Risulta abbastanza chiaro, anche semplicemente dai titoli delle sue opere, come Foucault si sia preoccupato di studiare le emergenze della differenza, di ciò che in quanto impensabile e irriducibile – la follia, la sessualità, la ricerca del piacere, il crimine – appartiene a quel silenzio del logos che deve esser messo a tacere, proprio producendo discorsi che lo marginalizzano e spazi che lo rinchiudono e sorvegliano. L’archeologia del sapere è in quest’ambito un metodo genealogico che ha lo scopo di risalire, a partire dai campi del sapere organizzati, che con i loro linguaggi e le loro istituzioni politiche, mediche, giudiziarie hanno stabilito la “verità” dei loro oggetti, a quei conflitti tra senso e non senso, a quelle fratture e discontinuità storiche che hanno prodotto come reazione proprio la stabilizzazione di quei saperi.
1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato
2. leggi la trascrizione della relazione di Salvatore Natoli
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premessa di Giovanni Bianchi (1’13”) – introduzione di Roberto Diodato (25’48”) – relazione di Salvatore Natoli (1h7’05”) – prima serie di domande (24’54”) – risposte di Salvatore Natoli (23’18”) – ultima domanda (3’26”) – risposta di Salvatore Natoli (4’14”)
Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Salvatore Natoli
L’opera Le parole e le cose di Foucault si apre con la citazione di «una certa enciclopedia cinese», così come è riportata da Borges. Nell’enciclopedia vi è una ripartizione degli animali in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche.
Questo pensiero così lontano e diverso dal nostro risulta stranamente attraente, ma, nel momento in cui cerchiamo di capirlo, la familiarità di noi stessi con il nostro pensiero sembra vacillare e constatiamo – scrive Foucault – “l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo”.
Ma cosa non riusciamo a pensare e perché? la difficoltà, spiega Foucault – consiste nel pensare il tutto, cioè l’insieme capace di comprendere l’elenco seriale delle categorie di classificazione degli animali (e non una singola categoria dal contenuto vago ed indefinito, come ad esempio quella che fa riferimento alle sirene o agli animali favolosi).
La difficoltà per il nostro modo abituale di pensare non è tanto provocata dalla giustapposizione di questi elementi così diversi tra loro, ciò che conta è piuttosto l’assenza di uno spazio comune, di comunicazione, di connessione tra gli elementi; emerge la sottrazione della “tavola operatoria”, ossia di una sorta di superficie che possa raccogliere sul proprio piano enti differenti ed operarne un ordinamento. Questi ultimi appartengono dunque ad un non-luogo (La lettera h dell’elenco fa riferimento agli animali inclusi nella presente classificazione ed esplicita il paradosso: è impossibile definire un “rapporto stabile da contenuto a contenente” poiché “tutti gli animali suddivisi rientrano senza eccezione in una delle caselle della distribuzione”, eppure sono nuovamente raggruppati sotto la lettera h. In questo modo e a maggior ragione viene vanificata la ripartizione degli animali all’interno di uno spazio) capace di aprire uno spazio linguistico impensabile. E’ la terra delle eterotopie, luoghi inquietanti del linguaggio e del pensiero perché assediano quelle fondamenta del pensiero e del linguaggio a cui siamo assuefatti, lasciando emergere le discontinuità che lo “spezzano” e lo “aggrovigliano”. Le eterotopie, dice Foucault, “inaridiscono il discorso [e] bloccano le parole su se stesse”, “contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica” e infine “dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi.”
Ora questo orizzonte di difficoltà profonda indica per contrasto la forza dei sistemi che costruiscono identità, figure della soggettività individuale e sociale, prassi, abitudini, culture; sono i sistemi dell’ordine del discorso e del potere di cui si tratta di indagare la genesi. E’ questo lo scenario a partire dal quale Foucault abbozza il proprio progetto archeologico. L’oggetto di tale indagine è a un primo livello l’episteme, intesa come il campo all’interno del quale è stata tracciata la storia delle condizioni di possibilità delle varie conoscenze o “scienze”: biologiche, economiche, linguistiche, ecc. L’archeologia avrà perciò come obiettivo l’analisi di “ciò a partire da cui conoscenze e teorie sono state possibili” e dovrà quindi svolgere e ispezionare i diversi campi epistemici all’interno dei quali “è accaduta” la nostra cultura. Ma, a un altro livello, l’indagine archeologica ha come oggetto il soggetto, o più esattamente le pratiche di “soggettivazione” degli esseri umani, cioè le condizioni che li trasformano in “soggetti”, secondo l’ambiguità del termine.
Queste condizioni per Foucault sono l’insieme dei “giochi di verità”, cioè delle procedure e delle regole con cui si separa il vero dal falso; analizzare questi giochi significa mostrare come si costituisce l’esperienza in quanto problema culturale, conoscitivo, politico ecc.
Detto così in sintesi il motivo e l’intenzione, che cosa ha studiato Foucault? Di cosa si è occupato?
Foucault nasce nel 1926 e studia all’Ecole Normale Supérieure seguendo i corsi, tra gli altri, di Merleau-Ponty e di Althusser. Si laurea in Filosofia e in Psicologia, diventa assistente di Psicologia e lavora al laboratorio psichiatrico dell’ospedale di Sainte-Anne, e intanto studia autori come Nietzsche, Heidegger, Bataille, Lacan e lo psichiatra Ludwig Binswanger, il quale influenza i suoi primi scritti dedicati a Malattia mentale e personalità. Nella seconda metà degli anni cinquanta si trasferisce prima in Svezia e poi in Polonia come addetto culturale e termina la tesi di dottorato dedicata a Follia e sragione. Storia della follia nell’età classica. Rientra quindi in Francia e inizia la carriera universitaria che lo condurrà a occupare, nel 1970, la cattedra di Storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Intanto durante gli anni sessanta ha pubblicato due libri importanti dal punto di vista teorico e metodologico: Le parole e le cose, nel 1966, e L’archeologia del sapere, nel 1969. Negli anni settanta Foucault intensifica un impegno di militanza sociale, che si estende su vari fronti, dalla fondazione del “Gruppo di informazione sulle prigioni”, al sostegno degli immigrati arabi, alle proteste contro il regime franchista e i regimi dittatoriali dell’America Latina, all’appoggio ai dissidenti del regime sovietico; in seguito Foucault sarà anche un attento cronista della rivoluzione iraniana. Nel 1975 esce Sorvegliare e punire, seguito, l’anno dopo daLa volontà di sapere, prima parte di una Storia della sessualità progettata in sei volumi; ne compariranno solo altri due L’uso dei piaceri e La cura di sé, entrambi nel 1984, anno della morte di Foucault.
Risulta abbastanza chiaro, anche semplicemente dai titoli delle sue opere, come Foucault si sia preoccupato di studiare le emergenze della differenza, di ciò che in quanto impensabile e irriducibile – la follia, la sessualità, la ricerca del piacere, il crimine – appartiene a quel silenzio del logos che deve esser messo a tacere, proprio producendo discorsi che lo marginalizzano e spazi che lo rinchiudono e sorvegliano. L’archeologia del sapere è in quest’ambito un metodo genealogico che ha lo scopo di risalire, a partire dai campi del sapere organizzati, che con i loro linguaggi e le loro istituzioni politiche, mediche, giudiziarie hanno stabilito la “verità” dei loro oggetti, a quei conflitti tra senso e non senso, a quelle fratture e discontinuità storiche che hanno prodotto come reazione proprio la stabilizzazione di quei saperi. D’altro canto Foucault, soprattutto nell’ultima fase della sua riflessione, ha cercato anche di mostrare come dalla consapevolezza e dalla presa in carico della forza di tali differenze possa emergere quella “cura di sé” che potrebbe porsi come dimensione etica dell’uomo contemporaneo, cioè come orizzonte a partire dal quale costruire la relazione con gli altri.
Il libro di Salvatore Natoli di tutto questo appunto ci parla, della Verità in gioco nel processo genealogico, cioè dei giochi della verità che secondo Foucault caratterizzano la nascita dei nostri saperi, delle nostre pratiche, e che ci costituiscono come soggetti psicologici e sociali. Il libro è composto da una densa e utilissima Introduzione, pensata come viaggio non tanto nella specificità tecnica del metodo foucaultiano ma nella sua intenzione fondamentale, e da tre capitoli di diverso tema e anche di differente difficoltà, dedicati il primo alla genealogia della ragione moderna, grande tema teoretico di Foucault, il secondo al rapporto tra sapere e dominio, dove dominio si dice dei corpi e sui corpi, e il terzo al rapporto tra linguaggio e discorso, cioè alla questione della comunicazione e della comunicabilità, della costituzione delle prassi nel e attraverso il discorso; segue infine un’appendice che riprende a livello teoretico personale gli argomenti antropologici e semiotici in precedenza trattati. Dirò ora solo qualcosa in rapporto all’Introduzione e alla seconda parte del libro, per aprire un dialogo con l’autore e introdurre qualche questione, sottolineando però subito che Natoli è tra i pochissimi filosofi italiani ad aver pensato, elaborato e per certi aspetti, a me pare, continuato il progetto di Foucault, nella direzione della costruzione di un’ “etica del finito”.
La ricerca di Foucault, ci spiega Natoli, prende avvio dalla questione della soggettività: chi o che cosa è il soggetto?chi o che cosa è l’uomo? L’essere umano, il soggetto, è innanzitutto una rappresentazione, una figura descritta e “parlata” da molti saperi, dai saperi delle scienze, della psicologia, della sociologia, della medicina e così via. Ora tutti questi saperi, che costituiscono ciò che sappiamo dell’uomo e quindi ciò che per noi l’ “uomo” è, mutano, si intrecciano, si rincorrono, variano, ma nei lunghi periodi storici si istituzionalizzano, diventano composizioni unitarie di senso, e giungono a formare un’immagine coerente dell’uomo. In questo progressivo strutturarsi, scrive Natoli, “i saperi non sono eterogenei al potere ma, al contrario, l’esercizio del potere genera saperi e il sapere si struttura e si consolida in potere”. Studiare questi saperi significa allora studiare come il potere pensa l’uomo allo scopo di renderlo soggetto, allo scopo di ergersi come potere “sovrano”. Il rapporto, reversibile e incessante, tra sapere e potere è allora l’oggetto della ricerca, l’oggetto di una filosofia “politica” che mostra come il sapere sui corpi, i corpi degli individui e i corpi sociali, sia in realtà potere su di essi, controllo, dominio dei desideri e delle intelligenze. Poiché il potere come il sapere è plurale, e si distribuisce in una serie di reti di potere che esprimono diversamente, con diversi linguaggi nei differenti contesti, fondamentali meccanismi di interdizione, si tratta allora di dipanare queste reti attraverso quella che Foucault chiama una “microfisica del potere”, un’indagine “sull’insieme delle procedure che permettono a un certo sapere piuttosto che a un altro di impiantarsi e prevalere e di mutarsi in potere”. Lo scopo, filosofico, della ricerca, consiste in questo: “nel sapere in quale misura il lavoro del pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e di permettergli di pensare in modo diverso”. Dove pensare in modo diverso vuol dire pensare fuori e oltre i lacci del potere.
L’indagine è quindi genealogica e si muove sul piano della storia, ma non è un’indagine soltanto o semplicemente storica, perché, se è vero, per Foucault, che non esiste un soggetto trascendentale o a priori, che venga, per dir così, prima della storia, esiste un a priori storico che si determina come ordine del discorso, organizzazione strutturale e significativa che permette di cogliere il senso stesso degli eventi storici, che permette di descriverli, e quindi che ne permette l’esistenza sul piano delle nostre pratiche dotate di significato: “una pratica discorsiva, spiega Natoli, si produce come sistema di regole … Il discorso come tale si fa ordine ed è vincolante … gli oggetti si danno perché esistono i discorsi in cui si formulano: si intende i discorsi come pratiche”. Foucault vuole allora far emergere queste strutture di ordinamento;
perché per Foucault il potere è un atto istitutivo, “istituisce nel fatto l’oggetto e ne determina il significato”. Ma ciò in cui il potere si istituisce e ciò che fa essere oggetto del suo dominio è il corpo, sono i corpi, i nostri corpi: “Il potere si oggettiva – scrive Natoli – perché prende corpo nei corpi: sui corpi viventi sono incisi i segni del dominio”, segni che sono regole di comportamento, ma anche amministrazione del desiderio, costruzione del senso della vita della e della morte. Il corpo allora parla il potere, così che quando Foucault tratta di “corpi disciplinati” allude a “tutti quei sistemi regolativi attraverso cui si canalizza e si distribuisce l’energia dei corpi”; nella Storia della follia per esempio si tratta della pratica dell’internamento, che è operazione di potere sui corpi, e nella quale il potere si esprime. Scrive al proposito Natoli: “Il mondo dell’internamento è quanto mai composito; quanto mai eterogenea è la tipologia degli internati … In ogni caso il tratto comune, la funzione dominante che caratterizza il grande internamento coincide con l’esplicarsi di una logica di potere, con un esercizio immanente e generalizzato di dominio … La logica del potere si articola con le ragioni dell’etica, la morale si fa paradigma del comportamento e del costume, discrimine tra il razionale e l’irrazionale; la logica conviene all’etica, la ratio alla coercizione. L’imperativo dell’ordine fa tutt’uno con la sana ragione, e chi non comprende quest’ordine e non vi si adegua, o comunque vi si sottrae, appartiene al mondo del delitto e, infine della follia”.
Foucault quindi ci insegna, scrive Natoli, che “il potere mette in gioco i discorsi; i discorsi sviluppano azioni. Infine, prendono i corpi vivi … in essi si fa visibile il gioco stesso”. Restano due questioni: in che modo oggi, a un quarto di secolo dalla morte di Foucault, in un’epoca forse essenzialmente diversa da quella della tarda modernità, si declini il rapporto sapere-potere, e quali siano le attuali condizioni di possibilità di una biopolitica, cioè quale via costruttiva, oltre quella critico-analitica, oggi sia efficace, per riprendere possesso dei nostri corpi.
Trascrizione della relazione di Salvatore Natoli
Ringrazio Roberto per la sua presentazione che ha messo in evidenza in modo molto preciso e chiaro, per quanto la difficoltà del discorso consenta, i nuclei fondamentali del ragionamento foucaultiano e quindi delle riflessioni che io ho fatto a partire da Foucault in una direzione appunto che è quella dell’etica del finito su cui concluderò oggi.
Le parole eminenti, significative che sono emerse sono tre: soggetto, sapere e potere. Sapere e potere vuol dire anche discorso; soggetto vuol dire due cose: ciò che sta sotto e ciò che è sottoposto, l’essere soggetto e l’essere assoggettato; in ambedue i casi c’è la parola soggetto.
Ora per soggetto, soggettività, nel nostro dire comune intendiamo la coscienza. Chi sono i soggetti? I soggetti sono gli uomini, i soggetti, in questo caso, in quanto titolari di se stessi. E qui abbiamo il soggetto nel senso proprio di origine aristotelica che è ciò che sottostà alle mutazioni e permane. Parlando di noi stessi, la consapevolezza che noi abbiamo di noi stessi, appunto la coscienza, è quella che definisce la nostra identità e che permane nelle mutazioni della nostra vita: mutazioni biologiche, fisiologiche, relazionali, storiche. Ecco, si dice che noi ci sentiamo sempre noi stessi. Non è che da un momento all’altro diventiamo altro.
Eppure siamo tante altre cose insieme: siamo la memoria delle relazioni, le relazioni famigliari. Se poi ci si pensa, in quanto coscienza di noi stessi sembriamo puri, se poi ci analizziamo vediamo che siamo il risultato di incroci, di relazioni; basta fare uno scavo sulla memoria e si capisce sostanzialmente che noi siamo la nostra biografia e quindi siamo costruiti da un insieme di relazioni. Fili diversi si riannodano in un punto solo ed è la coscienza di noi stessi.
Allora la coscienza è ciò che sta rispetto alle variazioni. Anzi, non entro in questo dettaglio ma può essere un motivo di discussione, per molti versi la coscienza sembra essere fuori dal tempo. Noi non ricordiamo il sorgere della nostra coscienza, ricordiamo i contenuti che appaiono nella coscienza; ci ricordiamo bambini, però il soggetto che ricorda è presente a se stesso altrimenti non ricorderemmo. Ricordiamo i contenuti di una evoluzione ma la coscienza deve essere sempre presente a se stessa. Quando noi ci svegliamo al mattino, non è che nasce la coscienza, ci riconosciamo come permanenza, altrimenti ogni volta, ogni mattina saremmo diversi. C’è questo continuum di noi stessi.
E quindi la coscienza è stata pensata fondamentalmente come il soggetto, come ciò che permane nella variazione, ma se poi noi la raccontiamo questa coscienza vediamo che è un fluire di relazioni, di discorsi. Noi ci raccontiamo, quindi la nostra coscienza è la sua storia, il suo discorrere, il sistema simbolico dell’auto-rappresentazione.
Dall’altro lato, la parola soggetto dice assoggettato, è assoggettato, ma quello che io ho già detto dimostra che nel nostro essere soggetti siamo anche assoggettati. Come esempio fondamentale, ma in questo caso non in senso negativo, nel senso che dipendiamo da. Già Roberto l’ha mostrato: quando noi parliamo non inventiamo un linguaggio, entriamo in un discorso che è in corso. Se noi inventassimo un linguaggio nessuno ci capirebbe, ammesso che fossimo capaci di inventare un linguaggio senza conoscere un linguaggio.
Quindi già il nostro discorrere, il nostro entrare in discorso, il nostro apprendere parola, vuol dire appartenere già a un discorso. E quindi da questo punto di vista il nostro essere soggetti è proprio, nel momento stesso in cui siamo soggetti, un essere assoggettati. Quando noi parliamo del mondo, parliamo del mondo dentro a un insieme di rappresentazioni di mondo.
Un esempio molto semplice: un uomo dell’antichità classica vedendo l’acqua avrebbe pensato all’acqua come a una materia che purifica, che lava, oppure che genera le cose, che umidifica, avrebbe riconosciuto l’acqua perché avrebbe colto nell’acqua alcune dimensioni efficaci dell’essere acqua, cosa l’acqua fa accadere, l’acqua irrita, toglie l’umido e così tutta una serie di predicazioni dell’acqua, ma mai avrebbe pensato che l’acqua è H2O. Oggi la prima cosa che noi pensiamo quando pensiamo l’acqua, è H2O. Poi ci rinfresca, facciamo il bagno nel mare, ma abbiamo una nozione di acqua che è H2O.
Capite bene che l’oggetto non esiste senza discorso perché la materia è la stessa ma il modo in cui noi la costituiamo come oggetto è completamente diverso. Ma questo accade a noi oggi, non accadeva allora. Ecco cosa sono gli ordini del discorso. Noi in quanto parlanti parliamo una lingua che non creiamo e la parliamo tanto meglio quanto più rispettiamo l’ordine del discorso in cui noi siamo collocati.
E quindi quanto il soggetto è davvero un’entità singola e autonoma, quanto la coscienza è davvero corpus sui, quanto invece la coscienza è davvero performata, strutturata dai discorsi che la costituiscono? La domanda è pregnante. Quanto noi siamo davvero noi stessi? Quindi il problema della soggettività si lega anche al problema della individualità. C’è un elemento fondamentale che ci permette di dire che noi siamo noi stessi e che fondamentalmente si lega al nostro essere corpi. Perché è vero che noi abbiamo la consapevolezza di noi, ma la consapevolezza di noi è la consapevolezza del nostro io corporeo, la rappresentazione di noi stessi. In quanto corpi, noi ci sentiamo soggetti distinti e singolari.
Però anche come corpi noi siamo corpi attivi e quello che ci attiva, come già per il linguaggio, è il sistema di regole entro cui noi ci costituiamo come soggetti singoli. Allora la coscienza è fatta di molte cose. La nostra individualità corporea in quanto corpo attivo è un corpo relazionale e quindi assoggettato al sistema di relazioni in cui opera.
Il discorso è sapere, ma questo sapere in quanto performa noi stessi è potere. Cosa viene prima, cosa viene dopo è già un tema fondamentale del discorso foucaultiano e della riflessione che facciamo noi. Viene prima il potere o il sapere? E anche in questo caso, esiste un detentore del potere e un detentore del sapere? Oppure potere e sapere sono dinamiche impersonali e strutturali, al che è difficile poter stabilire chi ha davvero potere.
Se un potere non è esercitato dentro un ordine di aspettative e di legittimità, ma se un potere è esercitato dentro un ordine di aspettative e di legittimità come si può dire che il potere è di qualcuno e non della struttura delle regole, delle aspettative e della legittimità per permettere di farlo agire e di farlo conoscere? Quindi dobbiamo pensare il potere sempre di più in termini di un potere impersonale. Il potere è una macchina riproduttiva, il potere è il gioco delle relazioni che non ha un titolare perché il potere è il sistema delle relazioni stesse, a secondo dei tempi e delle evoluzioni storiche, dei tagli. Perché il potere indubbiamente non è mai di qualcuno in senso singolare, ma nella storia ha avuto detentori maggiori o minori di potere a secondo di come erano articolate le relazioni sociali.
E qui entro nel merito con alcuni esempi. Gli esempi chiariranno in un modo abbastanza preciso quello che ho detto adesso nei suoi aspetti diciamo performativi generali.
Nel mondo antico e nelle società piccole e nelle culture del mondo classico, non uso classico nel senso di Foucault, ma questo lo specificherò, ma prendiamo la società greca. Parliamo di una società organizzata in una forma in cui alcuni individui o gruppi sociali avevano una egemonia, una forza sulla società perché l’organizzazione come tale della società permetteva loro di essere egemoni in essa e di selezionare se stessi come gruppo dirigente. Prendete alcune società greche, società guerriere, dove sostanzialmente il fatto di poter disporre di forza fisica, beni materiali, era ciò che dava la legittimità al comando.
Lascio da parte in questo momento la selezione storica del processo, come si è arrivati. Ecco questa è un’altra cosa molto importante: quando nella storia noi vogliamo cercare un puro inizio, non c’è mai un puro inizio, la storia è sempre un sistema di provenienze, c’è sempre un già prima, con un passaggio spesse volte di scarto per cui non sappiamo mai come una certa condizione si passa a un’altra, non abbiamo la chiarezza di questa transizione. Ci sono delle rotture nella storia in cui emergono delle forze.
Ecco, allora ci sono delle società dove degli individui per forza fisica, per meccanismo geografico, cioè ad esempio per ragioni di difesa, nella società giocavano un ruolo di potere che era riconosciuto. E quel potere poteva stare in piedi soltanto perché era riconosciuto. Cioè, c’erano degli uomini potenti, delle individualità riuscite, per usare un linguaggio del mondo antico, delle eccellenze personali a fronte delle quali c’erano degli uomini i quali avevano degli spazi operativi anonimi e impersonali; il grande capo, non era mai una persona vera, ma gruppi sociali – libertà vuol dire questo; c’è tutta un’analisi del concetto di libertà come semantica: gli uomini liberi erano quelli che appunto avevano la possibilità di organizzare la propria vita dettando regole loro, con un potere di legislazione di esempio sugli altri e a fronte di questo delle persone anonime, senza nome.
Un esempio scolastico: se voi leggete l’Iliade vi accorgete come era la società greca, i grandi capi e il numero di soldati combattenti, assolutamente impersonali, il singolo e il numero. C’è un esempio bellissimo nell’Iliade in cui Ulisse a Tersite, che tra l’altro è brutto e gobbo e mormora, si rivolge zittendolo e colpendolo con lo scettro. Quindi c’era una selezione sociale di uomini forti rispetto a cui c’erano dei deboli. In questo caso Tersite mormora, ha il potere di mormorazione e persino trova un nome nell’Iliade, ma la maggior parte degli uomini sono senza nome. Ecco, qui abbiamo un assoggettamento dove la figura centrale che permette e legittima questa superiorità è la figura del guerriero e della gloria rispetto agli uomini i quali non sono a questa altezza. Cioè il rischio di mettersi in gioco con la propria vita: questo è l’elemento di selezione sociale. Ecco perché nell’Iliade voi vedete fondamentalmente questo modello eroico.
Quando io dico questo, dico già una struttura discorsiva perché è il modo delle aspettative che regolano queste parti sociali che danno all’eroismo un riconoscimento e quindi al soggetto una soggezione in quanto si assoggetta a chi in quel momento gli sembra che in quella società realizzi il massimo di individualità, di umanità riuscita.
Nel tempo noi vedremo che queste situazioni varieranno perché ci sono mutazioni nella organizzazione sociale che cambiano le dinamiche di potere. Le dinamiche di potere cambiano perché ci sono assetti sociali che non sono voluti dai singoli ma appartengono alle strutture performative della società che cambiano i rapporti di forza e di equilibrio, di competenza e di sapere.
Porto un esempio del mondo antico e poi passo al mondo moderno per vedere come si struttura la dinamica sapere-potere.
Voi avete sentito parlare tanto di democrazia ateniese; non bisogna dimenticare sotto certi aspetti alcune (anche se poi Foucault sarà molto polemico) alcune ascendenze del discorso marxista dentro Foucault. Avete sentito parlare di democrazia ateniese. La democrazia nasce quando si realizza una grande prima inclusione sociale. Cioè persone prima escluse dal potere di decisione e di governo della città cominciano a poter decider e a governare, cioè quando si passa da una società militare e aristocratica, centrata fondamentalmente sulla difesa e sulla guerra, a una società che continua a fare la guerra e la difesa ma in un modo completamente diverso.
Un esempio è la battaglia (riportate alla vostra mente la storia studiata al liceo), la battaglia di Salamina in cui i greci ricacciano indietro i persiani e lì nasce l’Europa. In quella battaglia voi sapete che la flotta dei persiani fu schiacciata dalle navi più agili dei greci e le navi sono state fatte da artigiani che si chiamavano i “teti”. Quando la guerra finisce questi che hanno costruito le navi dicono: noi abbiamo vinto la guerra e non più quelli armati di cavallo. Cioè, come si riforma il potere? Nel senso che si struttura un evento in cui questi diventano protagonisti in quanto artigiani, in quanto produttori, cioè si stabilizza una fascia sociale che essendo stata determinante rivendica potere.
Quindi il rapporto tra le individualità cambia perché cambia il riconoscimento in base alle prestazioni e quindi si assesta dove sta il potere; non è nei singoli, ma è sempre nel sistema delle relazioni. Quindi cade su persone, ma sta in piedi perché ci sono riconoscimenti reciproci, cioè c’è una rappresentazione, un ordine del discorso che ne definisce di volta in volta la legittimità. E quindi i detentori del potere fondamentalmente sono parti in causa di un sistema rappresentativo e discorsivo. Senza il sistema rappresentativo e discorsivo il potere fallisce.
Vorrei fare un discorso sul nostro mondo di oggi, eventualmente ne parliamo, ma lo dico con una battuta che può essere un tema di discussione. La strutturazione ottocentesca del potere ha avuto una sua forma rappresentativa: i parlamenti. La selezione del potere nel corso dell’800 proprio per lo stesso motivo di cui ho portato l’esempio dei “teti” sono state delle mutazioni sociali, dove fondamentalmente la rappresentazione del potere, la forma della legittimità, sono i parlamenti.
Oggi noi ci troviamo in una situazione in cui i parlamenti sono sempre di più una finzione di legittimità ma sempre meno un luogo di potere. Oggi il potere non lo danno le elezioni, lo danno i sondaggi, quelli sono i luoghi reali del potere. A proposito di comunicazione, quando Obama ha vinto, ha vinto la rete informatica, ha vinto Internet non Obama, perché noi siamo nella società dove il potere passa fondamentalmente per il sistema della comunicazione orizzontale, che sono i luoghi reali della formazione della rappresentanza.
Ma torniamo a Foucault per vedere come, per farvi capire come il potere ha interpreti, ma sta in piedi perché c’è un discorso o una forma di rappresentazione che la società ha di se stessa e assegna le parti. Ecco perché Foucault dice che bisogna tagliare la testa del re, per vedere qual è la macchina che è il potere, sempre più una macchina, sempre meno una persona, sempre di più una macchina e sempre di meno una persona.
Perché a differenza del mondo antico di cui vi ho parlato dove c’erano gruppi egemoni, grandi individualità e soggetti senza nome, la modernità ha prodotto una grande trasformazione, una trasformazione profonda nella struttura del potere: cioè dai pochi che dominavano rispetto ai molti senza nome, la società moderna ha dato un nome a tutti. Perché? Perché la società moderna ha valorizzato i corpi e li ha specializzati dando agli individui in quanto corpi singoli un potere che mai avevano avuto. Ma questo potere, i singoli, lo hanno guadagnato per le prestazioni a cui sono stati sottoposti.
Foucault porta un esempio, poi altri nella discussione ve ne porterò, perché ci sono i grandi passaggi storici.
Gli eserciti medioevali erano caratterizzati fondamentalmente da capi feudali e da gruppi arrangiati di combattenti (questo lo vedete anche nelle armature) dove l’elemento della guerra era vissuto nella forma, dice Foucault, nella massa; cioè gli eserciti erano importanti come masse di uomini che si scontravano e spesse volte erano proprio delle zuffe, le battaglie erano delle vere e proprie zuffe di grosse masse di uomini con dei capi che li guidavano; anche qui il capo emerge. Il numero, lo scontro, la zuffa. Sapete bene che spesse volte, se si legge la storia, a parte gli eserciti romani, ma, per esempio, non si combatteva la notte, c’erano lunghe tregue, Cioè il modello era: il capo-popolo e la zuffa dove i soggetti vincevano in quanto facevano massa e volume con tecniche di combattimento molto, molto, molto semplici.
Gli eserciti moderni cominciano a strutturare corpi specializzati, corpi. Vi consiglio di vedere un film bello per molti versi, ma che è indicativo di questa mutazione, che è il Mestiere delle armi di Olmi. Dove cambia la guerra. Allora, attivazione dei corpi, cioè non più il corpo generico, ma il corpo funzionale; il corpo funzionale è quello che deve usare l’arma, la balestra e poi l’arma da fuoco, dove ci deve essere una funzionalità, dove si combina minimo sforzo massimo risultato.
E quindi quelli che si facevano il servizio militare, il passaggio da una parte all’altra, la struttura, la mobilità. Questo che cosa voleva dire? Voleva dire conoscere l’anatomia, che cosa può fare un braccio, qual è il movimento più veloce. Sapere è potere. Il potere sul corpo diventa tanto più potere quanto più si sa del corpo e quindi la logica del potere è sempre meno una logica di imposizione e sempre di più una logica di prestazione. E questo è importante per pensare alla nostra democrazia.
La nostra democrazia ha aumentato le prestazioni dandoci l’idea che l’assoggettamento si è ridotto, oppure ha liberato dall’assoggettamento? Può anche darsi che in questo far fare, il potere sia diventato ancor più potente perché ti da l’idea che puoi fare molto e quindi sparisce come potere proprio perché attiva, si nasconde come potere; e siccome attiva attraverso il sapere si presenta nella forma della obbiettività, dell’oggettività della scienza. Capite bene come il potere diventa sempre di più una macchina impersonale.
L’esercito vuole raggiungere una maggiore efficacia, e mette in moto i corpi; allora qui l’elemento veramente importante è l’elemento corporeo perché questo lavoro di affinamento, di perfezionamento è un lavoro di presa sui corpi; ecco perché gli individui non sono anonimi, ma non sono anonimi non perché guadagnano una loro identità personale, ma perché guadagnano una loro identità prestazionale. Nessuno chiede a un altro: ma tu chi sei? E noi stessi non ci domandiamo: io chi sono? La domanda corretta è: cosa sai fare? E questa è la misura dell’inclusione e dello scarto. Ma chi sei? Non ce lo chiediamo neanche noi stessi chi siamo. Perché diventa irrilevante rispetto alla società sapere chi siamo, perché la società non vuole sapere chi siamo, vuole sapere cosa sappiamo fare dentro la macchina delle prestazioni generalizzate. Allora i soggetti sono stati inclusi come attori non perché hanno guadagnato un nome personale, ma perché hanno specializzato una funzione corporale e anche mentale.
Esempi concreti di questo voi ce li avete, oggi in modo particolare. Andate in un supermercato, travate una cassiera che ha un nome, non è il nome di una relazione intima. Roberto è un nome indice di una esecuzione, in caso di prestazione mancata quello è il nome; non denota una persona , denota un compito. E la cosa peggiore della falsa democrazia è che una volta le persone si denotavano fondamentalmente con il cognome perché il cognome era più specifico. Oggi col nome non è che è cresciuta l’intimità, è aumentata la genericità, perché il cognome è più personale del nome, il nome è più generico. Elena Giovanna è un nome generico, Natoli Diodato è un nome specifico. La generalizzazione del nome non è una crescita di intimità e di democrazia, ma è l’anonimato della funzione.
Il potere è questo: dove sta? Chi è il responsabile? È il direttore del negozio? Ma quello è insieme soggetto che decide, ma anche assoggettato al sistema delle regole. Ecco perché il potere nella società è diffuso ma inafferrabile. E questo pone problemi importantissimi per capire che cos’è democrazia.
Capite che in questo quadro la parola democrazia è una parola sempre più retorica. Per identificare il potere ci vuole ben altro: vedere come sta in piedi la macchina, qual è l’elemento pervasivo che tiene in piedi la macchina.
Ecco allora la dimensione del potere è stato un potere fondamentale col potere sui corpi perché l’investimento sui corpi ha massimizzato il potere. Tant’è vero che la formula foucaultiana del potere, ma per altri versi anche quella di un altro studioso la usa ed è Niklas Luhmann, persone fondamentalmente diverse ma ci sono dei richiami, parte da questa idea: qual è la caratteristica del potere? Si ha veramente potere quando si è nelle condizioni di far fare a un altro quel che si vuole. Per cui c’è una dimensione rozza di potere, e c’è stata in alcune società, in cui il potere coincideva con il non far fare. Cioè il potere di interdizione. A lungo tempo noi abbiamo pensato il potere come potere di interdizione, ma un potere che non fa fare è alla lunga impotente, cioè è un potere fallimentare perché impedisce e quindi si impoverisce. Il potere cresce se fa fare e quindi se regola se stesso attivando.
Allora far fare nel senso che struttura e produce, cioè il potere produttivo di se stesso. E allora è chiaro che è tanto più produttivo quanto più prende la forma, e per molti versi ce l’ha, impersonale del sapere. Allora qui il punto è (torniamo all’esempio militare): si è scoperta l’anatomia per ragioni di guerra, cioè per rendere più efficace la guerra si è studiata l’anatomia, oppure hai studiato in astratto l’anatomia e poi questo ti ha permesso di fare meglio la guerra? Cosa sta prima o dopo? È difficile stabilirlo.
Il problema è: il potere attiva i corpi e quindi è chiaro che conoscendo come i corpi sono fatti ha una dimensione oggettiva; ma se non ci fossero state ragioni organizzative sarebbe nata l’anatomia? Questo è importante per la storia delle scienze. Noi pensiamo le scienze sempre dal punto di vista della loro forma, raramente della loro genesi.
Anche oggi, perché la ricerca scientifica è orientata da una parte o dall’altra? C’è una ragione di puro sapere? Adesso dirò anche sì. Oppure perché ci sono altre ragioni che non riguardano quella scienza come tale, ma motivi collaterali di ristrutturazione della società? Per esempio, è da pensare che larga parte dello sviluppo scientifico del 900, e questo è un po’ terrificante ma è così, è stato connesso alla guerra. Tutte le grandi scoperte scientifiche in larga parte sono connesse alla guerra. Lasciamo stare la bomba atomica che è noto, a tutte le scienze della chimica, della medicina. Platone parlava della guerra come la tecnica per eccellenza perché le unisce tutte. Tanto che Foucault rovescia l’affermazione di Carl von Clausewitz, il quale diceva che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Foucault dice no, è il contrario, la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. Perché la società è in questa dinamica costante di conflitti dove gli individui ci sono, ma gli individui giocano dentro performance che sono più grandi di loro. Quindi la modernità ha attivato i soggetti e una delle modalità fondamentali attraverso i quali li ha attivati è il sapere su di essi.
E qui veniamo a quel passaggio in cui lui ha detto: cosa è l’uomo. Chi è l’uomo? Vi ricordate Diogene che cerca l’uomo. Oggi, se noi dovessimo definire l’uomo, non sapremmo dire chi è. Una volta era semplice perché il sistema discorsivo era semplice; l’uomo, si diceva, è l’unione di anima e corpo, l’anima è immortale, il corpo è mortale, l’anima è destinata a una vita eterna, il corpo perisce. Questa era l’antropologia, ma d’intuito, era un discorso. C’era la teologia cristiana. Chi definiva l’uomo? Lo definiva l’impianto teologico-filosofico. La risposta: l’uomo è un essere composto di anima e di corpo.
Era un discorso che definiva l’essere uomo. Con tutte le conseguenze pratiche perché poi c’era una condotta perché il sapere è il potere. Perché il meccanismo è questo: il potere diventa sapere, ma il sapere una volta istituito diventa potere. Infatti c’era tutta l’organizzazione della vita, quello che si doveva fare, quello che non si doveva fare, la cura dell’anima e così via, la penitenza del corpo. Cioè tutta una serie di comportamenti e di condotte che mettevano in circolo potere e sapere. L’uomo è questa cosa qui e quindi si deve comportare in questo modo. Probabilmente, c’era stato un potere prima che aveva elaborato quella teologia.
E oggi? Oggi il sistema dei saperi si è allargato. Quindi, nell’archeologia. Anche qui alcuni passaggi. Cioè l’investimento sui corpi ha specializzato i corpi ma ha differenziato i saperi. Un esempio: prima di Adam Smith, e Adam Smith stesso, il sistema della ricchezza era pensato dentro i termini della morale. Non dare denaro a usura, per esempio. Darlo, prima ancora di essere una colpa di tipo giuridico come lo è anche oggi, una colpa etica. Quindi, il sistema dello scambio di denaro era regolato da precetti morali. Ma intanto si faceva lo scambio di denaro. Allora fina a un certo punto il codice morale è stato coerente con lo scambio del denaro. Ma lo scambio crescente del denaro a un certo momento non è stato più interpretabile dentro il codice della morale. Ci doveva essere un altro codice: la logica razionale dello scambio delle ricchezze. Dalla morale si differenzia e si sgancia un altro sapere che si chiama economia.
Allora, mentre prima le regole dello scambio erano pensate in termini di morale, l’implementazione dello scambio esige un’interpretazione dello stesso secondo un altro codice. E qui, dice Foucault, saltano le dimensioni della discontinuità. Ci sono tempi vuoti nella storia. Cioè a un certo punto la morale non spiega più lo scambio, ma non c’è ancora l’economia. Ecco, lui dice, ci sono nella storia iati che si aprono, voragini in cui noi non sappiamo come insorge il nuovo. E allora esistono dei momenti in cui l’agire umano e il senso stesso che l’uomo da a se stesso si perde e quello è il luogo dive nasce la domanda sulla verità. Perché quando sei dentro una logica non nasce la domanda sulla verità perché sei coerente al discorso, ma quando il discorso fallisce e ancora l’altro non è nato ti viene il problema: ma dove sta la verità?
Questa cade nella follia, la follia non è la ragione ma la ragione è definita da regole: è una cosa che eventualmente vi dirò a seguito delle vostre domande. Quindi, nella storia esistono dei punti di crisi che sollevano problemi di verità e sollevano anche il “come se” della storia: quello che è nato poteva anche non nascere. E quindi noi assumiamo come logico, necessario ed evolutivo quello che è nato, ma una concezione evolutiva e progressista della storia è fallace perché se la storia passa per punti di iato da lì poteva nascere altro. E quindi noi viviamo come verità sostanzialmente perché ci muoviamo dentro un discorso. Nei punti di crisi solleviamo un problema di verità che non sappiamo risolvere.
E allora, per tornare all’uomo. Differenziazione: abbiamo visto come l’economia si è differenziata dalla regola morale al sistema razionale di scambio delle ricchezze. Come la fisica si sia sganciata dalla cosmologia perché la fisica era un capitolo della cosmologia pensata fondamentalmente in termini teologico-geometrici, poi viene la sperimentazione galileiana, cambia parametro, il sistema delle prove, la controversia di Galilei, sapete bene che tutti gli storici dicono che in fondo Bellarmino su Galilei aveva ragione, perché Galilei non provava davvero con i ragionamenti la sua tesi; era nel punto giusto ma non la provava, cioè non aveva il linguaggio adeguato, tant’è vero che riteneva che avesse ragione Copernico, ma Copernico non aveva ragione perché il movimento degli astri è ellittico, lo scopre Keplero. Galilei non sapeva che il movimento era ellittico, era nel punto giusto ma non riusciva ad argomentare, more matematico. E quello è un punto di iato dove si incastra un altro sapere che è la fisica.
Quindi, il sistema dei saperi si differenzia ma differenziandosi il sistema dei saperi per quello che ho detto finora si differenzia il sistema dei poteri, perché ogni sapere pretende una giurisdizione su ciò che sa. Come ti permetti tu, teologo, a parlare di fisica. Cosa sai? Ma se non sai non puoi. Quindi il sistema dei saperi si istituisce come sistema differenziato di poteri.
Del resto Foucault lo fa benissimo circa il potere giudiziario. Il potere giudiziario nella sua forma iniziale, quando davvero era un potere definito, aveva un compito preciso di accertare il responsabile del diritto e di punirlo per la colpa commessa. Nel diritto penale c’era l’accertamento della colpa e l’erogazione della pena. L’azione del giudice si fondava sulla oggettività dell’evento. Hai fatto questo, sei responsabile di questo, sei punito per questo.
Oggi non esiste più l’oggettività dell’evento perché anche se hai fatto questo si dice: ma davvero lo volevi fare? Ne avevi la chiara intenzione? Eri perfettamente responsabile? Eri consapevole? E allora a chi lo chiediamo? Lo chiediamo a un consulente. La magistratura perde potere, ha la titolarietà della decisione ma la messa in esecuzione non dipende più da lei, ma al criminologo, allo psicologo, al perito. Oggi se voi andate in un tribunale sono più i periti che i giudici.
Chi è quell’uomo? Ha unità, è soggetto o è quello che dice lo psicologo, quello che dice il giudice, quello che dice il professore? Chi siamo noi? Il sapere dell’uomo e l’uomo definito dai diversi saperi, ma se il sapere dell’uomo è definito dai diversi saperi, l’uomo chi è? Chi siamo noi? E per dircelo ricorriamo a un sapere. Se voglio sapere perché sono stressato vado dallo psicanalista cioè lo chiedo a lui. Per sapere chi siamo noi ci rivolgiamo ai competenti perché non abbiamo una competenza di noi stessi. Questa non è una critica perché Foucault non critica, è una diagnostica, è una diagnostica che produce tra l’altro molti vantaggi. Io quando mi vedo non è che mi vedo in negativo, ma pongo dilemmi.
Allora capite che il potere si diffonde nella società, nei corpi sociali. Allora il potere non ha più un detentore reale ma sempre di più un detentore formale. E bisogna smetterla di dire che esistono i poteri forti e i poteri deboli perché tutti nella società, tutti i gruppi sociali, sono pezzi di potere. Infatti, si governa sempre di più attraverso accordi tra questi gruppi di potere che non sono soggetti, ma sono i sistemi di potere-sapere.
E allora capite bene che in un meccanismo di questo genere il parlamento non decide più. Perché se tu devi fare una riforma sanitaria ti devi accordare con i medici perché altrimenti non funziona, però hai bisogno di un’assunzione di legittimità perché se tu non hai un’assunzione di legittimità parlamentare tutti si sentono in diritto di disubbidire; devi avere una finzione decisionale, ma quando poi fai l’articolato lo cambi. Questo è un elemento di democrazia nel senso vero. Cioè la democrazia non nasce dal fatto che ci sia una rappresentanza, la democrazia nasce dal fatto che nella società l’articolazione dei poteri produce costantemente dissidenza. Cioè non è l’elemento unificante della rappresentatività che da la democrazia, ma il fatto che nella società i diversi poteri non possono essere unificati e quindi non potendo essere unificati sono dissidenti l’uno dall’altro e permettono delle mobilità.
La democrazia nasce per differenziazione fra poteri e non per l’unità della rappresentanza. Allora la rappresentanza è sempre di più maschera, ed ecco perché Foucault parla di microfisica del potere.
Altre due cose anche per lasciare spazio alla discussione. Credo che l’impianto sia chiaro. I luoghi fondamentali, emergenti, della microfisica del potere oggi sono sempre di più i luoghi di produzione, organizzazione e manipolazione della vita. Perché prima queste cose non si potevano fare. Oggi noi ci troviamo dinanzi a situazioni dove la dimensione della produzione e manipolazione della vita è diventato un luogo di formazione di potere. Chi decide della nascita e della morte? Non sono più eventi naturali, hanno da tempo smesso di essere un’ovvietà. Non si muore più perché si muore, capita. Ma si muore perché si decide di morire in un certo modo piuttosto che in un altro. Si può prolungare illimitatamente la vita.
Chi lo decide? Un sapere, ma questo sapere in quanto decide è un potere, che complica la catena della decisione. Allora chi ha legittimità a? Noi diciamo oggi, su questo torno poi alla fine, la legittimità ce l’ha il soggetto. Il caso Eluana Englaro per esempio: la legittimità è del soggetto. Ma alcuni dicono il soggetto è vita ma non è padrone della vita,
Lo stesso discorso per la gravidanza assistita. Lo stesso discorso per la psicologizzazione della società, per esempio per la cura della devianza. Cos’è la tossicodipendenza? È un sapere, un sapere farmacologico che è un sapere sociologico (c’è la deriva della deviazione) che permette il costituirsi di gruppi competenti, per esempio delle associazioni. E queste associazioni rivendicano spazi, contrattano, sono pezzi di potere nella società, che si accordano con altri poteri. Quindi noi siamo in una dimensione di contrattazione e dissidenze perpetue che per me sono il vero luogo della democrazia. E bisogna potenziare questi luoghi della società.
Ma questo accade se si capisce che la rappresentanza è mascherante, non dico non necessaria, ma ci sono giochi. Su questo punto una considerazione che è quella dell’etica del finito, che è quella dell’ultimo Foucault.
Se i soggetti sono soggetti dentro i discorsi e i discorsi sono poteri, ma questi discorsi si sono differenziati e non sono unificabili, i soggetti singoli vorticano tra un sottosistema e l’altro. Noi come corpi individuali vortichiamo tra un sottosistema e l’altro. In quanto genitori facciamo parte del sistema scolastico, in quanto malati del sistema sanitario, in quanto esigiamo diritti del sistema giuridico, noi siamo sempre nel sistema in cui operiamo, ma noi come individui vortichiamo negli interspazi tra sistemi e non sappiamo chi siamo.
Per fare questo è necessario un ripiegamento su noi stessi, sulla nostra potenza; la nostra potenza fondamentalmente è il desiderio. Ecco perché Foucault finisce con la storia della sessualità. La storia della sessualità non è il sesso ma il luogo del desiderio, la nostra forza. E allora per non essere stritolati dai sistemi dobbiamo guadagnare forza noi stessi, quindi ripiegarci sulla nostra potenza, quantificare il desiderio e giudicare della modalità della soddisfazione.
Quindi. la realizzazione massima di noi stessi sta nella sottrazione, cioè nella capacità di sottrarci e non di consentire, perché dire sì indirettamente vuol dire assecondare, dire no non vuol dire escludere ma prendere quella giusta distanza per giudicare. Pensate ai consumi: è più importante dire no che dire sì, perché il consumo è quella macchina simbolica che ti travolge; hai bisogno della griffe del riconoscimento e se tu vivi nella griffe del riconoscimento e non hai la forza di avere quello standard di riconoscimento impazzisci, sei fuori sistema. Ma se tu sei competente del desiderio capisci che vali anche indipendentemente da quello. Ma allora devi ripiegarti su di te e diventare un punto di resistenza e di contestazione.
Problema: se è vero che noi operiamo dentro sistemi come possiamo in quanto singoli operare questo ripiegamento? L’etica del finito. Pino Trotta mi diceva: “La tua posizione è elitaria perché come fa il soggetto a svincolarsi, a ripiegarsi in una società dove vortica”. E la risposta che io dico, proprio perché vortica ha una vocazione alla stabilità; si tratta di proporgli le modalità.
Questa è la ragione per cui la filosofia è una scienza della vita per me, cioè il luogo della responsabilizzazione e della critica. Mai come oggi diventa vera l’idea già antica che la filosofia non è una professione ma tutti sono filosofi se sono capaci di auto-riflessioni, perché nella problematizzazione di sé si problematizza il mondo e quindi nella problematizzazione di sé si fa etica, ma si fa anche teoria.
Cioè ci si domanda se il sistema dei discorsi è verità o se la verità è qualcosa che noi costantemente approssimiamo attraverso il giudizio, cioè con uno stop and go del nostro comportamento. Quindi, il sì può essere un acconsentire, il no può essere un castrarsi, ma giocare nella distanza attraverso la competenza della nostra potenza vuol dire poter essere in qualche modo soggetti in una società tipo.
Se nel mondo antico c’erano poche individualità e uomini senza nome, se la modernità ha dato a tutti un nome ma ha distrutto l’irripetibilità della individualità, forse oggi si può riacquistare una individualità e quindi pretendere il nome in una società che te lo ha negato usufruendone dei vantaggi, ma problematizzandone la verità. Ecco perché la verità su di sé è la forma più alta di potere, perché dicendo la verità su di noi guadagniamo lo spazio possibile della libertà.
A questo punto possiamo di volta in volta assoggettarci senza perderci, prendere dalla differenziazione il bene senza perdere la nostra identità.