Michele Salvati. Il Partito democratico per la rivoluzione liberale.

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C’è un punto dove il destino e la mission del Partito Democratico si incontrano ed è nell’esigenza di chiudere la transizione infinita. Insopportabile oramai per la società italiana prima ancora che per la classe politica. Veltroni che si incorona mediaticamente al Lingotto, cogliendo il tempo e l’onda da altri agitata, lega opportunamente il passato di un Nord perduto con la nuova prospettiva del PD. Di simboli la politica continua a vivere e il grande Affabulatore non sbaglia né il passo né il luogo.

Michele Salvati. Il Partito democratico per la rivoluzione liberale.

1. leggi il testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi distribuita in sala

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introduzione di Giovanni Bianchirelazione di Michele Salvati –  intervento di Salvatore Natoli

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Testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi a Michele Salvati

Chiudere la transizione

Il partito come destino

C’è un punto dove il destino e la mission del Partito Democratico si incontrano ed è nell’esigenza di chiudere la transizione infinita. Insopportabile oramai per la società italiana prima ancora che per la classe politica.

Veltroni che si incorona mediaticamente al Lingotto, cogliendo il tempo e l’onda da altri agitata, lega opportunamente il passato di un Nord perduto con la nuova prospettiva del PD. Di simboli la politica continua a vivere e il grande Affabulatore non sbaglia né il passo né il luogo.

Anche il sindacato non è più quello di un tempo: non è più quello di Luciano Lama e non è più sindacato-società, ma sindacato corporazione (e non è necessariamente una bestemmia). E il lavoro italiano è siffatto che la Bossi-Fini rappresenta un grande mezzo di organizzazione del lavoro interinale. Un lavoro tecnologicamente disseminato con resistenti residui di arcaismo. Li ritrovi nell’edilizia insieme a una generale riemersione di zone e attività servili.

Come li organizzi? Non vorrete disperdere la memoria antica dell’organizzazione? Ha ragione l’amico filosofo (filosofo, non professore di filosofia) che predica in ristretto circolo che qui ci vuole l’arte di Michelangelo che trascina al moderno l’antichità tutta, e non il funereo sublime di Canova…

La catena di montaggio era moderna. Tra il ’53 e il ’60 il problema era entrare nell’organizzazione del lavoro. Grazie Fiat. Le lotte si determinavano sulle condizioni di lavoro: no alla monetizzazione della salute. E ora? Il marxismo de-ideologizzato sta lì inerte come analisi sociale. La politica perennemente in ritardo o totalmente assente: per questo fa rabbia, a destra come a sinistra. E le forme della vita e della produzione si organizzano fuori dalla politica. Si mettono dietro le bandiere di uno straccio di populismo. E’ quel che è accaduto al Nord. L’ossessione della detassazione e perfino l’evasione ostinata possono essere lette come un modo di organizzarsi fuori da questa politica che non c’è. Del resto al Sud ci si è da tempo rivolti alla camorra e alla mafia, consolidando le reti dell’impresa criminale.

Perché il grande Affabulatore si rivolge a un Paese malinconico promettendo uno scampolo di felicità?

Perché siamo infelici dal momento che ciascuno avverte il persistere di una incolmabile distanza tra le proprie capacità e le opportunità offerte o consentite.  Su questo  terreno i  riformismi  superstiti vengono sfidati. Non importa se di matrice variamente cattolica o variamente laica: importa se sono in grado di risposte, se sono in grado di funzionare. Uscire dalla retorica è la sfida che li attende.

Sono all’ordine del giorno in tal senso non le ripulse vecchia maniera del mercato, ma critiche puntuali e creative, dal momento che esso, il mercato, non garantisce le capacità di tutti e non tutte. Le potenzialità certamente non difettano, soltanto che si ponga mente alla circostanza che l’informatica del mondo di oggi è per l’80% retta da un paese considerato “povero”, l’India. E neppure deve sfuggire la circostanza che una certa misura del successo e della diffusione del fenomeno del volontariato conseguono dal fatto che chi sceglie quell’impegno e quella professionalità sceglie nel contempo una modalità peculiare e personale di espressione.

Necessità e occasione

Non tenere conto di bisogni e desideri siffatti spalanca le porte all’anti-politica, al punto che l’anti-politica medesima ha pensato di farsi politica.

Tutto questo parla di una società italiana depressa e spaccata in due. Con due modalità di evoluzione che hanno fatto sì che alla storica questione meridionale si accompagni un’affatto diversa questione settentrionale. Intorno alla meridionale si sono versati i soliti fiumi di inchiostro e si sono cimentati cervelli del calibro di un Saraceno. Quel che oggi pare incalzare più da vicino le prospettive delle forme politiche è invece una inedita questione settentrionale. Perché il nord? Perchè ancora una volta le forme del vivere e del produrre non possono aspettare i ritardi della politica. La politica e i suoi miti, le grandi narrazioni che promettevano salvezza e hanno procurato solo martirio vengono rifiutati  perchè inutili.

Avventura obbligata dunque e non per questo meno straordinaria quella che attende il PD. E infatti non c’è precedente e analogo in giro per il mondo. Val la pena ripetere ancora una volta che il termine a quo  è rappresentato dalla caduta del muro di Berlino. Circostanza che per noi rimanda ad un’Italia nell’imminenza di tangentopoli, e cioè tenuta insieme non più dal mito, ma dalla corruzione. Una corruzione, anzi, sostitutiva del mito. E in quel collasso italiano non emerge un De Gaulle, ma i due leader della grande occasione mancata: Mariotto Segni e Achille Occhetto. Chi tentava  disperatamente di raggiungere e restaurare una socialdemocrazia già in crisi irrecuperabile, e chi pensava di produrre la svolta pigiando soltanto il pedale delle regole. Una coppia di dioscuri destinata per questo a lasciare il passo e lo spazio a un’altra coppia che non mancò l’occasione: Berlusconi e Romano Prodi, anzi, Berlusconi e Massimo D’Alema.

Una svolta alla quale si accompagna la delusione della grande organizzazione venuta meno, il rimpianto per il moderno principe, secondo una mitologia leninista dura a scomparire. Quel modello Prometeo che aveva generato il titanismo politico e le sue tragedie. Che ha ai suoi inizi il Goethe che proclama: “Con Napoleone la politica diventa un destino” .

E adesso, poveri uomini! E adesso cari nani figli di antichi giganti? Adesso la necessità e l’occasione del PD per chiudere finalmente la transizione infinita.

Necessità non è termine politicamente lieve. E’ preso dal vocabolario di Nicolò Machiavelli che ne discute nel capito ottavo del Il Principe, capitolo nel quale si ragiona intorno al delitto politico come mezzo di acquisizione del principato. Non a caso vi si parla di Agatocle Siciliano che, “non solo di privata ma di infima e abietta fortuna, divenne re di Siracusa”.  Con una conclusione altrettanto hard: “E debbe, sopra tutto, uno principe vivere con li suoi sudditi in modo che veruno accidente o di male o di bene lo abbi a far variare; perché, venendo, per li tempi avversi, le necessità tu non se’ a tempo al male, e il bene che tu fai non ti giova, perché è iudicato forzato, e non te n’è saputo grado alcuno”.

Ma anche occasione da non perdere. Occasione è termine invece del lessico dossettiano, ed emerge a tutto tondo da un incontro tra la redazione della rivista “Bailamme” nel 1992 sull’Appenino reggiano e il monaco ottantenne. Commentò così l’avvenimento quello che mi pare restare il suo più acuto biografo, Pino Trotta: “Fu un’impressione fortissima: un’attenzione acuta agli eventi della storia si coniugava in lui ad una ricerca spirituale originalissima, capace come poche di porre anche al nostro presente domande essenziali”.

Così si esprimeva Dossetti: “Io non dico che ci sia una incompatibilità assoluta tra la fede cristiana vissuta con impegno e lealtà e l’impegno politico. Non c’è una contraddizione a priori. Sono convinto di questo. Ma sono anche convinto che ci sono mille e una ragione di cautela e di condizioni difficilissime”. E precisava con l’abituale nettezza: “Una prima condizione sarebbe proprio questa: che non ci sia un proposito di impegno politico e questo non sia in conseguenza di un progetto o nella convinzione di una missione a fare. Nego la missione a fare. Nella politica non c’è. Mentre abitualmente e soprattutto nella esperienza concreta, la politica è stata pensata come una missione a fare. Secondo me questo avvelena tutto. La seconda condizione è la gratuità, la non professionalità dell’impegno. Dove comincia una professionalità dell’impegno cessa anche la parvenza di una missione e la possibilità stessa di avere realmente qualcosa da fare. Sono allora possibili tutte le degenerazioni”.

L’impegno politico è dunque occasione, qualcosa che accade: si è presi dall’occasione politica come Paolo sulla strada di Damasco. Un “donofortuito in un certo senso di Dio (Dio fa sempre dei doni che sono a modo suo fortuiti), particolarmente in politica”. Questa l’occasione che accade, dalla quale si è presi e che del resto non va sprecata. Il corollario dossettiano è che si deve restare in politica (per lui il periodo fu di sette anni) soltanto fin quando si ha qualcosa da dire.

Tra necessità  e occasione dunque il destino e la chance del PD.

Torniamo al lingotto di Torino, all’accelerazione e alla svolta rappresentata dall’evento: gestione del mito necessario. Un certo ecumenismo del pensiero e una sorta di kennedismo holliwoodiano (che è una tautologia). Musica. Olè Coltrane !

Gomorra

Sono tormentato dal dubbio legittimo che il diario politico del Belpaese sia rappresentato in questa fase non tanto da La Casta di Rizzo e Stella, quanto piuttosto da Gomorra di Roberto Saviano. L’inchiesta  di Stella guarda al Nord, a questa parte del Paese normale, normale perché sta già in Europa. Stanco e arrabbiato di una politica inutile e quindi costosa. Quella di Saviano guarda a un inestirpabile profondo Sud dove l’impresa più estesa è quella criminale…

E un nuovo dubbio legittimo mi assale: che il buonismo del quale ha bisogno il Belpaese non sia quello del Lingotto che, come Savino Pezzotta,  guarda all’Africa, ma quello di don Ciotti che guarda alla mafia e alla camorra.

Il respiro non può essere ridotto, e l’orizzonte neppure. Il confronto è ancora una volta con le grandi narrazioni che ci stanno alle spalle. Il compianto Giuseppe Alberigo, una delle menti più fine della storiografia italiana, intervenendo nell’aprile del 1992 al primo convegno dell’associazione europea di teologia cattolica tenutosi a Stoccarda,  così si esprimeva: “Il tentativo titanico di prolungare l’egemonia planetaria mediante la diffusione delle ideologie contemporanee – dal liberalismo ai fascismi sino al marxismo e all’atlantismo – ha occupato gran parte del XX secolo, ma è tramontato sotto i nostri occhi. Ci si deve chiedere se  così l’eurocentrismo non abbia consumato la sua ultima e forse meno gloriosa mutazione. Se questa ipotesi è fondata, essa produce una domanda cruciale: come può essere superato l’eurocentrismo  senza prefigurare necessariamente una stagione di subalternità esterna e di interna frammentazione, del continente europeo”?

Non piccoli i miti caduti. Non piccola la caduta. Una grande occasione ma anche una grande responsabilità per i riformismi che si radunano intorno al progetto del PD. Saranno all’altezza?

Il rischio è altrimenti quello paventato da Michele Salvati: non un partito di massa e popolare, ma una sorta di riproduzione del Partito di Azione, composto di quadri liberali con un qualche vezzo elitario.

Due i caratteri delle grandi narrazioni del novecento: la potenza e l’universalità. Due cose, sia detto come per inciso, di cui mancano assolutamente le vulgate politiche attuali, dal momento che i rinascenti populismi dicono la fine e il rimpianto del primato della politica.

Le grandi narrazioni del passato erano potenti perché si presentavano come interpretazioni del mondo volendolo cambiare. E’ come se alla base di tutte ci fosse l’Undicesima Tesi su Feuerbach: quella che diceva che bisognava smettere di descrivere il mondo e metter mano piuttosto a cambiarlo. Oggi, invece, tutti si limitano a descrivere…Vigeva, allora, il primato della politica. C’erano antropologie forti. E senza voler sembrare il Levi-Strauss della Bovisa, mi pare soffriamo oggi di una assoluta mancanza di attenzione antropologica.

Il militante e il volontario

Costituiva allora la quotidianità dei partiti la presenza del militante politico con un identikit assolutamente identico sotto le diverse e contrapposte bandiere. Su quelle gambe e su quelle spalle ha camminato la democrazia italiana del dopoguerra. Sulle spalle e sulle gambe di chi sapeva differire bisogni reali e presenti per lavorare alla costruzione di una società migliore, se non per i figli almeno per i nipoti.

Al militante è succeduto il volontario, alla militanza il volontariato. Il volontario critica e contraddice il militante, si oppone a un eccesso di tasso ideologico, e per altre vie ne continua l’impegno. La potenza delle grandi narrazioni e dell’organizzazione dei partiti di massa poggiava su questa umili ma ambiziosa antropologia. Niente di tutto questo oggi dalle parti del PD. E questo vuoto mi lascia allibito. Neppure ci si interroga sul mix di gratuità e professionalità che ne andranno a costituire l’impegno di cittadinanza. Anche il termine suona alieno o almeno oriundo: si dice democrat,alla maniera americana.

Non meno potente l’orizzonte universale delle ideologie. Suscitarono movimenti di liberazione. Arrivarono nell’Africa di Niehrere, Senghor e Seku Turé. L’enciclica Pacem in terris non tralascia la loro presenza, annoverandoli tra i principali segni dei tempi.

Bisogna dire che il compito maggiore per il PD è dunque quello di pensarsi, e di pensarsi sul territorio, e non negli uffici studi. Ripeterò per l’ennesima volta, quasi una giaculatoria disperata, che per Aldo Moro il pensare politica era già per il 90% fare politica…

Qui si pone il problema del deposito della tradizione cattolico-democratica, del suo destino, del suo senso.

Dirò subito che si tratta di una cultura della moderazione, che reclama una politica temperata, non una politica per i ceti medi. C’è qui un abbaglio di miopia sociologica impressionante: la politica moderata non è quella prodotta da un partito di ceti moderati , ma si pone come uno sguardo interno alla politica medesima, chiamata a prendere le distanze dai fondamentalismi di destra come da quelli di sinistra. E’ la grande lezione di Luigi Sturzo e da ultimo del cardinali Martini.

Si tratta di fare i conti con la drammatica vicenda del neo popolarismo. Mino Martinazzofli, l’ultimo segretario della Democrazia Cristiana e il primo segretario del nuovo Partito Popolare, scomodò Shakespeare per indicare un pericolo e un esito: che il morto tenesse il vivo…Il morto, secondo l’espressione di Gerardo Bianco, è la “democristianeria”: una improvvida continuità ed inerzia che spinse a procedere per quote di appartenenza e a correntizzare tutto il  rimasto. Battista Bonfanti ne fa una ricostruzione puntuale e condivisibile nei primi due saggi del suo libello Di Nuovo Popolari.

Ecco allora il problema: come l’invenzione di Forza Italia ha aperto la transizione infinita (che è già durata più della Rivoluzione Francese), il PD sarà in grado di chiuderla? Qui stanno insieme la necessità e l’occasione. Il cimento è quello di “mischiare le diverse culture dei diversi riformismi”. Di  coniugare il concetto di libertà, da sottrarre al monopolio della destra, con il concetto di solidarietà, da sottrarre alle ultime e esclusive interpretazioni di certa sinistra.

Il progetto passa evidentemente per una via stretta, quella per la quale dovrebbe passare la gente che ha ancora fame di politica, ma che non digerisce più il modo di fare politica di questi partiti. Qui anche il discorso sui costi della politica. Sappiamo tutti che il popolo degli eletti si compone in Italia di 179.485 persone e che il Quirinale costa 4 volte la Corona Britannica…

Un problema di democrazia

Il problema è essenzialmente un problema di democrazia. Come ha scritto Brunelli su“Il Regno”, per un cattolico democratico l’inciampo maggiore sarebbe quello “di partecipare alla costruzione di un PD che nega nel metodo il suo principale significato”, dal momento che solo il pieno dispiegamento del metodo democratico “può consentire al nostro sistema di non naufragare”.

In secondo luogo ci si chiede se  una grande tradizione come quella cattolico-democratica “debba essere consegnata al silenzio o al settarismo di una riduzione correntizia”. Si tratta cioè di non ripetere il peccato d’origine della Margherita: se si entra in una formazione partitica per quote correntizie, di quote correntizie si vive, anzi si muore.

Nel necessario incontro tra culture val meglio misurare prima le distanze (che ci sono) e poi le vicinanze (che ci sono). Tra le vicinanze collocherei il comune ceppo eurocentrico. Benedetto Croce, allievo di Labriola, sosteneva che liberalismo e socialismo  sono del medesimo ceppo. E anche Sturzo ha qualcosa a che fare con l’orizzonte liberale, come da subito aveva inteso Gobetti. Paradossalmente nell’elenco delle vicinanze anche l’esaurimento delle rispettive identità culturali. E giudico che proprio dal loro esaurirsi sia determinata una spinta ad approdare al nuovo progetto di partito. Ognuno dovrebbe aver chiara la propria identità, e proprio per questo sentirsi disponibile a giocarla. In politica è il futuro che dà senso al passato.

Restano i dilemmi e la ricerca del credente. A partire dall’esaurirsi di una fase della cristianità. E’ ancora Brunelli a notare su “Il Regno”  che siamo “alla costituzione di correnti o quote di rappresentanza cattoliche che si propongono come tali. In questo modo, il PD non dà alcun contributo positivo alla soluzione della “questione cattolica”, semplicemente la settarizza e la rende ulteriormente insignificante”.

Fine o crepuscolo del cattolicesimo politico? Ruini, inteso come cardinale, mette a tema l’argomento nel 1994. La fine del cattolicesimo politico avviene nel tramonto, anche in Italia, della cristianità, a dispetto dei dati delle sociologie. Lamentava un mese fa il priore di Bose Enzo Bianchi la favola che il cattolicesimo italiano sia fiorente e popolare.  Un popolo che si dichiara cattolico al 90%. Con una frequenza alla messa domenicale del 25%. Che solo per il 45% crede alla risurrezione del Gesù di Nazaret. Poi scopri che di fatto solo il 19% va effettivamente a messa di quelli che dichiarano d’andarci… Ovviamente non si tratta di mettere la fede ai voti, ma di riaprire una ricerca capace di non fare sconti a se stessa. Si tratta di riscoprire pensieri “periferici”: quelli che alimentarono or è più di un decennio la teologia minore dell’impegno. Di riscoprire l’ammonimento di Zaccagnini che amava ripetere d’essere entrato in politica non per la fede, ma a causa della fede. Non la politica cristiana, ma cristiani in politica. Non il “regno dei valori”, sostituito al “regno di Dio”, ma la sapienza (dossettiana) della prassi.

Due opportunità si danno in tal senso, rammentando che sempre un’ambizione strategica passa attraverso il collo di bottiglia di una circostanza tattica. Sto pensando alla questione del Nord e (siccome ho deciso di complicarmi la vita) all’invasività dei temi cosiddetti eticamente sensibili.

Il Nord come questione

Indubbiamente il Nord mostra caratteri strutturali e culturali che lo presentano non tanto come una anomalia, ma come la normalità di una parte del Paese che sta in Europa. Luogo di incubazione delle 6 mila medie imprese italiane e di 6 milioni di piccole. Un duro processo di selezione nel capitalismo nostrano, passato attraverso conflitti tra flussi e luoghi . Un Togliatti redivivo ripeterebbe probabilmente che si tratta di “afferrare Proteo”. Nella stessa rivolta fiscale c’è molto di più del fisco. C’è ad esempio l’antico retaggio di un Lombardo-Veneto che vide predicare dai confessionali la mere penalità delle leggi. Con il problema per noi di una cultura solidale chiamata a confrontarsi con un Paese ricco, che già Ezio Vanoni si era incaricato di additare a tutti gli italiani.

Il Nord esiste come questione soprattutto per il centro sinistra, dal momento che vi si è costituito un blocco sociale che lo esclude. Bossi e poi Berlusconi si sono sentiti in sintonia da subito e per primi con questa temperie culturale, ma sono risultati incapaci nel darle un progetto. Bossi perché ha eretto la permanenza della Lega a fine della Lega stessa, sicuramente prima del federalismo e della secessione. Berlusconi perché si è limitato a suggerire o predicare: siete così, continuate così. Io sono l’apice di questo lassez faire. Un vantaggio per il progetto del PD, un ritardo eccessivo per il Paese.

Ciò dice ancora due cose. Che prima si stabiliscono le priorità del programma e poi si organizzano le alleanze. Lontani dall’idea di chi pensa che il partito si faccia dal governo o che si faccia contro il governo. In secondo luogo si tratta di prendere atto che quel che resta in termini di nomenclature della vecchia rete dei partiti di massa è pensato sulle forme del vecchio blocco sociale. L’esigenza di un nuovo progetto e di una nuova formazione rivela anche da questo punto di osservazione i caratteri già citati della necessità e dell’occasione.

Il dibattito che si è aperto intorno al rapporto tra etica e laicità dice invece, al di là delle vecchie propagande che puzzano di Porta Pia, del nuovo dislocarsi della laicità medesima, non più soltanto giocabile tra Chiesa e Stato, ma tra laicità ed etica.

Si tratta di prendere atto che si è chiusa una stagione storica, quella dei movimenti, che vide anche l’evento del Concilio Ecumenico Vaticano II, e siamo in presenza di mobilitazioni: così come dicono le due piazze del 12 maggio a Roma. Siamo anche per questo versante chiamati dunque a fare i conti con gli effetti della secolarizzazione nella globalizzazione. Una scolarizzazione che non ha prodotto una grande Francia planetaria e agnostica, ma che risulta tuttora un pieno di idoli e di resistenze. Le stesse identità  giocano un ruolo resistenziale. Si aggiunga una sorta di invasione di campo e dilatazione del perimetro dei temi cosiddetti eticamente sensibili. Invasione prodotta dallo sviluppo scientifico tecnologico dentro la produzione legislativa e dentro anche la mancata  produzione legislativa.

Credo in proposito che occasione e compito del PD sia contribuire alla creazione di un’opinione pubblica con metodo democratico. E mi piace far notare che il tema di un’opinione pubblica dentro la Chiesa fu proposto da papa Pio XII già nei primi anni quaranta. Battaglia non per la democratizzazione della Chiesa ma per un incontro delle diverse culture nello spazio pubblico della democrazia. E’ il tono del dialogo avvenuto a Monaco nel 2005 tra il cardinale Ratzinger e il filosofo Habermas. E non importa osservare che il centrodestra in Italia alteri continuamente il “mercato”, dando ogni volta precipitosamente ragione alla gerarchia. Le politiche dei furbi hanno il fiato corto.

Vanno dunque messi in campo lavori e strumenti di una nuova laicità. Essi sono chiamati a rispondere al bisogno diffuso di cenacoli, di luoghi d’incontro e di confronto. In quell’occasione Habermas proponeva “luoghi di virtù”. Il cardinale Ratzinger “piccole comunità creative”. Due etichette sopra la medesima cosa. Cartello indicatore di questo percorso mi pare quello costituito dal dialogo tra il cardinal Martini e il professor Marino, ricercatore e senatore diessino. Tra tanti che hanno l’aria di essersi messi in trincea, i due forniscono l’esempio di chi si è messo in cammino per dialogare.

Visto in quest’ottica il PD è una risorsa per la laicità e per l’etica, non la laicità un nuovo disturbo per il PD. Centrale e preliminare in questo percorso il problema della ricerca di un consenso etico tra le culture, l’unico modo per consentire alla politica di dispiegare la propria azione su un terreno non evanescente e per evitare che le nostre città si costituiscano, come già in parte sono, in agglomerati di ghetti accostati.

Mi vien voglia di chiudere con un’esortazione che può anche essere il titolo di un nuovo capitolo da scrivere collettivamente: prima di tutto pensare il PD.

Perché il Nord, e perché perduto?

Torino stessa non è più quella alla quale i candidati alla tuta blu salivano dal profondo Sud in treno cantando: “Torino Torino, la bella città, si mangia si beve, e bene si sta”. Il crollo degli Agnelli ha cambiato la capitale sabauda e il modo di pensarsi della città: che fu anche il modo, non solo a sinistra, di pensare il Paese. Vi si trovano una condizione operaia da tempo disgregata e introdotta nella società dove tutto è servizi, dal momento che al cittadino si è sostituito il consumatore. Invece della grande Fiat, anche lì, un lavoro disseminato nelle partite IVA. Il Lingotto odierno dice questo, e sia il sindaco Chiamparino come il candidato segretario Veltroni lo sanno.

Trascrizione dell’introduzione di Giovanni Bianchi

Mai tema fu più puntuale, all’interno di un percorso maximis itineribus, nella stesura del  “Partito Democratico per la rivoluzione liberale“, in due edizioni, quella distribuita con il Riformista e curata dall’associazione “Libertà eguale”, e quella edita da Feltrinelli. Questo a dire anche dell’attenzione per un magistero come quello di Michele, che è il padre culturale del Partito Democratico in Italia, e quindi è con questo animo, con questa simpatia, con questa lunga amicizia che lo accogliamo, anche perché è presenza, grazie a Dio, abituale nel percorso del Dossetti.

“Il Partito Democratico per la rivoluzione liberale”…ma, già che ci sono, così mi tolgo di mezzo tutte le incombenze logistiche, vi annuncio che il prossimo incontro sarà sabato 5 aprile con Luigino Bruni e il suo studio “La ferita dell’altro, economia e relazioni umane”; introdurrà Salvatore Natoli: quindi il corso è al giro di boa, nel pieno dello svolgimento.

Michele Salvati è di Cremona, ordinario di Economia Politica  presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano.  Collabora a vari giornali, è editorialista del Corriere della Sera. Nel 1996 fu eletto deputato, poi il rifiuto o, comunque, un’altra scelta; sono numerose le pubblicazioni al suo attivo,  ne ricordo soltanto due: “La sinistra, il governo e l’Europa”, Bologna 1997, e un’altra che sono andato a rivedere in questi giorni: “Occasioni mancate: economia e politica in Italia dagli anni Sessanta ad oggi”, Laterza, Bari, 2000. Numerose le pubblicazioni anche sul P.D. che hanno accompagnato, sollecitato,  costituito il percorso del partito con scienza, con passione e  con spirito critico, più volte manifestato anche in interviste, anche nei momenti cruciali,

Due manifesti compongono il libro in esame e intendono definire una posizione  politica di sinistra liberale: il primo manifesto “Il P.D., perché?”, il secondo, “Per un partito di sinistra liberale”. A partire da che cosa? La metafora che Michele usa è quella del kantiano “legno storto” delle tradizioni politiche che confluiscono nel P.D. Qui direi una riflessione rapidissima, servendomi dell’intervento conclusivo di Walter Veltroni, pochi giorni fa a Roma, rispetto ad un Convegno delle anime (e si pensa e si spera che siano anime cattoliche) all’interno del P.D. Un intervento tutto segnato da un’affermazione di discontinuità (le discontinuità accadono, più che essere programmate), con l’osservazione  che molte cose dentro la coscienza dei cittadini italiani sono già sepolte, anche se non sempre essi ne hanno piena coscienza. Io ho non solo la sensazione ma anche la convinzione  che all’interno del P.D. i reduci (tutti siamo a qualche titolo reduci) dalle culture di provenienza siano già molto più meticciati di quanto essi stessi sospettino.

Ho fatto una sorta di test, alcuni mesi fa, prima di Natale, nella mia città, Sesto S. Giovanni, in un’assemblea che metteva insieme diessini e Margherita e mi sono segnato alcune parole chiave dei discorsi, constatando che il lessico non era più riconducibile alla provenienza politica: una frase, che avresti definito democristiana, l’aveva detta un ex-diessino e una frase “comunista” l’aveva detta un ex-democristiano. Questo dice che l’identità, è un’osservazione sempre di Veltroni, non deve costituire una barriera rispetto a chi è pensato altro da sé.

Cosa che obbliga a non rassegnarsi a nuove divisioni, anche perché, nel quadro europeo, tutti i maggiori partiti sono già da tempo religiosamente misti. E sul versante di coloro che si dicono non credenti o, uso l’espressione di Norberto Bobbio, diversamente credenti (non fa parte del novero  Giuliano Ferrara che, a mio giudizio, è altra cosa, credente, semmai, nello scoop… a qualcosa crede anche lui…) ci si chiede perché chi non è credente non dovrebbe aver nulla da imparare dalla dottrina sociale della Chiesa. Io ricordo un intervento in questo senso di Bruno Trentin, segretario generale, allora, della CGIL, che già si poneva questa domanda, chiedendosi, per converso, se la sua cultura di provenienza non avesse un po’ sguarnito la scatola degli arnesi di interpretazione e di discernimento.

Quindi, questa è la fase nella quale ci troviamo per la costruzione di un partito che voglia essere non solo plurale ma anche durevole, un partito che  preceda, accompagni e segua il governo. Ebbene, tutto questo brevemente, per indicare la fase che stiamo attraversando. Con una domanda che, a questo punto, io vorrei risultasse perfino retorica. E’ in grado il P.D. di chiudere la transizione infinita? Mi riferisco a quella cominciata nel 1994, che  può essere retrodatata  al ‘92, quando Mario Chiesa fu scoperto nel bagno mentre cercava di inabissare i milioni compromettenti, o addirittura, secondo il calendario europeo, alla caduta del muro nel 1989. E comunque, questa transizione infinita, che è già durata in Italia  più di quanto sia durata la rivoluzione francese in Francia, chiede di essere chiusa: 39 partii, o sedicenti tali, sono davvero troppi, c’è bisogno di una semplificazione che non  può essere semplicemente una riduzione del numero, magari  propiziata dalle regole, ma di un processo di trasformazione delle forme del politico.

Il P.D. nasce anche da queste esigenze e soprattutto le vive in pubblico ed è vissuto in pubblico anche dai cittadini che non gli sono affini e che non lo voteranno. C’è addirittura un mutamento nella capacità di assegnare l’agenda al paese: fin qui era stata dettata da Silvio Berlusconi, adesso è dettata dal P.D., al punto che oggi e domani, perfino nella fatale Milano, il centrodestra malamente fotocopia e s’appropria della parola “primarie”, applicata spericolatamente a dei contenuti che dovrebbero essere indicati dai cittadini,  magari a partire dalla sempre fatale Piazza S. Babila.

Ecco, quindi, c’è questa chance di chiudere la transizione infinita. Questa è la domanda ed è anche l’obiettivo che il P.D. si propone in una fase che non manca ancora di controspinte, di inciampi: pensate soltanto ai titoli odierni sul rinvio a giudizio del governatore della Campania e a questa immagine, ben più che emblematica, dei rifiuti campani, che solo campani non sono, perché anche la nordica e padana Lombardia spediva rifiuti in Campania, provocando un problema elettorale che, secondo me, si farà sentire, paradossalmente, più al nord che nel mezzogiorno.

Ebbene, tutto questo ad indicare una situazione che presento con due citazioni. Una è quella di Dossetti che, riferendosi alla stagione della prima repubblica, in particolare alla vicenda dei cattolici al potere, mi disse, a quattr’occhi:“Non ci sarà una seconda generazione di cattolici al potere” e, in uno dei suoi rarissimi slanci retorici, definiva questa vicenda democristiana del secondo dopoguerra “una vicenda sideralmente sperduta nello spazio infinito”. Non è abituale questo linguaggio, in Dossetti, “sideralmente sperduta nello spazio infinito. Anche se, e qui l’espressione è di Aldo Moro, “lascia in giro come eredità un residuo immenso di società”. Chi lo sa se immenso.

Ed un’ultima osservazione che, a chiarire l’esigenza di andare oltre alla transizione infinita, riprende un giudizio dell’ultimo Pietro Scoppola: “..quando c’era bisogno del massimo di discontinuità il ceto politico ha risposto con il massimo di autoreferenzialità.”

In fondo possiamo leggere così tutta la vicenda per la quale, dopo aver presentato Michele, inevitabilmente dovrò magari tenere acceso il telefonino: si stanno facendo le liste in questo senso e tutta la vicenda delle ricandidature e delle deleghe sta dentro questo tipo di percorso.

Qui stiamo e annota Michele nel suo testo: “… il processo costituente risponde ad un processo di integrazione tra apparati politici ramificati in tutto il paese”. Siamo già oltre questo. Io ho sempre  pensato e detto  che la vera occasione del partito era nascere dai due genitori ufficiali riconosciuti. Non sapevo se poi il figlio si sarebbe volto a fare marameo ai genitori. Lo sta facendo prima del previsto ed è anche una vicenda diffusa sul territorio. Qui parlo in presa diretta, dopo l’elezione del coordinamento di circolo di domenica 27 gennaio per la quale avevamo non poche preoccupazioni: ho visto quarantamila persone andare ai seggi, ho visto con i miei occhi assemblee di vecchietti eleggere giovani al coordinamento e poi anche come portavoce dei diversi circoli. Quindi un processo molto forte da questo punto di vista: l’accelerazione può apparire veltroniana, ma è comunque nelle cose; sempre per la teoria che le discontinuità accadono e che siamo in una congiuntura di questo tipo.

Quindi, a quel pessimismo, che nelle prime pagine del testo qualche mese fa  Michele Salvati osservava nell’anima degli italiani, si sta accompagnando anche un qualche ottimismo: la sensazione che si possa uscire dal tunnel e che una luce sia apparsa. In fondo, credo che questo sia il senso dell’uscire dalla transizione infinita. Tenendo conto che tutto ciò avviene sempre dentro una congiuntura internazionale durissima, nel panorama della quale il destino dell’impero americano è stato assimilato e paragonato addirittura all’impero romano; un’idea caduta con rapidità eccezionale a partire dagli stessi USA. Non è imperiale l’immagine che passa Barack Obama e neanche Hillary Clinton, alla fine. Un paese che oggi tutti sappiamo, e la cosa era vera da tempo, essere di gran lunga il più indebitato del mondo, tenuto su dai dollari cinesi, con un’Asia che si appresta probabilmente addirittura a battere una propria moneta collettiva; ha già fatto l’acu, così come noi facemmo l’ecu alla vigilia dell’euro. C’era un articolo qualche settimana fa, di domenica, in terza pagina del Sole 24 Ore, che si interrogava intorno a questo. Ecco, è una fase di multipolarismo confuso. Una sola citazione ancora e poi chiudo. E’ sotto gli occhi di tutti come la Russia di Putin, erede di quell’Unione Sovietica che ha perso la guerra fredda, stia vincendo o abbia già vinto alla grande la battaglia energetica.

Sono solo considerazioni e titoli di capitoli da scrivere, vorrei che dimenticassimo che è dentro questa temperie che viene fatto il P.D: e quindi può sembrare meno un furto lessicale o una mimesi il prendere da Barack appunto il “We can” e tradurlo in “Si può fare”. Devo ricordare a tutti che ognuno è nato dove è nato, le ACLI negli anni ’80, le mie ACLI, già avevano coniato lo slogan “Insieme si può”, quindi le novità hanno un cuore antico da questo punto di vista.

Compito, quindi, del P.D. è aiutare il paese anche ad uscire dalla fase di declino. Molte sono le considerazioni che Michele, non soltanto in questo testo, dedica al rapporto tra politica ed economia.

Penso che diversa potrà essere la conduzione della campagna elettorale e diverso anche l’esito, a seconda che le considerazioni economiche, ad esempio l’inflazione, prevalgano rispetto a quelle di come la politica possa aiutare il paese a sortire dalla fase di declino. Credo che anche questo sarà un gioco delle parti e, comunque, qualcosa che evidentemente e pesantemente influirà sulla campagna elettorale.

Compito del P.D., cito testualmente Michele, “è di adattare i programmi della sinistra democratica ai problemi del ventunesimo secolo e insieme ricomporre una frattura storica all’interno di questo schieramento” e altro ancora…”.interpretare, lasciarsi attraversare da nuove soggettività che significano anche nuove energie; i giovani che si incontrano evidentemente sono smemorati dei sacri testi anche per la semplice ragione che spesso non li hanno letti.” Ecco, e comunque c’è un’aria fresca, appunto, il che va bene; non sempre è sintomo di approfondimento ma io credo che qui ci sia il classico rapporto fra passato e futuro dentro il quale si colloca il presente con tutte quelle osservazioni, circa il contesto italiano, che non poco spazio acquisiscono in politica. Ad esempio, Michele ricorda, nelle sue prime pagine, che in Italia si è costretti a fare i conti con il Vaticano in maniera molto più stringente di quanto non accada in altri paesi e questo si aggiunge ai lavori in corso di una democrazia, che è un compito mai finito e che è minacciata dai populismi e da possibili tirannie della maggioranza. Con un limite, cito sempre da lui, “che la democrazia, proprio per essere fedele al percorso di una rivoluzione liberale, deve mantenere il limite che non deve mai travolgere le autonomie dei singoli”.

E questo è un discorso rivolto evidentemente, e Michele lo fa esplicitamente, alla tradizione cattolico-democratica che ha, addirittura come punto di partenza, l’acquisizione del limite in politica; la stessa accezione di politica temperata o moderata nasce esattamente qui: la moderazione non è il frutto di un partito composto da ceti moderati, anzi questo può dare frutti diversi e perfino molto amari per la democrazia; la moderazione è uno sguardo interno alla politica che sa di avere un limite, di essere un valore e che ci sono altri valori che talvolta perfino la superano. E, in più, la politica non deve promettere salvezza: i messianismi di qualsiasi segno non appartengono a nessuna politica che possa essere moderata. Pensate cosa rappresenta il welfare all’italiana da questo punto di vista, non soltanto quello apicale o verticale, ma  tutte le forme dei welfare municipali, riconducibili, per esempio, a quella espressione, non tanto scanzonata, ma popolare, che Michele usa: “prima le donne e i bambini”. Un’attenzione, quindi, ai legami, alle relazioni, agli aspetti comunitari.  Pensate ancora alla traduzione di tutto questo nella temperie del cattolicesimo italiano ed ai così detti corpi intermedi, che sono poi l’asse centrale di tutta la dottrina sociale della Chiesa che ho evocato sempre, e da qui, quindi, il dialogo tra rivoluzione liberale e cattolicesimo democratico.

Dietro a questo scenario culturale, i grandi temi, le grandi sfide: l’ambiente, per esempio; pensate come l’ambiente stia ponendo alla politica, alle coscienze, alla cultura,  il problema di etica futuribile: sei responsabile del mondo che consegni alle nuove generazioni. E come su questo ancora si balbetti, come sia necessario recuperare terreno, anche perché il protocollo di Kyoto ha una sua emblematicità cui corrisponde oggi un’insufficienza con tutto quello che ne consegue: mi viene in mente il film manifesto di Al Gore, addirittura Premio Nobel per queste ragioni,

L’osservazione di Michele sui diritti umani in politica estera credo sia un altro elemento da valutare nel contesto della globalizzazione e nel vissuto dentro i confini nazionali, se poi si può  parlare, in questo senso, di confini nazionali; nota  Michele: “è facile essere tolleranti e molto ambientalisti per i ricchi, i colti, i cosmopoliti”. E’ ovvio, anche perché il piccolo rom non trova modo di borseggiare Tronchetti Provera, ma chi si avvia trafelato alla Stazione Centrale, uscendo dalla metropolitana o da un taxi.

Un’osservazione altrettanto puntuale è quella intorno alla laicità. Nota Michele, un po’ lapidariamente, e fa bene, che “lo stato laico moderno nasce dalla riflessione conseguente alle guerre di religione che insanguinarono l’Europa del diciassettesimo secolo”. E’ per questo che lo stato in Europa è laico, per farla finita con le stragi religiose, e da questo deriva anche  il rapporto, dato troppo per scontato, oggi, tra stato e modernità.  Ho partecipato  ad una riunione interessante con Stefano Rodotà e Chiara Saraceno, alla Casa della Cultura di Milano, sul tema “Il piacere di essere laici” e credo di essere stato l’unico cattolico, più o meno ufficiale, non solo ad essere presente ma anche ad essere intervenuto e ascoltato con grande  simpatia e partecipazione. Però, una cosa che mi  ha colpito e che ti ritrasmetto, Michele, e che ritrasmetto anche a Salvatore: ho l’impressione  che tutta la laicità, che là veniva rappresentata, era tutta e soltanto fondata  sullo stato, laddove il nostro vissuto  anche statuale e  nazionale è dentro un quadro di globalizzazione e si confronta con altri referenti che non sono solo lo stato, ma che allo stato addirittura hanno sottratto autorità dal basso, in termini federali, e dall’alto, attraverso li organismi internazionali. Mi chiedevo se non avesse una radice un po’ troppo demodée, un po’ troppo datata, una laicità che tutte le sue chances fondasse dentro questo rapporto tra modernità e stato. Non mi piace, perciò: perfino i clericalismi sono diventati moderni in alcune  occasioni, non soltanto all’interno della cristianità ma addirittura all’interno anche di altre visioni,  costituendo, quindi, un argomento che mi sembra che dovremo riuscire a trattare in questa visione di un partito democratico non statalista.

A chi si rivolge, mi avvio a concludere, il P.D.? Michele fa un’affermazione tutto sommato molto precisa, al di là dell’apparenza.  Siamo in una società, diceva Accornero, del non si sa, e cito Accornero non a caso, con tutti i suoi studi sul lavoro e sull’ideologia del lavoro, anche se assistiamo ad un ritorno in campo della questione operaia, dopo la tragedia, in particolare, della Thiessen Krupp.  Veltroni stesso la evoca.  Con tutta una serie di elementi culturali da acquisire che Michele pone con la solita semplice abilità: come spiegare altrimenti che quei ceti produttivi, in identiche condizioni professionali, votano a destra nel Veneto, a sinistra in Emilia  e in Toscana? Si conosce già una celebre risposta dei padroncini di Modena : “Per noi il socialismo è la Ferrari e noi che stiamo al potere” Una dichiarazione molto spiccia, molto pragmatica. Per altro verso, noi sappiamo quanti settori della CGIL siano diventati leghisti.

Sono osservazioni così bene sintetizzate che dicono questo mutamento sociale, questo diverso rapporto con il territorio, il diverso rapporto con il lavoro, la borghesia dei flussi, la “losangelizzazione” non soltanto della  Lombardia, con tutta una serie di elementi che bisogna interpretare. Pensate, ad esempio, al tema ricorrente della così detta metropoli e di come le forme del politico debbano rappresentarla.

Un altro tema, che Michele propone, è democrazia e trasparenza: l’organizzazione del partito in rapporto alla costruzione di una democrazia. Riprende due osservazioni ricorrenti fra la gente: “non ci sono differenze tra destra e sinistra” e “i capi, nei posti che contano, non mettono le persone competenti ma gli amici”. Accade, forse sta accadendo in parte anche in questi giorni, in queste ore, e ne so qualcosa. Non a caso, Michele tu lo sai, io ho proposto le primarie, perché hanno questa capacità di scongelare la situazione. Non penso che con le primarie si possa far tutto, dal caffè alla caccia al cervo, però sono una modalità per scongelare appartenenze e ben più che appartenenze, consorterie e così via.  Dice Michele: ”…la democrazia di partito è parte integrante, essenziale della democrazia. E’ la ragione per cui i modelli di democrazia europea, quando funzionano bene, sono preferibili al modello statunitense”. Noi, in effetti, stiamo facendo molto spesso una commistione inconscia tra modello americano e modello continentale. Pensate, ad esempio, al problema della leadership: noi lo affrontiamo con le primarie all’americana ma l’anima di questo discorso  è invece una leadership scelta alla maniera, diciamo, delle grandi socialdemocrazie europee; ragione per la quale anche chi perde le elezioni può ripresentarsi.

Per carità, stanno benissimo i mixage, i meticciati, bisogna averne coscienza, però, e interpretarli per quello che sono, altrimenti mi pare che si rischi di sovrapporre, in maniera un po’ troppo facilona, il modello americano, soprattutto per quel che riguarda la leadership e la sua gestione, al modello europeo. Mi è parso quindi giusto richiamare questo, con un’osservazione di fondo che riguarda il paese: con una politica screditata non si può avere una buona democrazia: questo è il vallo che separa la politica dall’antipolitica, i populismi dalle innovazioni dentro la politica. Dice Michele: “le primarie fanno entrare nelle sezioni, e ben più in là delle sezioni, nei partiti l’aria fresca delle domande della gente normale.” Questo è vero.

Qui mi permetto di fare un’osservazione a Michele. Questo è un partito non soltanto nuovo, ma anche spericolato, nel senso che non è nato  secondo lo schema classico dei partiti di massa. I libri, “Il manifesto del ’48”, l’appello “ai liberi e forti”  di don Sturzo, un nucleo d’acciaio, e da lì, giù giù per i rami, fino al radicamento del partito sul territorio. E’ un partito, metto lì provocatoriamente l’aggettivo, behaviourista, un partito nato su un comportamento e con le primarie, ragione per la quale le primarie rappresentano non soltanto il mezzo ma anche un po’ il messaggio di questo partito, sono un po’ il mito delle origini, in parte sostitutive, quindi, del libro che non c’è o del libro che, a pezzi e bocconi, a spezzoni, in maniera modulare,  si sta costruendo dal codice etico allo statuto e così via, che non a caso vengono dopo le primarie. Si è incominciato con un comportamento collettivo, questo è un fatto inedito del quale tenere conto. E’, quindi, un partito che, in questo senso, deve essere letto e deve essere capito.

Richiamo ancora due problemi e poi chiudo. Dei due problemi che Michele esamina e che io riporto, uno riguarda il grande tema della sicurezza, che tiene insieme legalità e immigrazione. Michele fa due osservazioni molto interessanti: “…l’immigrazione è un grande vantaggio per le imprese, ma costa, costa molto alla società. Ne tengano conto le imprese, quando chiedono sgravi fiscali.” E, seconda osservazione, “…rispetto alla legalità e alle condizioni in cui l’immigrazione si trova, è semmai sorprendente che tanta parte di essa si comporti in modo onesto e legale”  Quindi il problema è reale, mi sembra posto con realismo e il partito non a caso si trova di fronte il dilemma tra integrazione e riconoscimento della diversità.

Tralascio il discorso sul rapporto con il sindacato, così come il rapporto con l’università, la scuola e la ricerca. La scuola e l’università, è una sua affermazione “sono un punto cardine di ogni programma di riforma”, mi sembra evidente.

Chiudo su quelle che nel libro erano le alleanze di nuovo conio e che, dopo la fatale Orvieto, sono diventate l’ ”andiamo da soli e liberi”. Faccio osservare una cosa, e su questo concludo: ho assistito molto attentamente, dopo una direzione provinciale, alla seduta del Senato che votò  la sfiducia al governo di Romano Prodi; si sarà notato che il P.D. era ben più che il convitato di pietra di quella discussione. Cito due interventi, quello di Angius che sosteneva che, con la fatal Orvieto (è sua l’espressione che richiamò, con Orvieto, la fatal Novara),  Veltroni ha messo in croce ed ha affrettato la fine del governo. Per converso D’Onofrio, dall’altra parte, faceva l’accusa inversa a Romano Prodi, di aver  messo cioè, chiedendo il voto di fiducia, i bastoni fra le ruote alla costruzione del P.D. che stava facendo Veltroni. Al di là dei rispettivi giudizi e delle parti che li esprimevano, è molto  significativo che in quella sede si discutesse di questo.

Ecco, io chiudo con un problema, con un’osservazione che pongo a Michele: è tra le cose più importanti questo andare e venire e ricordo che tu quella sera, avevamo un Convegno assieme, eravamo al Circolo della Stampa, ti schierasti su questo punto di vista e anch’io ero d’accordo.: Perché? Perché il governo non ha potuto governare per la semplice ragione che, dietro al programma, non c’era una maggioranza coesa; l’impossibilità di governare derivava da lì. Per carità, io ho sempre in mente una variabile che non si è verificata, che un leader con un’alta capacità, un Cavour, un Giolitti, un De Gasperi avrebbe potuto superare anche questa gap, incominciando, magari dal Parlamento, una manovra che coinvolgesse…De Gasperi, avendo vinto con la maggioranza assoluta e prendendosi i rimbrotti di Dossetti,  mise i laici nel governo. Fu una grande manovra parlamentare per aumentare la rappresentanza e la coesione dietro il governo.  Questo oggi non c’è stato e il governo è crollato. Quindi per questa ragione, non per l’accelerazione di Veltroni; semmai io leggo l’accelerazione veltroniana come la variabile indipendente rispetto a questo tipo di condizioni.

Dico una cosa in più. Secondo me, l’inizio, l’epifania di questo discorso non sta nella fatal Orvieto, ma va retrodatata di un anno esatto, al mercoledì delle ceneri dell’anno passato, quando il governo Prodi andò sotto al Senato sul documento relativo alla politica estera, presentato dal ministro Massimo D’Alema. Fu l’occasione dei Turigliatto, dei tre senatori a vita non presenti e così via.. Ma che accadde poi? Accadde che in una notte Romano Prodi si inventò i 12 punti, prendere o lasciare. Cos’erano questi 12 punti? Non il riassunto o il bigino  del programma delle 281 pagine, ma la sconfessione del metodo col quale il programma delle 281 pagine era stato scritto, che vedeva prima la platea dei concorrenti e degli alleati e poi l’elaborazione di un programma che non a caso era diventato così lungo, ricco di subordinate alle quali, poi, ciascuno potesse attaccarsi e che aveva anche la funzione di costituire il mastice  dell’alleanza.

L’andare da soli significa un programma chiaro per il quale ci si batte e si chiede la fiducia  del paese e dei cittadini. Io credo che questa sia la svolta che, ben più delle alleanze di nuovo conio,  rappresenta un carattere rispetto al quale il P.D. deve mantenere anche una fedeltà, altrimenti si possono anche aumentare i numeri, teoricamente, con la trattativa ma si rischia di perdere realmente dentro le urne il consenso dei cittadini.

Trascrizione della relazione di Michele Salvati

Cari amiche e amici, io vengo sempre molto volentieri al Dossetti perché c’è un’aria di amicizia, c’è un’aria di casa che sento non appena entro in questa strana cupola tagliata da un grande androne. Ringrazio  Giovanni Bianchi per le parole affettuose, in parte meritate ma un po’ eccessive.

E’ una specie di fissa, una specie di passione quella che dal ’96, dalla vittoria dell’Ulivo, mi ha travolto nei confronti di un disegno politico nel quale credo profondamente, che ha radici culturali e storiche molto profonde e di cui abbiamo discusso lungamente, devo dire, con un’altra persona che qui non c’è, che ho amato molto e con cui di questo e di altro ho discusso molto durante la mia esperienza parlamentare: Beniamino Andreatta. Anche lui era convinto di questo fino al punto, dopo la caduta di Romano Prodi, di costituire un piccolo gruppo insieme alle persone che, per diversi motivi, credevano nello stesso itinerario, come, tra gli altri, Achille Occhetto. Beniamino Andreatta è alla base dei fatti politici che diedero origine all’Ulivo e, direttamente, da questo al P.D. E’ a Beniamino Andreatta che si deve la scelta di Romano Prodi, poi accettata da tutti e in particolare dai DS che venivano dall’esperienza disastrosa della “gioiosa macchina da guerra”, ricordate, quella che comportò, invece, un’incredibile sconfitta inflitta dalla torpediniera o dell’incrociatore di Berlusconi, che strinse due alleanze, una al Sud con Alleanza Nazionale, che allora si chiamava MSI, ed una al Nord con la Lega. Era una convinzione puramente tattica, allora, all’interno del mondo ex comunista, che non ci si potesse presentare con un candidato premier nel contesto di una lotta elettorale che considerava la candidatura del premier come punto centrale, perché si era all’interno di un sistema elettorale tipo mattarellum. Doveva essere presentata una persona che non avesse un’esperienza comunista alle spalle, vissuta ancora in modo traumatico; doveva essere una persona diversa, possibilmente senza un’esperienza politica esplicita. Essenzialmente doveva essere un tecnico o uno della società civile.  Romano Prodi incarnava abbastanza bene queste caratteristiche, risultava come tecnico e membro della società civile; tutti noi sappiamo che era tale solo in parte, che in realtà veniva da un’esperienza politica, che in realtà era una creatura di De Mita, rendiamo omaggio anche a De Mita, rispetto a questo; e questo fu l’avvio dell’intera faccenda.

Da un’ operazione che aveva una semplice opportunità elettorale, cioè come vincere le elezioni all’interno di un sistema maggioritario, che implicava una candidatura premier imperniata su una figura che allora doveva essere, ripeto, non comunista e non politica (si era  ancora vicini a mani pulite, ecc.), da questa cosa, in un certo senso molto banale, molto di convenienza elettorale, scaturì, in realtà nella stessa riflessione di Beniamino Andreatta, mia e di altri, l’idea del perché no? Perché non fare di questa ipotesi tattica qualcosa di più profondo, di cui l’intera esperienza storica del nostro paese ha bisogno? L’idea del P.D. deriva da lì.

C’è un insieme di riflessioni più estese, più importanti e più divertenti di quelle del libretto che viene presentato oggi e che  stanno in una raccolta di saggi e di scritti  con una prefazione lunga che è il mio libro del 2003, “Il P.D. all’origine di un’idea politica”, dove si racconta la storia di una lotta all’interno del mondo ex-comunista, del mondo dei DS, tra una posizione del tutto ragionevole, del tutto comprensibile e che, se ci fossero state le condizioni, io stesso avrei condiviso, che era di costituire in Italia un grande partito socialdemocratico, come c’è in tutti i paesi normali, o, invece, l’idea di un partito democratico il quale saldasse insieme la tradizione riformistica cattolica e quella laica, derivante dal movimento operaio ex comunista, ex socialista, ecc.

Fu un conflitto che vide da una parte la figura carismatica di Massimo D’Alema e la famosa  Gargonza, la fatal Gargonza, qualcuno se la ricorda ancora. D’Alema, da un lato, era partito da un’idea di Altan: Cippoti dice: “Noi italiani siamo un popolo straordinario” e l’altro, Brigazzi, gli risponde: “Mi piacerebbe tanto che fossimo soltanto normali”. Di qui la domanda: perché tutte queste margherite, garofani e altri fiori e altre verdure e querce e alberi, perché non li mandiamo a casa, facciamo una grande operazione con la creazione di un partito socialdemocratico?  Già, un partito socialdemocratico fatto da ex della FIGC, sotto il loro controllo, che non avrebbe avuto mai il bollino blu dei socialisti, mai, mai. E lo si vede anche adesso: le propaggini di questo rifiuto profondo si vedono anche adesso con questa scelta di Boselli, al quale io darei la palma del peggior uomo politico italiano, in questa fase; lo dico con tutta franchezza: io sono di origini socialiste e di forti simpatie socialiste e il programma di Boselli, quello che si prende alcune mezze pagine  sui giornali, è un bel programma laico socialista.

Comunque sia, mai il bollino blu dei socialisti e mai, ovviamente, l’assenso della grande tradizione riformistica cattolica, una tradizione in Italia molto più importante che altrove, che arriva da origini lontane, deriva dal “non expedit”, deriva dalla costruzione di un mondo cattolico variegato al suo interno, con una componente conservatrice, e da una forte componente popolare: si dimentica questa evoluzione di fine Ottocento inizio Novecento, rinverdita poi dalla grande esperienza della DC con cui il mondo cattolico ha giocato il ruolo fondamentale di costituire un baluardo contro il comunismo, quando il comunismo era una faccenda piuttosto pericolosa e grave e aveva rafforzato le sue componenti popolari. E’ la ragione per cui mai l’intera democrazia cristiana, avrebbe ricordato lo storico Buttiglione & company, avrebbe potuto trasformarsi.

Succedono l’ ’89, la crisi del sistema politico italiano, mani pulite, eccetera, ma perché non fare un grande partito socialdemocratico? Da un lato socialisti, comunisti eccetera  e dall’altro  un grande partito conservatore con tutta la DC. Mai tutta la DC, mai delle persone, come quella che mi ha preceduto, Giovanni Bianchi, e voi che siete qui, sarebbero potute entrare in un partito dichiaratamente di centrodestra. Questo vuol dire non conoscere la storia . Qui, purtroppo, D’Alema ci fece perdere tempo, non conosceva la storia. L’idea era di Beniamino Andreatta,  mia e di altri che partecipavano al progetto, persone che conoscevano la storia e sanno che la storia si fa su materiali vecchi, con innovazioni, ma su materiali vecchi. L’idea prevedeva la fusione di almeno due grandi culture riformistiche, programma fondamentale. Il partito democratico, invece di un partito di sinistra o socialdemocratico, deriva da una profonda anomalia; non anomalia ma peculiarità: ogni paese è anomalo, lo avete presente, non c’è nessun paese normale.

Un’anomalia storica molto profonda; a quel punto, ci si è resi conto che si era incappati, con l’Ulivo e con Romano Prodi, in una scelta fatta per puri motivi contingenti ed opportunistici, risultanti dal sistema elettorale, si era incappati in un problema profondo della storia italiana che esigeva una riflessione altrettanto profonda e un disegno grande. Da subito capimmo che il P.D. era un disegno grande, era il disegno di superare il “non expedit”, era il disegno di superare Porta Pia, era il disegno di diventare finalmente….Guardate, il “non expedit” e Porta Pia sono tratti drammatici  e profondi della nostra esperienza italiana ed una delle ragioni per cui quello che i politologi e gli storici chiamano “nation building”, costruzione della nazione, non ha mai funzionato nel nostro paese. Il ”nation building” si fa con le élites, lasciamo andare i miti popolari. Ma quando una componente importante delle élites borghesi tra  fine ‘800 e inizio ‘900 è costretta a starsene da parte rispetto alle élites liberali, in un paese fragile come il nostro, che ha una situazione drammatica di incultura e di inciviltà, radicata soprattutto nel mezzogiorno, come poter costruire un paese solido? Badate che da qui viene anche il fascismo, perché le élites non erano unite, ma lasciamo andare.

Questa è una storia lunga che andrà raccontata nei libri, però con un po’ di ironia, la storia è profondamente ironica e a volte sarcastica, non sai mai che cosa ti capita. Insomma, si fa questo progetto per motivi contingenti, per vincere le elezioni e ci si imbatte in uno scoglio profondo che esige una riflessione profonda  e di questo Beniamino era consapevole e con lui gli esponenti di una grande tradizione del pensiero cattolico democratico che ha il mio apprezzamento, la mia condivisione. E appunto pensammo a questa politica.

Battaglie lunghe, prese in giro all’interno sia dei popolari, sia dei DS, da persone come D’Alema o il suo corrispondente Marini dall’altra parte: potete immaginare i lazzi di cui fummo oggetto. Non ebbe molto tempo, purtroppo, Beniamino…E quel libro del 2003, che vi ricordavo, racconta un po’ questa storia, cioè la lotta all’interno del mio campo, nel campo dei DS, per affermare questa idea contro quella di un partito socialdemocratico. Ironia della storia, sarcasmo della storia, la storia è veramente una cosa impressionante.

Oggi noi stiamo a discutere ma il P.D. c’è e certamente ci sarà ed è destinato a restare, per una serie di circostanze incredibili. Ve le racconto in breve, semplicemente per darvi un’idea di cos’è, di come si fa la storia con i suoi materiali. Si è fatta questa storia straordinaria delle primarie, della costituzione del P.D., delle cose che vi raccontava prima Giovanni, e la si è fatta così per un insieme di impuntature micro, di micro personaggi, però importanti nel sistema politico, che hanno condotto a questo evento, perché, se voi badate bene, il P.D. si è fatto così. Innanzi tutto non si è costruito il P.D., per conflitti interni profondi all’interno del fronte progressista,  durante l’unico  periodo in cui poteva riuscire bene, cioè quando si era all’opposizione, perché i partiti si fanno all’opposizione. Dovevamo farlo tra il 2001 e il 2006, questo partito. Non sto a raccontarvi la storia del perché non lo si è fatto, è una storia miserabile, sia da parte dei DS, sia dei popolari-Margherita; miserabile e anche di immaturità.

Non lo si è fatto e allora si è arrivati alle elezioni con nessun’ altra candidatura se non quella, ancora, di Romano Prodi. Ce ne doveva essere una nuova, se c’è il P.D., ci deve essere una nuova candidatura! Romano Prodi, memore delle esperienze precedenti, pone una condizione: io voglio essere il capo di una federazione vera, voglio avere dietro le spalle un partito perché non mi capiti, come nel ’98, di essere defenestrato; quindi dovete farmi quanto meno una lista unica per le elezioni. Rutelli, per miseria elettorale e per contarsi, rifiuta la lista unica. Questo spiega anche la lite di oggi di Boselli con Rutelli: Boselli non voleva mettersi in una lista unica soltanto con i DS e allora cerca affannosamente altre alleanze e fa la scelta irresponsabile della “Rosa nel pugno”. Comincia lì il distacco di Boselli che era stato uno dei sostenitori più forti del P.D. Gli errori sono incredibili.

Da un lato succede questo, dall’altro lato Prodi, siamo nell’estate del 2005, dice: “Va bene, non mi dai la lista unica, dammi almeno le primarie”. Le primarie gli vengono concesse con la convinzione che avrebbero votato, se andava bene, ottocentomila persone, mentre furono quattro milioni e mezzo. Rutelli si prese uno spago spaventoso perché si rese conto che se Prodi avesse fatto una sua lista e l’avesse presentata alle elezioni, specie al Nord, la Margherita sarebbe sparita. Io ho vissuto questo spaghetto di Rutelli, perché sono stato in un piccolo gruppo che si chiamava Associazione per il P.D., quello di Gitti, tanto per intenderci, che si era costituito, al di là dei grandi motivi, con l’idea di fare pressione su Romano Prodi perché presentasse una sua lista, dopo il successo alle primarie. Paura feroce di Rutelli, il quale proponeva una lista unica alla Camera e due liste diverse al Senato. Noi chiedevamo a Romano di presentarsi con una lista al Senato: avrebbe vinto e  noi non avremmo avuto tanti problemi. Ma Prodi non lo fece, perché Rutelli, che è un uomo politico abilissimo nel micro, gli dice: “Facciamo una specie di rilancio, io  non ti do la lista unica da tutte le parti, però mettiamo in cantiere il P.D.”

Fassino ci sta e parte il processo, parte molto lentamente, con l’idea di una fusione lenta, con un target, al massimo le europee del 2009, come fusione dall’alto, non certo con le primarie. L’accelerazione avviene con la batosta nelle elezioni amministrative, quando  ci si rende conto che, forse, la coalizione si sarebbe salvata; si poteva andare ad elezioni anticipate, ma con partiti in mezzo al guado non si poteva, quindi si doveva accelerare tutto. Comincia l’accelerazione. Guardate, il P.D. si fa per queste miserie, questo grande disegno storico si fa per queste miserie… scusate se le chiamo miserie, semplicemente c’è un décalage, e poi, dicevo, si è visto subito che diversamente non si poteva fare. Questa storia è raccontata nell’introduzione di questo libretto bianco e rosso, scritto dopo le primarie di Veltroni. L’ho raccontata poi più in dettaglio e a far punto dall’anno scorso, di nuovo, a proposito dei dilemmi che ci sarebbero stati, in un articolo sull’ultimo numero del Mulino di Bologna.

Quindi, il P.D. si fa per questi motivi, il disegno c’era, era un disegno profondo e solido, io credo, ma le cose si fanno quando sono interessati  personaggi  che hanno potere, dei D’Alema e dei Marini, e sono stati proprio i D’Alema ed i Marini a dire che bisognava farlo subito, e sono stati i D’Alema e i Marini ad andare con i sassolini sotto le ginocchia a implorare Veltroni, perché condividesse e collaborasse. Lui non voleva ed è vero che non voleva, non era convinto di una cosa di questo genere. Poi decise di giocare e pose un insieme di condizioni.

Così si spiega anche quella quasi democrazia delle primarie. E’ tutta una democrazia controllata, vedete bene, una cosa che non mi sorprende. Cioè c’è leadership dentro, D’Alema, Marini, persone col sale in zucca, persone capaci, la cosa la pensarono. Naturalmente tutti noi sfegatati, primatisti, democratici volevamo grandi candidature in opposizione l’una con l’altra. -Bersani perché non ti presenti?- mi ricordo un colloquio con Bersani,- perché non ti presenti?- Se si fossero presentati un Bersani, un Letta contro Veltroni, avremmo avuto, qui nel nord, parità o addirittura sconfitta di Veltroni e ci saremmo trovati con due colonnelli e non con un generale e avere un generale è fondamentale.

Quindi questa volta la coppia Marini-D’Alema, che non è una coppia di nequizia, è una coppia di intelligenza politica micro molto forte, ebbe ragione e io avevo torto, io e tanti altri democratici come me,  perché la scelta di Veltroni fu giusta, abile, una persona come quella, che gronda bontà da tutti gli artigli, è, come si diceva di Prodi, un leader vero, è un politico reale con uno straordinario senso del nuovo e dell’immagine e va benissimo. Anche perché di fondo, intuitivamente, non per grandi ragionamenti storici, lui l’idea del P.D. ce l’ha da tanto, ce l’ha dallo scontro con D’Alema nel ’93, ce l’aveva non con l’idea liberale o socialdemocratica, ma con un’idea, diciamo, meno chiara e più di sinistra, un’utopia. Però ce l’ha questa idea profonda.

E’ nato così questo partito, come una cosa profonda e vera, come soluzione di un grande problema storico e con un insieme di circostanze, a volte sfortunate, a volte fortunate, che l’hanno messo in pista. Sto parlando con delle persone adulte, non sto facendo propaganda elettorale, sto riflettendo, quando faccio riunioni di campagna elettorale, ovviamente, vado a dire anch’io vinciamo, vinciamo. Qui diciamo che, stando così le cose, è probabile che avremo un buon successo, cioè che il P.D. raggiungerà un livello di voti nettamente superiore alla somma di voti delle sue parti costituenti, per tutti i motivi che Giovanni vi ha esposto, perché ha intercettato una domanda politica importante. E se noi arriviamo al 33-34 %, insomma a questo ordine di grandezza, Veltroni ha in mano il partito. Ha in mano il partito, e questo partito ha idee democratiche, e questo partito si costituirà, è già molto….le due culture si sono già mischiate proprio in maniera evidente. Però, alcuni risentimenti, alcune isole di vecchia tradizione rimangono ancora ma saranno fuse per la contaminazione, come l’hai chiamata tu, Giovanni,  il meticciato, di cui parlavi tu, diventerà più profondo e avremo uno straordinario strumento dell’Italia democratica per le battaglie future. Questo è quanto potrà ragionevolmente avvenire.

E un pezzo di percorso l’avremo già compiuto, perché l’idea di fondo è che, al di là dei marchingegni elettorali, che sono molto importanti e su cui dobbiamo insistere, avere uno strumento partito è importante, Uno strumento in cui si crede, in cui a poco a poco si formeranno delle tradizioni. Guardate, i giovani, i veramente  giovani,  quelli proprio lontani dalle tradizioni del passato sono pochi, ognuno di noi viene da associazioni, da gruppi, da comunità in cui si cantavano canzoni, c’era un’identità profonda e c’era simpatia e amore tra la gente; si formeranno simpatia, canzoni tra la gente anche per una cosa di questo genere. Ci vorrà tempo ma la cosa si farà. Su questo non ho dubbi, per ironia della storia la cosa è avvenuta e proseguirà in seguito.

Formalmente la riunione è stata convocata per discutere questo mio libretto che, in realtà, si commenta da solo e, grosso modo, risponde a due domande: il P.D. perché? La rivoluzione liberale perché? Queste sono le due domande del libro. Del primo tema ho già parlato: il P.D. risponde ad un’esigenza profonda del sistema politico italiano, della storia del nostro paese e vi ho già fatto la sub-specie dell’ironia della storia, ve ne ho già esposto un pezzo, voglio dire, e  non insisto sul perché del P.D..

Forse due parole vanno spese sul perché della rivoluzione liberale. Ora è abbastanza evidente che c’è ironia anche qui, la storia gioca grandi scherzi: che debbano essere gli eredi di due partiti anti-liberali per definizione profonda, quello di origine cattolica e quello di origine socialista, comunisti e democristiani, a doversi assumere il compito di far diventare liberale il nostro paese.    Secondo me, quella di avere una forte componente liberale, se non di diventare tutti liberali, è una forte necessità per due motivi: uno di natura ideologica e di portata internazionale, che è la sinistra democratica nelle sue esperienze europee, dal PSOE, all’ESP, al Labour, che è una sinistra liberale, non è più una sinistra marxista, non è più socialdemocratica in senso proprio, perché il suo soggetto sociale, la sua base non sono più gli operai dell’industria e, se vogliamo dare al termine socialdemocrazia un significato storicamente preciso, non sono più partiti socialdemocratici questi, sono grandi partiti che coprono un’area che va dal centro alla sinistra, sono grandi partiti per cui è vero il fatto che non rispondono alla logica di blocchi sociali, ad una logica della centralità del lavoro operaio, ma del lavoro sì. Ma chi non lavora? Qualsiasi industriale, qualsiasi imprenditore, lavora. Chi non lavora? Quando si diceva centralità del lavoro, quando i sindacalisti nostri amici dicono centralità del lavoro intendono centralità del lavoro operaio. Oggi questo non è più centrale numericamente in nessun modo possibile e lo sarà sempre di meno.

Quindi, un grande partito che sostiene valori di giustizia sociale, di uguaglianza di opportunità e li sostiene tutti, questi partiti che vi ho elencato, in un contesto ideologico liberale. L’unico gioco rimasto in città per la sinistra è un gioco di sinistra liberale, di grande uguaglianza di opportunità, di insistenza fortissima che tutti i cittadini e le cittadine siano il più possibile e sempre di più messi in condizione di poter affermare i loro progetti di vita, non solo in condizioni di libertà negativa, non avere ostacoli da parte dello stato rispetto a questo, ma avere, rispetto a questo, anche delle possibilità concrete di rimozione. Insomma l’Art. 3 della Costituzione. Badate, il nostro partito  potrebbe essere, nella sua sostanza di sinistra, il partito dell’Art. 3. Basta, non c’è bisogno di più. La sinistra è oggi una sinistra liberale in questo senso. Il liberalismo, non sto a farla molto lunga, il liberalismo nelle sue origini è un pensiero liberatorio, è un pensiero di emancipazione degli individui; all’inizio l’emancipazione era ristretta, riguardava un insieme di ceti molto limitati che si emancipavano nei confronti dei poteri aristocratico, monarchico, clericale della società tradizionale, dell’ ancien regime. Si opponevano a questi  e questo era il liberalismo d’origine, ma nella stessa matrice filosofico-culturale del liberalismo, in Stuart Mill  e anche in Hume e in tutte le tradizioni del liberalismo, da quella francese, a quella tedesca, a quella inglese massimamente, a quella italiana, che ha una grande tradizione liberale, è già un partito di liberazione dell’individuo e di affermazione di libertà, di libertà negative e positive insieme. Non entro nella disputa filosofica, me no sto fuori.

Quindi ha un potenziale di affermazione democratico-egualitaria profondissima, che è quella che vedeva un conservatore come Tocqueville, il quale, da buon aristocratico, era terrorizzato dal liberalismo. Diceva: guardate, una volta che l’idea di uguaglianza è entrata nella storia, nessuno la può più scacciare, va avanti implacabile, marcia sulle rovine che essa stessa crea.  Lui  aveva ben presente quali fossero le rovine, le rovine erano quelle della rivoluzione francese. E noi abbiamo altre rovine ancor peggiori su cui marciare e siamo arrivati alla convinzione che, rispetto ad utopie giacobine come quelle della rivoluzione francese o ad utopie comuniste, abbiamo dato e diamo una risposta che è quella di una democrazia liberale profonda, con una continua spinta verso l’uguaglianza fatta di solidi principi. E’ questa la cosa e Tocqueville aveva capito tutto, c’è questa frase meravigliosa:  una volta che l’idea di uguaglianza è entrata nella storia…

E oggi, vedete, questa idea di liberalismo di sinistra è la stessa che domina in tutti i grandi pensatori che noi dobbiamo far nostri e che non erano nel bagaglio né del cattolicesimo democratico né, ovviamente e a maggior ragione, della vecchia socialdemocrazia, in particolare, del comunismo. I  Sellars, i Rawls, i Walzer sono i pensatori di riferimento.

Io sono molto vicino, in particolare,  a Michael Walzer, perché è il pensatore che, da un lato, ha un forte afflato liberale, nel senso di liberazione dell’individuo, ma dall’altro ha un’attenzione profonda alle radici, alle comunità, al fatto che l’uomo è libero ma nasce all’interno di famiglie e comunità che devono essere rispettate e, se alcune di queste sono comunità di nascita, altre sono comunità di elezione, ma comunque, se marci con gambe troppo aride e forti, da liberismo ossessivo nel tagliar via le comunità, tu ti tronchi una profonda radice di consenso, non solo, ma fai grandi guasti: l’uomo è insieme di domanda di libertà, ma anche di domanda di solidarietà profonda.

Di questi pensatori quello che, secondo me, ha più vicina questa doppia esigenza, è Michael Walzer e io vi inviterei a leggerlo: purtroppo è tradotto solo parzialmente in italiano, in un libretto che si chiama “Politica e passioni”e contiene tre conferenze tradotte per Feltrinelli tre o quattro anni fa; “Politics and passions” è invece un libro bellissimo della Yale University Press in cui ci sono altre due conferenze che estendono le prime due; le prime tre vennero scritte in Germania nel 2002.

Leggetelo, specialmente se avete una formazione cattolica, quindi fondamentalmente solidaristica; sono conferenze che parlano al cuore. La sua origine non è cattolica, lui è un ebreo convinto, quasi ortodosso, con un profondo senso della giustizia. Insomma il libro rilevante per noi è questo qui. Bisogna leggerlo.

Quindi guardate, sia perché i grandi partiti della sinistra oggi sono in realtà partiti della sinistra liberale, quali che fossero le loro origini sono diventati questo, sia perché il miglior pensiero di riferimento, oggi, dopo le tragedie del giacobinismo e del comunismo e quindi del marxismo, è di nuovo il grande pensiero liberale,  in particolare il pensiero di John Stuart Mill, che ne dà già una versione di sinistra -pensate soltanto a quel libro straordinario che è “The subjection of women”  “Sulla soggezione delle donne”: il femminismo è fondato lì. Questa è la nostra risposta alla crisi; i partiti sono di sinistra liberale, il grande pensiero oggi è di sinistra liberale.

E questo è il primo motivo per cui io qui difendo una posizione di sinistra liberale.

Il secondo motivo è che da noi questa tradizione c’è stata, una nobile tradizione, ma non è stata né diffusa né profonda e non corrisponde all’esperienza di un paese il quale, in moltissimi suoi aspetti, è un paese di relazioni, di amicizie, di corporazioni, di consorterie, di bande, quando non è addirittura di associazioni a delinquere. E’ un paese chiuso, un paese non libero, in cui le opportunità per i giovani che entrano sono sbarrate da presenze corporative a tutti i livelli, corporazioni legali, corporazioni di fatto ma legittime, e corporazioni illegali, illegittime e criminali. Questo è il paese in cui noi viviamo. Questo paese, oggi, e qui faccio mia un’espressione di un libretto che è stato presentato in maniera troppo arida, di Alesina e Gavazzi, “Il liberismo è di sinistra”. Fondamentalmente sono d’accordo con le loro tesi: ma il libro è presentato in un modo che una persona che abbia un minimo di storia dietro le spalle, per esempio Luigi Porta, immagino che lo trovi antipatico. Però, dicono delle cose sotto molti aspetti sacrosante. E questo è il secondo motivo per cui dobbiamo essere liberali.

Quindi, su tutto, sull’istruzione, sulla sanità, sulle pensioni, i rischi vecchiaia, eccetera, su un insieme di istituti, sul lavoro, sui sindacati, dobbiamo intervenire. Abbiamo i nostri problemi ad intervenire ma dobbiamo farlo, con cautela, sapendo quali sono le nostre origini, sia democristiane che comuniste, sapendo quali sono i nostri alleati tradizionali, prima di tutto il sindacato, a cui non possiamo sputare in faccia, non possiamo abbandonarlo. Gavazzi e Alesina possono farlo, noi no! Tuttavia dobbiamo avere una posizione nei confronti del sindacato, a cui dobbiamo tantissimo, perché ha fatto cose enormi in questo paese, però dobbiamo poter dire: guardate, alcune posizioni che sostenete sono giuste, altre no. Altro personaggio su cui riflettere è Ichino, che è stato un buon simbolo, ma la domanda è se ci faccia guadagnare più voti di quanti ce ne faccia perdere. Ciò vale anche per i radicali, soprattutto per i radicali… Però, in ogni caso, è importante aver dato questo messaggio. Veltroni ha un’idea del messaggio, in cui mettere insieme cose difficili e compatibili, di creare però una minestra che abbia sapori forti e interessanti.  Quindi, questo è il disegno che noi abbiamo.

Questi sono due programmi; il primo è un programma fondamentale delle cose che vi ho appena detto, spiega cioè come noi dobbiamo darci nuovi orizzonti teorici, culturali e politici. Il secondo è il tipico manifesto di programma e quindi su un insieme di problemi che riguardano l’istruzione, la sanità, il lavoro, la scuola, la politica internazionale, eccetera, cioè un insieme di cose che a me piacerebbe venissero realizzate nel nostro paese e che ritrovo, in forma edulcorata e cauta, nel programma di Morando che è appena stato fatto in forma, per i miei gusti, un po’ troppo edulcorata e cauta, però nella direzione giusta.

Ovviamente la grande rottura è stata l’andiamo da soli, che ha generato una valanga, come voi avete visto, di imitazioni finte ma che avranno un peso nel prossimo futuro. Veniamo poi alla sostanza dei problemi che abbiamo rispetto al nostro programma. Noi abbiamo quattro punti su cui stare attenti, non dico quattro punti deboli, ma delicati. Fin dall’inizio si è visto nella formulazione di questo programma e  in atti concreti, più ancora che nel programma, quale sia stata la capacità diffusiva, la capacità di impressione che ha dato il partito di Veltroni, il P.D., il quale, di nuovo voglio ribadire la storia, ha approfittato di questo periodo in cui non c’erano organi statutari  (se vi interessano, lo statuto, i programmi, la carta dei valori, la carta dei principi sono tutti argomenti fondamentali), ha approfittato di questa libertà per muoversi con un tentativo di massima autonomia; ha fatto benissimo,

Dopo queste elezioni, se le vinceremo nel senso che ho detto prima, e se le vinciamo in assoluto a maggior ragione, ci sarà il congresso fatto secondo lo statuto e si farà il partito, il partito vero, secondo gli organi statutari. Con Veltroni fortemente in sella, il partito sarà una cosa, se staremo sotto il 30% il partito sarà totalmente altro. Anzi, ho l’impressione che non so se reggerà, quindi noi dobbiamo scommettere ferocemente su un Veltroni totalmente in sella. Un Veltroni totalmente in sella è quello che ci interessa e avremo e costruiremo gli organi in modo meno affannato e meno improvvisato, meno impressionistico, meno equivoco di quanto non si è fatto. Voglio dire, però, con persone come Giovanni che si sono spese, che si stanno spendendo in altre province in modo improvvisato e senza regole, in situazioni di anomia, come avrebbero detto i sociologi, in mancanza proprio di norme, con le primarie prima affermate e poi negate, con le scelte dei candidati fatte nel modo che abbiamo visto, con bilancini vari, pilotate un po’ dall’alto,  un po’ tenendo presente di non scontentare troppo una nomenclatura che è il nostro quadro politico, quello che gestisce comuni e province. No, dopo le cose cambieranno, almeno spero. Adesso, via così, non si poteva fare diversamente, date le condizioni di fretta incredibili, perché non ci si poteva presentare ad un’elezione come questa con un partito che non c’era.

Vediamo adesso il programma per il paese, cosa che mi interessa di più anche perché implicitamente saltano fuori i difetti di cultura politica di questo partito. Ci sono quattro aree da tenere sotto controllo, quattro aree in cui ci sono differenze molto minori, ovviamente, di quelle che avevamo prima. Per darvi un’idea di quanto minori siano, vi racconto l’episodio del rifinanziamento della missione in Afghanistan, che è stato incredibile; i giornali non gli hanno dedicato che brevi articoletti, hanno dato per scontata che Turigliatto aveva fatto delle cose per cui il governo stava per cadere. Che si voti insieme con la Casa delle Libertà per il rifinanziamento della missione è dato come scontato. La politica estera non è un problema per le nostre tradizioni, noi abbiamo una politica estera compatta. E di potenziali ministri degli esteri abbiamo gente ottima ed apprezzata: il mio favorito è Fassino, lo dico subito, è una persona che conosce l’argomento. Io ho un filo di antipatia nei confronti di D’Alema, forse l’avrete capito, ma è bravo anche lui, merita un riconoscimento di grande capacità politica, ha scommesso sull’ipotesi del partito socialdemocratico, ha perso e adesso si è riallineato; in altri paesi sarebbe scomparso. Ho detto questo solo per darvi un’idea che questo partito è già tale, i giornali non hanno speso neanche un articolo, hanno dato per scontata una cosa che è stata enorme. Poi dire che questo partito ha una posizione di destra non ha senso.

Dove soffre davvero il partito sono le riforme istituzionali, elettorali, costituzionali, questa è la prima area di dubbio.

La seconda area di dubbio riguarda le distanze sulle politiche  economico-sociali, il nucleo delle politiche su cui si fa la distinzione destra-sinistra per intenderci. Le distanze tra gli estremi si sono enormemente accorciate rispetto a quando dovevamo fare un programma insieme con l’Unione, enormemente ridotte, ma esistono, per esempio tra un Ichino da un  lato e un sindacalista dall’altro, anche un sindacalista come Nerozzi. E lo si vede nel programma benissimo. Per esempio, sull’idea su cui avevamo molto insistito del contratto unico, che ovviamente significava contenere l’Art. 18, ma in modo delicato, c’è un silenzio di tomba, comprensibile. Però  sulle prime versioni, quelle che ho visto anch’io e a cui ho contribuito, non c’era un silenzio di tomba. C’era un’idea più moderata, un disegno che avevamo elaborato ispirandoci a quello di Harz in Germania, che era stato adattato all’Italia da un paio di giovani giuslavoristi ed economisti del lavoro.

Lì c’è un’area più vicina che va benissimo, c’è in tutti i partiti di origine socialdemocratica e laburista di questa nostra Europa: c’è nel Labour, nonostante la Tatcher, c’è soprattutto in Germania, c’è in Francia, c’è nella stessa Svezia e in altri paesi nordici. Quindi, stretti i margini, non è una divaricazione come quando c’erano dentro i vari Mussi, Diliberto o Bertinotti.

L’altra area, vi ha già fatto cenno Giovanni prima, che deriva proprio dalle nostre origini, è l’idea di costruire un partito in cui le varie identità religiose o non religiose, atei ed agnostici, non siano elementi di differenze così forti da giustificare l’ipotesi di costruire dei partiti religiosi, tanto per dare l’idea. E’ il  problema della laicità in senso lato, di nuovo; è un problema reale, da affrontare guardando in avanti, per le origini, per la saldatura famosa del riformismo cattolico con il riformismo laico, non per queste origini antiche che pur valgono, ma per entrare in una fase della nostra storia, devo dire della storia del mondo, in cui i pensieri assoluti, le concezioni assolute, le concezioni che hanno a che fare con vero-falso, giusto-sbagliato, virtù-peccato, sentite come non mediabili, hanno già, ed avranno, un ruolo importante. E l’idea di ridurre alla politica e quindi al regno della mediazione visioni e motivazioni  profonde nasce da concezioni assolute, sia religiose che non religiose, perché non è meno assoluta la concezione di Odifreddi rispetto a quella della Binetti, tanto per darvi l’idea della mediabilità della riduzione alla politica, al regno del politico. C’è questo nel libro di Walzer che vi dicevo e ce n’è un altro, pubblicato nel 2002 da una casa editrice di Reggio Emilia, in cui c’è un bellissimo saggio sulla tolleranza.

Quindi, questo è un problema enorme, un problema del futuro; è un problema per i musulmani in Europa, tanto per intenderci, un problema di cui dovremo occuparci. Classi di bambini musulmani che si vedono il crocefisso davanti nelle scuole. Insomma sono  problemi del multiculturalismo che tutti i paesi stanno affrontando e che non hanno strumenti per affrontare. E’ un grande tema, un tema su cui ricercare insieme e io lo trovo affascinante.

Quindi, riforma istituzionale, visione più liberale e più socialdemocratica nelle politiche economiche e sociali, problema dei multiculturalismi e delle concezioni assolute in politica, come mediarle, come riuscire a gestirle; e poi c’è un quarto problema, una quarta serie di problemi che non hanno niente a che fare con la vecchia destra e sinistra ma che sono maledettamente importanti e danno luogo ad opinioni differenti.  Questi riguardano soprattutto le politiche locali, quali la TAV o la fusione tra l’AEM e un’altra Agenzia di Brescia  o il jumbo-tram a Firenze che sfiori il Battistero. Sono quelli i motivi per cui ci sono tanti temi di politica locale fermi, che molto spesso non hanno niente a che fare con destra o sinistra, con cattolici e non cattolici. Intendo dire, perché le ferrovie sono di sinistra e quindi, al limite, la TAV è di sinistra e il ponte di Messina è di destra?. Non so se ci si rende conto, ma almeno il 70-80% dei problemi di governo locale non ha a che fare in maniera sostanziale con grandi concezioni o grandi visioni politiche, che inducano le persone a scegliere la sinistra o la destra. A volte sì: uno è tendenzialmente più ecologista o altro. E questi sono i motivi per cui l’informazione, la preparazione, la civiltà contano tantissimo. E’ evidente che sono problemi in cui ci si differenzia sulla base di informazioni diverse, pregiudizi, mancanza di conoscenza tecnica.  E’ una quantità di problemi che dobbiamo gestire e su cui si fa l’8% della politica locale e il 60%, almeno, della politica nazionale, prima che intervengano le categorie destra-sinistra, le vecchie concezioni di partito.

Sono queste le quattro aree su cui dobbiamo saper dire qualcosa, che riguardano anche, per esempio, l’ organizzazione della sanità, che ruolo dare al privato o al pubblico. Sono questioni che hanno a che fare molto spesso con una serie di pregiudizi e di ignoranza, perché, di per sé, se il pubblico finanziasse e il privato gestisse meglio la sanità, anche la sanità per tutti, anche per i più deboli, allora per quale ragione non scegliere sempre il privato come gestore? Non è è semplice, noi pensiamo, invece, che il privato non può essere il gestore, che in realtà la sua gestione è diversa, escluderebbe i più poveri. Ma è proprio così? E’ meglio il pubblico anche se, col fatto che è dominato da coalizioni sindacali le più diverse, non puoi licenziare nessuno per inefficienza e non puoi rendere efficiente il servizio? Il pregiudizio pubblico-privato nella gestione non ha nessun senso, bisogna semplicemente capire qual è quel mix di privato e di pubblico che assicuri a tutte le persone, anche alle più povere e meno relazionate nella società, il migliore servizio.

Io ne ho avuto un esempio in casa:  mia figlia, che è rigorosamente per il pubblico, mi ha impedito di telefonare ad un paio di primari nostri amici, miei colleghi universitari, per un suo problema di salute che si è trascinato per due o tre anni in modo grave fino a che, ad un certo punto, ha gettato la spugna: “Papà, fai questa telefonata”. E nel giro di una settimana il problema è stato risolto. Ma io posso fare una telefonata, un poveraccio non può farla. Questo è il problema da risolvere, non ci sono questioni di principio su cose del genere, privato e pubblico si possono organizzare altrettanto bene.

Io sono diventato un sostenitore del privato per disperazione, perché ho visto cosa era successo, per disperazione sono diventato un liberista, perché ho visto che cosa erano le imprese pubbliche dominate dai partiti. Fossi stato in Francia, sarei stato rigorosamente per il pubblico,  perché Gaz de France, Electricité de France, il sistema nucleare francese funzionano benissimo; perché mettere i privati a guadagnare sul servizio che lo Stato mi dà meglio? Non ci sono pregiudizi, però bisogna decidere. E’ un’area di pasticci incredibili: metà o i quattro quinti del Sole 24 Ore trattano di questi problemi: TAV e non TAV, privatizzazioni o meno, servizi pubblici locali. Se un servizio pubblico locale, una tranvia o altro venisse gestito bene e al minimo costo, sarei per quello, ma non lo è. Ma se lo dai a un privato, ugualmente puoi trovare un privato inefficiente e in più i quattrini vanno in tasca dei privati.

Questo per dirvi che per ogni problema ci sono fonti di conflitto incredibili. Vedete, vi ho già dato una gamma di temi sui quali si può discutere. Posso parlare del programma che abbiamo fatto anche se non lo considero particolarmente incisivo, ma infinitamente migliore di quello che presentammo con l’Unione l’altra volta. Poi il programma vale fino a un certo punto, io credo che debbano essere indicati anche i potenziali ministri che dovranno gestirlo.

Concludo riassumendo i temi che ho trattato in questo laibro: perché il P.D., perché una rivoluzione liberale, che programma fare, quali sono i temi programmatici sui quali ancora ci sono aree di sofferenza, molto minori di prima, ma ci sono. Di questo ho parlato. Io mi fermerei qui, francamente, anche perché di materiale da discutere ce n’ è tanto. Tenete presente che ho solo accennato allo statuto che abbiamo fatto  per questo partito ( e vi ho già detto che in parte condivido e in parte no), al manifesto dei valori, al manifesto dei principi, al codice etico, tanto per intenderci, che è molto importante ed è anche ben fatto; e poi alla necessità di tenere sotto osservazione cosa succederà dopo le elezioni. Perché dopo le elezioni, a seconda del risultato e di quel che faremo nel congresso,  potremo dire se avremo un grande partito oppure no.

Grazie.

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