Conversione ecologica colpisce perché conversione è un termine che solitamente si usa sul terreno religioso più che sul terreno della politica e della filosofia. Guido Viale ricorda che era un termine che Alex Langer preferiva al termine rivoluzione. È chiaro che senza un cambiamento dei paradigmi culturali è un po’ difficile andare contro il pensiero unico del liberismo mercantista, che ci ha portato anche a questa situazione di crisi, ma che oggi in qualche modo paradossalmente utilizza anche la crisi per dire, che non c’è un’alternativa. Questo è il messaggio che tende a dare il pensiero unico, c’è la crisi, di conseguenza dobbiamo stringere i costi, aumentare la produttività, ecc. ecc., e di conseguenza ogni sacrificio che proponiamo, ogni cosa che proponiamo è l’unica proponibile. In realtà non è mai così e la discussione è aperta.
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1 premessa di Giovanni Bianchi 07’54” – 2 introduzione di Piervito Antoniazzi 20’21” – 3 relazione di Guido Viale 51’12” – 4 prima serie di domande 17’19” – 5 risposte di Guido Viale 17’27” – 6 seconda serie di domande 11’40” – 7 risposte di Guido Viale 19’03” – 8 terza serie di domande 17’02” – 9 risposte di Guido Viale 12’06” – 10 ultima domanda 02’27” – 11 risposta di Guido Viale 02’33”
Trascrizione dell’introduzione di Piervito Antoniazzi a Guido Viale
Grazie a Giovanni Bianchi, grazie al circolo Dossetti di avermi invitato: Ancora un ricordo, poi basta se no facciamo il club dei ricordi, ma è dovuto a Giancarlo Sartini che è qui con noi in spirito. Di solito era qui con noi fisicamente, e in passato ha presentato lui un libro di Guido Viale con cui ha condiviso lunghi percorsi di militanza politica. Io voglio ricordare di Giancarlo il periodo in cui gli sono stato più vicino, che era un periodo giovanile per me, ma anche per lui. Sto parlando del lontano ’74-’75, che era per noi l’anno dei decreti delegati, io ero responsabile degli studenti medi di Avanguardia Operaia a Milano e lui era il responsabile di quelli di Lotta Continua, io dirigevo i CUB e lui i CPS, siamo a queste sigle, e ci trovammo concorrenti e rivali, ma nello stesso tempo amici e sinergici. C’era allora la questione della partecipazione ai decreti delegati che Lotta Continua scelse mentre noi eravamo sull’astensionismo, quelle scelte furono forse anche propedeutiche ad alcuni passaggi successivi nelle amministrative che seguirono. Se non erro, Lotta Continua lanciò lo slogan del PCI al governo, o da lì alle politiche del ’76. In ogni caso, quello che ricordo è che lui era una specie di allenatore-giocatore, ha tirato su una generazione di quadri, di persone di grande rilievo; ricordo tra i suoi allievi Gad Lerner, Ivan Berni, Marina Terragni. Molti hanno fatto i giornalisti. Anche i miei dell’altro gruppo hanno fatto strada, ma magari hanno fatto più gli impresari culturali, sociali: penso a Lionello Cervi che ha messo su l’Anteo, penso a Riccardo Pifferi che faceva il manager di Jannacci e ha fatto regie. Ma potremmo citarne tanti di una generazione impegnata in politica allora a sinistra, che era il meglio di quella generazione. Io credo che lui sia presente ancora nella storia di questi suoi “figli”, che imparavano molto da lui nella criticità, nell’analisi complessa delle situazioni, nel non settarismo che era una cosa molto difficile allora perché erano appunto epoche in cui si lottava per la testa del corteo, per avere più bandiere, più numeri, ecc. ecc.
Bene. Devo però ringraziare anche di poter conoscere di persona Guido Viale che ovviamente ho seguito anch’io (oggi è proprio il giorno della memoria) da quasi 40 anni nel percorso politico molto significativo, da leader degli studenti a Torino, animatore e un po’ inventore della tematica dei “proletari in divisa” che era poi una tematica di democratizzazione in uno dei corpi separati dello stato, tra i più rigidi, più difficili, diciamo così, da cambiare, da convertire potremmo dire con il termine del testo che presentiamo oggi.
E poi oggi, dopo un percorso che io non ho seguito con il libro che dice da Giovanni Bianchi, autobiografico (difatti dicevo prima a Viale: “Ci siamo un po’ persi di vista negli anni ’89” e lui con una battuta ha risposto: “Sì, anch’io un po’ mi sono perso”. Io non lo so se appunto una tematica che contribuì anche allo scioglimento di Lotta Continua, e comunque contribuì a determinare molto della cultura della sinistra di questi anni che è stata la tematica che Giovanni Bianchi ha chiamato del “personale politico”, ma soprattutto la stagione del movimento delle donne che ha portato il tema della quotidianità e della vita quotidiana in politica, ovviamente non senza contrasti, non senza difficoltà, non senza problematiche. In ogni caso, in assenza anche di grandi politiche, ciascuno di noi in questi anni ha cercato di mantenere un senso alla propria vita, al proprio impegno che a me piace definirlo, siccome nella storia mia ho fatto una cooperativa sociale, micropolitica, cioè cose che hanno un senso e sono anche riconducibili a un quadro generale, ma certo non sono la mitica grande politica che tutti vorremmo ma che non sappiamo dov’è.
Allora, partiamo dal libro. Mi è stato detto che solitamente le introduzioni vengono scritte e così distribuite; mi dispiace, l’ho saputo solo all’ultimo però c’è il vantaggio che almeno il dialogo è un po’ più vivo anche se non avete lo scritto che poi però Silvia Barbanti vi farà avere dopo.
Partiamo dal titolo: Il titolo Conversione ecologica colpisce perché conversione appunto è un termine che solitamente si usa sul terreno religioso più che sul terreno della politica e della filosofia. Guido Viale ricorda che era un termine che Alex Langer che ispira un po’ il taglio di questa spiegazione lo preferiva al termine rivoluzione e sicuramente è chiaro a tutti che senza un cambiamento anche dei paradigmi culturali, e quindi senza una consapevolezza profonda di diverse priorità, di diversi valori è un po’ difficile andare contro il pensiero unico, diciamo così, del liberismo mercantista, che ci ha portato anche a questa situazione di crisi, ma che oggi in qualche modo paradossalmente utilizza anche la crisi per dire, e veniamo al sottotitolo del libro che è un acronimo anglosassone, che suona come TINA (There is no alternative), cioè non c’è un’alternativa. Chiaramente, questo è il messaggio che tende a dare il pensiero unico, cioè c’è la finanza, c’è l’economia, c’è il mercato, c’è l’industralismo automobilistico, non c’è un’alternativa, quindi dovete stare e in qualche modo, anche oggi nella crisi, c’è un po’ la tendenza a dire: c’è la crisi, di conseguenza dobbiamo stringere i costi, aumentare la produttività, ecc. ecc., e di conseguenza ogni sacrificio che proponiamo, ogni cosa che proponiamo è l’unica proponibile. In realtà non è mai così, è chiaro che la discussione è aperta, però un po’ la tendenza a dire: ragazzi, o il baratro, o mangi questa minestra o salti dalla finestra.
È un tema che si pone con preoccupazione insieme, dal mio punto di vista, anche a molti temi positivi che però la crisi pone perché in effetti ti obbliga ad andare a fondo dei problemi e, in fin dei conti, anche un po’ a ridefinire che cosa vuol dire destra e sinistra, nel senso che è chiaro che spesso la risposta ai problemi era un aumento della spesa; qualcuno ha detto: l’attacco all’Europa, l’attacco all’Euro è un attacco al welfare; è vero soprattutto perché quasi solo in Europa esiste un sistema così diffuso, anche se diversificato paese per paese, di welfare. Però è anche vero che sarà possibile sempre dare una risposta in termini di aumento della spesa statale? Come la sinistra riesce a coniugare l’equità con il rigore, cioè come riesce a fare in modo che la crisi non aumenti il divario tra ricchi e poveri e non pesi soprattutto sui poveri, sugli ultimi e così via?
Quindi diciamo che Guido Viali in questo libro individua molte risposte e molte utopie concrete come, sempre citando Alex Langer, inizia il libro, Alex Langer aveva addirittura promosso e diretto una fiera delle utopie concrete in Umbria a fine anni ’80, primi anni ’90 per fare vedere degli esempi di modo di operare diverso, ma anche un pensiero dei pensatori che lavoravano su paradigmi diversi. Nel libro troviamo molte di queste risposte, o comunque critiche, o comunque alternative, diciamo così, allo stato di cose presenti, Troviamo la valorizzazione del territorio, troviamo il tema del chilometro zero, poi ovviamente lui svilupperà meglio di me questi temi, io metto solo dei titoli: il chilometro zero cioè il tema che ritorna sull’agricoltura, come è noto, ma anche sui trasporti, sulle energie, sul riciclo dei rifiuti: il territorio deve diventare ecologicamente differente nel senso che deve cercare di dare delle risposte che consumano nel territorio, che recuperano tutto quello che è recuperabile e che escono da questa spirale del consumo illimitato delle risorse naturali, fossili (carbone, gas, ecc.).
Tutti discorsi che in parte si sono già sentiti, su cui però la consapevolezza in fondo è ancora, anche per esempio di questo governo del nostro paese, veramente, per dirla con un eufemismo, blanda, nel senso che anche le recenti restrizioni dei sostegni… È vero che si può discutere sul fatto che i sostegni alle energie rinnovabili siano non ben gestiti, ma è pur vero che bisogna anche fare delle scelte e che comunque bisogna dare un indirizzo al paese e agli operatori.
Ma non voglio farla lunga perché su questi temi credo che assolutamente Guido Viale sia il più adatto. Voglio però fare una domanda a lui, ma credo in qualche modo anche a me stesso, e che faccio a voi tutti, diciamo generazione in qualche modo sessantottina: in qualche modo Giovanni Bianchi mi ha anticipato con l’interpretazione di Salvatore Natoli sul ’68. Diciamo che tutti noi abbiamo sempre lavorato, pensato a un mondo migliore, pensato ad andare oltre, pensato a delle utopie che fossero però concrete, cioè si radicassero, sviluppassero processi di partecipazione, processi di consapevolezza diffusa, processi democratici, certo non utopie calate dall’alto, o verticistiche, o gerarchiche, o che. La domanda che mi faccio è se nella nostra ricerca, che è comune di questo mondo diverso e migliore, noi alla fine non enfatizziamo troppo ogni soggettività positiva, cioè in un certo senso come se, parlando in termini religiosi, in attesa di un messia e di un progetto salvifico, noi tendiamo continuamente a vedere, a enfatizzare dei soggetti, dei piccoli messia, dei soggetti salvifici che oggi sono gli studenti, domani sono gli operai, dopodomani le donne e oggi magari sono i contadini della Val Susa piuttosto che altro.
Io non vorrei che alla fine del nostro ragionamento da un lato si perdesse di vista la complessità e la realtà, e dall’altra prevalesse l’enfasi sul racconto di cui pure abbiamo bisogno perché noi, come dire, per operare, per impegnarci, per sognare, per guardare avanti, abbiamo bisogno di una narrazione, di uno scenario, di un qualche cosa, però che questo non sia alla fine troppo dominante sui dati di realtà. Naturalmente, Guido Viale mi smentirà mostrando come le proposte di conversione ecologica sono tutte concrete, realistiche e praticabili, cioè concrete.
Però voglio finire con un regalo a tutti noi che cerchiamo un oltre, qualcosa di radicalmente altro, rispetto allo stato di cose presenti e lo faccio con una poesia di Czeslaw Milosz, il poeta che ha vinto il premio Nobel nell’80, nato in Lituania nel 1911 ma che ha vissuto sostanzialmente in Polonia, morto nel 2004, che ha sofferto particolarmente, perché era di quella generazione che ha sofferto la tragedia della guerra mondiale, la tragedia del totalitarismo e quindi la tragedia della pretesa di autosufficienza, di volontà di potenza dell’uomo. Quando parliamo di questo, dicendo seconda guerra mondiale diciamo qualcosa che è ancora molto vicina a noi: negli anni ’80, che erano ieri, a Varsavia c’erano i carri armati. È vero, con la competenza della storia potremmo dire: “Ha fatto bene il generale Jaruzelski a mettere i suoi carri armati invece di avere quelli russi”, ma per i cittadini di Varsavia c’erano i soldati che occupavano gli alberghi del centro. È vero che poi nell’89 è andato al governo Mazowiecki e si è aperta una dinamica ecc. ecc., però negli anni ’90 c’è stato il conflitto nei Balcani che ha segnato così umanamente l’esperienza di Alex Langer. A parte che non è perché una guerra è lontana che è meno drammatica e significativa, però a volte noi tendiamo a un’idealizzazione della politica, dell’etica, del nostro impegno, e a volte sottovalutiamo quella che Franco Cassano ha chiamato “l’umiltà del male”. Perché poi il male procede tranquillamente e arriva ai Formigoni, arriva col richiamo semplice e umano di dire: “Non vuoi essere ricco, non vuoi star bene, ma non vuoi non avere problemi, non vuoi diventare famoso, non vuoi andare in televisione?”. A parte che la vanità è uno degli aspetti della politica fondanti, perché probabilmente nessuno farebbe politica, né farebbe l’attore se non avesse un minimo di vanità, un minimo di voglia di mostrarsi.
Comunque, finisco con questa poesia e voglio raccontare un altro episodio a proposito di Milosz, che era un conterraneo e quasi coetaneo a papa Wojtila. Quando Wojtila ha letto e incontrato Milosz, dopo aver visto le sue poesie gli ha detto: “Tu con queste poesie fai un passo avanti e uno indietro”. Milosz gli ha risposto: “Io non ho altro modo di esprimere la mia condizione umana e anche la mia religiosità”. Questo significa non tanto l’elogio del dubbio, che potrebbe essere pur sempre una cosa importante, ma è proprio la condizione nostra, in particolare di uno come lui, e la sua generazione, che ha vissuto tante tragedie, cioè tanti limiti della condizione umana, e quindi cerca un altro che sia laico o che sia religioso però è comunque……. vi leggo questa poesia e finisco.
Mi domandi come pregare qualcuno che non c’è.
Questo lo so che la preghiera costruisce un ponte di velluto
e percorrendolo ci innalziamo come su un trampolino
sopra paesaggi di colore oro maturo
trasfigurati da un magico arresto del sole.
Quel ponte conduce ai lidi del capovolgimento
dove tutto è al contrario e la parola è,
vi svela un senso appena presentito
Attento, dico noi, là ognuno separatamente sente pietà
per gli altri impigliati nella carne
e sa che se pur non ci fosse un’altra riva
sul ponte sopra la terra si avvierebbero ugualmente.
Ecco credo che questo messaggio del ponte è un messaggio che anche ad Alex Langer sarebbe piaciuto e forse che in alcune occasioni ha fatto anche suo. Anche se sapessimo che non c’è un’altra riva, noi il ponte lo lanceremmo: la metafora del ponte, cioè di collegarci a qualcosa di altro oltre la nostra condizione di partenza mi sembra una metafora meravigliosa
Trascrizione della relazione di Guido Viale
Ringrazio il circolo Dossetti per avermi invitato a questo incontro, ringrazio voi per essere presenti, e poi ringrazio Giovanni Bianchi e Piervito Antoniazzi per gli encomi e, in particolare, per aver ricordato questo mio libro che è, tra tutti quelli che ho scritto, anche a me il più caro perché mi sono, per così dire, messo a nudo, non per esibizionismo, almeno così era la mia intenzione, ma perché pensavo che dell’esperienza che ho fatto in quegli anni dovesse essere ricuperata anche una dimensione meno pubblica e più, tra virgolette, privata.
Io sono già venuto qua l’anno scorso per presentare il mio precedente libro, non mi ricordo più che cosa vi ho raccontato, nel frattempo ne ho scritto un altro, adesso vi riparlo di questo, può darsi che siccome io rimescolo sempre la stessa minestra mi ripeta, quindi chiedo a voi se ridico cose che vi ho già detto l’altra volta di scusarmi; cercherò di essere il più sintetico possibile.
Partiamo dal titolo che, come ha giustamente ricordato Piervito Antoniazzi, non è farina del mio sacco, è un termine che è stato introdotto nel lessico politico, e neanche poi molto utilizzato, da Alex Langer 25 anni fa, parecchio tempo fa. Alex Langer era uno che di conversioni se ne intendeva parecchio perché era nato in una famiglia ebraica, si era convertito lui, non la famiglia, giovanissimo, cioè da ragazzo, al cattolicesimo, aveva frequentato una scuola religiosa, e già lì era diventato una specie di eretico, poi ha fatto delle esperienze a Firenze con Padre Balducci e anche con Don Milani che gli aveva brutalmente chiesto di smettere di studiare per occuparsi più direttamente dei poveri. Alex Langer si è comunque laureato, è diventato un professore, ha partecipato al movimento studentesco, poi ha partecipato con me e con tantissimi altri alla vita di Lotta Continua. Poi come appunto Piervito Antoniazzi si chiedeva dove sono finito io dopo Lotta Continua, ho dovuto provvedere alle mie necessità e a quelle della mia famiglia, cioè eravamo in due, io e mio figlio, la famiglia non era molto grande ma ero reduce da un’esperienza politica così intensa: senza i benefit di cui hanno potuto fruire altri uomini politici, come per esempio Formigoni, anche una famiglia così piccola è stata piuttosto difficile da mandare avanti.
Invece, Alex Langer ha fondato le liste verdi in Italia, poi se ne è anche pentito e ha proposto di scioglierle; a un certo punto si è anche candidato a fare il segretario del PCI, allora era ancora PCI, perché stavano bisticciando fra di loro e allora lui ha detto: “Guardate, io sono l’unico che non ha le mani in pasta, non ha interessi da difendere, quindi sono la persona più adatta per lì”. Naturalmente, era una buttata e l’hanno presa per tale. Poi è diventato deputato, prima del Trentino-Alto Adige e poi deputato europeo e come deputato europeo, sia perché era una persona che veniva da un ambiente bilingue e attraversato da conflitti etnici, per fortuna non armati tranne alcuni episodi di terrorismo, ma piuttosto stitici in Alto Adige o Sud Tirol come vogliamo chiamarlo, così il Parlamento Europeo l’ha incaricato di farsi missionario di pace in tutti i paesi del mondo dove c’erano in atto dei conflitti e come tale ha cominciato a girare per il mondo come un pazzo, in Palestina, in Sud America. Poi, soprattutto all’epoca, in Bosnia, la ex Yugoslavia, dove ha lavorato tantissimo per gettare un ponte. Oltre a conversione ecologica e a utopia concreta, Alex insisteva moltissimo sulla metafora del ponte che deve unire persone con radici, concezioni, ideologie, orientamenti diversi e si è suicidato nel ’95, alla vigilia tra l’altro della strage di Sebrenika (non l’ha vista per sua fortuna), di fronte al fallimento della sua azione di pace.
Ora Alex in tutte queste conversioni che ha attraversato nel corso della sua esperienza ha sempre, come ovvio, mantenuto una coerenza personale e morale straordinaria. E appunto, come diceva Antoniazzi, insisteva sul fatto che il termine conversione diceva di più del termine rivoluzione, in cui aveva creduto nei primi anni della sua militanza, ma anche dei termini riforma, transazione, trasformazione, mutamento, cambiamento che erano quelli con cui il linguaggio politico si esprimeva negli anni in cui era, per così dire, rientrato nella politica istituzionale con la sua attività.
Perché? Perché il termine conversione rimanda a una duplice dimensione: quella oggettiva, strutturale, economica e sociale a cui in genere ci si riferisce con il termine riconversione, per esempio riconversione produttiva, cioè il cambiamento radicale della produzione di una fabbrica, di un’azienda, di un territorio e così via. Che è esattamente quello in cui tutti gli ambientalisti con un approccio complessivo ai problemi di oggi e non con un approccio esclusivamente parziale e settoriale (la difesa di un bosco piuttosto che dell’atmosfera o della qualità dell’aria, ecc.), insomma quelli che coloro che cercano di inquadrare i problemi nella loro dimensione generale devono promuovere.
Però c’è anche l’aspetto soggettivo che è un cambiamento intimo, personale, del proprio atteggiamento verso se stessi, verso il prossimo e verso l’ambiente nella dimensione spirituale e per Alex sicuramente anche dimensione religiosa che però poi deve tradursi in comportamenti concreti, in uno stile di vita e in un modello di consumo che siano differenti da quelli che ci vengono proposti dalla società.
Detto questo, io non sono credente ma molto spesso quando parlo di queste cose diversi cattolici, ascoltatori, persone che sono lì negli incontri, mi fanno notare che nella dimensione religiosa, in particolare in quella cristiana, la conversione ha anche una caratteristica drammatica: è la caduta di Paolo da cavallo lungo la strada di Damasco. Mentre la riconversione produttiva, se vogliamo chiamarla così, è un processo che ha necessariamente delle tappe, degli sviluppi, degli alti e bassi, ecc., la conversione è una cosa drammatica e istantanea. Naturalmente, si tratta poi attraverso una ricerca personale e collettiva di trovare le forme per praticare, imparare a vivere nel nuovo clima che ci si è costruito attraverso la conversione. Però, o si è da una parte, o si è dall’altra, personalmente, mentre nella politica e nella conversione produttiva si tratta anche di accettare dei compromessi e delle parti intermedie che necessariamente sono da percorrere.
Allora, per quello che riguarda la conversione personale nella sua dimensione poi pratica, che vuol dire adozione di un diverso stile di vita personale e di un diverso modello di pensiero, rispetto all’epoca in cui Alex Langer aveva intuito e proposto questa dimensione, io credo che noi oggi possiamo fare dei passi avanti perché abbiamo delle esperienze davanti che sono molto importanti secondo me, come cerco di spiegare in alcuni capitoli di questo libro. E cioè, quello che ci può permettere di cambiare stile di vita non è soltanto, anche se indispensabile, una intenzione, non è un problema esclusivo di etica dell’intenzione, ma è anche un problema di etica della responsabilità che deve avere delle conseguenze pratiche, e in particolare lo potremmo declinare oggi in questa forma: è il passaggio da un rapporto con il mercato e da un modello di consumo fondato sul consumo e sugli acquisti individuali: ciascuno di noi va al supermercato e sceglie le merci che più gli si confanno, se è un ambientalista, ecologico, cerca di prendere quelle che hanno meno un impatto ambientale se lo sanno, che magari fanno anche meno male alla salute, che hanno minori imballaggi e poi magari di contenere le sue spese per non dilapidare troppo, ma lì ci si ferma.
Invece, noi oggi abbiamo in una serie di ambiti, e sono gli ambiti in cui è possibile lavorare per una espansione di rete ecc., la possibilità di passare agli acquisti condivisi. E badate bene, dico condivisi e non collettivi, uniformi, perché non si tratta né di mangiare tutti le stesse cose, la stessa minestra, o di vestirsi tutti allo stesso modo come all’epoca di Mao, né di viaggiare tutti nello stesso modo, ecc., ma di decidere insieme che cosa comprare, dove comprarlo e a quali regole attenersi in questi processi di acquisto.
C’è un esempio pratico di questo processo, che forse alcuni di voi conoscono e magari qualcuno anche pratica, che si chiama GAS, Gruppi di Acquisto Solidale. Che cosa sono? Sono dei gruppi di famiglie da 10 a 50 al massimo, perché poi quando il GAS cresce troppo, siccome è fondato su rapporti personali diretti fra le persone che vi partecipano e sull’impegno anche pratico diretto, oltre un certo numero si deve spezzare in due se no perderebbe la sua caratteristica fondamentale che è quella della condivisione e del rapporto diretto, per eseguire insieme degli acquisti; sono nati soprattutto in campo alimentare, ma poi si sono estesi anche ad altri ambiti, per esempio, del commercio equo solidale, del vestiario, delle attrezzature, ecc.. In Italia già ci sono molti esempi di GAS che affrontano il problema energetico, cioè di condividere l’istallazione e l’utilizzazione di impianti energetici. In Germania ci sono delle forme analoghe fondate sulla condivisione dell’automobile, dei mezzi di trasporto per non averne una individuale. Ci sono delle esperienze molto avanzate, ovviamente molto ridotte per adesso, di co-housing, cioè di andare ad abitare insieme anche lì non in un falansterio o in un convento, ma in edifici in cui ciascuno ha il proprio appartamento, la propria abitazione, ma alcuni servizi, la cucina e soprattutto la lavanderia, la sala delle riunioni, il salotto che non è più il salotto, a volte la palestra se abbiamo i mezzi per farlo, la stanza dei giochi per i bambini ecc., sono in comune, come messi in comune sono la custodia per i bambini o la cura degli anziani.
Quali sono le caratteristiche dei GAS? Insisto perché secondo me è il modello che io nella mia esperienza vi propongo in tutti quanti gli altri campi che sono cruciali per la conversione ecologica.
Primo: innanzitutto, il GAS è fondato sulla catena corta, cioè i chilometri zero, e il salto dell’intermediazione commerciale; si va direttamente dal produttore. Parliamo del campo dei GAS alimentari che sono i più diffusi, negli ultimi anni si sono diffusi enormemente in Italia: tre o quattro anni fa erano poche centinaia, adesso sono diverse migliaia e probabilmente decine di migliaia. Ogni GAS ha da 20 a 50 membri mediamente e quindi comincia a riguardare una quota significativa della popolazione anche se è un’esperienza assolutamente minoritaria. Intanto si salta la mediazione commerciale e si risparmia e si fa guadagnare di più il produttore perché, anche se magari i prodotti che si richiedono sono di qualità superiore, perché sono per esempio prodotti agricoli ecologici, coltivati senza pesticidi e senza fertilizzanti artificiali, e quindi costano di più anche alla produzione, costano sicuramente di meno che andarli a comprare al negozio di prodotti ecologici, che sono delle boutique di lusso oggi. Questa è una cosa importante e i GAS si sono sviluppati anche per questo in tempo di crisi, cioè permettono di spendere meno nell’alimentazione.
Secondo, però sono una maniera per stare insieme, per ricreare degli ambiti di socialità che è proprio ciò che lo spirito di vita contemporaneo fondato sul consumo, sul consumismo, tende a distruggere. Anche questo ha dei risvolti pratici, cioè molti vanno nei GAS non tanto per acquistare prodotti ecologici ma perché lì trovano una sede dove incontrarsi con altre persone, dove scambiare un pezzo della propria vita, con delle conseguenze anche pratiche perché di lì possono nascere anche delle esperienze importanti tipo delle banche del tempo in cui ci si scambia prestazioni: chi sa riparare le apparecchiature si offre spontaneamente scambiando, che so, con chi sa dare ripetizioni di latino, inglese, musica, che restituisce in questa maniera, e soprattutto nella cura degli anziani, dei malati e dei bambini. Cioè, ci si può mettere insieme per organizzare queste cose. Di fatto, ci sono esperienze in questo campo.
Ma terzo, ed è la cosa più importante, per effettuare degli acquisti insieme di qualità, per salvaguardare il valore nutrizionale, nutritivo, salutare, cioè relativo alla salute per esempio dell’alimentazione, bisogna essere informati e quindi sviluppare o acquisire dei saperi che non sono quelli che ti fornisce la pubblicità televisiva sui prodotti, sulle merendine, su tutte le cose che sono in commercio nei supermercati, ma sono conoscenze che bisogna procurarsi anche con una certa fatica e che, tra l’altro all’interno del GAS possono subire un certo sviluppo importante. E questi saperi vengono trasmessi e sviluppati insieme al produttore, per esempio, all’agricoltore; una volta si diceva contadino, poi è sembrato un termine sminuente come spazzino, gli spazzini sono diventati prima netturbini poi operatori ecologici, i contadini sono diventati agricoltori. Adesso si ritorna, loro ritornano, quelli che sono impegnati, a volersi chiamare contadini perché il contadino, come spiega sempre Carlo Petrini, che non solo è l’inventore di Slow-food che per molti di noi è una forma di consumo di lusso perché sono ristoranti dove si mangia molto bene e si paga anche abbastanza, ma anche di “Madre Terra” che è una delle esperienze di organizzazione di contadini che abbraccia tutto il mondo, più grande del mondo. Cioè, c’è “Via Campesina” e poi c’è “Madre Terra” che ogni due o tre anni fa dei convegni tradizionali qua in Italia: è molto importante, molto interessante anche se ovviamente per i media non vanno bene. Carlo Petrini dice: “Bisogna chiamarli, e i contadini vogliono farsi chiamare contadini, perché contadino vuol dire portatore di una cultura e non semplicemente di una professione o di una tecnica, di una cultura che è la tradizione ereditata da generazioni di amore e cura per la terra che non esclude, anzi implica sempre di più anche l’acquisizione di una cultura e dei saperi tecnologici che derivano dallo studio delle scienze e delle tecnologie e che permettono di adeguare l’attività all’epoca moderna”.
Ma diciamo che questo rapporto diretto con i consumatori che avviene all’interno di un GAS è un elemento promotore di una trasformazione della cultura dei produttori e del recupero della propria dignità, delle proprie competenze e delle competenze che possono essere recuperate anche dall’ambiente sociale in cui gli agricoltori sono cresciuti e soprattutto è un elemento di riconversione ecologica dell’agricoltura.
Ora i GAS sono pochi, a Milano e hinterland mi dicono siano 150. che non è poco, moltiplicateli per 30-40 famiglie a testa sono già un buon numero, però una frazione minima della popolazione milanese. Pensate che cosa potrebbe fare un’amministrazione comunale se si impegnasse su questo terreno, non per fare un unico GAS cittadino, che non avrebbe senso perché abbiamo detto che un GAS vale in quanto è un numero ristretto di persone che si conoscono, ma come trasferimento di saperi da quelli che il GAS l’hanno già fatto, e quindi sanno come farlo, e hanno avuto delle esperienze e hanno imparato attraverso un processo di prove ed errori eccetera, a persone che lo vorrebbero fare magari promuovendo questa cultura. Perché questo potrebbe comportare, per esempio in una città come Milano, la trasformazione radicale di tutta l’agricoltura di un pezzo molto importante della pianura padana, perché per alimentare con produzione ecologica, cosa che potrebbe essere fatta tranne che per gli ananas, ci sono banane… la banana padana credo che sia in corso di realizzazione ma l’ananas no; ci sono dei prodotti che neanche a Tripoli si possono avere. Ma tutta quanta la pianura padana è in grado di fornire praticamente il 90% del fabbisogno alimentare di una città come Milano con produzione di stagione: è chiaro che se vogliamo le fragole in inverno, o le ciliegie in inverno e le arance in piena estate dobbiamo farle venire dall’altra parte del globo; ma se invece ci accontentiamo, come hanno sempre fatto i nostri progenitori dall’inizio dell’agricoltura a oggi, dei prodotti di stagione, questo programma è realizzabile.
Ci sono altri strumenti che un’amministrazione comunale potrebbe adottare; per esempio, questa amministrazione comunale ha una società partecipata che si chiama “Milano Ristorazione” che fornisce 80.000 pasti al giorno agli scolari, studenti, allievi delle scuole e con 80.000 pasti al giorno se ci si rivolgesse all’agricoltura locale chiedendo produzioni ecologiche e garantendo un volume di smercio consistente si potrebbero ottenere delle trasformazioni molto importanti. Lo dico perché la lamentela di tutte quante le amministrazioni diciamo più innovative che si sono insediate recentemente è ripetitiva e dice sempre la stessa cosa: non hanno i soldi per fare niente e infatti non hanno fatto quasi niente. Ma ci sono molte cose che si possono fare a costo zero e questa è una cosa che si fa a costo zero. I soldi per i pasti delle mense delle scuole ci sono, solo che vengono dati alle multinazionali del cibo che poi danno delle porcherie ai bambini. Con gli stessi soldi e forse anche con meno si potrebbe dare un’alimentazione differente.
La possibilità di coinvolgere i membri di un GAS dei 150 esistenti nella promozione di altri GAS con apposita sponsorizzazione, e magari qualche euro, proprio pochi, messi dal Comune per avere dei facilitatori, degli operatori, ecc,. ci sono e però anche su piani come questi non si fa niente. Immaginiamo che cosa sarebbe un GAS delle fonti rinnovabili, del risparmio energetico, cioè di ristrutturare la propria casa per consumare di meno, cosa che nel giro di qualche anno si deve fare perché ci farebbe risparmiare consumi elettrici e consumi di carburante per il riscaldamento, o alle fonti energetiche per quelle abitazioni che hanno la possibilità di farlo perché non tutti i tetti sono esposti al sole e non dappertutto ci sono altre opportunità.
Tutti questi interventi sono a costo zero perché sono finanziabili con credito bancario e se ci fosse un comune che lo garantisce perché chi offre il credito si può rifare in numero di anni limitati dell’anticipo. Quindi, né per il comune, né per il cittadino ci sarebbe da sborsare una lira, basterebbe invece avviare il processo.
E siamo passati automaticamente dalla conversione ecologica personale alla ristrutturazione, o alla conversione ecologica intesa come riconversione, ristrutturazione del sistema economico. Bene. Noi ci troviamo di fronte a questa situazione: la globalizzazione ha introdotto in tutto il mondo un principio regolativo dei mercati che è la competitività a qualsiasi costo, e competitività oggi vuol dire corsa al ribasso, tutti contro tutti, delle rendite, dei salari, delle condizioni di lavoro, del welfare e delle condizioni di salute, di sicurezza dei lavoratori e di chi lavoratore ancora non è. Non c’è traguardo a questa corsa, e lo dicono gli stessi promotori e sostenitori della globalizzazione, cioè bisogna abituarsi ci ripete, per dirne uno, Eugenio Scalfari tutte le settimane con le sue omelie che fa su Repubblica: non c’è alternativa, i salari saranno sempre più bassi in Italia perché devono prima o dopo livellarsi con quelli della Cina, che saranno sempre più alti. Infatti, in Cina vanno avanti a botte di aumenti del 30% o del 50%, partono da un livello molto basso, ma oggi chi di voi segue queste questioni avrà letto che ci sono addirittura dei processi di delocalizzazione di alcune produzioni che erano andate in Estremo Oriente per sfruttare i bassi salari, e soprattutto la possibilità di danneggiare l’ambiente, perché lì le protezioni non sono molte, che oggi ritornano in Italia. IKEA è uno di questi casi su cui si è fatto anche un pochino di storia.
Qual è la vicenda che in genere ci viene proposta da quelli che dicono no, non si può accettare questo processo? È il protezionismo: noi ci dobbiamo difendere dalla concorrenza dei paesi emergenti che hanno salari più bassi e processi di tutela dell’ambiente meno rigidi, perché se no questi arrivano e sbaraccano tutta la nostra produzione. Il protezionismo non è più praticabile nel mondo di oggi perché non importare e bloccare le importazioni vuol dire farsi bloccare anche le proprie esportazioni e l’Italia non è in grado di vivere con le proprie risorse. Interamente. Però stranamente è in grado di farlo molto di più di quanto non faccia adesso; l’alternativa a questa competizione sfrenata, secondo me, e secondo quello che si propone in questo libro, e che è oggetto di dibattito (non è anche questo farina del mio sacco, io mi considero un divulgatore non un inventore di idee, cioè cerco di trasmettere, di rendere più semplici, più digeribili le idee che circolano negli ambiti che io frequento non banalizzandole, perché il divulgatore non deve banalizzare, il divulgatore deve cercare di far capire come dei problemi specifici, a volte tecnici, a volte complessi, interferiscono con la vita di tutti noi e quindi hanno un risvolto che ciascuno di noi è in grado di cogliere e di capire. Questo è il mio obiettivo e il mio ideale di divulgazione), su questo problema, l’alternativa alla globalizzazione e al protezionismo è la territorializzazione. Io non sono un elaboratore, ma un divulgatore di teorie che sono state elaborate e continuano a essere sviluppate da altri.
E queste, badate bene, riguardano sia il problema della difesa contro questa corsa al ribasso delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione comportata dalla globalizzazione, sia la difesa contro il degrado dell’ambiente locale e planetario (gli effetti serra, i cambiamenti climatici, ecc.) che caratterizzano questo tipo di processi economici innescati e potenziati dalla globalizzazione.
Che cosa vuol dire territorializzazione? Il modello è quello che vi ho raccontato prima, il GAS è un esempio di riterritorializzazione: oggi andiamo al mercato e al supermercato e molti dei prodotti alimentari che compriamo vengono dall’altra parte del mondo. Non parliamo dei prodotti non alimentari. Vuol dire riportare sul territorio quanto più è possibile delle produzioni. Come? Col mercato soltanto non si può, il mercato soltanto ti da la competizione universale, col protezionismo non lo so, quindi con il metodo dei GAS, con degli accordi di programma tra produttore e consumatori che nell’ambito della valutazione dei costi e dei benefici, una distribuzione dei benefici e del rischio ripartita tra chi produce e chi utilizza o consuma, ecc., permettono di dare delle garanzie di continuità di approvvigionamento a chi ha bisogno di comprare e garanzie di continuità di smercio a chi ha bisogno di questo per mettersi a produrre. Come questo possa avvenire in agricoltura all’interno di un GAS è chiarissimo e credo di averlo spiegato.
Ci sono dei piccoli esempi in altri campi. Due ve li voglio citare, uno è di carattere diciamo pubblico, l’altro è di carattere strettamente privato, ma interessante. Quello di carattere pubblico è la famosa Electrolux di Scandicci: l’Electrolux è una multinazionale svedese che fa elettrodomestici e a un certo punto ha deciso di chiudere uno stabilimento di 350 operai a Scandicci, provincia di Firenze, anzi sobborgo di Firenze; gli operai hanno occupato la fabbrica, i sindacati li hanno appoggiati, la Regione li ha appoggiati, il Comune di Scandicci li ha appoggiati e insieme sono riusciti ad avviare (poi si è interrotta, è andata male, insomma il processo deve essere chiaro) un processo di riconversione produttiva, si sono messi a produrre pannelli solari fotovoltaici. Perché? Perché, grazie agli incentivi per l’energia rinnovabile che in Italia sono stati per 5 anni i più alti del mondo e continuano a esserlo ancora adesso nonostante che vengano tagliati periodicamente, in maniera assolutamente criminale sono i più alti del mondo, perché non era necessario che fossero così alti e sono finiti tutti nelle tasche di speculatori che hanno devastato le campagne italiane con intere vallate coltivate, coperte da pannelli solari invece di promuovere un sistema, come dirò poi, in cui ogni utente il più possibile si produca la propria energia.
In questa maniera, la Regione Toscana è riuscita a coinvolgere una serie di Comuni della Regione a utilizzare gli incentivi statali per installare dei pannelli fotovoltaici innanzitutto sui propri edifici (ogni comune ne ha sempre tanti: le scuole, l’edificio dell’amministrazione comunale, palestre, impianti sportivi, scuole e quant’altro da mantenere, per cui spendere bollette energetiche per riscaldamento ed energia elettrica salate). Questo ha garantito il mercato per alcuni anni a questo processo di riconversione e quindi è stato avviato. Purtroppo poi, come manager del nuovo processo hanno scelto, anche per avere dei capitali, dei rappresentanti di una società speculativa americana la quale, dopo aver fatto un po’ di finta per subentrare all’Electrolux ha deciso, come al solito, che quello stabilimento era meglio trasformarlo in supermercato. Però credo che il processo sia chiaro.
Un processo di natura privata ma importante è quello della Volkswagen: la Volkswagen, che oggi è il secondo gruppo automobilistico mondiale ed è avviato a diventare il primo nel giro di pochi anni, se non ci sarà un grande patatrac come io credo e mi auguro nell’industria automobilistica a livello mondiale, ha avuto durante la crisi del 2008-2009 anche lei dei momenti di crisi; avete sentito alla televisione che invece di licenziare ha ridotto l’orario di tutti quanti i lavoratori, concordemente con i sindacati e con il consiglio di sorveglianza, anche grazie a delle provvigioni statali, perché lì invece di fare la cassa integrazione integrano il salario degli operai, perché in momenti di crisi si riducono i salari. Ma per tenere in piedi le sue linee di impianto ha rimesso in funzione una invenzione che era stata fatta, messa a punto dalla FIAT 40 anni fa, si chiamava “totem”; era fatto con il motore di una macchina che circolava allora e che si chiamava 127 ed era un piccolo impianto mobile di microcogenerazione, cioè che generava contemporaneamente energia elettrica e recuperava tutto il calore delle nostre automobili: l’energia delle nostre automobili per l’80% si disperde in calore che contribuisce a inquinare l’atmosfera e non ha alcun rendimento dal punto di vista della mobilità. Il motore di una automobile utilizzato in questa maniera può invece permettere il recupero del potenziale energetico consumato fino al 98% totale. Cosa serve questo impianto? Serve in condomini, in grosse ville e abitazioni, supermercati, piccole aziende eccetera, ma è modulare e, quindi se ne possono mettere molti uno di fianco all’altro, per produrre elettricità, calore e anche raffrescamento, cioè l’aria condizionata, con un’efficienza energetica infinita; brucia combustibili fossili, quindi non è una transizione, però è molto efficiente e quindi li utilizza, diciamo, bene.
La Volkswagen due anni fa ha deciso di fare lei questo, la FIAT l’ha fatto, poi ne ha prodotto alcuni esemplari, poi ha venduto il progetto a una azienda che è fallita e non se ne è più parlato. Ogni tanto compare in televisione l’inventore di questa cosa, che ormai è un signore di 80 anni, che piange, che dice: “Io ho fatto una delle invenzioni più importanti, potenzialmente, eccetera”. La sua parlata è pinerolese, della Valle di Susa forse. La Volkswagen l’ha rifatto con il motore della Golf, un pochino più potente. La cosa importante non è che lo vende ai concessionari di automobili Volkswagenm dove uno va e gli viene chiesto: “Cosa vuole? Una Golf o un microcogeneratore?”: No. Ha fatto un accordo con una società di distribuzione di energia elettrica, come fosse A2A, perché questa proponesse a tutti i suoi utenti, alcune volte condomini, altre piccole aziende, supermercati, esercizi commerciali, eccetera, di installare questo impianto di cui lei si sarebbe fatta cura della manutenzione e dell’alimentazione, offrendo la possibilità agli utenti si risparmiare, alla Volkswagen di smerciare il suo prodotto e alla società anche di avere i suoi guadagni perché sul risparmio una parte lo incamera la società stessa.
È un altro modo, questa volta fatto a metà tra pubblico e privato, perché la società di distribuzione ovviamente, come la sua gemella A2A da noi, questo va detto, è privata, che però si basa sullo stesso principio, cioè non il libero mercato, la competizione, il ribasso, che poi si traduce nel peggioramento delle condizioni di vita e delle condizioni di fornitura, ma un accordo tra utilizzatori e produttori che garantisce una continuità alla produzione e dei vantaggi agli utilizzatori.
Mi avvio alla conclusione. Quali sono i settori che oggi sono centrali per promuovere una riconversione produttiva sul modello dei GAS, o se vogliamo degli accordi diretti fra produzione e utilizzatori? Che non elimina il mercato, ma lo regolano dal basso e non dall’alto, non perché si fanno delle leggi, ma perché si fanno degli accordi coinvolgendo direttamente i suoi protagonisti.
Sono il settore energetico, il settore agroalimentare come vi ho detto, il settore della gestione del territorio, sia dal punto di vista del territorio edificato con l’arresto del consumo di suolo e il recupero di quanto non è utilizzato adeguatamente, sia del territorio non ancora, e speriamo mai, edificato perché l’assetto idrogeologico di questo territorio va tenuto particolarmente d’acconto. Insomma, un territorio nell’ambito della cultura ovviamente che non riguarda solo l’insegnamento ma riguarda tutti quanti.
Dico soltanto alcune cose sul settore energetico perché questo stesso problema si ritrova in tutti gli altri settori. L’economia fondata sui combustibili fossili è basata su grandi impianti: campi petroliferi, campi metaniferi, oleodotti, gasdotti, flotte petroliere, flotte carboniere, miniere di carbone a cielo aperto, adesso c’è anche il tracking, cioè impianti che scassano il sottosuolo fino a centinaia, migliaia di metri di profondità distruggendo tutta la falda acquifera e provocando anche dei terremoti pericolosi, per recuperare il gas recuperabile (ed è il motivo per il quale negli ultimi tempi il prezzo del gas si è abbassato). Poi, centrali di generazione elettrica gigantesche, non parliamo del nucleare che non è un combustibile fossile, raffinerie gigantesche, grandi reti di elettrodotti per trasmettere l’energia elettrica e grandi reti di distribuzione del carburante per alimentare le nostre automobili.
L’economia fondata sulle fonti rinnovabili e sul risparmio e sulla efficienza energetica ha una logica completamente differente: piccoli impianti, distribuiti sul territorio, interconnessi fra loro, differenziati perché non esiste soltanto il solare fotovoltaico, esiste anche il solare termico, il solare termodinamico, esiste l’eolico grande e il minieolico, esiste l’idrico grande che va evitato, cioè le grandi dighe che devastano il territorio, ma il piccolo, piccole cadute d’acqua: sono una miriade, compresa quella del nostro rubinetto, cioè ci sono ormai delle tecnologie che permettono agli scarichi dei nostri bagni e rubinetti di recuperare dei volani che generano energia elettrica. Ma è una piccolezza, direte voi, certamente una piccolezza, ma se li moltiplichiamo per quanti sono gli scarichi questo genera energia elettrica sufficiente ad alimentare praticamente tutto il fabbisogno di una abitazione, a parte che non si spende di più andando avanti per questa strada. Esiste il geotermico, esiste – dove c’è – lo sfruttamento delle maree e del moto ondoso. Quindi, ogni territorio ha delle risorse energetiche differenti, dei fabbisogni differenti e anche dei carichi differenti, dei fabbisogni di energia differenziati.
La logica dei grandi impianti esiste anche nel campo delle energie rinnovabili: le vallate coperte da pannelli solari che molti di voi avranno visto in Italia sono un esempio classico di uso distorto delle energie rinnovabili, tanto è vero che ci sono dei costi che ricadono sulla collettività attraverso gli incentivi che non hanno nessun vantaggio perché non cambiano il paradigma organizzativo.
Le centrali a biomasse che si stanno moltiplicando in Italia e che vengono alimentate con olio di palma importato dal Madagascar o dalle Filippine con dei consumi energetici di petrolio questa volta per trasportarli fino a qua, sono un altro esempio di mercato assolutamente distorto che funziona grazie al fatto che ci sono degli incentivi mal attribuiti, attribuiti a delle presunte fonti di tecnologie verdi che non lo sono,
Ma la logica è questa: tetto per tetto, casa per casa, campo per campo, distribuire la generazione elettrica in maniera da coprire i fabbisogni, in maniera interconnessa per coprire i fabbisogni di tutti, cosa possibile se affiancata da dispositivi di efficienza energetica che oggi sono tecnologicamente tutti disponibili: l’illuminazione che sostituisca le lampadine a incandescenza con i led piuttosto che con quelle ad alta efficienza e così via, motori che consumano di meno, meno automobili e piuttosto trasporto pubblico. Per adottare questo nuovo paradigma è indispensabile la partecipazione delle comunità che ne sono investite: non sono progetti che si possono fare centralmente dall’alto, né un governo centrale, né un governo regionale e, a volte, in una metropoli come Milano, neanche direttamente una amministrazione. Bisogna coinvolgere gli abitanti, i lavoratori, gli imprenditori, le imprese, i gestori di enti pubblici o privati che vivono su quel territorio perché sono gli unici a sapere, o poter sapere, quali sono le risorse che si possono utilizzare lì e soprattutto quali sono i fabbisogni che è indispensabile coprire e quelli invece superflui che si possono ridurre.
Lo sappiamo noi oggi? No, perché ciascuno di noi da solo non ha le competenze e forse non ha mai fatto attenzione a questo problema. Ma se invece si creano degli spazi pubblici dove i cittadini, e gli imprenditori ovviamente, e i gestori di enti pubblici eccetera, si possono confrontare per discutere di queste cose, ecco che un punto di convergenza può saltar fuori. Naturalmente, tutti magari tirano l’acqua dalla propria parte aumentando i propri fabbisogni e riducendo la propria disponibilità a mettere a disposizione il proprio tetto, la propria casa, il proprio giardino per realizzare un processo di questo genere, ma il confronto con le esigenze e le disponibilità di altri alla fine un punto di convergenza potrà essere raggiunto.
Senza di questo, il cambio di paradigma, cioè il passaggio dai combustibili fossili a un sistema energetico che soddisfi le esigenze di tutti e garantisca a tutti la possibilità di una vita decente senza più sfruttare i combustibili fossili non è più possibile. Lo stesso vale, ne abbiamo già parlato per l’agricoltura, per la gestione del territorio, le frane e poi l’urbanistica, ecc., per la cultura: non ci possono essere più programmi scolastici elaborati dalla signora Gelmini. No, i programmi scolastici vanno costruiti dal basso a partire dalle esigenze delle persone. Oggi noi per esempio nelle scuole siamo pieni di ragazzi emigrati che hanno bisogno di attenzioni completamente differenti, ma poi anche di altre differenze fondamentali, non possiamo mettere i ragazzi di 14 anni in prima elementare, come si sta facendo, perché non sanno l’italiano, e non possiamo neanche metterli in prima liceo perché hanno 14 anni. Dobbiamo costruire dei programmi che garantiscano l’incontro, la socialità fra culture e condizioni diverse e un’attenzione specifica alle esigenze culturali, utilizzando le nuove tecnologie, i saperi che queste nuove tecnologie trasmettono e così via.
Chiudo. Questo spiega perché le politiche di tipo keynesiano che vengono spesso riproposte da chi non è d’accordo con il paradigma liberista, cioè lasciamo fare tutto al mercato perché il mercato raggiunge la soluzione ottimale e prima o dopo sistema tutto, a questo non crede più nessuno anche se la dottrina ufficiale del nostro governo, del governo europeo, di tutta la cultura accademica economica, eccetera, c’è una ristretta enclave di economisti che si oppone a questo e dice no, bisogna rilanciare la spesa pubblica per sostenere la domanda e per creare occupazione, per rilanciare l’economia. Ma lo schema keynesiano era proprio fondato su queste cose, cioè rilanciare la domanda, per esempio attraverso la rottamazione delle automobili, per rimettere in moto l’industria automobilistica, può sostenere l’offerta per esempio attraverso le grandi opere, cosa che il nostro ministro Passera sta riproponendo, che massacrano il territorio e che dal punto di vista occupazionale e del reddito non hanno nessuna efficacia, soltanto devastazione del territorio.
Perché dal centro, dal governo, non si possono governare questi processi. Se noi vogliamo la riconversione ecologica il processo deve nascere da processi partecipativi. E questo spiega perché, a mio avviso, e questo è il perno della risposta che io vi dovevo fare oggi, una trasformazione della democrazia, che senza rinunciare alla rappresentanza parlamentare, del Parlamento, dei consigli regionali e comunali (provinciali no perché non ci saranno più), cioè delle istituzioni, affianchi a questo meccanismo di rappresentanza, un meccanismo di partecipazione diretta della popolazione, perché solo questa ha le competenze e i saperi necessari a indirizzare, orientare e promuovere i processi di riconversione produttiva.
Cittadinanza e partecipazione, democrazia partecipativa vuol dire non tutti, tutti vuol dire democrazia rappresentativa, tutti hanno diritto di voto; nella democrazia partecipativa partecipano quelli della cittadinanza attiva, quelli che hanno voglia di occuparsi di questo problema, non sono tutti e non saranno mai tutti, saranno anche diversi perché alcuni sono più interessati al problema energetico, altri al problema scolastico e culturale, altri al problema agricoltura o alimentazione, eccetera. L’importante è che questi processi si inneschino e viaggino in qualche maniera collegati.
L’ultima cosa che volevo dire a chi di voi è lettore di Repubblica: volevo richiamare la vostra attenzione sul fatto che Repubblica è uno dei giornali, anzi il bollettino ufficiale del governo Monti, quindi delle teorie liberiste, del fatto che bisogna rilanciare la crescita, eccetera. Bene, in questo giornale ieri c’era un articolo del premio Nobel Stiglitz che diceva: “ Avanti di questo passo, con le politiche di Monti e Draghi non solo l’Italia, ma l’Europa va a catafascio e il catafascio dell’Europa trascinerà con sé tutto il mondo”. Siamo alla vigilia non di una crisi come quella del ’29, perché lì ci siamo già arrivati, ma di una cosa molto più grave: queste politiche sono pazzesche. Voltate pagina e c’è un articolo di Federico Rampini sulla crisi ambientale che dice: “Se non si sovverte immediatamente e in maniera rapida il sistema energetico mondiale, non solo dal punto di vista della generazione, cioè della produzione di energia dalle fonti rinnovabili, ma anche dei consumi, e quindi del modo in cui questa energia viene utilizzata, succede un disastro di carattere mondiale”. Accanto, ci trovate i soliti trafiletti che dicono che bisogna pensare alla crescita, bisogna tagliare gli stipendi, bisogna tagliare il welfare, tra l’altro, addirittura, hanno introdotto il ticket medico per i disoccupati. Siamo in presenza della schizofrenia, cioè io rivendico il fatto che la mia utopia (e adesso rispondo alla domanda) è concreta, sto cercando di individuare un percorso, un sentiero fondato sul buon senso. Questi signori che sono main stream, che espongono le teorie ufficiali, sono ormai schizofrenici, riescono a tenere insieme nelle pagine dello stesso giornale… Perché uno può dire: “Adesso vi presento anche la posizione avversaria”, ma non lo fanno mai; per esempio sulla TAV, mai visto un giornale ufficiale che presentasse le posizioni dei cosiddetti NO TAV. Continuano a spiegare che quella è necessaria, che non si può farne a meno; ma uno potrebbe dire: “Vi presento la mia posizione e la posizione dell’avversario” criticandola, prendendo le distanze. No, ormai c’è questo paniere dove tutto vale alla stessa maniera e si dicono cose opposte. Ma alcune di queste cose che si dicono, guardate che stiamo andando incontro e in tempi rapidi a un disastro che mai l’umanità ha visto di questa dimensione.
Quindi, io rivendico il fatto che queste utopie che vi ho presentato, e che per fortuna sono condivise da un numero sempre maggiore di persone in varie nazioni, sono la ricerca di una strada del buon senso.
Grazie.