate in questi anni…) e, infine, ricostruire il terreno da cui sono nati quei grandi documenti, la Dichiarazione universale dei diritti umani, le Costituzioni moderne, le Carte dei diritti, che suggellano l’impegno politico a contrastare le paure e a realizzare le speranze di ogni essere umano”.
Mi domando perché i partiti sono in crisi e un movimento come Libera no ? Forse perché don Ciotti parla al cuore degli uomini, non solo alla loro testa, forse perché ci mostra “una vita che sa fare delle scelte e dare un senso alla propria libertà” perché trasforma “lo sperare negli altri e con gli altri in un più fecondo sperare per gli altri.”
E ora, per l’appunto, lascio la parola al nostro ospite per la sua relazione e al dibattito che ne seguirà…
Trascrizione della relazione di don Luigi Ciotti
Grazie, Stefano, per questa eccezionale sintesi.
Io ho sempre avuto, come penso anche molti di voi, un riferimento graffiante che mi ha accompagnato con tutti i miei limiti che sono tanti, ma proprio tanti, di cui sono anche cosciente: io credo che essere coscienti dei propri limiti sia un segno di grande libertà e di grande autenticità, io so che sono capace di fare delle cose, ho studiato da radiotecnico, non ho mai capito una mazza… il radiotecnico l’ho capito poi, è cambiato tutto anche lì.
Le premesse del Gruppo Abele nascono che io ero un ragazzino di 17 anni, poi a 20 nasce il Gruppo Abele, il sacerdozio arriverà dopo con un occhio alla realtà, l’impegno sulla strada coi poveri, con gli ultimi, le avventure di quegli anni… Poi la strada ha continuato a essere, e continua a essere per me un punto di grande riferimento.
Che, tra l’altro, è un riferimento evangelico, perché la strada nel Vangelo è la grande protagonista, voi la trovate 109 volte sottolineata con forza come il luogo della gioia, della festa, dell’incontro, ma anche come luogo della fatica, della disperazione, della denuncia. Il Gruppo Abele è nato sulla strada, io ho cominciato i miei percorsi sulla strada, ma qui non è venuto Luigi Ciotti, voi lo capite, qui non c’è un io, sono qui perché… il gruppo è un bel gruppo e non a caso si chiama Gruppo Abele, non è un caso che tanti anni fa proprio a Torino ci fu un primo incontro per mettere insieme le realtà del mondo dell’accoglienza e da quel primo incontro è nato il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza.
Di quel primo incontro, non dimenticherò mai, da quel piccolo gruppetto perché già girando l’Italia, io con degli amici che stavano cominciando il loro percorso: “Ma perché non ci incontriamo, perché non ci diamo una mano” ed è nato questo coordinamento CNCA. Ricordo che in quel primo incontro fatto a Torino venne un gigante, proprio un omone, un friulano, portava sempre dei cappelli un po’ alla cow-boy. Io conservo il primo foglio delle firme, quello che si fa girare per raccogliere gli indirizzi e venne a quel primo incontro padre Davide Turoldo, perché mi era venuto a chiedere, io piccolo piccolo di fronte a questo gigante di Dio, mi è venuto a chiedere se si poteva fare qualcosa di più rispetto alle carceri. Le carceri. C’erano molte lettere di carcerati, c’erano state poste una serie di domande, interrogativi su cosa fare di più.
E quindi la strada è stato il nostro percorso, e quando scoppierà il problema (semplifico, vi chiedo scusa) dell’AIDS, nasce la Lega Italiana di lotta all’AIDS, ma il grande nodo era mettere insieme realtà più laiche e anche le belle espressioni di accoglienza delle comunità del mondo, diciamo così, più cristiano, ecc. Che poi non so che cosa voglia dire.
Comunque, sta di fatto che mi sono trovato a essere il primo presidente della Lega Italiana di lotta all’AIDS e mi sono trovato contro Ratzinger e, tra l’altro, a finire sotto inchiesta perché noi firmammo il documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché se tu accetti di dare una mano, a mettere insieme mondi diversi di fronte alla disperazione della gente, perché allora non c’erano i farmaci inibitori della proteasi e si moriva… Io ho fatto in un anno, solo in una struttura di accoglienza aperta prima delle legge, prima degli interventi, 53 funerali. Non sapevo più che pagina del Vangelo prendere in mano per non ripetersi sempre, e qualche volta balbettavi anche rispetto a tante morti di tanti ragazzi, le infezioni con le siringhe… L’Italia ebbe la più alta percentuale di morti di AIDS perché non si faceva la prevenzione come si sarebbe dovuto fare.
E quindi firmammo il documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che diceva che tra gli altri strumenti di prevenzione c’era l’uso del preservativo, che non è da enfatizzare, perché andate a spiegare a un africano l’uso del preservativo, però lì si vuole prima il mercato della malattia evidentemente, perché i farmaci non arrivano e tutto quello che sapete.
E quindi il professor Ratzinger l’ho conosciuto proprio quando mi mise sotto inchiesta per la questione del preservativo. Mi ha fatto piacere che l’ultimo libro che ha fatto c’è un passaggio in cui si dice che si può usare in alcune situazioni particolari. Vi devo dire che a difendere la posizione difficile… io non parlai mai, me ne sono stato zitto, la marea dei giornalisti che mi chiedeva: “Dica qualche cosa”, e io zitto, anche perché io amo la Chiesa, quella un po’ trasparente, pulita, chiara.
Vi devo dire per correttezza che ho conosciuto e conosco un collaboratore di giustizia, che tra l’altro poi ha fatto il padrino a una delle figlie di Paolo Borsellino, quindi immaginate un mafioso che poi collaboratore di giustizia arriverà al punto di fare da padrino a una delle figlie di Paolo Borsellino, un collaboratore di giustizia che portava i soldi allo IOR, a Marcinkus, i soldi di Cosa Nostra con le valigie… tutto documentato. Quando qualcuno oggi mi parla di scandali nella Chiesa, volevo ricordare che non erano fantasie quelle di Sindona o di Marcinkus, non entro in merito, io non ho la competenza per dire se è giusto o sbagliato, colpevole o innocente, non sono grado di dire questo, dico solo che i fatti giudiziari, i fatti concreti e le testimonianze, sono, in questo caso di cui sto parlando, dell’uomo che portava in Vaticano il denaro con le valigie, e questo è tutto documentato.
Io l’ho conosciuto, tra l’altro questo collaboratore sarà quello che dirà a Paolo Borsellino il primo tentativo di attentato che era stato preparato e che fu sventato grazie a lui: ecco, questo rapporto che ha legato questo signore, Vincenzo Calgà, questo signore che oggi vive in una località che io conosco per varie ragioni, ti fanno incontrare, toccare con mano, nella concretezza, non i sistemi massimi di cui io non sono in grado di poter portare qui il mio piccolo contributo.
Non c’è Luigi Ciotti, c’è un noi, un noi legato, ecco… e poi tutto è finito perché Balestrero, che era il mio vescovo di Torino in quel momento, che tra l’altro è stato per ben due mandati Presidente della Conferenza Episcopale Italiana e fu l’unico che fece tacere Giovanni Paolo II, parlava sempre Giovanni Paolo II, lui, qualcuno lo ricorda, a Loreto fece tacere il papa e fece il giro del mondo quella notizia perché aveva autorevolezza… Fece tacere il papa il cardinale Balestrero, si faceva chiamare Padre che è già un buon segno, proprio sulle orme del suo predecessore, il Padre Michele Pellegrino che mi ordinò sacerdote già con il Gruppo Abele.
Pellegrino non lo conobbe subito il Gruppo Abele perché io ero in seminario, perché c’è stato un equivoco e gli parlavano di questo Gruppo Abele: il sacrestano di una parrocchia di Giaveno, dove c’era il seminario minore, che faceva un po’ l’assistente per poter fare il Gruppo Abele, il lavoro sulla strada e polistudi, il Pellegrino pensava che fosse il Gruppo del sacrestano, il Gruppo di Abele, Abele il sacrestano. E questo fu l’equivoco iniziale, poi un giorno… è vero, è storia, un giorno una delegazione di preti, c’era ancora il collegio parroci, andò dal cardinale a chiedere la mia espulsione dal seminario perché mi occupavo dei ragazzi di strada e di questi ragazzacci. Andò la delegazione del collegio dei parroci, tutti ben messi, con la talare, col collettino… brava gente, però con la loro impostazione, con i loro percorsi, la loro formazione. Io vi devo dire ho sempre avuto un grande rispetto, alcuni nomi altisonanti… e Padre Pellegrino capì che non era il Gruppo del sacrestano… C’era questo equivoco perché disse: “È un problema ma che c’entra il sacrestano con il seminario, studia da prete sto sacrestano?”. E allora si risolse il problema, poi mi convocò e lì ci fu questo rapporto proprio filiale di un padre che ha capito, ha capito profondamente. Io ricordo che poi disse a questi del Collegio Parroci: “A Ciotti ci penso io, non preoccupatevi e voi per questi ragazzi che sono sulla strada, questi ragazzi che hanno un po’ di problemi, che finiscono nel carcere minorile, quando avete un progettino portatemelo” e non li ha più visti, evidentemente, e si è sciolto anche il Collegio Parroci.
Questo per dire che la strada ha bisogno anche di incontrare dei profeti come è stato Padre Pellegrino, che ha saputo cogliere, ha saputo stare vicino. Ma il suo successore, proprio nel momento del preservativo e dell’AIDS, che aveva autorevolezza per farlo, piombò lui da Ratzinger, fisicamente è andato. Lui apprezzò molto che io non sono mai intervenuto, mai fatto dichiarazioni, c’era una bagarre sui giornali che non ti dico… c’era solo un giornale che attaccava, un quotidiano che attaccava, ma tutti gli altri si erano schierati a sostenere la posizione mia, ma io neanche una parola: ho preparato un dossier con il vicario generale per rispondere alla Congregazione e poi Balestrero piombò. E mi disse: “Guarda, Luigi, non ti toccheranno mai fino a quando ci sono io. Hanno messo subito da parte tutto. Non ti toccheranno mai finché ci sono io ma dopo non posso garantire, sai com’è”. A quanto pare qualcosa è un pochettino cambiato.
Tutto questo per dirvi che è una storia non fatta da una persona, ma è sempre stato un noi, la Lega di lotta all’AIDS, il Coordinamento delle Comunità, il Gruppo Abele e anche Libera. Libera nasce dopo le stragi, i primi passi, i primi cammini. Qui c’è il referente regionale di Libera, presente con un lungo cammino, con una lunga storia, Lorenzo Frigerio; ebbene, abbiamo mosso questi passi, timidi ma con la convinzione che è proprio il noi che vince. Guardate che il cambiamento è proprio dentro di noi; ha bisogno, il cambiamento, anche delle nostre fragilità perché io credo che dobbiamo mettere in gioco quello che siamo, con la consapevolezza dei nostri limiti, con una ricchezza che si condividono questi percorsi, ci si mette in gioco, ci si sporcano, completamente, le mani.
Ecco, ma qual è il filo conduttore, se posso dire, ringraziandovi molto… mamma mia, quante cose ho detto, così bene, così articolate… Questo libro non è un vero libro, voi lo avete capito. Io mi sono trovato in un problema molto difficile che arrivano 50, 60, 70 e anche 100 mail al giorno di comunità, associazioni, parrocchie, chiese e scuole che chiedono un incontro. Una marea, una marea. E dicevo: come faccio? Se accontenti uno rischi di non accontentare l’altro, e ti dispiace. Pensate che solo Libera sta portando avanti dei progetti in 4.500 scuole, e oggi è presente nel 75% delle facoltà universitarie italiane. Poi ci sono tante altre realtà che ti chiedono un intervento, che non sono solo le associazioni di Libera. E noi tendiamo per il no, anche se ci sono tanti di noi che lo fanno. Questa è la ricchezza, questo è il patrimonio. E allora io ho detto: “Beh, quei pensieri che vai a portare in giro mettiamoli lì”. Lo so, è una cosa riduttiva, una cosa di cui quasi mi vergogno.
Perché gli editori da me sono venuti, e lo dico di tutti gli editori, e dicevano sempre: “Senta, non ci racconta un po’ delle storie del Gruppo, quelli che ha preso, quella lì che ha ammazzato 5 persone e che voi l’avete fatta… perché, ci dica un po’ di questo, la storia dei transessuali con cui ha lavorato, la storia di don Carlo dove c’è una tomba… don Carlo Carla” perché questo prete transessuale ha vissuto questo dramma, un dramma di fede, un mistero, di fronte al quale uno si è inventato di tutto.
E allora arrivano, pagano, a me hanno fatto delle offerte gli editori, ma io lo dico con un senso di rispetto: “Guardate, io non racconterò le storie, mi dispiace, me le porterò nella tomba, lascerò ad altri questo compito”, magari oggi non è così. Però alcuni pensieri di fondo che sono pensieri di un noi condiviso, non di Luigi Ciotti, perché io costruisco con gli altri, cerco di ascoltare gli altri e sono stimolato dalle persone con cui costruisco questi percorsi. Allora non potendo andare da per tutto uno ha messo insieme delle cose e poi Giunti ha detto: “No, io voglio fare una strenna natalizia”, ha messo sto cartone lì, perché voleva fare una strenna natalizia. Va beh… Comunque, è diventato questo libro così, ma lo ritengo un imbarazzo, perché per me bastava un fascicoletto da mandare a quelle scuole e a quelle realtà in dono perché ti chiedono: “Per piacere venga, facciamo un incontro, i nostri ragazzi hanno fatto questo percorso” e tu fisicamente, per quel che mi riguarda, e poi Libera è una rete di tante realtà, di tante persone, è questo noi che è forte.
Ma cosa lega tutto questo? Cosa lega la storia di un gruppo, il lavoro sulla strada, che continua a essere per me un punto grande di riferimento, non è che io non sono più nelle strada, in gruppo, no, ci sono pur con ruoli e modalità diverse evidentemente, perché noi dobbiamo passare il testimone per la gestione delle cose, e poi ci sei in un altro modo e così via. Ebbene, il filo conduttore è certamente la responsabilità, è il grande impegno per la libertà delle persone. Perché prima della legalità e di tutto il resto ci sta il nodo della libertà, perché voi mi insegnate che noi abbiamo avuto il dono della vita e in gran parte abbiamo avuto anche il dono della libertà e per la libertà abbiamo lottato, altri hanno lottato per difendere la libertà, per esprimere la libertà nasce la Costituzione e qui nasce la democrazia nel nostro paese, da quella lotta di liberazione, da quella resistenza che ci chiede di affrontare le resistenze di oggi. Perché la situazione non è facile nel nostro paese, perché le mafie sono forti quando la politica è debole, e le mafie sono ancora più forti quando la democrazia è pallida, è molto pallida.
E vi siete chiesti come mai da 400 anni c’è la camorra in Italia? Da 400 anni c’è la camorra, e Cosa Nostra da oltre 200 anni nelle sue prime espressioni. E allora bisognerà porsi delle domande. Sono più di 100 anni che noi ci trasciniamo la ‘ndrangheta calabrese e siamo qui ancora con la ‘ndrangheta calabrese. E allora io dico: qualche cosa non funziona al di là del lavoro, della generosità, dell’impegno di magistrati, forze di polizia, alcuni segmenti delle istituzioni, penso anche a parte della società civile responsabile. Però qui ci sono dei grandi nodi che devono essere affrontati per uscire fuori da questa violenza, da questo crimine, da questa anomalia, perché il nostro è l’unico paese al mondo che da secoli si porta dietro storie di questo tipo con tutte le conseguenze.
Allora, il grande nodo è proprio il filo della responsabilità, ma che è la responsabilità di impegnare la nostra vita e quindi la nostra libertà per liberare chi libero non è. Questo è stato un po’ il cammino che io ho cercato, sempre con altri, col Gruppo Abele, liberare la libertà della gente perché le ragazze che incontravamo sulla strada quasi 47 anni fa, non erano ragazze libere pur provenienti da contesti diversi rispetto a quelle di oggi, non c’era ancora l’eroina nel nostro paese, che noi incontreremo anni dopo e che ha tolto la libertà per le dipendenze, non dimenticando anche le proprie responsabilità personali, alla storia delle persone.
E però, sono 50 anni e l’unico mercato al mondo che non ha avuto mai un meno ma sempre un più è il mercato delle sostanze stupefacenti. Tutto il mondo ne parla del problema della droga e delle dipendenze, pur con dei cambiamenti, pur con delle trasformazioni, pur con l’aggiunta di nuove sostanze e l’apertura di nuovi mercati… Sconcertante, perché il nuovo mercato dell’eroina adesso è diventata l’Africa: immaginate dove c‘è la fame, la sete, la disperazione, lì stanno arrivando le ondate, perché sono queste regole di mercato, criminali se volete, però sulle quali il mondo sta lì che parla, e da oltre 50 anni stiamo discutendo di questo problema. Ed è l’unico mercato al mondo, scusate la parola mercato, che ha avuto mai un meno e sempre un più, pur con delle trasformazioni, pur con dei saliscendi, delle alternanze: più coca meno eroina, più eroina meno coca, e poi le nuove droghe e poi altro ancora.
Quindi, voi capite che l’impegno nasce dal desiderio nato sulla strada, ma il filo conduttore è liberare la libertà, è la libertà l’anima che ha portato tutto questo, è questo diritto sacrosanto che Dio ha voluto per tutte le persone; la libertà è la massima espressione dell’umana dignità, perché la più grande umiliazione della persona umana, la più grande ferita della persona umana è la privazione della libertà.
E voi trovate zone intere dell’Italia dove la gente non è libera. Dove c’è la presenza criminale e mafiosa forte, la gente non è libera, inutile star qui a discutere, la gente non è libera, c’è paura. E noi abbiamo delle sacche nel nostro paese dove lo respiri, lo tocchi con mano. Anni fa non lo avrei detto perché ero ignorante rispetto a questo.
Certo, il giorno che muore Falcone ero in Sicilia a fare un corso con gli insegnanti sulla prevenzione e sul problema delle dipendenze. Il giorno che muore Paolo Borsellino io ero il sabato, lui muore domenica 19 luglio, la mattina ero ancora a lavorare in Sicilia, a Palermo, per un libro fatto con l’Unione Europea in quattro lingue sulla prevenzione per il mondo della scuola. Due combinazioni sono state. Io pochi giorni prima ero a Gorizia per un dibattito con Giovanni Falcone ai funzionari della Polizia di Stato: quest’uomo che portava le leggi sulla droga, la sua visione, io ero chiamato, con tutti i miei limiti, a parlare dell’accoglienza, prevenzione e ruolo dell’informazione e percorsi educativi.
E quindi poi uno si chiede delle cose e che cosa fare? Certo che continui a stare sulla strada, certo che continui a sentire quella forte responsabilità verso chi, ecc. Questo resta il punto. Guai per me se viene meno quello, il faccia a faccia con le persone, il non dimenticarci che riconoscere gli altri vuol dire riconoscere se stessi, che l’accoglienza e il diritto possono stare insieme, che accogliere gli altri vuol dire accogliere se stessi e non dimenticarci che la diversità è il sale della vita e che dobbiamo impegnarci tutti perché la diversità non diventi un’avversità come è avvenuto e sta avvenendo. E quindi per me resta quello, quel noi, quel stare sulla strada, l’assunzione di questa responsabilità che ci fa ricordare sempre che l’unità di misura dei rapporti umani è la relazione, è dare parole, è l’ascolto.
E allora in questo senso è questo filo di responsabilità, è questo il filo, l’impegno per la libertà, l’assunzione della responsabilità, che per me resta un impegno di democrazia. Anche perché la democrazia conquistata con fatica è sempre da tutelare, da difendere. La democrazia si fonda su due grandi doni, voi me lo insegnate, poi qui c’è un maestro, un maestro fatto di intelligenza e di passione che non è venuto meno alla continuità da quando io l’ho conosciuto alle ACLI, ecco, e abbiamo fatto delle belle cose insieme, certamente anche andando contro corrente e contro chi cercava di mettere i bastoni fra le ruote perché certi temi non erano così semplici, così facili. così scontati ieri come oggi.
Vi devo dire che la democrazia si fonda su due doni la dignità umana e la giustizia, ma la democrazia non starà mai in piedi se non c’è questa terza gamba che si chiama responsabilità, la spina dorsale della democrazia è la responsabilità e guarda caso lo spina dorsale della Costituzione è la responsabilità. Ecco allora che quei pensieri che arrivano dal contributo di questi percorsi, l’ascolto della gente, da questa unità di misura che è la relazione dei nostri rapporti e così via, a queste parole chiare che l’attraversano, la libertà, questo impegno per la libertà delle persone ecc.
Ma ti sei accorto che per me c’è una grande responsabilità, la responsabilità delle parole. Guardate, quante parole sono stanche. Io lo dico: ditemi se c’è uno che non parli di legalità oggi in Italia e quando sento parlare di legalità qualcuno che la calpesta tutti i giorni io mi arrabbio, mi arrabbio, poi mi trattengo, però mi arrabbio. Sono troppi quelli che hanno scelto la legalità malleabile, sostenibile: se mi conviene rispetto le regole, se non mi conviene non le rispetto. Abbiamo delle parole stanche: chi è che non parla di pace? Intanto viviamo una guerra che non finisce, una guerra che si traduce con la violenza nei nostri territori, nei nostri contesti, nelle nostre presenze. E poi siamo sommersi, è diventato costume così di leggerezza che passa nei vari canali televisivi, male descritti, ma si è diffusa anche nei vari rapporti di troppa gente, parole che dividono, che offendono. Noi abbiamo bisogno di parole di vita, parole che incontrano. Le parole sono importanti, possono avvicinare o allontanare, incoraggiare o ferire, accogliere o emarginare. Quando vedo certe dichiarazioni che insultano…c’è una responsabilità delle parole.
Certo che è importante parlare, anche denunciare, ma è vero che si possa fare sempre con rigore, con competenza e con spirito costruttivo. Abbiamo la responsabilità delle parole. Siamo sommersi da parole che dividono e offendono, il che non vuol dire che uno che cerchi la verità non possa dire delle cose, ma c’è anche un rispetto.
E allora io sono andato l’altro giorno a Lampedusa, ho passato giù un po’ di tempo, ci tornerò. Io quello che ho visto è un cimitero, Scusatemi io non posso pensare quell’isola stupenda, con della gente meravigliosa, guardate, che hanno sempre accolto tutti, che chiedono però che quando arrivano quelle persone che si faccia in fretta a trovare il ponte verso altri contesti, verso altre realtà. Io ho visto con questi occhi una signora sulla sessantina togliersi le sue scarpe e darle a un migrante con i piedi che gli sanguinavano, l’ho visto qualche mese fa, non l’ho visto il secolo scorso. Ho incontrato Vincenzo, proprio Vincenzo si chiama anche lui, un anziano che dice: “Tutti i giorni vado al cimitero a mettere a posto quelle tombe dove non c’è un nome”. Io sono andato su quelle tombe dove col plexiglas hanno fatto un triangolo con scritto sopra questo, c’è ne è uno più generale: “Riposino in pace”: “Immigrati non identificati di sesso maschile, etnia africana di colore nero”, la firma dell’ex sindaco posta lì sotto, lui è stato contento di aver fatto sta roba in plexiglas. Poi ci sono delle tombe con un cadavere solo, una persona sola: “Riposa in pace”: non più riposano, non fossa comune ma sempre plexiglas: “Immigrato non identificato di sesso maschile, etnia africana di colore nero, rinvenuto dal Comando 7 squadriglia Guardia Costiera di Lampedusa all’interno di un barcone affondato”. Ma vi pare un linguaggio, questa deriva culturale, questo pensiero sbrigativo, questo non trovare, che so, che il primo diritto di ogni persona sia di essere chiamato per nome, se non c’è il nome ci sarà un altro modo di non dimenticare che lì c’è una vita umana che cercava la dignità, la libertà, la speranza.
Tutto questo, voi capite, ha creato questo vento che soffia anche di forme di razzismo, che ti tenta, che umilia. Ecco, allora dicevo che con tutti i miei limiti, che sono veramente tanti e vi chiedo proprio scusa, mi ha sempre accompagnato il profeta Isaia. Il profeta Isaia quando disse e continua a dire: “Non mi terrò il silenzio, non mi darò pace finché non sorga come stella la giustizia e la verità non risplenda come lampada”. Voi capite, non possiamo stare in silenzio, non possiamo darci pace finché non sorga questa giustizia e questa verità, con la responsabilità delle parole. Se c’è una denuncia, sia una denuncia seria e attenta, documentata. Ma noi non possiamo tacere. E allora ha ragione il profeta Geremia, che mi è anche caro, perché lui ha sempre ammonito che un giorno non dobbiamo batterci il petto perché siamo rimasti lontano dalla pace. E pace è sinonimo di giustizia, libertà, di legalità, di dignità umana.
E allora questo è quel pensiero che attraversa, ripeto con tutti i limiti, con quelle caratteristiche che vi ho detto, quei pensieri messi lì e dove non si riesce ad arrivare da per tutto e vuoi dare un minimo di quelle quattro cose che con tutti i limiti, uno cerca di portare…
Ah! Qui adesso tutti parlano dell’etica in Italia, tutti. Tutti parlano dell’etica, è un’altra delle nostre parole, e allora da un po’ di tempo mi chiamano gli ordini professionali: “Don Ciotti, venga, facciamo i protocolli”: sono segni importanti. Io ricordo solo in Sicilia che alla fine dell’800 (perché adesso fanno i codici gli industriali, tutti quanti), l’ho scoperto in un paese, che alla fine dell’800, inizio del 900, in Sicilia c’erano già i codici. A me un signore ha regalato un documento storico in fotocopia dove già c’era l’espulsione da chi apparteneva alla maffia (con la doppia effe). Quindi il cercare di lottare contro quelle violenze, contro quei crimini e di rendere conto di una chiarezza non trasparente non è un problema solo di oggi, lo è stato anche nel passato. Però c’è anche la questione della continuità, la strada è fatta anche di continuità, di condivisione e di responsabilità come tu hai colto bene e sottolineato. Perché all’indomani di molte vicende c’è una risposta della gente, c’è la risposta emotiva.
Ma voi ricordate dopo le stragi che successo la primavera palermitana, Nino Caponnetto che viene eletto, lui che aveva detto: “Tutto è finito” e dopo, di fronte alla morte di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di quegli splendidi ragazzi, si metterà in gioco anche lui, presiederà il primo consiglio comunale perché era il più anziano, e così via. Ma è passato poco tempo dopo che a 60 a 0 vincerà l’altra parte, ricordate: 60 a 0. La gente cambia, le risposte emotive cambiano, ci vuole una continuità di sostanze, di contenuti, di coerenze, di condivisioni.
Allora ti chiamano, ti chiamano in molti: “Senta, venga, noi facciamo i protocolli etici” e tu hai fatto riferimento all’etica, quella che chiama in gioco la nostra coerenza, i nostri comportamenti, i nostri linguaggi. Chi ci incontra? Perché l’etica è la ricerca di ciò che ci rende più umani, più autentici. Adesso tutti vogliono fare l’etica delle professioni. Io vado perché credo che se mi chiamano bisogna sostenere questo, però io spiego che preferisco parlare di etica come professione e non di etica delle professioni: nella tua professione tu devi avere la tua dimensione etica e tutti, non lo dico solo a quella categoria professionale, lo dico a tutti, lo devo dire anche a me in questo senso, tutti senza eccezioni dovremmo diventare dei – dico una parola poi dimenticatela, ma voi capite la provocazione – dei professionisti dell’etica. Cioè mettere le nostre migliori capacità, conoscenze, competenze al servizio di un rinnovamento etico, culturale, sociale nei contesti in cui viviamo, tanto nella vita privata come in quella lavorativa e pubblica.
Avete letto le agenzie, i giornali di questa mattina. Il vice direttore centrale della Banca d’Italia è diventato Presidente della RAI. Mi fa piacere perché vi leggo 5 righe della Tarantola quando in tempi non sospetti lei ha ordinato un rapporto sul riciclaggio in Italia; il rapporto è dell’anno scorso e Anna Maria Tarantola, certo con un lavoro di squadra, dirà nel suo rapporto che è sconcertante, serio, documentato perché la Banca d’’Italia è al di fuori… Il vice direttore della Banca d’Italia dice che secondo le stime il riciclaggio vale il 10% del PIL, un dato doppio rispetto alla media mondiale. Ma vi cito il suo rapporto: “Il riciclaggio – è tutto scritto – rappresenta un ponte fra criminalità e società civile che offre ai criminali, che dovrebbero essere per definizione banditi dalla società, gli strumenti per essere invece accolti e integrati nel sistema arrivando a sedere nei consigli di amministrazione e a contribuire alle assunzioni di decisioni economiche, sociali e politiche rilevanti”.
E la Banca d’Italia è sempre molto attenta nelle dichiarazioni che fa, le deve misurare. Dice che dovrebbero essere banditi dalla società e dice che sono invece accolti e integrati nel sistema arrivando a sedere nei consigli di amministrazione.
Mi fa piacere, io personalmente non la conosco, non sono lo sponsor di nessuno, ma noi con la Banca d’Italia stiamo lavorando proprio su questi temi, come Libera, e devo dire che con il professor Draghi per contro-mafie la Banca d’Italia aprì la sua grande sede, mettendo a disposizione alcune sale per fare incontri di apertura, di attenzione, la voglia di lavorare, lavorare insieme: ancora una volta il noi, il noi. Ognuno porta i suoi contributi, le sue antenne sul territorio, ecc., ma questo rapporto sul riciclaggio e la definizione di persone che devono essere bandite dalla società, beh, fa onore a questa signora, al lavoro di squadra che ci sta dietro, ma diventa un dato molto inquietante perché se uno scrive quello, pubblicamente dice quello, è perché noi abbiamo nomi e cognomi di persone che sono lì e che decidono le sorti del nostro paese.
E che è stato scelto di mandare una donna, poi bisogna vederla all’atto, per vigilare una situazione dove c’è tutto e il contrario di tutto e porta un occhio particolare di chiarezza e trasparenza, al di là di altre considerazioni cui non sono assolutamente in grado di poter intervenire, però mi sembra che sia uno degli elementi molto importanti.
Come è importante quello che sta arrivando sulla corruzione del nostro paese. E voi sapete che Libera, e forse qualcuno di voi ha firmato quelle cartoline, ne abbiamo raccolte un milione e duecentomila, le abbiamo consegnate due mesi e mezzo fa al presidente Napolitano, non 1.200.000 cartoline, abbiamo fatto delle mazzette per ogni regione, per chiedere la cosa più ovvia, da un’altra parte sarebbe la cosa più ovvia ma in Italia non è così scontato, perché è dal 1999 che l’Italia deve mettere nel codice penale i reati che dimostrano fino in fondo la corruzione, dal 1999.
E avete visto il ministro Severino ha preso sul serio questa parte, ha dichiarato ieri: “Piuttosto il governo va a casa ma noi non possiamo scendere sotto una certa soglia”. I compromessi si fanno verso l’alto, non verso il basso. E questo mi fa estremamente piacere, io non conosco la Severino, però la sostengo perché ho visto la volontà di alcuni punti fermi, l’Italia è dal 1999 che non fa quello che l’Europa ci ha chiesto.
Quando siamo stati da Napolitano con 1.200.000 cartoline raccolte tra i cittadini, alla fine ho detto al Presidente: “Adesso te le porto via” perché ha riempito tutta la scrivania di queste mazzette di tutte le regioni, il Capo dello Stato ha detto: “No, queste mazzette delle cartoline che rappresentano tutte le regioni italiane, firme per chiedere di mettere nel codice penale tutti quei meccanismi che dimostrano la corruzione in tutte le sue sfaccettature, queste cartoline vanno negli archivi del Quirinale e devono stare negli archivi del Quirinale”. E il Presidente ha aggiunto: “È un pezzo della storia del nostro paese, la voce dei cittadini che sentono di fare”. Come è possibile, non è che i giornali hanno dato molti spazi, non è che avete visto del 1.200.000 cartoline di Libera, perché sono altri gli spazi che occupano molti dei nostri quotidiani, a meno che… a meno che… Però è il segno di un fermento dei cittadini di un paese dove in questi anni invece di rispondere alla Commissione di Strasburgo, si sono spolpati due reati come la corruzione e il falso in bilancio che erano esattamente reati che dimostravano la corruzione. Ed è questo il punto per cui è difficile fare passare il decreto legislativo. Perché c’è chi non vuole che si torni indietro perché se no sarebbero incriminate tutta una serie di situazioni che sono davanti agli occhi di tutti evidentemente.
Ecco allora com’è importante il ruolo dei cittadini, delle associazioni, dei gruppi e come la legge sulla confisca dei beni. Pio La Torre giustamente tu l’hai ricordato, sarà la svolta la Rognoni-La Torre. Perché svolta? Perché nel 1982 definisce quali sono i reati di mafia, li definisce la Rognoni-La Torre. Perché la proposta del governo, Rognoni era ministro dell’interno, era una proposta delle forze di sinistra di allora, coincidono, si mettono insieme e nasce la legge La Torre-Rognoni, che finalmente definisce che quei reati sono reati di mafia, punto e basta, il 416 bis e annessi e connessi. È l’intuizione di Pio La Torre che non vedrà la sua legge perché lo ammazzano 4 mesi prima: sono 30 anni della Pio La Torre quest’anno; il 30 aprile lo hanno ammazzato, sono 30 anni da non dimenticare! L’intuizione è di sottrarre i patrimoni, ma la legge non funzionerà da quel punto di vista e quando nasce Libera abbiamo detto: “No facciamolo funzionare, quel sogno di Pio La Torre, facciamolo vivere e con un milione di firme”; lo so che non è cambiato il mondo però fu proprio il Parlamento ad aggiungere la confisca a uso sociale.
Per un po’ di anni non ne è fregato niente a nessuno e noi ci siamo inventati di tutto per aprire le cooperative, fare le collette… perchè la legge c’è, ma per molto tempo, soli, abbiamo fatto le cose grazie ad alcuni prefetti che si sono inventati di tutto, e adesso tutti cavalcano la confisca.
Ma attenti: non sta funzionando, per tre ragioni diverse: perché qui tu dici appunto che il Vangelo raccomanda la paressia, il parlare chiaro che è il contrario dell’ipocrisia, noi dobbiamo parlarci chiaro per amore della verità, per costruire il cambiamento, per scuotere le coscienze, per assumerci la nostra parte di responsabilità, per seminare speranza nella concretezza, perchè di quei 10 mila beni immobili confiscati non ci sono solo le confische di mafia.
Semplifico: nel settore confische anche se uno fa un abuso edilizio gli viene confiscato il bene e l’abbiamo ficcato lì, poi c’è la confisca sulla droga e l’abbiamo messa lì, e poi sulla prostituzione… Sono nate molte leggi dopo quella legge. Attenzione, e nel silenzio totale del paese sono passate altre confische dicendo: “Si possono vendere questi beni”. Noi abbiamo sempre salvaguardato un principio, che non è un dogma, ci possono essere anche delle eccezioni, che è il principio della restituzione alla collettività: i cittadini devono vedere che ritorna quello che è stato loro tolto con la violenza, con il sopruso, spesso con la morte.
Che succede? Succede che c’è un elenco di confische, ma non tutte sono di mafia. Ma attenzione 3.500 di questi beni confiscati non possono essere utilizzati perché sono sotto ipoteca bancaria. Chi ha dato l’ipoteca a Totò Reina? Io no, tu neanche, non credo: lavori in banca? No. C’è gente in buona fede certamente, certamente situazioni di buona fede ci sono, bisogna sempre saper distinguere per non confondere; per me è molto importante evitare le generalizzazioni: portar via 500 beni di quei 10.000, una parte riconsegnati, solo una piccola parte utilizzati perché se non c’è l’accesso a un fondo, se non hai gli strumenti per sistemarli, non è semplice e non è facile. I comuni i soldi non ce li hanno per pagare le ipoteche, le associazioni che possono essere l’uso sociale non hanno i mezzi, le banche dicono (salvo delle eccezioni) sono miei, devo recuperare il denaro, li vendo, li mando all’asta.
Allora c’è una verità da dirci in questo paese, di come, al di là dell’euforia perché dopo che tutti hanno cavalcato… e io lo dico con un senso di grande stima e riconoscenza perché mai come in questo momento stima e riconoscenza vanno ai magistrati, di gran parte della magistratura, e alle forze di polizia. Chi di noi li vede operare in silenzio, tra l’altro devono inserirsi dentro certi meccanismi, devono fare delle operazioni che non sono facili, ci hanno consegnato molti arresti, molti latitanti, grandi operazioni con insufficienza di strumenti e di mezzi. Quindi stima e riconoscenza per tutto questo. Dopo di che nell’amore della verità… Quando dico che le mafie sono forti quando la politica è debole e quando la democrazia è pallida, non è una battuta che uno vuole fare, che non ci può appartenere, vi prego, non ci può appartenere. Non si può fare battute su questo.
Come voi mi insegnate, le radici delle mafie nel nostro paese sono nate al sud, ma i rami, i frutti si fanno al nord. I frutti si fanno dove c’è il potere, dove c’è finanza, dove c’è grande economia e quando è successa una polemica per le mafie al nord io mi sono messo a ridere e penso anche voi. È da 50 anni che ci sono, eppure questo stupore, questa ignoranza, questo semplificare…
Ecco allora, è la storia di un noi di responsabilità, di impegno per la democrazia e devo dire che le mafie non è che ti battono le mani né a me né a tutti quegli altri. Dico solo quello che è successo in 10 giorni. In 10 giorni è successo che 20 ettari di ulivi, alla vigilia della consegna del territorio a Castelvetrano, provincia di Trapani, sono stati bruciati. Non una riga, niente! Non vengono dati a Libera come qualcuno pensa, Libera si fa promotrice per realizzare cooperative di lavoro autonome. Non vanno a Libera i beni, Libera è l’anima che ha promosso, che mette insieme le prefetture, i comuni, fa la formazione, il progetto culturale, stimola sul territorio proprio la conoscenza del problema, ha questa funzione, ha raccolto milioni di firme, si è battuta per la legge, sta difendendo certe semplificazioni, siamo presenti nelle commissioni a batterci e proprio quello deve essere la strada da portare avanti per evitare le scorciatoie.
Venti ettari la settimana scorsa sono stati bruciati. Abbiamo chiesto al comune di denunciare, ha mandato un tecnico, non ha fatto neanche la denuncia, perché vuol dire che quel comune ha qualche cosa a che fare con quei proprietari. E lì c’è la zona di un personaggio superlatitante che si chiama Matteo Denaro Messina. Atto uno!
Atto due. Quattro giorni fa bruciati… Finalmente è entrato nel circuito la polpa di arance, la trovate ormai, o dovrebbe arrivare, in tutte le botteghe del commercio equo solidale e nelle botteghe di Libera, la polpa, proprio questa bella spremuta, anche però importante, vuol dire il lavoro di quei ragazzi, di quelle cooperative. Bruciati gli agrumi, quattro ettari, tremila piante bruciate. E voi capite che non è tutto semplice e facile.
Mesi fa a Misagne, e non devo dire di più. Misagne per Melissa eccetera, proprio rotti tutti gli impianti di irrigazione. Tra l’altro qui i beni confiscati a un boss che abita a casa di un cantante, Al Bano. Uno si chiede com’è possibile? Noi lo abbiamo detto, ed è stato l’unico giornalista che è andato a intervistarlo, è andato a casa di Al Bano, il giornalista Attilio Benzoni di Repubblica, quando l’ha saputo guarda se c’è anche il boss di questi beni confiscati, è lì a casa di Al Bano. È andato l’ha intervistato, e l’altro ha detto tutto, che quando c’era lui i suoi vigneti erano una meraviglia perché adesso queste cooperative…, perché giustamente la legge gli ha tolto le proprietà ed è diventato lavoro, lavoro di giovani di Misagne, di Torchiarolo! Distrutti gli impianti di irrigazione, ma si ricomincia, si ricomincia.
Vi dico queste cose per dire come la ricchezza della democrazia, della nostra Costituzione ha bisogno di questa spina dorsale che è la nostra responsabilità, lo chiediamo allo stato, alle istituzioni, dobbiamo chiederlo anche a noi. Ci vuole meno prudenza e più coraggio in questo momento, ci vogliono meno parole e più fatti e sono 6.000 i ragazzi che si sono prenotati, andati sui siti e vedete, per andare sui beni confiscati quest’estate, facciamo turni di una settimana al massimo 10 giorni per alcune località: sono tanti giovani, ragazzi e ragazze, l’anno scorso erano 4.500, quest’anno sono 6.000 che trascorreranno le vacanze con i campi di volontariato a fianco di quei giovani delle cooperative. È da anni che succede questo e vi prego di credere che è la meraviglia dei nostri ragazzi, perché si alzano presto la mattina, lavorano la mattina perché poi il sole diventa forte, poi c’è un pranzo insieme, ma poi c’è cultura, conoscenza del territorio, l’arte, perché l’Italia ha un patrimonio inestimabile, l’incontro con i testimoni, con i saggi del territorio e tornano veramente… forse voi avete avuto dei nipoti, dei figli che lo hanno fatto, tornano carichi a casa togliendo certe etichette che si fanno perché tutto a volte si cerca di specificare.
A me ha fatto piacere che quel giorno delle cartoline al Quirinale, io al Presidente ho detto: “Senti, ma perché nella festa della Repubblica (non c’era ancora il terremoto e tutto quello che è successo) il rinfresco non lo fai con i vini di Libera? I tarallini? E i paccheri, conditi col nostro olio?”. Buono, buono sapete. E abbiamo l’olio della Calabria, l’olio che arriva dalla Sicilia, quello che arriva dalla Puglia, è buono
Il Presidente non ha fatto neanche finire che io facessi la domanda, si è rivolto verso Marra, che è il suo segretario generale, il suo uomo numero uno, il suo consigliere e dice: “Subito! Subito!”: Poi voi sapete come ci sono state le tragedie e quindi il Capo dello Stato dice: “Io non posso non fare l’incontro col corpo diplomatico” (lo si fa la sera prima): quei prodotti dovevano essere solo una piccola cosa, perché c’erano altri rinfreschi che fa il Quirinale. Il Capo dello Stato dice: “No, tutto il resto via, una cosa sobria, sobria”. Io sono testimone perché mi hanno precettato di andare almeno cinque minuti, solo cinque minuti poi sono scappato. L’unico senza giacca ero io: “Io guarda che vengo così perchè io non… no guarda, Luigi, tu…” Ma sono testimone di un gesto che ha un suo valore: totale sobrietà, spazzato via tutto il resto, i brindisi sono con quei vini bianchi, rossi, Centopassi, Negramaro che arriva da Patti, il nero di Avola e le mozzarelle, perché finalmente due mesi fa abbiamo inaugurato la latteria che fa delle ottime mozzarelle a Castelvolturno su beni confiscati ai casalesi.
E voi capite come è importante, questo è un impegno per la democrazia del nostro paese, per sostenere e leggere la nostra Costituzione che passa attraverso i fatti, la meraviglia di questi ragazzi che partono e vanno, il grande lavoro che viene portato avanti nel mondo delle scuole e delle università. E qui c’è Lorenzo Frigerio che è il referente lombardo: le sette università milanesi si sono messe insieme, insieme ognuna fa un momento, ma che bello! Allora il cambiamento è anche possibile, è anche possibile, caspita.
Allora io credo che questa…Sono quei pensieri: quando parli della Chiesa delle interferenze, però uno dice: “Ma no, la Chiesa non deve interferire”. Vi devo solo spiegare, se mi permettete il passaggio, perché se no quello è quanto dice don Ciotti: la parola interferenza non è mia, è di un mafioso. Vi faccio la successione dei fatti così voi capite il perché di tutto questo e il perché Cosa Nostra metterà le bombe in S. Giovanni in Laterano e in un’altra chiesa di Roma. E perché ucciderà don Pugliesi e don Peppino Diana. La camorra farà l’accordo anche con Cosa Nostra. C’è una ragione che sta dietro a tutto questo. Che risale a una successione di date molto importanti.
La prima data è il 15 settembre: Cosa Nostra sceglie date simboliche, sceglie la data del compleanno di don Pugliesi e lo ammazza quel giorno; sceglierà l’onomastico di don Peppino Diana, lo ammazzerà il 19 di marzo, giorno del suo onomastico, a Casal di Principe. Ma attenzione, quando il magistrato chiede a due uomini di Cosa Nostra: “Perché l’avete ammazzato?”, vi do le risposte di due mafiosi. Giovanni Drago dice al magistrato: “A Brancaccio è arrivato un prete che non era dalla parte dei mafiosi”. È chiara la risposta, ma è vera, e avete sentito che nella sua stupenda sintesi lui parla delle parole di Padre Sorge che dice: “Com’è possibile che i promulgatori del Vangelo delle Beatitudini abbiano quei comportamenti, quei silenzi complici, ecc.?”. Ma il magistrato chiama un altro uomo di Cosa Nostra, di nome Salvatore Cancemi, un po’ più conosciuto. “Perché lo avete ammazzato?”. E Cancemi a verbale dirà: “Questo qua era un prete scomodo, un prete che disturbava Cosa Nostra sicuramente al mille per mille perché un prete che si fa i fatti suoi, (poi attenzione al passaggio) che predica la Chiesa e non tocca i mafiosi, sicuramente questo campava 100 anni”.
Quindi lui è morto perché ha toccato Cosa Nostra, non c’è dubbio, presidente, è lampante questo passaggio. Ma attenzione, queste sono le testimonianze di uomini di mafia al magistrato che li interroga: perché hanno ammazzato il prete? 15 settembre. Ma attenzione a cosa avviene 25 giorni prima, è qui che c’è il momento, perché pochi giorni prima, nel cuore dell’estate, siamo al 19 agosto (viene ucciso il 15 settembre), un uomo importante di Cosa Nostra, in carcere, chiede di parlare con urgenza col magistrato e il magistrato ci va! Questo signore si chiama Francesco Marino Mannoia e farà questa dichiarazione verbale, qui è il punto!
Uno si chiede come dal carcere lui poteva, a nome di tutti gli altri, dire questo, perché lui parla a nome di tutti, ma lui è in carcere ed è in una sezione di detenzione pesante, eppure lui farà queste dichiarazioni verbali. Ve la leggo perché allora quando “non interferire” sono le parole di Mannoia. Dichiarazione verbale: “Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile, ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti, non interferite!”.
E invece noi, dove la dignità umana, la libertà, la vita, dove c’è la povertà, l’ingiustizia, l’arroganza, la sopraffazione, noi dobbiamo interferire e dobbiamo dire con chiarezza che il Vangelo è incompatibile con la corruzione, con l’illegalità, con le mafie. Non solo i mafiosi, ma quanti permettono loro di fare tutto questo sono fuori dalla comunione della Chiesa. E allora anche coloro che fanno i priori, le processioni e lascio perdere… con l’inchino, come tu hai ricordato… Non interferire?” E allora in questo senso hai fatto bene a ricordarlo.
Ma perché Mannoia fa quella dichiarazione? C’è una data prima, è la svolta, anche se Giovanni Paolo II, il10 novembre 1990 a Capodimonte, Napoli, per la prima volta, il papa polacco fa un passaggio dicendo proprio il bisogno di moralità individuale e sociale, poi alza il tono, come faceva lui: Sì, urge il bisogno di legalità”. I vescovi italiani iniziano allora a capire. Nasce l’anno dopo il documento “Educare alla legalità”, Questo nel 1991.
1993, il ministro dell’istruzione Rosa Russo Jervolino fa la prima circolare per le scuole sulla legalità. Ma c’è un altro signore a cui io sono riconoscente che parla di moralità, e quindi la dimensione di eticità e soprattutto di impegno per la legalità: è stato Enrico Berlinguer, perché lui fece la denuncia chiara e scomoda. Quindi, è un momento in quegli anni di attenzione, ecco.
Giovanni Paolo II, Io racconto nel libro quello che nessuno conosceva, ma lo racconto perché l’ho appreso da testimoni reali, perché il papa che ha fatto cinque visite pastorali in tutto il suo pontificato in Sicilia, ne aveva già fatta una di visita in Sicilia e non aveva parlato di mafia. Nella seconda visita pastorale fa diverse tappe e non farà mai nessun accenno specifico; è l’ultimo giorno e qui avviene il fatto. Il fatto che l’ultimo giorno… intanto il papa ricevette una lettera, non sappiamo veramente se l’ha ricevuta, di preti e di alcuni, 15 persone, che avevano scritto qualche cosa. Pranza nel seminario di Agrigento, riposa, si forma il corteo papale; il corteo scende per andare nella Valle dei Templi e improvvisamente si ferma il corteo, il papa scende dalla macchina, entra in una porticina ed è dietro a quella porta che succede quello che smuoverà il papa.
Ecco, io vi consegno, l’ho accennato in modo molto superficiale, ho avuto modo di avere questo dono dai diretti protagonisti veramente, che mi hanno permesso di poterlo rilanciare. Il papa risale sulla macchina, si chiude quella porta e lui va nella Valle dei Templi. Leggerà una bellissima omelia, ma non c’è riferimento, nella preghiera finale non c’è nessun riferimento, fa i suoi saluti ufficiali e sta per andarsene. Ma fa mezzo metro, poi torna indietro e ha in mano il pastorale di Paolo VI e ha quella croce alle spalle della Valle dei Templi che era della Chiesa di Santa Margherita Belice, la Chiesa Madre che con il terremoto tutto è andato giù, c’era rimasta questa parete con il crocefisso e quelli di Santa Margherita Belice l’hanno portato e l’hanno messo lì. Il papa l’abbraccia e guardate se vi capita una volta tutta la sequenza, non solo quel passaggio, perché è lunga, perché il papa si ferma con lunghi silenzi. Lunghi silenzi, ed è bello vedere il suo volto…
Io incontrai quei signori dietro quella porta che avevano scosso il papa e hanno scosso anche me. Dietro quella porta c’erano il papà e la mamma, che ora non ci sono più, del giudice Livatino. Il giudice Livatino, figlio unico, 37 anni, un bravissimo magistrato. Tra l’altro lui, i beni dove noi stiamo cercando di aprire una cooperativa, che sta partendo a Nalo, in provincia di Agrigento, aveva fatto lui il provvedimento di confisca, di sottrazione, tanti anni fa. Il giudice Livatino, devo dire, viene ucciso, lui era di Canicattì, e non dimenticate che a Canicattì non si ricorda mai il giudice Saetta, che venne ucciso col figlio di Cappati, in macchina, tutti e due ammazzati.
Ma attenzione, abbiamo scoperto dopo la morte che Livatino, di cui era cominciata la fase di un processo, perché c’è chi lo vuole portare all’altare… L’anno scorso, il 21 settembre, giorno del suo compleanno, sono stato, proprio perché Monsignor Montenegro apriva la prima fase, per vedere se ci sono le condizioni per un processo che lo può portare agli altari perché era un ragazzo umile, attento, impegnato. Si è scoperto dopo la sua morte che lui mandava in galera la gente perché chi sbagliava era giusto, la legge è legge, quindi lui era chiaro, trasparente, rispettoso, però abbiamo scoperto che alcune di quelle famiglie che lui mandava dentro, che magari c’era fuori la moglie e i figli, lui si mangiava addirittura lo stipendio per dare una mano a quelle famiglie, le famiglie di quelli che aveva sbattuto dentro. Si scopre sempre dopo, l’attenzione per quei figli, gli pagava i libri, la scuola, sono delle belle testimonianze che stanno venendo fuori, dove certo il magistrato che fa fino in fondo quello che deve fare, ma poi è capace di non penalizzare magari quei bambini, quella famiglia dove c’è bisogno di pagare l’affitto, e così via.
La mamma mi ha raccontato che quando è arrivato il papa, lei era così emozionata che non riusciva neanche a parlare, ma che il papa, come lo avete conosciuto, l’ha abbracciata: “Sai, mi ha tenuto stretta stretta”, perché a volte non abbiamo bisogno di parole, abbiamo bisogno anche di gesti, di gesti per fare sentire che siamo vicini; una mano che si stringe, un abbraccio che è vero, quelle poche parole ma che entrano dentro, che non sono rituali e di circostanza.
Il papà mi ha raccontato che ha spiegato qualcosa al papa e poi gli ha fatto vedere il diario del loro figlio, lo stesso che ha fatto vedere anche a me. Io non so quale è la pagina che ha letto il papa, io so quella pagina che vi racconto, quelle quattro righe che continuo a ricordare ovunque, perché hanno colpito anche me quando Livatino nel suo diario scrive che alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili.
Allora voi capite: il papa griderà con forza: “Verrà il giudizio di Dio, convertitevi, si vuole illuminare e scuotere le coscienze di questa meravigliosa terra di Sicilia”. Il papa dirà delle parole forti, poi aveva questo tono, con quel suo accento, con quella sua passione di cui abbiamo bisogno di sentire vibrare le parole, le parole, perché ognuno le esprime come è capace, evidentemente.
Ecco, la data è quel 9 maggio 1993. Mannoia 19 agosto 1993 dice: “La Chiesa non interferisca”. La Chiesa invece interferisce, viene ucciso don Pugliesi; qualche mese dopo, siamo nel ’94, don Peppino Diana. È questo il senso, e dobbiamo continuare a interferire dove c’è l’ingiustizia, la violenza, la sopraffazione…
L’ultima cosa che vi dico. Le mafie hanno ripreso alla grande, o meglio, oggi c’è una mafia che ha il volto sempre più civile, sempre più mimetizzata nell’economia, nella finanza, negli affari. E basta vedere quando qualche procura affonda grazie a dei bravi magistrati.
A Torino, l’operazione Minotauro, Giancarlo Caselli, 147 arresti, si è aperto il processo adesso. Commissariato per infiltrazione mafiosa i comuni di Leinì e Rivarolo, in provincia di Torino. Avete visto in Liguria, Ventimiglia e Bordighera. A Milano conoscete bene voi le vicende, non devo certamente spiegarle io. Le grandi operazioni fatte, quando si possono fare, quando c’è l’autorità, quando c’è qualcuno che ci mette testa, anche se c’è stato il tentativo di spogliare alcune leggi sulle intercettazioni; quella della corruzione che tra l’altro speriamo che passi perché se no andiamo a casa: ma non si può arrivare a dei compromessi di bassa levatura. Io spero che questa coerenza non venga meno, perché veramente il nostro paese non ha bisogno di nuove leggi, ha bisogno di una nuova etica, chiamiamola di un’attenzione diversa, di una moralità, di una chiarezza, di una trasparenza.
Hanno ripreso, in forme diverse.
Tu che sei stato deputato impegnato, forse anche tu sei andato qualche volta al Bar Chigi a prendere un caffè, l’onorevole è una persona onesta e pulita, e qualcuno certamente in buona fede è andato a prendere il caffè lì, perché non è semplice capire…Adesso se andate di fronte a Palazzo Chigi c’è il bar Chigi, un bel bar, adesso è chiuso da mesi perché la magistratura ha scoperto che era stato acquistato dalla ‘ndrangheta, dalla famiglia della ‘ndrangheta degli Alvaro. È chiuso. Ma Fellini fece il film La dolce vita, ricordate il Café de Paris, Via Veneto, la dolce vita, ed è già confiscato, confisca di primo grado, perché il Cafè de Paris è in mano alla famiglia degli Alvaro.
E quando dico, quando diciamo: una mafia dal volto più civile, mimetizzata che compra e nel momento di grande crisi economica il denaro la mafia ce l’ha e fa da banca, impresta soldi attraverso pseudosocietà finanziarie, a piccole e medie imprese, alcune sono in buona fede, perché è una società che impresta con dei tassi che favoriscano.
Però è una situazione capite che in questo momento in cui non vogliamo dimenticare le cose positive, la bellezza: sarebbe una contraddizione per me e per il grande impegno di Libera, e non solo, i comitati di scuole, le università, le cooperative aperte sui beni confiscati, la bellezza di tutto questo, l’impegno di molti, di molti… però capite, ma soprattutto c’è una società civile sempre più tollerante verso la corruzione, le varie forme di illegalità ed è sufficiente il dato fornito la settimana scorsa dalla Corte dei Conti; che uno pensava che in questo ultimo anno fossero diminuiti i dati sulla corruzione pubblica e invece sono aumentati. E voi sapete che il criterio di lettura della corruzione pubblica da parte della Corte dei Conti forse non corrisponde alla realtà perché usa un criterio: prende del PIL il 3%, ma qualcuno dice: “Guardate che la corruzione pubblica è molto di più”. È un criterio che usa. E se è il 3% vuol dire circa 60 miliardi di Euro, la somma introito delle mafie, le varie forme di riciclaggio con i dati che ci vengono dati, e tutte quelle forme di lavoro nero, e l’evasione fiscale. Una somma, comunque in modo prudente, viene fuori circa 560 miliardi di Euro.
E poi non ci sono i soldi per le fasce deboli, per i servizi. Lì bisogna prenderli. Ci vogliono le leggi giuste, gli interventi giusti, mettere in grado la magistratura di operare in un certo modo. Invece qui mi sembra che, ripeto, non dimentichiamo mai le cose importanti, quelle leggi che ci sono, però uno scatto ci vuole in questo momento, uno scatto attento, forte e puntuale. Io ci credo che è possibile, la speranza ha il volto dei progetti, la speranza vuol dire offrire opportunità, la speranza vuol dire politiche del lavoro… due milioni di giovani senza lavoro, il problema della dispersone scolastica che ci vede agli ultimi posti rispetto ai paesi europei. Ciò vuol dire che alcune zone del paese ci porrà una domanda in più, in più.
Diciannove anni che aspettiamo un’altra legge che non arriva, quindi responsabilità trasversali per varie ragioni: la legge che mette nel codice penale i reati contro l’ambiente, la tutela dell’ambiente! 19 anni, e andiamo verso il ventesimo anno, che più forze chiedono questa attenzione, questi meccanismi, questi interventi. Avrei un lungo elenco, un lungo elenco.
E termino dicendo che la speranza o è di tutti o non è speranza, ma termino con un mafioso, scusate, che ha fatto il seminario, (beh, anche lì c’è di tutto) e lui super ricercato, latitante, nel suo covo si era fatto anche l’altarino e mentre dall’altra parte uccidevano don Pugliesi, c’era un frate, non chiedetemi il nome, ma molti lo conoscete, che andava a celebrare la santa messa al latitante Pietro Alieri. Pietro Alieri, quando viene arrestato, farà una dichiarazione al magistrato, che vi leggo a verbale: “Quando voi venite nelle nostre scuole a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole (molti magistrati ci vanno, e fanno bene), di civili convivenze, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenze economiche e sanitarie, chi trovano? A voi o a noi? Dottore, trovano solo a noi”.
È una provocazione? Però ha anche pezzi di verità là dentro e ve lo dimostro con due passaggi. Il primo che io posso consegnarvi perché ci ho ragionato con chi fa questo difficile impegno di lavoro proprio in Sicilia: se si va a leggere il nome degli arrestati di quest’anno, voi troverete magari qualche nome più risonante, grazie a quell’impegno, a quel lavoro che viene portato avanti (e non bisogna mai dimenticare e gratitudine), ma trovate che molti sono nomi di giovani e trovate che la stragrande maggioranza dei giovani arrestati quest’anno non appartengono a nessun clan, a nessuna famiglia mafiosa. E questo, se leggete l’ultimo rapporto della Direzione Nazionale Antimafia, quindi rapporto ufficiale, rispetto al clan dei casalesi, ad esempio (camorra), trovate che nbel rapporto c’è scritto, sì grandi arresti, tutto quello che è importante, ma c’è anche scritto che quei vuoti sono già riempiti, quei vuoti lasciati dagli arrestati già riempiti.
E lo si capisce. Noi dobbiamo sostenere le forze dei magistrati, le forze di polizia che sono i primi a dire noi abbiamo bisogno dell’altra parte, abbiamo bisogno di una società civile responsabile, che fa la sua parte, che si impegna. Ecco quello che dobbiamo fare in questo momento.
E l’ultimissima parola la dico sulla politica, dando la parola a un caro amico, don Tonino Bello; so che voi lo conoscete e anche a voi è molto, molto caro. Sapete che ho avuto la gioia e la fortuna di essergli… piccolo piccolo, ma veramente credo di poter dire amico. Quando Tonino Bello, che è scomparso ma qui c’è, io c’ero quel giorno in cui lui disse queste parole ed è per questo che mi stanno a cuore; perché mi aveva chiamato nella sua diocesi a parlare ai politici, come molti vescovi fanno a chi vuol partecipare, un momento che il vescovo offre di riflessione. A me aveva chiesto allora di parlare sulle nuove povertà di allora. E poi lui fece il suo intervento con quella sua carica, la sua passione, la sua grande profondità, veramente un polmone di Dio. Vi devo dire che terminò l’intervento dicendo ai politici, a quelli che erano venuti al suo incontro, queste parole che voi già conoscete, ma ve le rilancio: “Amate senza riserve la gente che Dio vi ha affidato. A lui, prima che al partito, un giorno dovrete renderne conto”.