Don Virginio Colmegna e don Massimo Mapelli: è bello per noi stare qui. Giovanni Bianchi: Martini “politico” e la laicità dei cristiani.
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premessa di Giovanni Bianchi – intervento di don Virginio Colmegna – intervento di don Massimo Mapelli – intervento di Giovanni Bianchi – domande – risposte di don Massimo Mapelli – risposte di Giovanni Bianchi
Trascrizione dell’intervento di don Virginio Colmegna
Chiedo scusa, parlerò brevissimamente anche perché l’introduzione – tra l’altro pensando a quello che abbiamo visto all’inizio che era di 20 anni fa, se non lo dicevamo potevamo pensare che fosse stato detto oggi. Sostanzialmente, questa città senza mura, la periferia, il campo, c’è dentro tutta la complessità e tutta l’attualità. Questo significa che ci sono delle consegne, delle dimensioni profonde che permettono anche di riflettere. Visto che lo citava prima Giovanni Bianchi, il fatto dell’insegnamento di Martini che, tra l’altro, avendo messo lì in Casa della Carità il sottoscritto e don Massimo, due generazioni di preti con un po’ di anni di distanza, e quindi credo che sia anche significativo sul fatto di una continuità – io ormai vado per i 40 anni di prete, don Massimo è un po’ più giovane – però c’è dentro tutta la dimensione del lavorare insieme dentro un profonda radice di spiritualità.
Mi permetto proprio inizialmente di raccontare un testo autobiografico che poi ho voluto mettere anche nel libro. Sabato, quando Bianchi e io siamo stati da Martini, gli ho dato anche il libro dove c’è dentro questo pezzetto. Negli anni caldi della contestazione, che io ho vissuto, quegli anni che ormai si dicono ’69-‘70, c’era una dimensione anche di tensione, di fatica, di orientamento e di cui ciascuno porta dentro di sé le gioie e le tracce. In quel periodo mi sospesero da scuola perché leggevo Lettera a una professoressa, mi hanno mandato… sono stato a Praglia a vivere in un monastero per un mese, dove sostanzialmente con il Cardinal Colombo non si sapeva bene se mi ha detto di andare, siamo andati, abbiamo fatto tutto questo… quando arrivò Martini, scrissi (lo dico perché un altro dei testimoni, credo, nella nostra diocesi abbandonato e altro per noi che siamo di Sesto, don Cesare Sommariva, aveva portato dentro anche questa dimensione forte del legame con la classe operaia, con lo stile della condivisione) scrissi a Martini dicendo: “Mi faccia fare due cose, sostanzialmente, o l’operaio se me lo lascia fare, o stare a Sesto a lavorare sul tema dell’ospitalità e della marginalità”. Avevo qualche rapporto conflittuale con le istituzioni, o perlomeno di condivisione dell’obbedienza ma dentro a una fatica che voi potete comprendere, e quello che mi sorprese nel 1981 arrivò Martini e mi disse: “Vieni ad abitare tre giorni con me qui in Curia”.
E cambiò lo stile di relazioni, cioè non era il vescovo con tre giorni insieme, e poi mi ricordo che prese la macchina, guidava allora lui, quindi proprio il primo tempo, andammo a Viboldone, lui si mise in un stanzetta, io in un’altra e dopo mezz’ora di silenzio mi guardò e disse: “Va bene, tu vai a Sesto e cerca di fare in fretta prima che gli altri si accorgano, la comunità di ospitalità, di accoglienza che vuoi fare”. Poi mi consegnò questa collaborazione con la pastorale del lavoro e questo reinserimento anche fiducioso nelle istituzioni
Lo dico perché una delle dimensioni forti che ha anche caratterizzato la mia vita e che cerco di portare dentro, che accanto a tutte le dimensioni di presenza, c’è dentro la dimensione di condivisione. Il condividere che è uno degli elementi che è in questo periodo nelle tracce di vita cristiana, di comunità cristiana, vuol dire condividere e far sì che questo messaggio della beatitudine e della povertà e, comunque, di quel linguaggio che è dentro e che fa la profezia evangelica, non arrivi soltanto come un annuncio di parole, ma si traduca in stili di vita, in comunioni e in condivisioni.
Quindi, questa scelta sostanzialmente di far sì che ci siano nella vita della comunità cristiana offerta al mondo come annuncio di speranza, questo messaggio di stile di vita, di condivisione, di gioiosa austerità, visto che la parola gioia la si usa per altre cose, anche dal Papa, è meglio usarla per questa dimensione della gioiosa condivisione della fraternità, credo che non sia una dimensione secondaria.
E questo è uno degli elementi che credo debba ritornare anche oggi con una attualità straordinaria di una Chiesa che sappia a tal punto condividere questo messaggio evangelico che produce quello che poi Martini chiamò la “comunità alternativa”. La parola “alternativa” entrò dentro come elemento non alternativo dal punto di vista ideologico, ma che sa interrogare l’umanità su modelli di vita, su stili di vita, di fraternità e di condivisione con dentro quella straordinaria risorsa della ospitalità che è uno degli elementi che deve appartenere al cristiano in quanto cristiano e alle sue relazioni umane, di sentimento, di convinzione e di consapevolezza.
Quindi questo tema dello stile di vita, della condivisione, della gratuità, dell’ospitalità, che poi hanno generato… perché poi io scrissi una seconda lettera quando doveva andare via, mi sono ricordato degli inizi e gli scrissi dicendo sostanzialmente: “Se Lei va via, ha lì un pezzo di eredità, cerchi di…”. Infatti rispose e nacque la Casa della Carità come elemento di rilettura della città.
Ma anche dentro questa esperienza faticosa, difficilissima – poi Massimo Mapelli certamente vi dirà la fatica – c’è dentro questa attenzione a far sì che i modelli di vita che si annunciano, una religione non utilitaristica, una religione non consumata, una religione non utilizzata, ma una dimensione di vita di fede che sia un’obbedienza al Vangelo, che ti rimette continuamente in discussione, produce modelli di vita, stili di vita, condivisione, culture capaci di sognare la fraternità umana.
E allora questo è uno degli elementi che si radica nei segni, si radica nelle testimonianze, nel modo di vivere, nel modo di pensare, nel portare dentro quello che poi è diventato uno slogan anche questo di Giovanni Paolo II, “la fantasia della carità”.
Per questo abbiamo intitolato il libro anche “Per un’ospitalità contemplativa” che credo che sia uno degli elementi, una contemplazione che viene scavata quasi dentro le contraddizioni. In questi giorni – poi sarà certamente Massimo Mapelli che lo racconterà, visto che lui è più in frontiera ancora, cioè io seguo sempre un po’ le follie e quindi ho più da condividere con quelli che hanno dentro più una quotidianità di domande, ma stare sulla strada la grande domanda che ci poniamo tutti giorni, in questi periodi faticosissimi, come potete ben capire, perché qualsiasi gesto porta dentro la contraddizione del se serve, se non serve, se siamo conniventi, se non siamo conniventi, cosa facciamo, perché tutta questa fatica dello stare in mezzo alle situazioni, ecco la grande domanda, “Chi ce lo fa fare?”, che ritorna sempre.
Quali sono le motivazioni per cui noi dobbiamo continuare a operare e andare avanti. Quali sono le ragioni più profonde che ci spingono e ci rendiamo conto che questo “Chi ce lo fa fare” scala tutte le ragioni che vuoi. Dare una dimensione benedetta alla questione io dico dei rom nel senso di quelle questioni che sulle quali nessuno vuole consegnarsi a dare credibilità a questa relazione perché fa venir fuori l’alterità del “Chi ce lo fa fare”. Cioè c’è una domanda contemplativa dentro il “Chi ce lo fa fare” che sostanzialmente non è spiegata da altre ragioni, se non si consegna ad alcune ragioni anche sociali, deve essere culturalmente motivata, deve essere socialmente arricchita, deve essere anche competente quanto si vuole, ma scava, scava, sotto ci sono delle ragioni che non vengono spiegate se non con questa dimensione dell’ascolto dell’altro che arriva e ti sollecita ad alcune dimensioni che tu non sai spiegare soltanto razionalmente.
Io non ho molte ragioni per spiegare perché siamo lì… posso raccontare alcune ragioni sociali, utilizzo… adesso andremo… tra un po’ mi toccherà andare all’Associazione Nazionale Magistrati a Roma, farò l’intervento, tutte queste cose… Questo fa parte, se si vuole, della routine del lavoro e guai a noi dargli così tanta importanza, anche se dietro c’è questa motivazione del “chi ce lo fa fare” che poi dà la robustezza di una scelta e la solidità di una scelta che non si misura sui risultati. Chiede i risultati ma non si misura sui risultati e non si giustifica dai risultati.
E credo che questo sia uno degli elementi che da questa dimensione forte della gratuità e della dimensione contemplativa, della dimensione della preghiera, della dimensione dell’orientamento. Noi viviamo, evidentemente, in una realtà complessa anche dal punto di vista religioso, dal punto di vista dell’apertura, nel senso che non è una realtà confessionale la nostra, ma per noi ci sono alcuni momenti di riflessione intensa. Nel libro lì cito le prediche che l’Eucarestia domenicale del mezzogiorno, per me è uno degli elementi, siamo in un gruppetto, evidentemente mi sentirei… a questo livello non ho le masse, ma siamo lì con alcuni che vengono. Non avevo mai scritto le prediche, ma da quando sono lì, proprio per principio, le scrivo tutte nell’ora di adorazione precedente all’Eucarestia della domenica, proprio perché vorrei restituire a me stesso il fatto che le storie che ci sono lì, con le quali esprimiamo dei legami faticosi, sono storie che stanno parlando di questa storia della salvezza nascosta che scorre come linfa, che ci permette, lo dico tranquillamente anche oggi, di essere straordinariamente ottimisti e felici.
E lo dico in un periodo dove sembrerebbe che dovremmo essere cupi e tristi dentro una dimensione che, sostanzialmente, se li cataloghiamo, ci sono un sacco di motivi che ci rendono incapaci di gustare alcune dimensioni, che si traduce anche, dopo lo dirà Mapelli, nella fatica. Deve essere, per esempio, strano aver preso gli anziani del quartiere. Ieri don Massimo li ha presi e ha fatto la grigliata al campo nomadi di via Idro: con gli anziani del quartiere è andato a fare la grigliata lì. Evidentemente, non è un gesto semplicemente festaiolo, ha dietro una connessione di lavoro, di fatica, di orientamento, di gesti che vengono utilizzati poi dalla comunicazione mass-mediatica, faticosissima ieri, perché volevano che si raccontassero solo le espulsioni, gli stupri, la violenza, perché poi c’è questo racconto pesante. Dire questi fatti, dove la festa diventa uno degli elementi possibili, che è possibile vivere insieme e rigustare da lì il senso della sicurezza e della legalità, credo che sia difficile.
Allora, il riflettere e far cantare la parola di Dio di dentro credo che sia significativo. Abbiamo allora dato anche un titolo che mi sembra significativo: oltre che “Per un’ospitalità contemplativa”, e voi capite questo, l’altro pezzo significativo è proprio il fatto di dire che dentro questo tipo di dimensione noi di fatto condividiamo “È bello per noi stare qui”. Infatti, all’inizio il libro ha dentro una lectio che ha fatto Martini sulla trasfigurazione e credo che lì ci sia questo doppio registro della voglia di fermarsi a stare lì e, contestualmente, la voglia dell’andare giù e sapere che c’è un annuncio faticoso di Pasqua, di morte che attende la Resurrezione, che ci porta la gioia della Resurrezione, ma condividendo continuamente.
Ecco allora, dentro questa dimensione del “È bello stare qui” noi ci mettiamo anche una lettura della bellezza. Io mi ricordo sempre anche un’altralectio del Cardinal Martini dove il Buon Pastore era tradotto nel Bel Pastore, cioè il tema della bellezza come uno degli elementi fondamentali della carità, una delle cose che cerchiamo di portare avanti sapendo che in questo momento abbiamo 130 ospiti di cui 40 Rom; dico Rom perché a questo punto quando si dice o che bravi che siete, è la cosa più normale del mondo rispetto a questo, ma dobbiamo identificare la gente per le categorie adesso, perché ci stiamo etnicizzando tutti e nei compartimenti stagni o li facciamo diventar poveri, e allora è legittimo tutto, ma dato che questi hanno un nome, un cognome e una storia non riusciamo più e ci etnicizziamo anche noi. 1343
E visto che Martini citava la Pentecoste, uno del bello del fenomeno della Pentecoste è che venivano da tutte le parti del mondo e tutti si capivano sostanzialmente, c’era un linguaggio nuovo che scorreva tra di loro e che li identificava per un messaggio anche di fraternità e di ospitalità. Ecco, il tema della bellezza, come il tema della gioia di vivere e di condividere, è uno degli elementi importanti che ci fa vedere. Per esempio, io ho vissuto con tantissimi giovani che vengono lì, e che poi segue anche don Massimo tantissimo nell’ospitalità, nelle scuole e altro. Qui stiamo facendo diventare tutto un problema, gli anziani, i giovani, tutte le categorie sociali stanno diventando un problema sostanzialmente e questo problema poi ha dentro questa cultura del respingere sempre tutte le situazioni di fatica e di attenzione quasi che portassero dentro con sé uno degli elementi di diffidenza, perché quello che ci preoccupa in questo momento è l’indifferenza. E scoprire che dentro a tutte le storie che ci sono, infatti l’ultimo libro che esce è nato anche da un lavoro di ascolto di alcune storie, rileggendole sempre insieme, cambiandone i nomi perché non è importante chi ma i messaggi che ci sono, ecco noi dobbiamo riscoprire continuamente la densità umana che c’è anche in alcune storie cariche anche di contraddizioni.
E qui qualche volta la lettura della povertà o dei poveri, lo dico perché nel Vangelo di oggi della messa feriale che c’è, è dell’obolo della vedova e quindi pare che sia abbastanza da condividere anche insieme rispetto a questo, non è il superfluo… E qui dentro ci sono tantissime ricchezze umane che diventano un patrimonio nascosto, che in questo momento viene così assatanato dalla paura, così non fecondato dalla speranza, che continuamente non riusciamo. E allora anche, e chiudo su qui, la comunità cristiana, i credenti debbono essere delle persone che utilizzano ancora alcune parole che stanno scomparendo di moda, cioè credo che fino a tre mesi fa parlare di meticciato faceva parte della cultura, della teologia, il meticciato arrivava da tutto, adesso se si dice meticcio bisogna dire con chi perché se no guai, c’è l’analisi del sangue prima che deve far intravedere alcune cose. Noi abbiamo evidentemente questo tema della grandezza che riposa nel cuore di ogni persona da cui cavar fuori anche tutte le dimensioni positive. Lo dirò anche oggi, anche in termini diversi, evidentemente, dove vado adesso: insomma il Vangelo provoca, ed è una profezia; se oggi andiamo a dire: a chi ti da una sberla, mostra l’altra guancia, amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che non ve ne fanno sembrerebbe che questa parola qui sia messa lontana. E dato che c’è un appropriarsi della religione cattolica con troppa facilità, messa sostanzialmente sull’altare dal contratto politico, che non ha niente a che fare con la dimensione anche della spiritualità e delle fondamenta, allora richiamare la spiritualità è richiamare anche una dimensione interiore molto forte, che magari non ci permette di gridare sempre, di stare anche racchiusi nel silenzio anche contemplativo, ma di cogliere che c’è una fecondità dello spirito che rende quell’energia spirituale che abbiamo dentro,
Vi ringrazio e passo la parola.
Trascrizione dell’intervento di don Massimo Mapelli
Continuo io. Molte cose le ha già dette Virginio Colmegna ed è chiaro che per me l’esperienza è diversa, perché quando lui viveva gli anni della contestazione io stavo nascendo. Però ho avuto certamente due fortune, o forse due Grazie, nella storia della mia vocazione e di come la sto vivendo.
La prima è quella di essere cresciuto e di essermi formato negli anni in cui Martini faceva appunto il vescovo a Milano che non è propriamente poco, nel senso che eravamo quasi addirittura abituati troppo bene, a respirare un ossigeno forte, quotidiano, quasi a dare per scontate tante dimensioni. E questa è stata la prima grande Grazia, una formazione che è stata segnata dall’impianto del Cardinal Martini a Milano.
La seconda è quella di aver avuto la possibilità di vivere la mia scelta vocazionale nella Casa della Carità. Io ho vissuto anche 7 anni in parrocchia, facendo l’oratorio, eccetera, a Paderno Dugnano, anni molto belli di cui anzi ho non solo bellissimi ricordi, ma anche molti rapporti. Credo però che qualche fatica anche nel vivere la dimensione istituzionale in una forma certamente diversa da quella degli anni che ricordava Virginio Colmegna c’era comunque, e aver avuto questa opportunità mi ha dato la possibilità di vivere una scelta, una dimensione anche di Chiesa diversa, molto più aperta, molto più Chiesa che condivide, che sta in mezzo, che non ha paura di stare in mezzo. Credo che aver avuto questa possibilità abbia dato ossigeno alla mia vocazione, alla mia storia. E io di questo devo assolutamente essere grato ogni volta.
Anche il titolo del libro, È bello per noi stare qui, è vero nel senso che – prima don Virginio citava diverse volte la fatica che c’è – c’è anche una bellezza grande, enorme in questo, ed è una bellezza profondamente spirituale, cioè che gioca l’appartenenza a quella realtà religiosa, come diceva don Virginio, che spesso non viene giocata sugli altari della compravendita politica, ma che va nel profondo perché credo che l’annuncio della Resurrezione, di cui abbiamo prima sentito parlare Martini, Dio, si può sperimentare per un semplice motivo, che spesso nella storia delle persone che lì non solo ospitiamo, ma delle quali condividiamo un pezzo di strada insieme, si sperimenta non solo la Resurrezione, ma spesso prima si sperimentano le tombe.
E allora io mi ricordo una riflessione che abbiamo fatto a Pasqua nella Casa della Carità dove c’è questo sepolcro che viene rotolato via e dicevamo che ci sono molti sepolcri da far rotolare via: sono sepolcri che condannano alla solitudine, alla stigmatizzazione delle persone, che le condannano a essere percepite come pericolose. C’è da tirar via molte tombe, c’è da far rotolar via tanti sassi che condannano nelle tombe, e far rivivere questo annuncio della Resurrezione.
Devo dire che l’esperienza che facciamo nella Casa della Carità apre tutto questo e nel libro che abbiamo scritto io dicevo come si sperimenta questo: che quando la Chiesa ha questo coraggio di stare in mezzo, di scendere in mezzo anche alle contraddizioni di una grande città, stare in mezzo a dove ci sono le favelas con le persone che lì ci sono e anche con quelle che ci abitano vicino, che hanno ragione anche loro per tante cose: stare in mezzo alle istituzioni e stare in mezzo alle persone che vivono in questi luoghi significa fare una scelta e condividere una passione che spesso è faticosa e che ci richiede ogni giorno, non solo di chiederci “Chi ce lo fa fare”, ma anche “Cosa dobbiamo fare”, quali sono i passi concreti da fare.
Eppure, quando la Chiesa ha questo coraggio di stare in mezzo profondamente fino al fondo, fino alla fine, cioè non dice da questo pezzo mi tolgo e lo consegno ad altri, ma sto in mezzo anch’io, non vado a supplire gli altri fino alla fine in modo che non debbano più fare il loro pezzo, glielo faccio fare tutto, ma ci sto in mezzo anch’io. Quando la Chiesa vive così e non ha paura, diventa una Chiesa che è ancora capace di evangelizzare.
Io riporto nel libro come tanti giovani si affacciano all’esperienza della Casa della Carità e ritrovano ossigeno da questa esperienza e i primi sono gli operatori che lavorano nella Casa della Carità. Abbiamo operatori che sono tutti giovani, quasi tutti anche più giovani di me e credo che molti di loro vengano da storie anche di spiritualità e di ricerca spirituale complessa, faticosa, ma nella Casa hanno trovato ossigeno perché hanno trovato una dimensione di Chiesa che non fa fatica a stare in mezzo fino alla fine, a stare dentro fino alla fine.
E allora credo che quando la Chiesa ha questo coraggio diventa ancora una Chiesa che evangelizza e riesce a parlare. Allora sono andato a rivedere perché il Cardinal Martini aveva scritto nel 1991 Ninive, la grande città e se uno rilegge Ninive, la grande città sembra che l’abbia scritto ieri e non nel 1991 perché tratta anche un’immagine di città, come la città di Milano, come la grande città che è molto attuale. E dentro questa immagine di città il Cardinal Martini va a chiedersi quali sono i passi, quali sono i modi con cui noi evangelizziamo, con cui possiamo evangelizzare tutta questa città e dice che c’è un’evangelizzazione per contagio e una per lievitazione, dove sostanzialmente – dice – c’è un compito di evangelizzazione della Chiesa che è quello che può vivere in una città così complessa solo se sta dentro fino alla fine e contagia col suo modo di essere, e fa il lievito della pasta con le sue azioni dentro a questa città plurale, faticosa. Io credo che questo non sia semplicemente un’indicazione, ma è un modo profondo di essere Chiesa, di essere comunità cristiana che lui ci consegna.
Ecco, se penso al fatto, per esempio, che quando lui ha avuto questa intuizione della Casa della Carità, quando l’ha consegnata a noi, ha detto: “Questa è l’eredità che io consegno non ai poveretti di Milano, ma alla città intera di Milano perché si giochi in questa avventura dello stare in mezzo e di ospitalità”, credo che appunto ha consegnato alla città un’immagine di Chiesa che vuole stare dentro fino in fondo e ha consegnato alla Chiesa una città nella quale stare. La Casa della Carità forse è uno strumento che stando sulla soglia e sulla strada riesce a guardare la città dal basso, solo che dal basso si vede tutta, si vede fino in alto.
Alcuni luoghi sono emblematici per questo. Pensiamo ai luoghi dove ci stanno i Rom, sono i più bassi perché non li vuole nessuno, in realtà poi si scopre che stanno ad abitare su zone che sono le zone di riqualificazione delle città, sopra le quali ci scorrono tanti interessi e che allora, in determinati momenti, fa anche comodo che ci stiano su i Rom così nessuno deve fare la bonifica; poi, quando i Rom fa più comodo tirarli via, si tirano via perché sono un po’ come la play station di turno, li si usa un po’ così. E intanto si confondono un po’ le idee, ma dietro c’è lo sviluppo urbano della nostra città, le grandi aree, la riqualificazione di grandi aree, gli interessi di tantissima gente, le scelte politiche che ne conseguono.
Allora, dicevo, a iniziare semplicemente a stare in mezzo alla gente che vive nelle favelas e nelle baraccopoli, ti fa vedere la città dal basso, ma te la fa vedere fino in alto se guardi bene. Ecco, la Casa della Carità è un posto così, dove si accolgono le storie di tante persone.
Il secondo punto è che il Cardinal Martini ci ha consegnato appunto di essere lievito, contagio e radiazione per una città. In Ninive, la grande città si chiede il Cardinal Martini se la città è anche luogo di salvezza per le persone e ci fa vedere come la città esiste nella misura in cui esistono i cittadini e la città dovrebbe servire a facilitare lo scambio tra i cittadini.
E sogna una città, una città da sognare quasi che, dice, la città di Milano, così complessa, dovremmo riuscire a farla diventare sempre più simile alla Città Eterna che non raggiungeremo mai su questa città di Dio, su questa terra, ma che dovrebbe essere la nostra sfida. E per fare questo, dicevo, ci ha consegnato uno stile che è quello di chi sta in mezzo, non perché fa una testimonianza, non perché vive da testimone quasi che ci sia un mondo che va per la sua parte con le sue logiche, poi ci sono dei testimoni che si sa devono vivere con un po’ di bontà e allora con la bontà in mano allargano le braccia e fanno cadere delle gocce di bontà su questo mondo che si sa è tutt’altro. No, è il modo di chi vive stando in mezzo alla logica del Vangelo credendo che quella logica arrivi anche a costruire dei percorsi di cittadinanza per tutti e si torni a parlare non di bontà che cade quantitativamente come delle gocce sulla miseria, ma come diritti di tutti, doveri di tutti, percorsi di cittadinanza di tutti, come una città costruita per tutti.
Dietro cioè c’è la voglia, l’idea di stare in mezzo per costruire un’idea di città precisa, dei percorsi di cittadinanza precisi. Questa è l’altra, credo, grande avventura che il Cardinal Martini ci ha lasciato, la sua grande intuizione. Non ha messo la Casa della Carità per fare il luogo della bontà in una città, e noi quando siamo andati a Gerusalemme ce lo diceva e nel libro lo abbiamo ripreso. La Casa della Carità non è il luogo della bontà, semmai – dice – deve essere il luogo della esagerazione del bene, che è un’altra cosa, non della bontà, del bene. Come ci diceva nell’incontro che abbiamo avuto con lui a Gerusalemme con tutti gli operatori della Casa della Carità, siccome nel mondo c’è un’eccedenza di male, ci deve essere qualche luogo dove ci deve essere un’eccedenza, quasi un’esagerazione non di bontà, di bene.
Di bene, nel senso anche che arrivi anche al bene comune, al bene di tutti. E questa intuizione che il Cardinal Martini ci ha lasciato forte di costruire un posto che sia quasi profeticamente una esagerazione di bene che contrasti l’esagerazione di male che c’è, credo che ci aiuta a sognare questa città diversa.
Nella parte del libro che ho curato, ho voluto fare soprattutto una scelta: riportare alcune testimonianze di alcuni giovani che lavorano nella Casa della Carità proprio per far vedere quel principio che dicevo prima per cui, quando la Chiesa sceglie di stare in mezzo, diventa una Chiesa che evangelizza, che avvicina ancora i giovani.
L’altra sere ho vissuto una serata con dei gruppi scout del centro di Milano, della parrocchia del Redentore, di San Simpliciano, eccetera, che sono venuti in Casa della Carità e sono stati lì a vivere chi una settimana, qualche gruppo 10 giorni, la mattina andavano a scuola, o almeno così dicevano poi sapete questo non si capisce mai, comunque al pomeriggio quando tornavano venivano lì in Casa della Carità e, invece di andare a casa loro, mangiavano lì, hanno vissuto lì per 10 giorni e semplicemente all’inizio ci chiedevano cosa faremo in questi 10 giorni. Boh! Nel senso che chi lo sa che cosa succede in questi 10 giorni in questa Casa. Alcune cose si sanno, altre no. C’è stato un gruppo che è rimasto lì quando abbiamo deciso di accogliere gli sgomberati di S. Dionigi, quella settimana lì, senza che nessuno lo sapesse prima, abbiamo accolto 70 persone in più. C’era da allargare un po’ perché 70 persone in un botto sono tante.
Per cui si sono buttati dentro, condividendo quello che capita ogni giorno e da questa esperienza che hanno fatto è venuto fuori un percorso di riflessione serio con loro, a livello ecclesiale, a livello sociale, a livello politico. L’altra sera dopo diversi incontri hanno invitato anche tutte le loro famiglie – che non è scontato – a riflettere sul tema che è quello di dire: va bene, ma se il Vangelo ci spinge, loro dicevamo, io ho capito dall’esperienza della Casa della Carità che stringi, stringi, asciuga, asciuga, asciuga, fai tutto quello che vuoi, il Vangelo però alcune cose ce le consegna: accogliere, condividere, stare dalla parte degli ultimi, queste cose qui ce le consegna.
Allora, per esempio, loro si chiedevano come mai la Chiesa, per esempio, non dice che chi è razzista è contro il Vangelo. Non è che se io dico oggi che chi è razzista è contro il Vangelo dico una novità del 2008. È chiaro. Allora i ragazzi si chiedevano come mai, per esempio, non si dice questa cosa? Come mai non lo diciamo? E poi facevano un passo ancora più profondo: dicevano, va bene, ma io che vivo ormai da cittadino e comunque ho 18 anni, 20 anni in questa città e voglio viverci da cittadino, chi è che mi aiuta anche a fare una scelta sociale, di impegno, di cittadinanza, di impegno politico? Mi sembra che la vostra realtà decida anche alcune cose per me che parto dal Vangelo. E poi chi mi aiuta a fare questi percorsi? Chi mi aiuta a fare questi pezzi di strada?
Dico questo perché sono percorsi nati dalla condivisione in Casa della Carità e che però fanno partire dei cammini, delle prospettive, fanno partire l’interrogarsi su di sé, sulla vita, sul mondo. Ricordo un gruppo di un liceo, ragazzi che invece di fare un ponte, che so tipo 25 aprile, invece di stare a casa, una classe intera, ha deciso di venire alla Casa della Carità a viverli lì quei giorni e sono venuti un po’ in giro insieme a me e ad altri e alla fine di un giorno hanno detto: “Don Massimo, noi viviamo a Milano da sempre, ci muoviamo a Milano tutti i giorni, ma non avevamo mai capito che c’era questa città”. Però questa città c’è. E allora a partire da lì hanno iniziato una riflessione che non è semplicemente: “Posso venire a far giocare i bambini?”. Certo, c’è anche quello, ma mi interrogo anche a livello della mia fede religiosa, su che cosa mi chiede il Vangelo, su cosa mi chiede la mia appartenenza alla Chiesa.
Ecco, questi cammini sono possibili, e li si vede, se l’intuizione che ci ha lasciato il Cardinal Martini di vivere questa evangelizzazione del lievito, dell’irradiazione, del contagio, lui li ha chiamati così, stando in mezzo fino alla fine ai problemi, se si vive in questa maniera la Chiesa diventa una grande esperienza di evangelizzazione.
Credo anche che le testimonianze dei giovani che abbiamo riportato in una parte del libro fanno anche vedere come è veramente bello questo da vivere. Io lo dico sempre: i giovani che ci sono in Casa della Carità a lavorare come operatori sono i primi grandi volontari. Cioè a dire, se noi dovessimo pagare agli operatori che lavorano in Casa delle Carità gli straordinari che fanno chiudiamo fra due giorni. Il problema è: perché uno si sente dentro a un’esperienza così forte? Perché è un’esperienza faticosa certamente, ma è un’esperienza che ti da tanto, che ti rimotiva, che ti fa crescere, che ti ridona anche il senso di tutto quello che forse ti sei formato negli anni anche ascoltando il Cardinal Martini. In fondo, il suo percorso era la dimensione contemplativa della vita e già uno che arriva a Milano, dopo un anno che è qua, dice: “Un momento, la dimensione contemplativa della vita; qui tutti impazziamo, corriamo”. Però un momento… la dimensione contemplativa della vita, partire dalla Parola, in principio la Parola, partendo da Emmaus, ripartire dall’Eucarestia col Risorto per poi arrivare a farsi prossimo… già uno che ha vissuto questi percorsi col Cardinal Martini semplicemente prendendo il titolo delle lettere pastorali lungo gli anni (a volte basterebbe prendere il titolo delle lettere pastorali lungo gli anni per vedere il percorso) ecco, io credo che se uno ha vissuto questo e si interroga su come la Parola, la dimensione contemplativa della vita, l’Eucarestia, il farsi prossimo, questo è lo stile da vivere
In un’esperienza come la nostra con tutti i limiti che ha, si può anche rivivere questo e credo che, lo accennavo nell’ultimo pezzo del libro, si ritorna anche a sognare perché c’è bisogno anche di questo. Perché, soprattutto quando incontriamo i giovani, perché non è banale se uno non sogna più una cosa diversa, ma se uno pensa che esiste un posto come la Casa della Carità e se lo pensa come il concentrato, e spesso lo è, di tante sfortune perché c’è lì gente che ha storie pesanti, come si fa a sognare? Invece è proprio da lì che si risogna, a partire dalla condivisione con questo.
C’è poi una riflessione che riportiamo nel libro fatta, durante una permanenza di un gruppo di giovani in Casa della Carità, dove si leggeva il Magnificat e dove si dice: “In fondo, Maria descrive una roba che non esiste, cioè l’anima mia magnifica il Signore perché ha rimandato i ricchi a mani vuote e ha riempito invece i poveri, ha umiliato i potenti e ha messo sul trono gli umili… Dove succede questa roba qui, non è una roba che succede”. In realtà, è la forte visione di una che vive credendo, credendo profondamente nella fede in Dio, è la visione folle. Occorre anche una visione folle così, quella che Giovanni Paolo II chiamava la “follia della carità“, che nasce se anche hai una fede folle che ti porta a vedere in anticipo, a vedere prima e a credere profondamente che possa succedere questo.
A partire da lì vai anche dalla persona che è stata invece umiliata, che non è vero che l’hanno messa sul trono al posto dei potenti, anzi il potente l’ha schiacciata e dici: “Insieme ripartiamo e camminiamo insieme” perché c’è una visione di sogno anche che ci aiuta a sognare non per staccarci dalla realtà ma per starci dentro fino in fondo, che ci riporta a rimotivare quello che lì ogni giorno facciamo.
Concludo dicendo intanto un grosso grazie, che rinnovo, a questa esperienza che il Cardinal Martini mi ha dato la possibilità di fare, alla vicinanza che lui ha, perché credo che l’altra cosa che forse don Virginio non ha detto è che quando ci scriviamo via e-mail qualcosa che interessa la Casa della Carità, non ha mai messo più di un’ora a risponderci, mai. Il che non è così scontato, e questo vuol dire che è un’esperienza che lui ha a cuore e non l’ha consegnata come eredità alla città dicendo: “Va bene, è uno dei mille posti di accoglienza”. No!
E inoltre devo dire grazie, l’ho fatto anche nel libro, a tutti questi giovani che incontro in Casa della Carità che vengono a condividere con noi l’esperienza perché motivare questi cammini è qualcosa che rimotiva anche noi. E alla fine, un grazie va agli ospiti che ci sono lì perché è con le loro storie di vita, con la fatica che ci chiedono di stare in mezzo, perché poi anche con i Rom è faticoso, è bello ma è faticoso. Se c’è uno che litiga tutti i giorni con i Rom sono io purtroppo, e avendoli lì in casa bisogna convivere con tutto quello che ne può derivare. Però è anche un litigio possibile, credo che anche Giovanni Bianchi litighi con sua moglie, nella Casa è un po’ diverso, siamo un po’ più in tanti, c’è anche un aspetto culturale, non lo dobbiamo negare, di mediazione, però questo rende assolutamente arricchente sotto ogni punto di vista il nostro cammino. E fa sorgere continuamente la domanda “Chi ce lo fa fare?”. E non è che sia un male il fatto che qualcuno ogni tanto si chieda: “Chi ce lo fa fare?” e vada a riscoprire la motivazione e la ritrovi: non è sempre per forza un male.