Il lavoro condotto con singolare passione storiografica e filologica da Miguel Gotor ha ricostruito l’esatto collocarsi temporale, nello spazio di quei drammatici 55 giorni, delle lettere spedite e di quelle non spedite dai carcerieri (e questa differenza non sarà secondaria) ed insieme nell’aver ricostruito non solo il quadro storico di quegli anni ma anche, per quanto possibile, la quotidianità reclusoria che accomunava il prigioniero ed i carcerieri. Le BR avevano in mano e l’avrebbero avuto fin quasi al termine del sequestro, i due elementi che maggiormente contavano nella trattativa, il corpo del prigioniero e le sue carte autografe, ed intendevano sfruttarle fino in fondo in nome di una loro precisa strategia di destabilizzazione che, nei termini in cui Gotor la descrive, appare riuscita almeno parzialmente.
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premessa di Giovanni Bianchi (18’25”) – introduzione di Lorenzo Gaiani (41’06”) – relazione di Miguel Gotor (1h12’51”) – domanda e risposta (19’15”) – seguito alla domanda (18’34”) – chiusura Gaiani/Bianchi (2’33”)
Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Miguel Gotor
“Se ci fosse luce” – Una riflessione sulle “Lettere dalla prigionia” di Aldo Moro
Alcuni anni fa Chiara Valentini scrisse che, nella seconda metà del XX secolo, tre erano stati gli omicidi politici che si poteva dire con certezza avessero cambiato il corso della storia: quello di John Fitzgerald Kennedy nel 1963, quello di Ytzhak Rabin nel 1995 e, in mezzo, quello di Aldo Moro nel 1978. La Valentini scriveva questo nell’introduzione alla sua biografia di Berlinguer, evidenziando come certe dinamiche involutive del sistema politico italiano, come pure dell’azione politica del leader comunista, fossero state determinate dal repentino venir meno del suo miglior interlocutore sulla sponda democristiana.
E’ sintomatico come la storiografia e la memorialistica abbiano in questi anni proliferato soprattutto dal versante del polo politico di opposizione, quello comunista, producendo testi pregevoli come quelli di Rossanda ed Ingrao, ed altri meno come quelli di Cossutta ed Occhetto, e soprattutto testi monumentali come quelli curati da storici di vaglia come Ragionieri e Spriano, mentre ai leader come Gramsci, Togliatti e lo stesso Berlinguer si sono misurati autori come Bocca, Fiori, Agosti e Pons. Molto meno è riscontrabile sulle vicende storiche della DC e dei suoi uomini, che pure hanno segnato il concreto svolgersi della storia del nostro Paese quanto e più del PCI, producendo al massimo una storiografia dai toni “ufficiosi” e reticenti ( i sette pesanti volumi della Storia della Democrazia Cristiana editati dalle defunte Edizioni Cinque Lune sono praticamente illeggibili e di nessun aiuto a chi voglia veramente farsi un’idea delle complesse dinamiche interne di quel partito) e pressochè nessuna concessione alla memorialistica personale, al punto che le migliori ricerche sulla storia democristiana vengono da autori come Pietro Scoppola che, pur muovendo dal versante cattolico, non aveva alcuna investitura ufficiale e comunque non aveva finalità politiche coincidenti con quelle della dirigenza democristiana.
Da cosa nasce questa curiosa asimmetria? Dalla tanto spesso deprecata sudditanza culturale dei cattolici democratici verso i marxisti? Oppure è la naturale reticenza di chi, avendo gestito a lungo il potere in quel reticolo di interessi contrapposti che è così ben descritto nel libro di cui ci occupiamo, non sa e nemmeno può arrivare a definire anche solo con parziale chiarezza lo svolgersi degli avvenimenti? Che cosa potrebbe essere, tanto per dire, un’autobiografia di Giulio Andreotti scritta e pubblicata lui vivente? Una raccolta di aneddoti, come i suoi ricordi su De Gasperi? Una sapiente gestione di pettegolezzi e di verità di maniera e di stilettate come i suoi libri sulle crisi di Governo vissute? In ogni caso, probabilmente, non un contributo alla comprensione degli avvenimenti.
Probabilmente nemmeno Aldo Moro avrebbe scritto le sue memorie: l’attitudine alla prudenza, la consapevolezza della complessità degli avvenimenti, l’aver gestito per anni dossier sensibili in ognuna delle importanti cariche di Partito e di Governo cui era assurto gli avrebbero inibito una concessione ad una dimensione cronachistica che in ogni caso, col suo vigile senso di ciò che è appropriato e di ciò che non lo è, avrebbe in ogni caso giudicato spettante agli storici professionali.
In effetti, Moro è stato probabilmente il più compiuto intellettuale che abbia vissuto ai vertici della vita politica italiana nel corso di quella che si suole chiamare Prima Repubblica, assai più, ad esempio, di Giovanni Spadolini, la cui opera storiografica pare essere caduta in irreversibile oblio, poiché in lui, giurista e filosofo del diritto, era presente in modo quasi drammatico la difficoltà e lo sforzo quotidiano, quasi maieutico, di passare dall’intuizione e dall’ampio disegno politico alla gestione quotidiana, sempre mediando, sempre cercando di allargare le basi del consenso nella consapevolezza della fragilità di un sistema democratico in cui una delle Costituzioni più avanzate del secondo dopoguerra rappresenta a tutt’oggi (lo abbiamo visto in questi giorni) un programma ancora da declinare più che un quadro di valori autenticamente condiviso. Di ciò Moro, padre costituente, antico sodale della componente dossettiana all’interno della DC, uomo di visione disincantata dei problemi e delle soluzioni possibili, ed insieme portatore di quelli che taluno ha chiamato “pensieri lunghi”, idee strategiche che si proiettavano oltre il contingente, era ben consapevole, e tale consapevolezza non lo abbandonò nemmeno nel momento in cui la sua situazione di vita si trovò a cambiare in modo tanto drammatico.
Il lavoro condotto con singolare passione storiografica e filologica da Miguel Gotor sta essenzialmente qui, nell’aver ricostruito cioè ad un tempo l’esatto collocarsi temporale, nello spazio di quei drammatici 55 giorni, delle lettere spedite e di quelle non spedite dai carcerieri (e questa differenza, come vedremo, non sarà secondaria) ed insieme nell’aver ricostruito non solo il quadro storico di quegli anni ma anche, per quanto possibile, la quotidianità reclusoria che accomunava il prigioniero ed i carcerieri.
Gotor fissa immediatamente alcuni punti: come Moro ebbe a precisare fin dall’inizio, nella lettera recapitata a Francesco Cossiga il 29 marzo egli si trovava “sotto il dominio pieno ed incontrollato” delle Brigate rosse, il che significa non solo che egli si trovava in uno stato di reclusione e di pressione psicologica fuori dal comune, ma anche che la sua percezione degli eventi era filtrata da quanto i suoi carcerieri gli permettevano di sapere, come pure erano loro a determinare quali lettere dovessero essere effettivamente recapitate ai vari destinatari e a orientare quale dovesse essere il modo in cui il prigioniero doveva redigere i suoi scritti. In questo senso, molte delle rappresentazioni cinematografiche e televisive della vicenda Moro sono fuorvianti, a partire dall’inizio, dalla citata lettera a Cossiga, nella quale Moro accennava sì ad una trattativa, ma raccomandava per ovvi motivi di prudenza che essa fosse mantenuta riservata, come riservata doveva rimanere la lettera stessa, che invece le BR si premurarono di far giungere ai giornali contemporaneamente che al Viminale. La scena del pur pregevole sceneggiato televisivo mandato in onda da Mediaset la primavera scorsa in cui Moro (nella sensibile interpretazione del suo conterraneo Michele Placido) rimprovera acerbamente Mario Moretti – che gli si presenta a viso scoperto – per l’atto irresponsabile compiuto (e il capo delle BR fa quasi atto di contrizione), è di pura fantasia. In realtà Moro non vide mai in volto alcuno dei suoi carcerieri, i quali peraltro gli fecero credere che la leggerezza di divulgare la lettera alla stampa fosse invece una scelta di Cossiga, cui l’avrebbe imputata in uno scritto successivo.
Le BR intendevano mantenere il pallino della situazione, poiché, come scrive Gotor, esse avevano in mano e l’avrebbero avuto fin quasi al termine del sequestro, i due elementi che maggiormente contavano nella trattativa, il corpo del prigioniero e le sue carte autografe, ed intendevano sfruttarle fino in fondo in nome di una loro precisa strategia di destabilizzazione che, nei termini in cui Gotor la descrive, appare riuscita almeno parzialmente.
Il secondo punto da tenere sempre a mente è che il corpus delle lettere di Moro ci è giunto in realtà solo a tratti e a lunghi intervalli: i testi autografi recapitati durante la prigionia (e quindi con Moro ancora vivente) costituiscono una minoranza, rispetto ai testi dattiloscritti rinvenuti nell’ottobre 1978 dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano e a quelli reperiti dodici anni dopo, nell’ottobre 1990, nello stesso luogo, occultati dietro ad un tramezzo artificiale, che sono le fotocopie dei testi originali del presidente democristiano. Naturalmente ognuno di questi elementi deve essere analizzato con attenzione, ed è qui a mio giudizio che Gotor, nel lungo saggio che segue i testi delle lettere, va al cuore della questione evidenziando come la gestione delle lettere compiuta dalle BR avesse una finalità specifica, ovvero quella di disegnare una immagine caricaturale di Moro come un potente decaduto, che di fronte alla possibilità imminente della morte pensa solo a tutelare se stesso e si raccomanda con toni piagnucolosi ai suoi vecchi amici perchè non lo abbandonino. E’ drammatico notare come questa operazione sia passata, al punto che le operazioni di “disconoscimento” delle lettere di Moro poste in essere da alcuni suoi amici, e che tanto indignarono il prigioniero, sembrano essere più che altro (almeno da parte di chi era in buona fede) un modo per “salvare” la figura di Moro rispetto appunto alle possibili accuse di cedimento e di viltà. In quei giorni, ad esempio, durante una seduta della Direzione del PCI Armando Cossutta diede voce al disagio di chi avrebbe voluto in Moro un comportamento “più adeguato”, “da statista”, ed ebbe buon gioco Edoardo Perna a ricordargli come anche nella storia del movimento comunista vi fosse stato più di un caso di persone che adeguate pressioni, per usare un eufemismo, avevano spinto ad ammissioni infamanti.
In effetti, e lo nota Gotor a chiusura del suo lungo ed illuminante saggio, la vittoria conseguita dalle BR, e non solo in quei giorni ma si potrebbe dire fino ad oggi, è stata proprio in questo slittamento di senso per cui una banda terroristica che pianifica e realizza freddamente una strage come quella di via Fani, un traumatico sequestro ed infine l’omicidio di un’alta personalità politica in un Paese democratico riesce a rovesciare la colpa della morte dell’ostaggio sui più stretti amici dell’ostaggio stesso e persino sul suo amico più autorevole, quello che allora reggeva il governo della Chiesa cattolica, il Papa Paolo VI. Nello stesso tempo, e alcuni brani delle cosiddette memorie di Moretti sono lì a dimostrarlo, le BR, o almeno alcuni loro settori hanno anche tentato, con qualche successo, di distruggere la figura morale del prigioniero nei termini cui si accennava sopra, e non sono mancati né durante i 55 giorni né dopo osservatori più o meno disinteressati – penso a Indro Montanelli o a Italo Pietra – che hanno manifestato un malcelato disprezzo nei confronti di quest’uomo che pensava alla sua famiglia piuttosto che al bene superiore dello Stato.
Su questo punto Gotor chiarisce alcuni aspetti: in primo luogo, pur stressato e sottoposto al “pieno ed incontrollato dominio” di cui si diceva Moro era nel pieno delle sue facoltà mentali, e cercava di fare politica, come aveva fatto per tutta la sua vita, nelle -terribili – condizioni date. Secondariamente, le lettere vanno inserite nel quadro delle percezioni del prigioniero, il quale sapeva ciò che gli si voleva far sapere, non vedeva la televisione e leggeva solo i ritagli dei giornali che i suoi carcerieri gli passavano. Da alcuni brani delle sue lettere, specie quelle mai inoltrate ai destinatari, traspare il timore che si potesse procedere ad ulteriori atti di violenza contro la sua famiglia, in particolare contro il nipotino Luca, perché così gli si era fatto credere; da queste lettere, peraltro, emerge anche la pietas nei confronti degli uomini della sua scorta, censurata anche quella e la cui assenza gli venne messa a carico da chi vedeva o preferiva far finta di vedere soltanto ciò che si vedeva sul palcoscenico ufficiale. Peraltro, e Gotor lo dimostra, dalle lettere emergevano anche ammiccamenti, indicazioni, messaggi talvolta molto labili con cui Moro faceva comprendere la sua volontà di non piegarsi interamente al gioco brigatista, di contrattare le parole e le frasi e di far passare in qualche misura le sue note capacità di mediazione e di dialettica pur in un contesto sempre più drammatico. In terzo luogo la trattativa vi fu, e arrivò anche a sviluppi promettenti per la salvezza del prigioniero, ma come è ovvio si sviluppò solo sul piano ufficioso, giacché le provocatorie richieste di scambio con dirigenti brigatisti già condannati a gravi pene detentive o addirittura appena arrestati per omicidi commessi durante i 55 giorni, erano in tutta evidenza solo un paravento a cui da parte delle forze di governo non poteva che essere opposto un rifiuto.
Ma perché la trattativa vera, quella a cui tutti, PCI compreso, avevano dato un tacito assenso, avesse ad obiettivo una grande somma di denaro quale quella che si stava raccogliendo sotto gli auspici della Santa Sede o la liberazione (o il mancato arresto) di qualche figura marginale del movimento brigatista, non giunse all’esito auspicato? Non esiste una spiegazione lineare, ma è possibile che ad un certo punto, come scrive Gotor, il dominio delle BR e sul corpo del prigioniero e sui suoi scritti si sia interrotto, nel senso che molti se non tutti gli originali dei manoscritti di Moro (le lettere ed il cosiddetto “Memoriale” ) siano stati carpiti ai terroristi prima che il sequestro si chiudesse, come dimostrerebbe la strana modalità della scoperta del covo di via Gradoli. A quel punto le BR si sarebbero trovate in qualche modo impantanate nel dilemma circa la sorte ultima del prigioniero, che Gotor riassume nella contrapposizione fra il “movimentismo” di Morucci, ancora legato ad ambienti della sinistra extraparlamentare, in particolare a Franco Piperno e Lanfranco Pace, che voleva liberare Moro per far esplodere le contraddizioni interne al sistema politico e passare finalmente dalla fase del terrorismo a quella della guerriglia urbana, e quella “militarista” di Moretti che invece puntava ad uno scontro diretto e che riteneva inutile e pericoloso mantenere in vita un ostaggio ormai già utilizzato per quello che serviva alla strategia terroristica.
Ovviamente in questa zona grigia di vasta ampiezza molti si inserirono perseguendo le finalità più diverse, a partire dall’informatissimo Mino Pecorelli, il giornalista al centro di un reticolo di interessi che finirono per stritolarlo l’anno successivo, e che durante e dopo il sequestro fece uscire non poche allusioni ai retroscena del caso, facendo anche capire di avere in qualche modo accesso alle lettere non rese pubbliche. Da uomo di destra, Pecorelli se ne servì per accreditare l’idea di un Moro ormai convinto di dover superare l’alleanza con gli ingrati comunisti aprendo al PSI del “trattativista” Craxi, spingendosi ad ipotizzare che il prigioniero preconizzasse ormai alla guida della DC un uomo tanto da lui distante come Massimo De Carolis (il cui nome risultava accanto a quello di Pecorelli e di altre personalità, alcune delle quali a tutt’oggi rivestenti importanti incarichi politici ed istituzionali, nelle liste della P 2), e in effetti De Carolis si distinse dal resto della DC per la sua disponibilità alla trattativa.
Un altro tentativo fu quello dei già citati Piperno e Pace, i quali condussero un gioco di sponda fra esponenti del PSI, in particolare l’allora Vicesegretario Claudio Signorile, e dirigenti democristiani del calibro di Amintore Fanfani incontrandosi riservatamente nel frattempo con Valerio Morucci per condurre una trattativa che di umanitario non aveva nulla ma era unicamente finalizzata a quella particolare idea del rapporto fra terrorismo e guerriglia che si è sopra delineata. Non è un caso che anche i due esponenti dell’ultrasinistra abbiano tentato in qualche modo di battere la stessa via di Pecorelli quando, messi alle strette dalla retate del 7 aprile 1979, fecero trapelare su di una rivista d’area alcuni brani che parevano essere tratti da lettere “inedite” del prigioniero.
In realtà, e qui veniamo ad uno degli aspetti più misteriosi della vicenda, gli originali degli scritti di Moro in prigionia sarebbero stati dati alle fiamme dai brigatisti in un covo presso Perugia nell’autunno 1978, conservandosi così solo i dattiloscritti, rivenuti come si è detto in quello stesso periodo a Milano dai carabinieri di Dalla Chiesa, e le fotocopie dei manoscritti che invece sarebbero stati ritrovati nello stesso luogo dietro il famoso tramezzo nel 1990. La circostanza appare poco convincente, e Gotor ritiene assai verosimile che tutto il materiale contenuto in via Monte Nevoso sia stato acquisito fin dal 1978, in modo tale da poter valutare che cosa effettivamente i brigatisti avessero in mano (a partire da eventuali segreti di Stato), e poter poi rimandare la “scoperta” delle fotocopie a tempi più tranquilli. Naturalmente ciò spuntava le armi ricattatorie dei brigatisti, in quanto il fatto che mancassero manoscritti o fotocopie di manoscritti poteva tranquillamente far concludere agli esponenti politici pesantemente coinvolti dalle parole di Moro che i dattiloscritti erano parte del lavoro diffamatorio messo in atto dalle BR, che il pensiero di Moro era stato forzato o stravolto, e così via. Per la verità, come sempre, ci sarebbe stato tempo, nella convinzione espressa a suo tempo con un riso insieme tragico e cinico da Leo Longanesi : “Quando potremo sapere tutta, ma proprio tutta la verità, non ci interesserà più”.
A questo punto vorrei avanzare due mie personali supposizioni le quali non coinvolgono in nessun modo la responsabilità del prof. Gotor: la prima è che la conoscenza di prima mano di questa scomoda verità abbia poggiato essenzialmente sulle spalle del generale Dalla Chiesa, militare coraggioso e devoto servitore delle istituzioni, e che nello stesso tempo ciò non sia stato estraneo alla scelta intervenuta quattro anni dopo di mandarlo a Palermo come Prefetto senza poteri e senza sostanziale protezione, dando così agio di eliminarlo ad una Cosa Nostra fin troppo disponibile a rendere un simile servigio ai suoi interlocutori istituzionali (oltre che a se stessa, beninteso).
La seconda è che comunque, pur all’indomani della caduta del Muro di Berlino, le carte fotocopiate di Moro, anche se forse alterate e… depurate alla fonte ( e Gotor fa una splendida riflessione sull’arte della filologia che può degnamente accostarsi a quella recentissima di Luciano Canfora sul rimaneggiamento operato da Stalin sul testamento di Lenin e dalla polizia fascista sulle “strane lettere” di Ruggiero Grieco a Gramsci, Terracini e Scoccimarro) ancora potevano produrre qualche effetto, e non è un caso che proprio in quel lasso di tempo, dopo che furono pubblici gli accenni che Moro aveva fatto all’operazione “Stay behind – Gladio” essa sia stata resa nota nella sua interezza da Andreotti, cavallo di ritorno a Palazzo Chigi, provocando l’inizio delle croniche fibrillazioni di Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, il quale per l’appunto tende a modulare le sue ansie a seconda del riemergere di elementi nuovi o presunti tali dal calderone della vicenda Moro, come dimostrano le sue dichiarazioni, che Gotor definisce “rancorose”, sul ruolo di Igor Markevic e della famiglia Caetani nella gestione e sanguinosa conclusione del sequestro.
Quali conclusioni trarre da questa vicenda, se conclusioni sono possibili?
La prima ovviamente sta nella constatazione, che Gotor ci documenta, del grado di violenza e di cinismo raggiunto in quei giorni dalla politica italiana, violenza e cinismo che non son o certo una caratteristica di quel periodo, se è vero che allora ci si accaniva sul corpo di un uomo imprigionato come fino a qualche giorno fa ci si è accaniti sul corpo inerte di una giovane donna costretta da anni in un letto di ospedale, ma che in quel periodo raggiunsero e superarono il livello di guardia in un contesto in cui le parole “fermezza” e “trattativa” perdevano il loro significato specifico e diventavano invece parte di un gioco più complesso in cui la vita del prigioniero era soltanto un dettaglio rispetto agli obiettivi di breve e di medio periodo che i singoli attori si proponevano.
La seconda sta nella disperante mediocrità del progetto terroristico, che pure tante vite e tanto sangue è costato a questo Paese, e che si rivelò in pieno durante il caso Moro, nel momento in cui più direttamente, dopo tante speculazioni ideologiche, i brigatisti si trovarono faccia a faccia con uno dei principali attori politici del nostro Paese e, dal loro punto di vista, ad una delle colonne del SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali che essi evidentemente immaginavano come un monolite diretto “dalla DC e dal suo Governo”. Quale sorpresa, per loro, che forse non capirono fino in fondo, il toccar con mano che sia il Partito sia il Governo sia i “corpi separati” non erano affatto un insieme monolitico, che vi era anzi , come scrive Gotor, un reticolo di interessi, di direttive contrapposte, di volontà non coincidenti che formavano una tavolozza di potere reale di fronte a cui la cultura alquanto schematica e dottrinaria dei brigatisti era alquanto impreparata. In questo senso, credo, è pienamente giustificata la riflessione del nostro autore per cui le BR furono effettivamente un fenomeno del tutto interno al nostro Paese, anche se ampiamente strumentalizzato da chi aveva intenzione a farlo, come del resto rimangono aperti numerosi interrogativi sul vero ruolo giocato da molti degli stessi dirigenti brigatisti a partire da Mario Moretti (che Alberto Franceschini, parlando a nome della “vecchia guardia” già incarcerata durante i 55 giorni, ha additato come una specie di infiltrato nell’organizzazione).
La terza sta nel fatto che, effettivamente, come scrisse la Valentini e come Gotor dimostra, la morte di Moro provocò il fallimento definitivo dell’ ultimo progetto di autorigenerazione del sistema politico italiano basato sul ruolo della grandi forze popolari, a trent’anni dalla stipula del “compromesso costituzionale” fra De Gasperi e Togliatti. In questo senso, si può ben dire che Moro sia stato forse uno dei pochi riformisti autentici nel nostro Paese, se per riformista si intende chi conosce in profondità un contesto politico e sociale, ne valuta i punti di forza e di debolezza e calcola i tempi ed i modi per agire di conseguenza. In questa dinamica Moro agì fin dagli esordi della sua vita politica.
Quale fosse lo spirito con cui Moro si predisponeva, già allora giovanissimo docente di Filosofia del Diritto, attento e consapevole discepolo di Giuseppe Capograssi, è possibile scoprirlo da un prezioso e quasi introvabile volumetto pubblicato sotto il titolo Al di là della politica ed altri scrittidalla casa editrice Studium nel 1982, che riporta gli editoriali e i corsivi che Moro scrisse per l’omonima rivista nel periodo 1942-1952, a cavallo quindi della guerra, della Resistenza, della Liberazione, della Costituente, della rottura dell’unità dei partiti antifascisti ed infine della grande contrapposizione fra democristiani e comunisti e del contrasto interno alla DC fra la linea di De Gasperi e quella di Dossetti, alla quale ultima Moro aderiva in posizione un po’defilata. Da notare, peraltro, che la sua mai smentita sensibilità sociale aveva spinto il giovane studioso ad ipotizzare in un primo tempo l’adesione al Partito Socialista, ipotesi da cui recedette in considerazione sia della propria robusta vena di ispirazione religiosa in anni di anticlericalismo plebeo sia della scarsa vocazione riformista del PSI nenniano dell’epoca.
Fermando la nostra attenzione su quello che più ci interessa ai fini del nostro incontro, tre mi sembrano gli spunti più notevoli che emergono da queste note scritte in tempi diversi su di una rivista periodica, e che hanno formato un’attenzione costante per il Moro politico nel corso degli anni successivi.
Il primo lo ritroviamo in una nota intitolata “ Mano tesa, carità, verità” che risale al maggio 1945, in cui sostanzialmente consentiva con un osservatore di parte laica il quale osservava come nella nascente DC vi fossero due linee sostanzialmente divergenti, una clericale e conservatrice, l’altra, proprio in ragione di una nuova concezione della fede nel messaggio di Cristo, più aperta e disponibile alla collaborazione con gli uomini di buona volontà. Moro, si diceva, consentiva con tale interpretazione, e ritiene che per i credenti ciò implichi una riscoperta “ delle ragioni profonde ed essenziali del cristianesimo,al di là degli abiti mentali e delle istituzioni sociali che pretesero a volta a volta di essere da quelle ispirati e quasi se ne fecero un monopolio”. In questa prospettiva, ad utile monito per tutti i teo- qualcosa che in ogni tempo hanno voluto identificare il cristianesimo con le proprie idee politiche e sociali, Moro ricorda che “una politica della mano tesa non è rinunzia a se stessi, ma larghezza comprensiva di carità”.
Il secondo spunto è in una nota del settembre dello stesso anno, in cui, a fronte del crescere del movimento dell’ “Uomo qualunque” di Guglielmo Giannini, Moro da un lato riconosceva e comprendeva “le profonde ragioni di stanchezza, di esasperazione, di disperazione nelle quali questa corrente trova motivo di successo e sostanziale giustificazione”. Nello stesso tempo, egli ne vedeva chiaramente le insidie, poiché “questo che è oggi indicato come ideale di vita all’uomo qualunque è quello stesso che era richiesto ieri come comodo fondamento di una fedeltà incondizionata, tranquilla ed irresponsabile. Ma bisogna pur dire che questa quiete rinunciataria dello spirito è una radicale apostasia dal cristianesimo e quindi un rinnegamento della dignità umana”. E conclude inequivocabilmente: “L’ uomo qualunque, per non essere se stesso, è pronto a tutto, così ad accettare qualsiasi dittatura che nasce fatalmente dove al posto dell’ansiosa libertà dello spirito c’ è il vuoto”.
Infine, nel primo numero della rivista del 1948, Moro si metteva in limine rispetto all’anno cruciale delle prime elezioni democratiche dell’era repubblicana, rivendicando il ruolo svolto dalla DC – e da lui personalmente- nella ricerca di un’attiva unità fra tutte le forze democratiche ed antifasciste rispetto alla rottura intervenuta nella primavera del 1947 , configurando nel testo costituzionale “un sistema di diritti e di doveri nel quale uomini di tutte le correnti si possono incontrare, tanto larga è la visione del mondo che lo ispira e comprensiva la considerazione delle esigenze umane che nella vita sociale debbono avere soddisfazione” e giunge a definire la nuova Carta come “patto di amicizia (…) patto di lealtà reciproca (…) intesa intorno alle supreme direttive della vita comune destinato a tradursi in atto nell’anno tempestoso che adesso comincia”.
Ecco dunque tre capisaldi dell’azione politica morotea : apertura a quanto di nuovo e di vero può esservi anche in dottrine diverse da quella cattolica, partendo beninteso da un forte radicamento nella propria identità, rifiuto di ogni forma di conservatorismo e moderatismo come contrario all’idealità stessa dell’impegno storico dei credenti, centralità della Costituzione insieme come documento regolatore dell’attività politica sociale e come ispiratrice di idealità cui tendere.
A tali forti ispirazioni ideali Moro aggiungeva un vigile senso dell’equo e del possibile, che gli permetteva di misurare i passi senza mai dimenticare la meta da raggiungere, apparendo talvolta sfuggente o fumoso all’interlocutore mentre era invece prudente, prudente nel senso della virtù cardinale, che insegna a disporre le condizioni ed i tempi per giungere al proprio obiettivo. In nessun modo , tuttavia, questo senso del possibile scadde mai, a differenza di quanto accadde con qualche politico della sua generazione (magari qualcuno ancora in attività) nell’opportunismo e nel cinismo del “tanto poi tutto si aggiusta”.
Possiamo dunque dire che obiettivo di Moro dal 1960 in poi sia stato quello di riconfermare da un lato il ruolo guida del suo partito nella vicenda storica del nostro Paese, rideclinandolo d’altro canto non più come una sorta di “diga” nei confronti delle sinistre filosovietiche, ma piuttosto come attore e garante delle necessarie riforme di struttura di un Paese arretrato economicamente e culturalmente che stava subendo un’impetuosa fase di sviluppo economico portandosi dietro non poche delle sue tare strutturali.
E’ necessario ricordare come Moro sia stato forse l’ultimo dirigente democristiano di un certo rilievo ad avere rapporti strutturali con l’associazionismo cattolico, ad assumerne le dinamiche e a trattarne con familiarità i dirigenti : si trattava quindi di un rapporto organico, ben diverso dal clericalismo e dalle strumentalità di altri, che aiutò Moro a misurare le inquietudini di quegli anni di radicale cambiamento venuti dopo il Concilio Vaticano II che l’aveva avuto attento osservatore. Questo ruolo più appartato e meditativo di Moro in anni di crisi del sistema di potere democristiano fece sì che molti osservatori della politica e del costume non teneri verso la “Balena bianca” salvassero in qualche misura la sua figura dalla generale riprovazione verso gli esponenti politici più compromessi, come fece per tutti Pier Paolo Pasolini, e non è forse un caso che Moro, Presidente del Consiglio all’epoca dell’assassinio del poeta, il cui nome ritorna spesso nel saggio di Gotor, fosse l’unico uomo di governo a rendere omaggio alle sue spoglie.
Pietro Scoppola ha più volte rilevato come la fase della solidarietà nazionale, ovvero dell’ingresso più o meno organico del PCI nell’area di governo, abbia avuto il limite, rispetto alla già complessa fase del centrosinistra, di non essere stata adeguatamente preparata sotto il profilo politico e culturale: lo stesso Moro visse quell’appuntamento come uno stato di necessità, allo stesso modo di Berlinguer, che lanciò la proposta del “compromesso storico”, ovvero della comune assunzione di responsabilità di governo da parte di cattolici, comunisti e socialisti, come un percorso necessitato dalla presenza di elementi potenzialmente eversivi nelle pieghe stesse del sistema politico, militare e giudiziario segnato dalla peculiare situazione internazionale del nostro Paese.
Ciò era evidente anche per Moro, forse persino più conscio del leader comunista della fragilità della democrazia nel nostro Paese, che aveva avuto modo di misurare sia nella crisi del 1964 sia nelle vicende della “strategia della tensione”: in questo senso si può dire che l’approccio al problema da parte dei due esponenti politici fosse asimmetrico, nel senso che se al comunista premeva ovviamente l’inserimento del suo partito all’interno del circuito governativo, al democristiano interessava invece il consolidamento del sistema democratico attraverso una fase (quella che egli stesso ribattezzò “terza fase” della democrazia repubblicana) in cui tutte le principali forze politiche fossero corresponsabilizzate per poi aprire ad una successiva fase di democrazia compiuta e di possibile alternanza di governo.
La natura endogena del terrorismo italiano è ormai generalmente riconosciuta, ma è del resto assai probabile che ad essa si accompagnassero,in ragione anche dell’acclarata sprovvedutezza e mancanza di sensibilità politica di quel nucleo di violenti disposti a tutto, tentativi più o meno riusciti di strumentalizzazione da parte di soggetti esterni, apparati dello Stato o organismi di Stati stranieri. D’altro canto, in un recente volume uscito recentemente per i tipi di Sellerio il fido collaboratore di Moro Corrado Guerzoni ha ricostruito le difficoltà e le pressioni che il suo amico e maestro dovette subire, in particolare da parte di Henry Kissinger e di altri esponenti delle varie Amministrazioni USA, in merito alla sua politica di progressiva apertura a sinistra, che del resto suscitava preoccupazione anche in ampi settori vaticani, come ha dimostrato Annachiara Valle riportando nel suo libro Parole, opere ed omissioni riportando un’agghiacciante conversazione fra mons. Luigi Bettazzi ed un “officiale” della Segreteria di Stato vaticana nei giorni convulsi prima dell’omicidio dello statista.
Che cosa rimane di Moro nella politica italiana? Non molto,e non solo perchè, come egli lucidamente antivedeva fin dagli anni Sessanta, quel sistema politico di cui egli stesso era parte è stato rapidamente cancellato per usura nonostante le pretese di eternità di coloro che lo abitavano, ma soprattutto perché le attitudini specifiche di Moro, che erano il suo punto di forza, non sono più praticate da molti in politica. Come scrive Gotor, esse erano “un’idea laica della politica, pur essendo animato da un sentimento religioso e da una fede viva e complessa (…) il suo rifiuto di ogni alchimia elettoralistica in favore di una politica forte, robusta, curiosa,caratterizzata da un dialogo continuo tra partiti, movimenti, tendenze che realmente esistono nella società (…) la sua fastidiosa convinzione che il radicalismo ed il moderatismo siano due italiche attitudini molto meno antagonistiche di quanto si vorrebbe credere, che anzi si autoalimentano a vicenda, rendendo in Italia ogni sforzo riformatore un esercizio sempre difficile, a tratti pericoloso”.
Ma forse parlare troppo del “politico Moro” serve ad occultare la dimensione dell’uomo, che emerge da molte delle lettere scritte in quei giorni, dalle riflessioni su quel che avrebbe potuto essere e che non era stato, dalla quotidianità di un uomo che era arrivato ai vertici del potere (e legittimamente avrebbe potuto aspirare al Colle più alto) e che nello stesso tempo non aveva mai abbandonato la memoria delle proprie radici e della propria fede.
Così nel biglietto alla moglie il 5 maggio, quattro giorni prima della morte: “Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e a tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.
E nella speranza di quella luce affrontò la sua ultima prova.
Trascrizione della relazione di Miguel Gotor
Vi ringrazio per l’invito, sono contento di essere tra voi. Ogni volta che sento leggere queste parole finali sono percorso da un brivido di commozione e quindi ora ho un po’ di difficoltà a riprendere il filo di una riflessione.
Partirei dall’insistenza con cui il dottor Gaiani ha sottolineato un aspetto anche per me significativo: in che modo questa vicenda, il cosiddetto «caso Moro», è stato affrontata dalla fiction cinematografica o televisiva nel corso di ormai 25 anni (il primo film è del 1986 e si intitola significativamente «Il caso Moro» del regista Giuseppe Ferrara).
Secondo la fiction i protagonisti di questa tragedia sono tre e costituiscono tutti una sorta di blocco che rappresenta un problema per l’analisi storiografica, un ostacolo da superare.
Uno è certamente il principale, Aldo Moro. L’uomo politico democristiano è definito, secondo gli stilemi e le caratteristiche di un martire cristiano. Il caso vuole che io non sia uno storico contemporaneo, ma uno storico dell’età moderna e in particolare della vita religiosa fra ‘500 e ‘600, e ancora più specificatamente studioso di un genere che si chiama «agiografia», che studia cioè la vita e il culto dei santi. Ecco, Moro, viene rappresentato secondo i criteri di un’agiografia contemporanea. È un martire emotivo, e quindi scatta un processo di identificazione forse inevitabile con la vittima in base a un processo di «vittimizzazione». Tutto ciò è ineluttabile, ma è un fattore che affatica la ricerca storica.
Faccio un esempio volutamente brutale. Se oggi mi volessi porre il problema dei finanziamenti della corrente di Aldo Moro (ma lui amava parlare di gruppo), i cosiddetti «morotei», e qualora tentassi di capire se anche quella corrente, come tante altre che facevano parte del cosiddetto «ceto politico» italiano, avesse avuto la possibilità di ricevere denaro in forma illecita per finanziare la propria attività, e se io mi ponessi la questione se anche in queste lettere siano presenti, in maniera naturalmente dissimulata, riferimenti a tale tema – partendo dal dato di fatto che Moro viene rapito all’improvviso e lascia la situazione non solo della sua vita familiare, ma anche delle propria attività di dirigente politico aperta, fuori da ogni forma di personale controllo – ebbene, se io mi proponessi di affrontare un simile argomento, non lo potrei fare facilmente. Mi mancherebbe lo spazio morale, lo spazio della lucidità e del coraggio intellettuali per poterlo fare.
Qualcosa di simile avviene anche con il generale Carlo Alberto Della Chiesa. Scatta un processo nel quale sono anch’io dentro come ricercatore di storia, dentro un processo di identificazione con la vittima che obbliga a parlarne solo ed esclusivamente in termini positivi, appunto agiografici. Ma la buona storia non si fa così perché si ha la consapevolezza dell’esistenza di una serie di statuti scientifici e di metodi che si sono appresi nel corso della propria formazione e che dovrebbero impedirlo, ma la solidarietà nei confronti della vittima tende ad avere il sopravvento. È un problema di carattere metodologico che si presenta in modo molto urgente nella storia contemporanea, quando si affrontano determinati argomenti.
Il secondo punto, il secondo protagonista, sono i carnefici. Se c’è una vittima, se c’è un martire esistono anche i suoi carnefici: sono le Brigate rosse. In queste fiction le Br come sono rappresentate? Si assiste a un processo di umanizzazione di tali figure che segue parallelamente quello della vittimizzazione: non sono rappresentate per ciò che erano e per quanto hanno compiuto, ma si cerca di avvicinarle il più possibile a una figura umana, se non positiva, in qualche modo degna di piena comprensione. E quale escamotage narrativo viene scelto per attivare questo processo? Si postula una forte complicità con il prigioniero, ossia di complicità del carnefice con la vittima.
La scena che citava il dottor Gaiani da questo punto di vista è emblematica; si tratta di una scena completamente inventata, impossibile a realizzarsi perché lo confermano i documenti con i quali si fa ricerca storica. Si racconta di un Moro che rimprovera paternalisticamente Mario Moretti del fatto di aver distribuito una lettera a Cossiga e c’è un Moretti quasi contrito e in chiara sudditanza psicologica che risponde: «Ma sì, ha ragione, mi ha convinto Presidente… ma come mai ho fatto questo errore…». In realtà, le fonti dicono che le Brigate rosse fecero credere a Moro che fosse stato Cossiga a divulgare quella lettera nell’ambito di una strategia funzionale a separare Moro, la vittima, l’agnello sacrificale predestinato alla morte, dai suoi amici, dai suoi compagni di partito, dalla sua famiglia secondo le normali procedure seguite nei sequestri di persona barbaricini, quelli che avvengono in Sardegna o in Toscana: indebolire la vittima sul piano psicologico, terrorizzarla per innescare un rapporto di sudditanza con i propri carcerieri che così aumentano il loro dominio sul prigioniero.
E ancora. Uno riesce a capirne le ragioni tecnico-scenografiche, ma forse pensate che Moretti si potesse rivolgere col volto scoperto a Moro? Qualunque uomo che ha raggiunto la maggiore età sa che se viene rapito e il suo sequestratore si indirizza a lui senza cappuccio è automaticamente morto. Ed è plausibile credere che una persona consapevole di essere certamente uccisa dai suoi rapitori possa produrre non solo l’epistolario che abbiamo analizzato, ma anche il cosiddetto memoriale? Moro era evidentemente interrogato da persone incappucciate, una condizione di per sé in grado di aumentare il processo di dominio e la violenza conseguente su un prigioniero. La scelta teatrale però è quella di aumentare piuttosto il processo di umanizzazione del carnefice e di complicità tra lui e il sequestrato, stabilendo un inesistente confronto tra sguardi e volti, fatto di ammiccamenti, comprensioni, spiegazioni e quant’altro.
Abbiamo poi un terzo protagonista di questa storia: lo Stato, i partiti. Nella migliore delle ipotesi sono degli inetti, ossia vengono raffigurati come degli incapaci, inefficienti, caricaturali, ridicoli. Nella peggiore, gli autori di una trama oscura che ha prodotto la morte di Moro secondo un piano scientemente teorizzato e poi segretamente realizzato.
Questi sono, a mio parere, i tre protagonisti della tragedia Moro secondo la declinazione compiuta da una fiction come quella andata in onda qualche tempo fa. C’è un problema però: questo mio lavoro, se va bene, raggiunge 10 mila persone e di queste lo leggono tutto al massimo un migliaio… La fiction, con la sua potente narrazione, è in grado di raggiungere milioni di individui in una serata, in una sola unità narrativa; sei, sette, otto milioni di persone. C’è dunque uno squilibrio ingestibile: Moro è stato ucciso dallo Stato, Moro è Stato ucciso dai partiti, Moro è stato ucciso dai suoi amici. Lui è un martire, loro sono carnefici dal volto umano.
Cosa voglio dire con questo? Vorrei dire che, come coglieva bene Giovanni Bianchi, questa vicenda si è ormai trasformata nell’infinita declinazione di un tipo di narrazione oggi dominante nel discorso pubblico italiano, quella dell’antipolitica. Serve ed è funzionale ad arricchire il distacco degli individui dalla vita politica, che significa dalla possibilità di partecipare attivamente e criticamente al proprio destino assumendosi le proprie responsabilità.
Quindi, ho condotto tale lavoro con amarezza in quanto ho progressivamente scoperto che attraverso lo studio di questa vicenda siamo parte, siamo dentro questa velenosa narrazione. C’è un paradosso propagandistico che segna amaramente la vittoria del progetto brigatista: Moro non è stato ucciso da chi lo ha rapito, uccidendo cinque uomini della scorta. E durante quei 55 giorni – così, tanto per rendere il clima più sereno e favorevole alla sua ipotetica liberazione – ha ucciso altre tre persone e ne ha gambizzate sei, sempre nello stesso arco di tempo… No, Moro non è stato ucciso dalle Brigate rosse, ma dalla Dc, almeno così si pensava fino a ieri; in quest’ultimo periodo, invece, ho notato, vedendo le curvature assunte dai dibattiti politici, che si preferisce sostenere sia stato ucciso dalla intransigenza comunista, ossia da Berlinguer. Ma comunque la scelta è questa: Berlinguer o Andreotti.
Essendo questa la situazione abbiamo due reazioni. La rimozione in quanto nessuno vuole affrontare questa vicenda in maniera critica, oppure il pentitismo, lo spargersi il capo di cenere, il battersi il petto, quanti dicono «ho sbagliato, avrei dovuto fare ma non ho fatto…». Si tratta di un fenomeno generalizzato che riguarda non solo gli ex terroristi, ma anche un pezzo di classe dirigente che non ha la forza, la dignità e la capacità di difendere il proprio operato di allora. Non lo può fare per due ragioni: in primo luogo perché dovrebbe raccontare la storia di una sua sconfitta e nessuno desidera soffermarsi sulle proprie sconfitte; in secondo luogo, in quanto sarebbe obbligata a raccontare una verità credibile su questa storia. E così questi due aspetti messi insieme finiscono per costituire una miscela troppo indigesta. In realtà, i testimoni tendono a raccontare ciò che hanno effettivamente fatto, quando si trovano in una situazione vittoriosa o comunque favorevole alla loro reputazione. Quando sono sconfitti, quando sono beffati, quando hanno dato prova di errori, di incomprensioni, di esitazioni, allora diventa più difficile cercare di affermare la verità storica e si preferisce acconciarsi a una verità di comodo che ormai accorda tutti.
Che so io, la più grande banalità che viene lucidamente ripetuta è la seguente: quanti allora furono per la fermezza continuano a sostenere oggi che quella fu la loro effettiva posizione nonostante esistano ormai non solo il mio libro, ma tante altre ricerche e testimonianze che con estrema chiarezza attestano una cosa, peraltro ovvia, e cioè che assumere una linea ufficiale di fermezza, ossia definire pubblicamente una posizione di chiusura – no, io non tratto, ci sono 5 morti sulla strada, non possiamo cedere al ricatto delle Brigate rosse – normalmente, ovviamente, comprensibilmente è il presupposto logico, teorico, pratico per addivenire a una trattativa segreta, di carattere riservato. Semmai proprio il contrario avrebbe escluso questa possibilità. Ipotizziamo che il governo italiano avesse detto all’indomani della strage di via Fani: allora, che cosa volete? cosa desiderate? Cosa vi serve? La controparte si sarebbe insospettita, si sarebbe immediatamente bloccata e avrebbe temuto che si stesse preparando loro un agguato fingendo una trattativa di facciata che in realtà nascondeva una volontà di annientamento. Questo è l’abc di qualunque tipo di strategia, e ormai ci sono prove fondate su documenti e su testimonianze che trattative, naturalmente segrete, si svolsero effettivamente in quei 55 giorni. Non si ha il coraggio civile e la forza politica di ammetterlo perché appunto stiamo raccontando una drammatica sconfitta.
Soprattutto due esigenze mi hanno motivato nel lavoro: una civile e l’altra di carattere scientifico. Quella civile era motivata da un’altra considerazione, dal fatto che mi sembrava fosse presente nella vita pubblica italiana un incredibile squilibrio nella memoria civile tra la testimonianza e la solidarietà che si dovrebbero alle vittime di questo attacco terrorista e invece il racconto dei brigatisti, tutto a favore di questi ultimi. Da questo punto di vista la vicenda Moro era emblematica. Il testimone totale, il testimone integrale, Moro, era morto, probabilmente è stato ucciso proprio per questa ragione perché è stato il testimone di una trattativa segreta e troppo aveva saputo. Qualche giorno fa leggevo nella Vita di Berlinguer di Giuseppe Fiori un detto della Barbagia, che non vi so ripetere in sardo, ma il senso era: «candele accese non ne lasciamo». Esiste quindi in ogni sequestro il problema di una testimonianza troppo imbarazzante. E dunque in questa vicenda il testimone integrale non c’è e, al contrario, si assiste a un dominio incontrastato, a una sorta di dittatura della testimonianza dei suoi rapitori. C’era uno squilibrio che mi pareva incivile, sintomo di una malattia insita nel nostro stare insieme. Prospero Gallinari ha scritto un libro, Moretti ha fatto un’intervista, Anna Laura Braghetti ha scritto un libro e il paradosso era che mi sembrava che continuassero a tenere prigioniero Moro in quanto avevano intuito il vento dell’antipolitica che soffiava alle loro spalle e con grande abilità intellettuale avevano avuto la capacità di mettersi davanti quel vento, di farsi trasportare da esso verso nuovi approdi.
Facciamo un esempio emblematico. Voi scoprirete leggendo il lavoro o comunque anche ascoltandomi che, in concreto, su 97 lettere di Moro le Brigate rosse ne hanno pubblicamente distribuite cinque. Di conseguenza, il ricordo che voi avete di Moro sul piano della propaganda è fondato su quelle cinque lettere. Poi segretamente ne hanno distribuite all’incirca un’altra trentina che hanno condizionato, evidentemente quanti le ricevevano in via riservata, ma non noi. Il ricordo politico di quei 55 giorni è basato su 5 lettere su 97. Rossana Rossanda nel suo libro intervista a Moretti gli chiede se avessero censurato qualche scritto di Moro e il brigatista risponde piccato «Noi abbiamo reso pubblico quasi tutto quel che scrive, le poche volte in cui non è stato così è perché inoltrare le sue lettere era rischiosissimo, tutta la polizia cerca di agganciarci. Del resto perché avremmo occultato qualche lettera?» Le poche volte, sostiene Moretti: tali comportamenti non indignano solo il ricercatore di storia, che ha elaborato questi dati dati oggettivi (5 lettere distribuite su 97), ma anche il cittadino. E l’uno e l’altro sono indotti a pensare: se sei in buona fede, allora vuol dire che il sequestro non l’hai gestito tu, oppure l’hai gestito tu, ma allora sei un po’ cialtrone. Delle due l’una, la prima ipotesi, ovviamente, più inquietante della seconda.
E poi c’era un secondo problema legato alla cosiddetta dietrologia che è un’altra forma assunta dell’infinita narrazione dell’antipolitica: il potere è sempre oscuro e lontano, è sempre inavvicinabile e, quando si muove, si muove in un modo così confuso, così imperscrutabile che dunque noi ne siamo fuori, necessariamente esclusi. Moro non era prigioniero solo nella memoria dei suoi carcerieri, ma lo era anche ormai del cosiddetto «caso Moro». A distanza di 30 anni dalla morte non esiste ancora una biografia, risultato di una ricerca storica approfondita sulla sua figura, se non un testo importante di Guido Formigoni e qualche articolo sparso qua e là. Per fare solo un esempio, Renzo De Felice, trent’anni dopo la morte di Benito Mussolini e la fine del regime fascista era già in fase di avanzata elaborazione con il suo lavoro. E con Moro non stiamo parlando di un personaggio minore, anzi, dal mio punto di vista, ci troviamo davanti a uno dei principali protagonisti del pensiero politico democratico del Novecento italiano, fra i primi cinque, al massimo fra i primi dieci del secolo!
Allora perché questo vuoto? Perché tanta disattenzione? Penso che la motivazione principale sia questa: c’è imbarazzo, quei 55 giorni finali impediscono di avvicinarsi alla figura Moro nella sua interezza. Che fino a quel momento aveva vissuto 62 anni da uomo libero, consapevole, critico, con un suo percorso esistenziale che l’aveva fatto essere anzitutto professore universitario (e fino all’ultimo questo è stato), ma anche intellettuale, studioso di diritto penale – quindi del rapporto tra pena, libertà e, probabilmente, per lui profondamente cristiano, redenzione – giornalista e, ovviamente, uomo politico. Uomo politico dentro la Democrazia Cristiana, uomo politico di governo. Tutto questo è schiacciato dagli ultimi 55 giorni, assorbito come da un vortice di morte e misteri.
Moro finisce in quell’antro per ciò che è stato, questo è evidente, ma non possiamo pensare che sia giusto che quei 55 giorni debbano impedire una riflessione autonoma sulla sua figura. Questa doppia paradossale prigionia – della testimonianza e della dietrologia – è stata la molla che mi ha mosso alla ricerca.
Ci sono state poi ragioni più noiose di carattere scientifico che tuttavia per me hanno avuto un ruolo fondamentale. Mi soffermo su di esse brevemente. Avevo il desiderio di verificare su un testo recente – vi ho detto che mi occupo di solito di cose seicentesche – le capacità ermeneutiche, interpretative della filologia. E, se volete, posso spiegarvi da dove scaturiva questa esigenza. Perché mi trovavo a studiare, e sto studiando ancora oggi, un personaggio, un eretico del Cinquecento, Bernardino Ochino, un frate cappuccino che fuggì dall’Italia nel 1542 inseguito da un mandato inquisitoriale. Mentre lo studiavo mi rendevo conto che la ricostruzione della sua biografia era ridotta esclusivamente alla lunga scia di interpretazioni che lo riguardavano perché i documenti legati a lui, in quanto eretico, erano stati in gran parte distrutti. C’erano interpretazioni, c’era una fortuna di questo personaggio che era risorta nel Seicento, cinquanta-settant’anni dopo la sua morte e dentro il pensiero scettico, nel Settecento si era eclissata, nell’Ottocento era ritornata in auge e poi nella prima metà Novecento era riemersa grazie agli studi di Delio Cantimori. Una fortuna che era tutta interpretativa, ma con poca vita, poco sangue e muscoli.
Allora ho avuto la sensazione che Moro potesse essere destinato a una sorte simile, ossia potesse diventare pura interpretazione, che significa – in concreto – che ognuno può dire legittimamente quello che gli pare sulla vita di un uomo. Nel suo caso, però, mi sembrava ancora possibile provare ad ancorare la sua vita, in questo caso la storia dei suoi ultimi 55 giorni, alla documentazione prodotta, per usare quelle fonti come chiave ermeneutica. Anzitutto, c’era un problema di deperimento di questa documentazione. Ho portato qui una fotocopia di una lettera che le Br hanno recapitato durante il sequestro, e che ora è conservata presso il tribunale di Roma. Sono 18 manoscritti effettivamente vergati da Moro che ho avuto in mano e che ho riprodotto per poterci lavorare successivamente. Queste fonti sono conservate in una maniera che rischia di assicurare il loro deperimento anche perché i documenti che hanno una certa e sicura valenza storica non è bene conservarli in un archivio corrente giudiziario, nonostante siano ancora tecnicamente «corpo del reato». In effetti, sul piano giudiziario, questa vicenda è ancora aperta, c’è un sesto, un settimo processo Moro che mentre io allora scrivevo e mentre ora sto parlando è attivo, quindi tanta documentazione è ancora oggetto di indagine, di sequestro giudiziario e quindi di legittima conservazione in archivi giudiziari. Accanto al problema di una cattiva conservazione dei documenti c’è quello della loro labilità.
In che senso labilità? Per fortuna, la dettagliata introduzione di Gaiani mi esime dal ripetere alcune cose. Però vorrei mettere in chiaro una cosa. Di Moro noi abbiamo 28 manoscritti in cui si alternano inchiostri di penna Bic e di Tratto Pen nero. Ventotto manoscritti. Secondo me, lo argomento nel saggio, almeno altre sette-otto lettere sono uscite durante i 55 giorni e i destinatari a tutt’oggi le hanno mantenute riservate. C’è un capitolo di questo lavoro dove dimostro, in alcuni casi in maniera inconfutabile, in altri incerta, ma comunque oltremodo verosimile, che sette-otto manoscritti rispetto a quelli conosciuti sono comunque usciti dalla prigione. Quindi, lo abbiamo detto prima, sono 35-36 lettere in tutto su un totale di 97 pezzi.
Di queste 35-36 lettere solamente cinque – ribadisco – furono pubblicate dalle Brigate rosse per loro espressa volontà. Altre tre, arriviamo così a otto, furono divulgate per volontà dei destinatari che le ricevettero segretamente e decisero di compiere un atto pubblico, un atto politico evidentemente: Bettino Craxi e il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Così da cinque arriviamo a sette. C’è poi un’ottava missiva, che il caso vuole sia proprio questa che ho ora in mano, la lettera alla Democrazia Cristiana, che le Brigate rosse recapitarono riservatamente e che il consigliere di Moro, Corrado Guerzoni – ragionando presumibilmente con i familiari – decise di rendere pubblica. E si tratta di una delle missive più importanti dell’epistolario moroteo, per varie ragioni.
Mi soffermo su questa lettera alla Democrazia cristiana in modo da spiegare come ho lavorato. Come vedete, si tratta di una missiva lunga, la riproduzione non è ingrandita, erano scritta così su fogli A4 di comuni block notes Pigna a quadretti, quelli che andavano di moda negli anni ’70 e forse ancora oggi. Guardate, questo è il bordo del foglio. Questa lettera è significativa per capire il sequestro Moro in quanto c’è un passo dove il prigioniero scrive (e questa è forse la ragione per cui Guerzoni decise sua sponte di divulgarla) così: «Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio?». Questa lettera suscitò, quando divenne pubblica all’inizio del maggio 1978, l’attenzione dei più sensibili osservatori di questa vicenda, fra i quali Bettino Craxi che subito dichiarò: «Ma cosa sta dicendo Moro?». Sono 20 giorni che il dibattito pubblico riguarda tutt’altro: l’eventuale liberazione di prigionieri che sono già nella disponibilità dello Stato italiano. Perché lui con tanta sicurezza fa riferimento ad altro, e cioè a un brigatista che è libero e che invece di andare in galera potrebbe essere mandato in esilio in cambio della sua libertà?
Questa è una potentissima allusione ai contenuti segreti di una trattativa che, a mio modesto parere, è stato sbagliato divulgare pubblicamente. Certo, è facile parlare con il senno del poi. Un negoziato segreto che stava coinvolgendo un brigatista, che appunto, invece di andare in galera perché individuato come tale dalla polizia italiana, otteneva un lascia-condotto in cambio di informazioni funzionali a ottenere la liberazione di Moro.
E guardate che di questa lettera ne esistono diverse versioni, scoperte nell’ottobre 1978 e nell’ottobre 1990 sempre in via Monte Nevoso. C’è una fotocopia di manoscritto trovata nel ‘90 che riproduce il testo inviato, ma poi esistono almeno altre due versioni di un altro autografo scomparso. Ho potuto quindi fare la collazione (così si chiama) il confronto fra i testi per capire perché quest’uomo era costretto a riscriverli e su quale aspetto si stava dibattendo. Bene – come vi dicevo – è una lettera lunga, di ben nove pagine. Il caso vuole che proprio in quelle quattro righe che vi ho letto si concentri sia l’attenzione di Moro, sia quella dei suoi sequestratori. In una versione c’è una formula, in una ce ne è un’altra. Questa cosa qui, noi ricercatori di storia, che non siamo giudici, la chiamiamo prova. Di che cosa? Che certamente non si è trattato di una svista o di una disattenzione del prigioniero come superficialmente si potrebbe pensare, ma del fatto che proprio in quel punto si realizza la massima attenzione del carceriere, ma anche del carcerato. Nel ’78 tali cose non poteva saperle né Craxi, né Guerzoni. E neppure si poteva capirlo nell’ottobre ’78, quando si trovarono solo i dattiloscritti di queste lettere, ma soltanto nell’ottobre del ’90, o meglio nel 2008, analizzando finalmente queste carte.
Questa lettera dunque è importante perché noi non capiremo il sequestro e la morte di Moro e ciò che è avvenuto in mezzo ai due tragici eventi se non individueremo i contenuti reali ed effettivi della trattativa segreta. Tutto il resto è chiacchiera… Io non conosco il vostro livello di conoscenza della vicenda, questo è un problema che uno ha quando si confronta con un pubblico ampio come il vostro. Ma faccio solo un esempio. Il 18 aprile si ha il messaggio del lago della Duchessa che annuncia la morte di Moro e sono convinto che molti di voi siano indotti a pensare che si sia trattato di un invito a uccidere l’uomo politico. In realtà, è molto più probabile che quel messaggio apocrifo significhi esattamente il contrario, che sia cioè un depistaggio – depistaggio non è necessariamente una brutta parola perché la lotta al terrorismo è anche antiterrorismo e antiguerriglia – organizzato per costringere le Brigate rosse a fornire una prova dell’esistenza in vita di Moro: io vi dico che Moro è morto e in questo modo vi obbligo a dimostrarmi che è vivo. Non a caso due giorni dopo la reazione delle Brigate rosse è la seguente: la foto di Moro con il giornale «La Repubblica» tra le mani che reca il titolo: «Moro assassinato?». E perché è fondamentale avere la certezza che il prigioniero sia vivo? Questo avviene in tutti i sequestri di persona, dai barbaricini in su: «io dare te cinque, sei, dieci, quindici, venti miliardi solo se tu dare me prova che non mi inganni». È elementare, prove di inganno ce ne sono a bizzeffe; non c’è nessun poliziotto, ma neanche nessun dirigente politico, nessun uomo normale che dà a uno 10 miliardi di lire senza avere in cambio certezza in vita del prigioniero e speranza di una sua restituzione libero. Ma c’è un momento in cui hai pagato e sei costretto a fidarti dei rapitori, che però possono tradire: ad esempio, fingendo che il prigioniero sia ancora vivo quando in realtà è morto, oppure prendendo il riscatto e poi ucciderlo lo stesso perché il sequestrato ha visto troppo e sa troppe cose. Esiste in merito, purtroppo, una casistica sterminata che era necessariamente ben presente agli investigatori italiani, i quali in materia di lotta ai sequestri di persona non sono e non erano secondi a nessuno nel mondo. Per il solo fatto che quella pratica proprio negli anni Settanta era diffusissima nella penisola. Chiudo questa parentesi.
Ma ancora, perché questa lettera è importante? Lo è anche sul piano filologico. Ha consentito una scoperta notevole. Questa missiva è scritta con quattro inchiostri diversi: una penna Bic blu, un Tratto Pen nero, una Bic nera e un Tratto Pen blu. E questi segni che vi sto mostrando sono quelli che evidenziano dove cambia il colore dell’inchiostro di Moro. Allora, la prima cosa che si è indotti a pensare è che si stava esaurendo la penna e certo Moro non poteva andare dal tabaccaio a comprarne un’altra. Ma non è così. Perché nel caso di una lettera a Leone, l’inchiostro cambia in corrispondenza di un progressivo sbiadimento di quello precedente e in quel caso, effettivamente, la penna stava finendo. Allora in questo frangente capiamo cosa è effettivamente successo: Moro ha bussato e ha chiesto di cambiare penna perché la precedente non scriveva più. Ma in questa lettera alla Dc no. Il cambio è netto, l’inchiostro e nitido prima e dopo, c’è solo un improvviso e ripetuto cambio di penna. Abbiamo quattro inchiostri diversi e soprattutto, ed è impressionante quest’aspetto, abbiamo dei punti in cui la saldatura logica tra le pagine non corrisponde: l’ultima parola è scritta in un colore, la prima dell’altro foglio in un altro, ma nella pagina precedente – la parola che sto esaminando è «coraggio» – l’andata a capo di Moro, il passaggio da un foglio all’altro, è scorretto, il punto di sutura è sbagliato perché nella nuova pagina, quella tutta scritta con un inchiostro diverso, la parola «coraggio» entra tutta e quindi non sarebbe stato necessario andare a capo. E il prigioniero corregge quest’errore con l’inchiostro dell’altra penna, della nuova. E quando lo fa? Lo fa solo quando lo può fare, ossia quando ha i due fogli contemporaneamente sotto gli occhi. Anche questa cosa qui noi ricercatori di storia la chiamiamo prova, ma di che cosa? Di un testo estremamente artificiale e assemblato in tempi diversi: non solo dunque sul piano dei contenuti (e lo abbiamo dimostrato), ma anche sul piano dei tempi, delle tecniche, della materialità della scrittura e del suo farsi sul testo. Chiunque lo può dire. Vai da Del Piero e gli dici: «Del Piero, lei gioca al calcio benissimo, ma, secondo lei, cosa è successo qui?». E lui ti dice, magari perché sospettoso: «Secondo me questo foglio proseguiva in altro modo, c’era un’altra pagina, scritta con lo stesso colore del foglio precedente, che poi è scomparsa, e hanno preso un altro foglio che hanno unito al precedente. Per questo motivo gli inchiostri sono diversi e i punti di sutura sono sfalsati». E Moro, che era un tipo pignolo, si accorge dell’errore, cancella e licenzia lo scritto, o forse vuole lanciare un messaggio, un segno ai posteri dell’artificiosità delle sue disperate condizioni di scrittura? Ma in questo modo si aprono tutta una serie di domande fondate, come dire, non su tesi, ma su dati oggettivi, su questo rapporto che si insegue appunto tra filologia e storia e che dovrebbe costituire il volano dell’interpretazione.
(Domanda dal pubblico: Moro l’ha scritta più volte la lettera? Qualcuno ha scritto dei pezzi al suo posto? Ha cambiato l’inchiostro perché il cambio di inchiostro è un messaggio, un codice? La cosa più semplice da dire per un profano o magari per uno che fa ricerca, è pensare che il cambio di inchiostro voglia dire anche cambio di tono…)
Risposta: Guardi, si potrebbe fare un seminario insieme. Perché nel libro prima descrivo quello che vi sto dicendo e poi l’argomento. In seguito ti rileggi e dici: sei convinto di quanto hai scritto? Sì, insomma, così e così, boh, la mia è un’ipotesi interpretativa perché nella ricerca si procede per ipotesi. Comunque, cosa argomento nel saggio introduttivo a questo volume? Esattamente quello che ha detto ora lei: secondo me, il cambio di penna è un messaggio, è il segno di uno spazio comunicativo comune. Poi però cosa sostengo? Naturalmente, si tratta di un codice ove vittima e carnefici sono d’accordo. Non è possibile che Moro pensasse di ingannare i suoi sequestratori cambiando penna senza che loro se ne accorgessero o non temessero che quelle mutazioni volessero dire qualcosa all’esterno della prigione che a loro poteva sfuggire. Allora, però, c’è anche qualcuno fuori che è in grado di capire e si è verosimilmente realizzata una triangolazione comunicativa, latrice di senso, fra il prigioniero, i sequestratori e un pezzo di esterno. Se c’è un messaggio, c’è un mittente e un destinatario che è in grado di capirlo o che lo scrivente ritiene che possa riuscire a capirlo. Io queste cose le scrivo con prudenza… Usiamo questa parola che per gli storici – dirlo qui nella patria di Alessandro Manzoni è bellissimo – è l’estremo rifugio di tutti i nostri peccati, è «verosimile»: ma quanto sia «verosimile» è appunto uno spazio larghissimo, incerto e sospeso tra il vero e il falso. Certo, in ogni caso, questa è una realtà materiale del testo che rimanda a un problema interpretativo grande come una casa, che per me non è meno importante del capire se il comunicato del lago della Duchessa fosse o no un messaggio omicidiario.
Ho avuto la possibilità di chiedere a Francesco Cossiga, che è colui che ha ricevuto questa e altre lettere: «Ma lei si ricorda di questa cosa, ossia del fatto che alcuni testi fossero scritti con colori diversi?». Sono passati trent’anni e lui mi ha risposto: «È la prima volta che sento una cosa simile». E ti colpisce il fatto che per trent’anni la magistratura e le commissioni di inchiesta non siano partiti da questo dato per procedere con le loro indagini. Sia chiaro: non ho alcun titolo per impartire lezioni. In realtà, costoro non sono partiti da questo dato per ragioni anche di carattere tecnico-burocratico. Mi spiego: se io, membro della Commissione di inchiesta Moro, ho bisogno di una copia delle lettere del prigioniero mica mi danno l’originale; le chiedo e la magistratura mi consegna legittimamente delle fotocopie, ma così facendo il problema dei diversi colori scompare per sempre. Vedete: anche qui, nella riproduzione che ora vi sto mostrando, è scomparso: fotocopiando l’originale si è persa tutta la sua policromia. Dico questo perché non dobbiamo per forza avere ragioni maliziose o troppo complicate.
Ad esempio, se avessi qui davanti Moretti gli chiederei due o tre cose semplici: chi tagliava i capelli a Moro, cioè chi ne curava l’aspetto estetico, la barba, i capelli, la manicure, il pedicure? Vorrei che mi raccontasse in maniera credibile e il più possibile persuasiva se usavano le forbicine, le tronchesine e quando e come queste operazioni avvenivano. E dico questo perché il cadavere di Moro è stato trovato con la barba lunga di una decina di giorno, ma perfettamente pulito per quanto riguarda lo stato dell’igiene personale. E farei domande di questo tenore invece di cominciare a chiederli dei suoi presunti rapporti con il Kgb o con la Cia, cercando di vedere se gli altri testimoni oculari (Gallinari, Braghetti, Maccari) cadono in contraddizione l’uno con l’altro. Perché come diceva lo storico dell’arte Aby Warburg «Dio è nel particolare», è dalle piccole cose, dai dettagli che si incominciano a vedere, si rivelano, le realtà più profonde e lunghe.
Come vedete, sto aprendo delle domande. Va anche detto che non solamente questa lettera è scritta così. Ve ne sono, fra le 18 che io visto, quattro o cinque. Questo dato è importante perché altrimenti uno potrebbe essere autorizzato a pensare che quel giorno c’era la Braghetti che si voleva divertire! No, questa è una storia seria, qui c’è un problema rivelato dall’analisi degli originali dei testi, che riguarda il tipo di trasmissioni del prigioniero con l’esterno, filtrato e condizionato dal potere censorio dei suoi carcerieri.
Per curiosità ho anche portato la riproduzione dattiloscritta, ossia battuta a macchina dei manoscritti trovati nell’ottobre del ’78 a Monte Nevoso. Il dattilografo dovrebbe essere stato Prospero Gallinari. Avere stabilito questo con ragionevole certezza è anch’esso importante in quanto definisce una prova effettiva, ossia non basata solo ed esclusivamente sul racconto di Gallinari – i testimoni raccontano quello che vogliono, noi delle nostre vite raccontiamo ciò che vogliamo: il quando, il come, il perché, le situazioni…- non è questo il punto. Gallinari, o chi per lui, perché è significativo? Perché si stabilisce un’effettiva contiguità, fondata su una prova, tra Gallinari, il prigioniero e la sua scrittura. Guardate, la dico così brutalmente perché figuriamoci quanto sarebbe facile attaccarsi al monumento di queste lettere come a un palloncino e farsi tirare su servendosi della loro bellezza: in realtà, una delle funzioni principali di questa corrispondenza è dare prova agli interlocutori esterni che chi scrive i comunicati ha anche la disponibilità del prigioniero. Si tratta di un nodo essenziale perché bisogna pur notare una cosa: se voi leggete i comunicati delle Brigate rosse durante i 55 giorni, essi contengono la chiara rivendicazione di un’azione politica compiuta a Roma, ma in linea teorica possono essere stati scritti da Tokio o da Copenaghen. Ma esaminandoli con attenzione ci si rende conto anche di un’altra cosa: fino a un certo punto in essi c’è sempre il riferimento a una lettera di Moro. Ciò significa semplicemente una cosa per un investigatore dell’antiterrorismo che in Italia, in Europa, nel mondo sono efficientissimi: guardate che il prigioniero ce l’ho ancora io. Ieri Moro ha scritto: «Caro Zaccagnini, sei antipatico», e io che gestisco politicamente l’operazione riporto la frase nel comunicato così da rassicurarvi che ho anche il prigioniero e quindi ho tutto e sono fortissimo: l’unità di direzione politica (la gestione dei comunicati), l’unità materiale (la gestione del prigioniero) e solo così ho effettivo potere di ricatto e ve lo dimostro.
Apro una parentesi perché mi piace andare controcorrente: gli investigatori italiani, anche per il fatto che abbiamo avuto tanti problemi sul terrorismo, a partire da quello altoatesino degli anni Sessanta, in questo campo sono considerati tra i migliori del mondo. Naturalmente, in questo frangente, è parte integrante della declinazione dell’antipolitica auto-descriversi come degli incapaci e dei superficiali; è un alibi che ha notevole presa sul sentimento popolare diffuso e fa comodo a tutti perché stiamo raccontando una sconfitta bruciante di una parte di quegli apparati. L’insipienza, la disorganizzazione, l’inefficacia si trasformano in argomenti auto-assolutori.
Ma riprendo il filo: è un dato di fatto che da un certo punto in poi si spezza questo rapporto tra gestione politica del sequestro e la citazione delle lettere del prigioniero. Questo che cosa significa? Significa, nella versione più prudente – che non deve essere affatto scartata solo per il fatto che lo sia perché l’intelletto è trasgressivo, ma la realtà per nostra fortuna tende alla prudenza – significa che colui che ha in mano il prigioniero e che scrive i comunicati politici non vuole più dare più la certezza ai suoi interlocutori esterni che ha veramente Moro nella sua disponibilità. Lo fa per aumentare la sua pressione terroristica, per ulteriormente destabilizzare gli investigatori.
Allora, e concludo, proprio alla luce di questo ragionamento è importante – presumo – avere dimostrato che sia stato Gallinari ad avere battuto a macchina queste carte perché rafforza con una prova che prescinde dalla testimonianza dei suoi protagonisti, che fino a un certo momento, questo è sicuro, certamente chi ha avuto la gestione politica del sequestro, ha avuto in suo possesso anche il prigioniero. Come è avvenuta questa scoperta? Se leggete i dattiloscritti vi rendete subito conto a colpo d’occhio che sono infarciti di errori di ortografia, sempre gli stessi e sempre straordinari. Uno studente con la licenza d’obbligo a 13 anni non li compie perché gli hanno insegnato, ad esempio, che «sta», «a me», «per me» non si accentano; a 13 anni, anche la più mediocre scuola italiana ha insegnato a un ragazzino che nella frase «a me piace la mela», non va l’accento su «a me». E dunque delle due l’una: chi ha battuto a macchina questi dattiloscritti è uno straniero o è un italiano che non ha terminato la scuola dell’obbligo. Non sono molti i brigatisti con questo profilo e fra questi c’è Gallinari che è costretto a lasciare la scuola in quinta elementare per andare a lavorare. Sì, era di umilissime origini Gallinari ed è una figura assai interessante e molto italiana, ossia che appartiene alla storia del nostro paese, o meglio, alla storia della lotta di classe presente nel nostro paese. Nelle sue memorie Gallinari dice una cosa che comunque non può non colpirti al netto di tutto. Scrive: «Io la prima bistecca l’ho mangiata con e grazie alla lotta armata», ed è vero. Leggendo le sue memorie, si capisce che per il suo percorso di povertà e di ignoranza, per le sue origini sociali, si tratta di un ricordo altamente verosimile, non sta facendo retorica.
Naturalmente non poteva bastare questo dato di fatto – Gallinari ha la quinta elementare – per affermare che fosse lui il dattilografo delle lettere. Ma a questo punto mi capita un colpo di fortuna, un’esperienza che appartiene a tutte le esperienze di ricerca. Una volta apro a caso uno dei tanti faldoni della Commissione Moro e comincio a sfogliarlo prima di incominciare a lavorare sul serio e vedo la riproduzione di un testo manoscritto che attrae, proprio perché manoscritto, la mia attenzione. Chi scrive? Di cosa si tratta? Lo inizio a leggere e con sorpresa scopro che si tratta di una missiva di Gallinari alla sorella, richiesta negli anni ’80 dalla magistratura per fare una perizia calligrafica su di lui e acclusa in quegli atti. Si tratta di una bella lettera del 1975, in una fase in cui lui deve ancora compiere i suoi atti più gravi, ma già si trova in prigione e alla sorella vuole spiegare e difendere con orgoglio le ragioni della sua scelta, perché ha deciso di entrare nelle Br e dedicarsi alla lotta armata. Ma a noi qui non interessa tanto il contenuto che pure è molto fresco, spontaneo, direi quasi delicato; no, a noi interessa il fatto che nel manoscritto trovo la stessa identica tipologia di errori particolari presente nel 1978 nei dattiloscritti: «per me», «per te» accentati e così via. Anche in questo caso, come nei precedenti, i ricercatori di storia questa cosa qui la chiamano prova che consente loro di fondare le proprie interpretazioni non sui fantasmi teorici di ognuno, ma sul terreno ben più solido delle carte, dei documenti, delle fonti che è quanto mi interessava acclarare. Ricordate all’inizio? Verificare le potenzialità ermeneutiche della filologia come ancoraggio decisivo alla formazione, alla strutturazione del discorso storico. Questa era la mia urgenza, una delle mie urgenze, intellettuali, forse la principale essendo uno studioso di storia moderna.
Per concludere vorrei leggervi un brano di una lettera di Giuseppe Soffiantini perché credo che a questo punto sia necessario provare a rispondere alla domanda di come – secondo voi, secondo me, secondo noi – Moro ha scritto queste lettere. Soffiantini, forse lo ricorderete, è quell’imprenditore bresciano che trascorse un anno, non 55 giorni, in preda a un dominio altrettanto pieno e incontrollato di quello di Moro. È colui che subisce un’indicibile violenza fisica, tipicamente italiana, gli tagliano dei pezzi di orecchio che vengono distribuiti alla pubblica comunicazione. Il fatto è questo: una sera il giornalista Enrico Mentana riceve una busta mentre sta per andare in onda, la apre e ci trova dentro un pezzo di orecchio di una persona. Noi tendiamo a dimenticarci di tutto, ci abituiamo a tutto: ma simili episodi rimandano a un’antropologia che ha una sua particolare ferocia e sottolineo questo aspetto rispetto al solito stereotipo con il quale tendiamo a dipingerci: «italiani brava gente».
Ho scoperto casualmente e mi ha colpito che il signor Soffiantini ha scritto una ventina di lettere durante il sequestro. Non è dunque un caso identico, perché Moro ha scritto molto di più in minor tempo, ma comunque venti lettere non sono poche. E allora vorrei leggervi come in questo libro di memorie Soffiantini ha raccontato il modo in cui egli scriveva quelle missive.
Ma prima è utile esporre un ultimo concetto, che mi sono dimenticato di dirvi. Tutta un’altra serie di segni filologici fanno credere con certezza che Moro copiava e ricopiava più volte le lettere. Dov’è la prova? La prova è che egli salta di continuo delle parole e poi le aggiunge in rilettura tra le righe, però sono dei salti non solo meccanici, ma anche logici. Ad esempio, nelle lettera a Cossiga Moro scrive: «Caro Cossiga, torno su un argomento già noto e che voi avete implicitamente ed esplicitamente.» e segue un punto. Continua poi con la maiuscola «Eppure essi…». Quando Moro va a rileggere inserisce una «V» e aggiunge tra le righe «respinto». Solo così, in un secondo momento, la frase assume un significato logico compiuto e diviene: «un argomento già noto e che voi avete implicitamente ed esplicitamente respinto». Ora, da quando si studiano gli amanuensi che copiavano i manoscritti, questo è il tipico errore di chi sta copiando e ricopiando senza pensare a ciò che scrive. Di esempi simili se ne potrebbero fare tanti: «Luca, ti ricordi il nonno degli scacchi» (questo è quello che Moro vorrebbe dire) e invece in prima battuta scrive «Luca ti ricordi il nonno degli.» e solo in un secondo momento aggiunge la «V» e la parola «scacchi».
Ho anche cercato di capire a cosa servissero questi dattiloscritti. Infatti, non tutte le 97 lettere sono battute a macchina, ma solamente alcune. Allora la domanda che mi sono fatto è semplice: perché alcune lettere sì e altre no? E ho dato una spiegazione: questi dattiloscritti servivano a una cosa semplicissima, ossia a fare uscire dal carcere le lettere di Moro non in originale o in fotocopia manoscritta perché questo avrebbe aumentato i rischi. Se per qualsiasi motivo la polizia, anche per un normale controllo, avesse trovato in tasca a qualcuno un originale o una fotocopia del manoscritto di Moro sarebbe scattata un’accusa da ergastolo. I dattiloscritti, invece, non sono neppure firmati e chi gli ha battuti a macchina ha avuto l’accortezza di limitarsi a scrivere «segue firma». Ciò serviva a fare uscire le missive più significative dalla prigione, farle esaminare dal comitato esecutivo e poi farle rientrare nel covo. Solo allora Moro ricopiava e riscriveva le sue lettere. Non sono sicuro di ciò, presumo che sia andata così, si trattava di verificare, a partire dai dati materiali filologici di una scrittura, delle ipotesi di interpretazione coerenti. A me questo interessava come studioso di storia.
Vi leggo il brano della lettera di Soffiantini: «Adesso è il momento di scrivere, rispondo che sono pronto; la tecnica è semplice, ti danno carta e penna, tu scrivi ciò che credi, alla fine prendono il tuo scritto, ti mettono a disposizione altra carta bianca e dettano tutto ciò che vogliono intercalando qualcosa del tuo scritto iniziale. Qualche volta aggiungono altre frasi battute a macchina». In sostanza – dice Soffiantini – «io non saprò mai quale lettera è partita e quale lettera esattamente è arrivata ai miei figli. L’indirizzo a cui inviare la lettera è sempre scelto da me. La busta grande contiene la lettera ed è sigillata, allegato c’è un biglietto nel quale io scrivo di consegnarla personalmente ai miei figli e di tenerla nascosta» – anche in Moro ci sono biglietti del genere – «con particolare raccomandazione di tenerla nascosta alle forze dell’ordine. Mi viene in mente il povero Aldo Moro e penso che Moro è il nome di uno dei miei carnefici. Penso ad Aldo Moro, a come scriveva sotto il dominio incontrastato delle brigate rosse. Lo sento sulla mia pelle tutto questo dominio e riesco a comprendere l’angoscia di quelle parole sue e non sue nello stesso tempo, il suo pensiero e la dettatura degli altri. Bisognerebbe provare per pochi minuti la condizione del sequestrato e verrebbero a cadere tante polemiche sull’autenticità o meno delle lettere dal carcere. Si scrive contemporaneamente quello che si pensa e quello che viene imposto, mescolati l’uno dentro l’altro, il vero e il falso in una scrittura graficamente tua, appartenente però alla logica delle pistole e delle catene».
Io non vi so dire con certezza se anche Aldo Moro abbia scritto il suo epistolario in questo modo. So solo che Soffiantini è un testimone integrale che ha vissuto una vicenda simile e ha avuto la fortuna di essere sopravvissuto alla tragedia e poterla raccontare. Ho l’impressione, e concludo, che questa scrittura, che è una scrittura sporca, contrattata, che è una scrittura faticosa, violentata, che è una scrittura perseguitata e come recintata da un filo spinato, esca da un tipo di costrizione, ma al tempo stesso di rapporto tra lo scrivente e i suoi carcerieri, simile a quello descritto da Soffiantini. Del resto, il destino della ricerca è procedere per domande che finiscono per avere la forma di una risposta e poi trasformarsi in nuovi interrogativi.
Avrei finito: ci sarebbero tantissime altre cose ancora da dire, ma mi fermo qui, lo faremo, spero, un’altra volta. Vi ringrazio per l’attenzione.