Una società civile che non coincide con l’intersoggettività dal momento che esistono anche relazioni incivili. Una società civile che è piuttosto quella auto-organizzazione del sociale che universalizza e si fa istituzione. Per questo risulta di sua natura istituente. Per questo i suoi confini lambiscono il mercato, lo Stato, il Terzo settore: tutti ambiti dai quali attendiamo contributi a quella nuova politica della quale il Paese, da troppo tempo inoltrato nella transizione infinita, continua a restare in attesa
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introduzione di Giovanni Bianchi – relazione di Mauro Magatti
Testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi a Mauro Magatti
Un percorso che ci attraversa
Confesso di essere da un po’ di tempo un adepto del magattismo: non proprioaddict, ma comunque interno all’orizzonte di indagine e di pensiero di Mauro Magatti. Un percorso peraltro non compiuto in solitudine ma insieme agli amici del Circolo Dossetti e che ha preso le mosse dalle dinamiche della società contemporanea messe a punto ne L’io globale, [1] ha attraversato la ricerca sui nuovi ceti popolari che hanno preso il posto della classe operaia [2] e approda per noi a questo Il potere istituente della società civile[3] che, non tanto cronologicamente, ma logicamente sì, ne costituisce l’approdo e lo sviluppo creativo.
A campeggiare nell’indagine è la geniale metafora della “membrana” come intercapedine e elemento generatore di una socialità che sviluppa i suoi dinamismi a partire dalle radici nel quotidiano (oggi globalizzato) per distendersi fino all’assetto istituzionale, sempre complesso e complicato, per toglierlo dalle sole geometrie e renderlo evento.
Dice infatti Magatti: “Tale socialità costituisce una membrana tra l’individuo e le istituzioni nel senso che consente la comunicazione e lo scambio tra questi due elementi della vita sociale. Da un lato, tale membrana rinvia alla sfera istituzionale la rilettura soggettiva che viene fatta della realtà e le conseguenze che essa può produrre sulla nascita di nuove modalità di azione con altri; dall’altro lato, la membrana consente di far filtrare fino a livello soggettivo regole, norme, valori che tendono a cristallizzarsi in istituzioni. Questo doppio movimento è essenziale per spiegare che cosa tiene insieme i singoli individui con l’organizzazione istituzionale e soprattutto per spiegare la flessibilità e il continuo dinamismo della vita sociale”.[4]
Una società civile che dunque non coincide con l’intersoggettività dal momento che esistono anche relazioni incivili. Una società civile che è piuttosto quella auto-organizzazione del sociale che universalizza e si fa istituzione. Per questo risulta di sua natura istituente. Per questo i suoi confini lambiscono il mercato, lo Stato, il Terzo settore: tutti ambiti dai quali attendiamo contributi a quella nuova politica della quale il Paese, da troppo tempo inoltrato nella transizione infinita, continua a restare in attesa.
Non a caso Mauro Magatti può notare che “molte delle difficoltà in cui si dibatte il nostro Paese derivano ancora oggi dall’irrisolto mismatch tra società e politica. Da una parte troviamo una presenza massiccia dell’amministrazione pubblica, soprattutto nei territori e nei settori in cui l’iniziativa privata è più debole. Mediante le proprie articolazioni lo Stato interviene direttamente in settori delicati quali l’economia e l’educazione. Ma tale intervento risulta spesso distorto dal fatto che la dimensione istituzionale è soverchiata da quella politica: spesso è solo la guerra tra i partiti e
le loro correnti a egemonizzare le logiche con cui la mano pubblica agisce sui mondi sociali, piegando qualunque iniziativa alla formazione del consenso elettorale. Dall’altra parte troviamo una realtà sociale vivace e creativa, ma anche largamente dipendente dalla politica, dalla quale ricava – in modo diretto e indiretto – gran parte delle sue risorse. Una dipendenza aggravata dal continuo passaggio di leader della società civile nei ranghi della politica, con l’inevitabile conseguenza di indebolire l’autonomia della prima, percepita come ancillare rispetto alla seconda. Da qui derivano le ben note difficoltà di rapporto, con il reciproco intralciarsi tra due mondi comunque destinati a convivere e a cooperare”.[5]
Ridefinire il civile
Il quadro è così puntualmente delineato, con i non pochi vizi che attraversano e intristiscono la realtà italiana dove il venir meno di una pratica dignitosa e coerente delle autonomie apre falle e distorsioni non soltanto tra le diverse sfere dell’agire pubblico, ma anche in ogni singolo campo.
Occorre a questo punto ridefinire con qualche rigore il concetto proteiforme di società civile, anche per non trasferire la confusine dal campo della prassi quotidiana a quello dei concetti chiamati a prendere distanza per meglio vedere nelle cose e nelle prospettive.
Magatti lo fa: “per società civile si devono intendere quei modi di relazione sociale che si pongono ad un livello analiticamente distinto sia dal piano individuale sia da quello istituzionale. Tale livello costituisce una realtà che è intrinsecamente instabile e dinamica. Instabile in quanto essa tende a seguire la traiettoria dell’istituzionalizzazione; dinamica in quanto è continuamente rinnovata dalla straordinaria ricchezza della capacità di agire individuale e di stabilire nuovi significati e modalità di relazione. Per chiarire questo punto ci viene incontro un’annotazione di Castoriadis il quale scriveva: Il sociale può presentarsi solo entro e attraverso le istituzioni, ma esso è anche sempre infinitamente più dell’istituzione, poiché è, paradossalmente, ad un tempo ciò che riempie l’istituzione, ciò che si lascia formare da essa, ciò che ne sovradetermina costantemente il funzionamento e ciò che, in fin dei conti, la fonda: la crea, la mantiene in vita, la altera, la distrugge. Vi è il sociale istituito, ma esso presuppone sempre il sociale istituente”.[6]
Siamo così da subito, saltando preamboli e premesse, al cuore del problema, là dove il dinamismo della società civile prende senso e orientamento. L’orizzonte del discorso è il medesimo del classico approccio di Tocqueville alla democrazia in America e, più vicino a noi, dell’Alberoni di movimenti e istituzioni, per non parlare di Pizzorno, per non parlare di Smelser. Non a caso, in uno dei suoi rarissimi reperti su pagina scritta, Bepi Tomai iniziava il suo volumetto sul volontariato con questa citazione: “ ‘La prima volta che ho inteso dire negli Stati Uniti che ben centomila uomini si erano impegnati a non fare uso di bevande alcoliche, la cosa mi è sembrata più divertente che seria, e da principio non ho compreso perché questi cittadini così temperati non si contentavano di bere acqua nell’intimità delle loro famiglie’. Così Alexis de Tocqueville nel capitolo de La democrazia in America dedicato all’uso che gli americani fanno dell’associazione. E dopo aver dato conto dell’utilità sociale anche di questo genere di associazioni, conclude affermando: ‘E’ da credere che, se questi centomila uomini fossero stati francesi, ognuno di essi si sarebbe rivolto individualmente al governo per pregarlo di sorvegliare tutte le osterie del regno’ “.[7]
Osserva Tomai: “Queste poche frasi, tratte da un testo dei primi decenni dell’Ottocento, mettono in luce con immediatezza e ironia, senza bisogno di particolari commenti, la funzione costitutiva delle associazioni di impegno volontario in un paese democratico. E meglio ancora ci aiutano a comprendere come – fin dagli albori delle moderne democrazie – il “tasso” di impegno volontario prosociale fosse già il discrimine tra diversi modelli di democrazia e tra diverse modalità di rapporto tra Stato e cittadini”.[8]
E’ quell’America di densissima società civile e di altrettanto diffusa civil religion della quale si ama dire: se hai un problema rivolgiti a un gruppo che ti aiuti a risolverlo; se il gruppo non c’è, fondalo tu stesso.
Magatti si incarica di chiarire però il quadro comunque istituzionale nel quale anche l’azione di un civile esuberante è chiamata a muoversi. Per una serie di ragioni. “La prima è che la vita sociale – tanto più quella contemporanea – non è mai riducibile al principio sociale, che è sì alla base della nostra socialità, ma anche del tutto insufficiente per sostenerla. La seconda implicazione è che la società civile non si dà mai in astratto ma sempre in relazione al processo di istituzionalizzazione che è caratteristico della vita sociale da cui essa trae le condizioni per la propria esistenza. La terza implicazione è che la società civile non coincide con la sfera relazionale tout court, ma con quelle componenti che, proprio perché entrano in rapporto con il processo di istituzionalizzazione, sono in grado di attenuare l’incidenza di tutta una serie di dinamiche perverse (tipiche invece della società civile). In sostanza, contrariamente a quanto sostenuto dagli approcci funzionalisti, qui si afferma che il processo di differenziazione non ha niente di automatico o predeterminato. La differenziazione sociale è un processo storico-sociale che origina dalla concreta dinamica della vita relazionale”.[9]
E’ un processo chiamato a confrontarsi con i codici di una globalizzazione culturale dove l’individualismo se da una parte si è iscritto alla elaborazione onnivora del pensiero unico, dall’altra si presenta nella miseria dei suoi esiti quotidiani che creano insicurezza e non di rado disperazione. Un confronto non può essere evitato (e Magatti non lo evita) con il percorso storico della nazione che non può cancellare le bobine degli anni settanta né fingere di ignorare le istanze soggettivistiche che arrivano fino a far identificare nell’oggi il lavoratore con la sua fabbrichetta (ossia quella dell’imprenditore che gli dà lavoro) piuttosto che con il sindacato. Né si tratta soltanto di rammentare che la società civile si compone di quegli individui che, cavalcando le possibilità che l’economia moderna mette loro a disposizione, hanno provveduto ad affrancarsi dei poteri istituiti, bensì di rivisitare i cicli delle dinamiche dei soggetti collettivi che si sono presentati nell’arena della nostra storia, si sono evoluti, imbarbariti, ed anche sfarinati.
Tutto ciò dice, e non soltanto per il caso italiano, che per poter vivere insieme in una società avanzata abbiamo bisogno di istituzioni, le quali hanno la qualità di essere universalistiche, cioè indipendenti da interessi e obbligazioni particolari. Le istituzioni sono inoltre fondamentali per ottenere livelli di organizzazione sociale sufficientemente elevati e per rendere possibili rapporti sociali funzionalizzati e astratti, cioè indipendenti dall’identità di chi entra in relazione. Posto così il problema del rapporto civile-istituzioni come centrale, Magatti sollecita ad indagare una serie complessa di relazioni delle quali mi limito a richiamarne solo alcune che mi paiono essenziali all’economia del discorso che abbiamo da tempo intrapreso: relazione con la modernità; relazione con il potere; relazione con la comunicazione; relazione con il volontariato; relazione con gli organismi non governativi.
Prima però di rilevare scansioni e rapporti sarà opportuno ripuntualizzare il ruoli della membrana. Essa “ha due caratteristiche principali. La prima è la sua natura istituente”: essa, cioè, è una delle matrici fondamentali del processo di continuo rinnovamento della vita sociale in quanto è capace di alimentare e orientare le complesse dinamiche di istituzionalizzazione della vita sociale. La seconda è quella di rendere possibile la transazione tra la sfera soggettiva e quella istituzionale, favorendo il travaso di significati da un polo all’altro. Grazie a questa membrana la comunicazione tra l’individuo e l’istituzione può effettivamente avvenire (nelle due direzioni), attenuando così i rischi di disarticolazione della vita sociale”.[10]
Non è il caso di insistere su quanto l’operazione sia necessaria in un universo globalizzato dove per più versi la società appare, non soltanto a Zygmunt Bauman, ostinatamente “liquida”.
Tutto ciò obbliga a rifare i conti con la modernità. Nota Magatti: “ Paradossalmente, quanto più le istituzioni della modernità societaria rendevano possibile la stabilizzazione e il miglioramento della qualità della vita di milioni di persone, tanto più si approfondiva il solco che le separava dagli individui e dalle loro istanze di senso e partecipazione. Ed è in risposta a tale paradosso che nuovi processi sociali si sono messi in moto”. [11]
Relazioni istituenti
All’interno di questi processi nelle democrazie occidentali è venuta crescendo una spinta all’autorealizzazione degli individui che dà ragione di una nota osservazione di Bell risalente ai primi anni settanta: “Il clima culturale di oggi predilige l’autoespressione e l’autorealizzazione. Esso è antistituzionale e antinomico, dato che l’individuo è preso come la misura della soddisfazione e i suoi sentimenti e giudizi – invece che standard oggettivi di qualità e valore – determinano il valore degli oggetti culturali […] In questa democratizzazione della cultura ogni individuo cerca di realizzare il suo pieno potenziale, ma ciò determina un tendenziale conflitto tra l’individuo e le richieste di ruolo che derivano dall’ordine tecnico-economico (Bell, 1978 pp. XVII).” [12]
E’ in questo quadro che un numero crescente di persone ha smesso di credere nel ruolo salvifico delle istituzioni e si è messo sulla via di un protagonismo che intende prendere il destino, anche quello pubblico, nelle proprie mani. E’ sempre su questa medesima via che l’Occidente ha riscoperto l’instabilità governativa e l’Italia si è inoltrata nella transizione infinita. E’ ancora lungo questo percorso che si sono fatti grandi passi in quella che è stata chiamata deregulation e che ha radicalmente ridefinito il nesso tra economia, politica e territorio, consentendo alle pratiche neoliberiste di pensare l’azione politica su scala sopranazionale. Osserva Magatti che così facendo il neoliberismo “ ridefinisce i confini tra politica interna e politica estera. A partire da questo momento, il consenso viene costruito sulla base della capacità di generare sviluppo economico mediante due tipi di azione: rendere competitive le imprese nazionali su scala globale, favorendo se necessario anche la loro delocalizzazione; attirare capitali dall’esterno, in modo da finanziare lo sviluppo interno. In questa logica si contempla anche il ridimensionamento dei sistemi di welfare e dei soggetti sociali che lo avevano sostenuto (primi fra tutti i sindacati e la grande impresa fordista), sia perché finanziariamente troppo onerosi, sia perché fattori di conflittualità sociale e di rigidità sistemica”. [13]
Avendo avuto la capacità di interrompere la spirale che teneva insieme sviluppo economico e protesta sociale, il neoliberismo ha impresso una svolta che non è stata più ricomposta, riuscendo a interpretare il proprio tempo e consentendo l’espressione delle forze sociali che andavano emancipandosi dalla camicia di forza imposta dall’eccesso istituzionale che si era venuto producendo negli anni sessanta e settanta. Messi tra parentesi i vecchi antagonismi, è apparsa sul proscenio la figura di un consumatore sempre più esigente e non più soltanto alla ricerca di beni materiali. La forza propulsiva del noeliberismo sarebbe probabilmente risultata meno efficace se non avesse avuto l’occasione di incontrare gli esiti del postfordismo, veicolando un modello di organizzazione della produzione industriale che fa del decentramento, della flessibilità, della varietà i suoi punti di forza. Il suo punto di debolezza, all’interno di un intenso e complesso processo di despazializzazione e rispazializzazione, consiste invece nella circostanza che è ancora di là da venire una sintesi di questa trasformazione storica: ci troviamo cioè tuttora a vagare in una terra di nessuno abitata da una soggettività incerta, timorosa e ripiegata su se stessa. Tanto più oggi nel momento in cui l’utopia di una società globale di mercato appare chiaramente irrealizzabile, cosicché “l’indifferenza nei confronti di quanto accade attorno nasce più dal senso di impotenza e inadeguatezza che da un consapevole rifiuto della solidarietà”.[14]
Né il quadro della pubblica opinione appare meno controverso poiché dal punto di vista culturale la situazione, che sovente viene definita come pluralistica, è invece più spesso decisamente caotica: “Le controculture non esistono più, perché è difficile sapere esattamente qual è la cultura dominante. La dissacrazione sistematica di qualunque autorità e la sacralizzazione dell’esperienza soggettiva contribuiscono a rafforzare lo spirito egualitaristico (insito nel pensiero democratico), rendendolo un dogma intoccabile. Qualunque opinione – in quanto opinione – ha, per principio, lo stesso valore”. [15]
Non è più possibile a questo punto lasciare fuori dalla porta un accenno al discorso sul potere, tema che ha nel nostro Paese una tradizione lontana dall’approccio tedesco che, non soltanto nell’elaborazione teologica, ne ha messo in rilievo l’aspetto demoniaco. Da noi, andreottianamente, si ha l’abitudine di ripete che “il potere logora chi non ce l’ha”. In termini disciplinari le visioni muovono in Italia tra il polo di Emanuele Severino per il quale non noi prendiamo il potere, ma i poteri prendono noi, e il polo rappresentato da Michel Foucault, per il quale il potere è parte quotidianamente costitutiva nella trama dei rapporti sociali.
Per Magatti “contrariamente a quanto affermato dai difensori acritici della società civile, anche i rapporti più liberi e più marcati dal calore interpersonale vengono insidiati dal problema del potere, tanto più che le relazioni possono essere incapsulate in rapporti di gruppo e di appartenenza e quindi riflettere la disuguale distribuzione delle risorse e delle opportunità”.[16]
Disuguale distribuzione codificata dall’onnipresenza del mercato che ha contribuito a rafforzare i valori dell’individuo e a rompere le gerarchie rigide dei mondi comunitari tradizionali. “Come ha magistralmente mostrato Simmel, l’economia di mercato trasforma i modi stessi dell’intersoggettività, spingendo verso la formazione di gruppi più specifici e parziali, sempre meno in grado di esercitare un controllo assoluto sui propri membri. Ciò ha reso possibile la diffusione delle forme di socialità fondate sul contratto invece che sullo status, di tipo societario invece che comunitario”.[17]
Debole è risultata la resistenza in tal senso dello Stato moderno, il quale pure “si configura come una struttura di potere altamente razionale, fondata sul diritto universalistico e dotata di una logica interna distintiva di tipo burocratico-amministrativo”.[18]
Un ruolo preminente per l’autorganizzazione del sociale, oltre al mercato e alla politica, deve essere assegnato alla comunicazione, proprio perché la novità sta nel fatto che i processi comunicativi avvengono oggi in larga parte al di fuori dei canali e degli spazi dell’istituzione politica. E’ proprio questa constatazione di originaria autonomia “ciò che qualifica l’opinione pubblica e che spinge Habermas a considerarla come un ambito distinto sia dalla politica sia dall’economia”.[19]
Da un lato é proprio attraverso la manipolazione dell’elemento comunicativo che è possibile costruire una posizione di dominio dentro una relazione intersoggettiva. Dall’altro lato la stoffa comunicativa è venuta sempre più costituendosi come elemento quotidiano e universale delle moderne democrazie. Non a caso intorno a questa circostanza e alle modalità di implementazione dei valori che stanno alla base delle democrazie si sono interrogati in celebri colloqui lo stesso Habermas e l’allora cardinale Ratzinger, convergendo su posizioni mediatamente comuni. Anche in una fase storica di espansione e invasione dell’etica, la democrazia non decide intorno alla verità, ma riconosce il proprio limite e si limita a stabilire maggioranze e minoranze.
Resta lo spazio per poche considerazioni relative al volontariato, sia a livello nazionale come a quello internazionale.E’ infatti la figura del volontario che succede all’usura e alla fine del militante politico che ha dominato il quadro della democrazia italiana a partire dal dopoguerra. Nel volontario si concentrano dunque l’assorbimento e lo sviluppo della crisi dell’agire politico, con l’apertura di nuove pratiche che si orientano secondo l’etica della cura. Un percorso non privo di insidie se Derrida ha posto il problema di “liberare l’atto di solidarietà dal damnum che il donumrischia di recare sempre con sé (Derrida, 1996, p.147).[20]
Ben più in là, sospinti da un evidente veteromarxismo si sono avventurati Michael Hardt e Toni Negri, arrivando a presentare le ONG più prestigiose a livello internazionale come gli “ordini mendicanti dell’Impero”. “Come i Domenicani alla fine del Medioevo e i Gesuiti all’alba della modernità, questi gruppi si prodigano per identificare i bisogni universali e per difendere i diritti umani. Con il loro linguaggio e le loro azioni, dapprima, definiscono il nemico in termini privativi (nella speranza di prevenire danni maggiori) e, quindi, lo denunciano come peccatore”.[21]
E’ tutta la tematica dei movimenti collettivi che non può essere lasciata fuori dal quadro, proprio perché la democrazia parlamentare non è in grado di mantenersi fedele agli obbiettivi per i quali è nata, non riuscendo a realizzare una cittadinanza universalistica e fondata sulla partecipazione.. Vede perciò bene Mauro Magatti quando afferma conclusivamente: “Per questa ragione, la funzione fondamentale della società civile è quella di stimolare il sistema politico, cercando di rompere le ragnatele di potere che fatalmente tendono a ricostituirsi anche dentro gli apparati democratici. In questa prospettiva, i movimenti contribuiscono a rinnovare la democrazia e soprattutto a ricostituire il legame tra i cittadini e gli apparati politico-istituzionali, che tendono a diventare sempre .più astratti e autoreferenziali.”[22]
[1] Chiara Giaccardi, Mauro Magatti, L’io globale. Dinamiche della società contemporanea, Laterza, Bari, 2003.
[2] Mauro Magatti, Mario Debenedittis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Felltrinelli, Milano 2006.
[3] Mauro Magatti, Il potere istituente della società civile, Laterza, Bari, 2005.
[4] Il potere istituente, op.cit., p .85.
[5] Mauro Magatti, Una membrana istituente. Società civile, istituzioni, politica, in “Communitas”, aprile 2006, pp. 237-238.
[6] In M. Magatti, Il potere istituente, op. cit., p. 85.
[7] Bepi Tomai, Il volontariato. Istruzioni per l’uso, Feltrinelli, Milano 1994, p. 7.
[8] Bepi Tomai, op. cit., p. 7.
[9] M. Magatti, Il potere istituente, op. cit., p. 96.
[10] M. Magatti, Il potere istituente, p .114.
[11] M. Magatti, Il potere istituente, p.6.
[12] M.Magatti, Il poptere istituente, p.7
[13] M. Magatti, Il potere istituente,p.9
[14] M. Ma gatti, Il potere istituente, p.15
[15] M. Magatti, Il potere istituente, p.15
[16] M. Magatti, Il potere istituente, p.99
[17] M. Magatti, Il potere istituente, p.103
[18] M. Magatti, Il potere istituente, p.99
[19] M. Magatti, Il potere istituente, p.105
[20] M. Magatti, Il potere istituente, p. 108.
[21] Micael Hardt, Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002, p. 50.
Il vostro invito è molto interessante e Giovanni Bianchi ha rimesso in fila, lungo i suoi pensieri, alcune delle riflessioni che sono contenute in questo libro, per me importante anche se è stato seguito da altri lavori e mi piace pensare, come Giovanni Bianchi ha detto, che stia dentro un percorso che sto cercando di fare da qualche anno.
Io riprendo alcune delle cose che sono state qui suggerite da Giovanni Bianchi per fissare, anche per chi non fa questo lavoro di professione, e forse è stato leggermente disorientato dalle tante cose che sono state dette, per precisare l’elemento centrale della proposta che ho provato a fare in questo libro. A partire naturalmente dalla consapevolezza che questa parola “società civile” ha un alone un po’ mitico e come tutte le cose un po’ mitiche poi suscita i fan e gli anti-fan della società civile. Ci sono quelli patiti della società civile e quelli invece che, con un certo snobismo, della società civile non hanno nessuna considerazione.
Il punto di partenza è un punto di analisi della società contemporanea; fra le tante infinite cose che possiamo dire sull’epoca che stiamo vivendo io credo sia utile dire che è in atto da decenni una crisi che io chiamo nella “transazione”, nel rapporto tra l’individuo e le istituzioni. Questi due mondi in una certa fase storica erano riusciti a trovare dei canali di comunicazione abbastanza efficaci; intendo dire che sostanzialmente nei due decenni ’50 e 60’, dopo tutto quello che era avvenuto nella prima metà del secolo scorso, in quei 20 anni lo sviluppo della dimensione istituzionale interveniva positivamente dentro la vita delle persone, della famiglia e dei gruppi trasformandola e rendendo possibile lo scambio reciproco di significati.
Un esempio molto semplice. Nel momento in cui ti arriva l’ospedale vicino a casa, ti arriva la scuola vicino a casa, arriva l’industria con i rapporti di lavoro che si stabilizzano e si regolano in una certa maniera, cambia la tua vita, cambia la vita degli altri, cambia la vita di tutti e c’è un nesso positivo, uno scambio positivo tra la dimensione dell’esperienza soggettiva e la dimensione della formazione delle istituzioni.
Seguendo la lettura che viene data da alcuni colleghi francesi, la crisi di questo rapporto avviene negli anni ‘60, possiamo ridurla al ’68, e avviene per eccesso di istituzioni. Non è un caso che il ’68, prima ancora della protesta sindacale, il ’68 studentesco si produce nelle Università più importanti, alla Cattolica, alla Sorbona, nella UCLA in California, a Berkeley, dove c’erano i figli della prima generazione educata in un contesto dove il livello istituzionale aveva raggiunto tali risultati. Questi figli avevano potuto studiare e avevano davanti a sé una vita in cui tutto un po’ stava insieme. Arrivati a 20-25 anni dicono: “ la vostra società è anche bella, funziona bene, produce benessere ed anche una certa integrazione sociale, ma noi vogliamo fare quello che ci piace, non quello che ci piace banalmente, ma non ci va di essere semplicemente delle macchine, di essere delle rotelle di un sistema che funziona. Vogliamo introdurre una novità, vogliamo esprimere qualche cosa”. E’ quella che è stata chiamata “la critica razzista“.
Io sono convinto che la prima radice di questa rottura del rapporto tra individui ed istituzioni è lì, prima dei fallimenti delle istituzioni, delle insufficienze, delle burocratizzazioni, della spesa pubblica, del deficit, della globalizzazione. Prima di tutto questo c’è una crisi dal lato soggettivo: il successo di quell’assetto istituzionale produce una certa distanza dal lato soggettivo nei confronti delle istituzioni, una certa diffidenza, una certa cattiva reputazione delle istituzioni.
Se ci pensiamo bene, e qui io prendo un po’ le distanze rispetto alla tradizione da cui vengo, il modello era un modello pan-istituzionale e addirittura pan-politico, cioè la società come un organismo al cui vertice c’è la politica, da cui poi si dirama tutto l’assetto istituzionale e logicamente viene prima la collettività e poi l’individuo. L’individuo deve in qualche modo prepararsi ad entrare dentro un meccanismo che funziona e riprodurlo in una maniera sensata. All’individuo è chiesto fondamentalmente di entrare in un processo che è fatto da qualche altra parte. Si cercava di salvare la questione dicendo che poi i partiti politici sono il punto di connessione con la dimensione soggettiva per cui tu entrando in un partito politico contribuirai a formare la decisione politica che poi struttura il tutto
Questo sistema per quanto abbiamo cercato di renderlo più diffuso, più democratico possibile, alla fine era un sistema senza ricambio. Chi era in grado di entrare in questi circuiti, di andare a contribuire a formare il sistema politico, chi? Alcuni gruppi ristretti. Questa è stata l’esperienza concreta..
Anche se in una certa fase c’è stata la capacità di diffondere la partecipazione, naturalmente con molte differenze da paese a paese, è stata un modello un po’ riduttivo e tutto quello che è avvenuto dopo è andato a peggiorare la situazione. Non c’è stata più solo la critica razzista, c’è stato l’inceppamento delle istituzioni, c’è stata la crisi fiscale dello stato, c’è stata la burocratizzazione, c’è stata l’esperienza concreta che tutti noi facciamo per cui le istituzioni dovrebbero funzionare in una certa maniera ma funzionano in un’altra maniera, c’è stata la globalizzazione, c’è stata la crisi di governabilità, tutto quello che sappiamo e la distanza tra la dimensione soggettiva e quella istituzionale è notevolmente cresciuta.
E oggi questa distanza aumenta quanto più voi scendete nella scala sociale. Il discorso dei ceti popolari è molto evidente. I ceti popolari che io ho chiamato così per individuare chi sta “in basso” nella vita sociale, chi ha poche risorse economiche e poche risorse culturali, si sente fondamentalmente privo di una propria azione, è tendenzialmente confuso e non guarda alle istituzioni come a qualcosa che lo possa proteggere. Questa distanza tra la sfera soggettiva e la sfera istituzionale cresce tanto più quanto più oggi si scende nella scala sociale. Questo è un grande problema per cui tutti i discorsi “di sinistra” vanno in larga parte a farsi benedire nel senso che l’area di sinistra pesca la sua base elettorale tra i ceti medi acculturati. Non sono più quelli della classe operaia, non sono più gli svantaggiati, i poveri versus i ricchi. Il sistema Forza Italia, Berlusconi, come è noto, non a caso, pesca elettoralmente nei ceti alti e nei ceti molto bassi. Così AN e la Lega che hanno pescato moltissimo in basso.
Questo è il primo punto: c’è una crisi di transazione tra individui ed istituzioni, è una crisi seria, grave; riguarda sia la sfera soggettiva, sia poi il funzionamento delle istituzioni. Questa è una crisi su cui bisogna riflettere altrimenti rischiamo continuamente di voler mettere delle pezze che palesemente non tengono. Ci sono delle risposte di diverso genere, diverse da quella che qui si propone, che ha il solo difetto di avere un tasso di idealismo, di verità molto alta.
Una soluzione è quella della leadership carismatica di immagine. E’ un modello molto chiaro, l’atto di transazione tra individui ed istituzioni lo ricomponiamo attraverso delle leadership forti dal punto di vista delle immagini, della comunicazione, è una connessione diretta tra il leader, che naturalmente è letteralmente l’immagine, e la platea dei cittadini consumatori di politica. E questa connessione, che salta tendenzialmente tutti i gradini intermedi, è una ricomposizione che ha un suo senso. Di fronte a questa crisi quel modello ha un suo senso. Però in senso radicale è una soluzione completamente diversa da quella che qui si prospetta dove il meccanismo di identificazione tra singolo cittadino, (che ha i suoi problemi, la disoccupazione, l’instabilità lavorativa, la famiglia che si scioglie, gli immigrati di fianco, un mare di problemi) è fatta attraverso questo leader. Il leader dovrebbe poi, attraverso il potere di decisione, portare tutta una serie di benefici sulla vita delle persone, passando continuamente da una televisione all’altra nel senso che la capacità di arrivare a toccare la vita concreta delle persone è bassissima, se non in talune rarissime eccezioni.
Se dietro c’è questo ragionamento, il punto di partenza è questa transazione tra individuo ed istituzioni, è un punto serio, un punto grave, un punto impegnativo intorno a cui si riflette troppo poco e le soluzioni raffazzonate non possono durare.
Il secondo punto che vorrei riprendere e sottolineare è questo: la società civile. La parola società civile naturalmente ha una tradizione plurisecolare; praticamente tutti i principali filosofi, politologi, sociologi, si sono confrontati con questo termine, quindi ci sono tantissimi modi di definire società civile.
Io credo che si possa, comunque, al di là di tutte queste grandissime differenze, cogliere un punto che a me sembra cruciale. Società civile è un termine che vuole sottolineare e vuole insistere sulla centralità della capacità degli esseri umani, in relazione con altri, di produrre il mondo. E’ un’affermazione abbastanza astratta ma vuol dire semplicemente che io credo che gli esseri umani, prima di tutto nella loro capacità di pensare, nella loro capacità di stabilire relazioni con altri, sono capaci anche di generare il nuovo.
Il nuovo non avviene solo lì, in quel contesto, pensate alla tecnica, pensate all’azione politica in senso proprio, ma l’infinita trama dei rapporti intersoggettivi è uno, non il solo, ma è uno dei punti di trasformazione della vita tra gli uomini. Su questo dovremmo naturalmente dire molte cose, ma adesso qui non ho il tempo e non voglio insistere su questo punto.
Però nel libro provo a fare questo tipo di ragionamento. Da dove vengono queste istituzioni, la politica, piuttosto che la comunicazione, piuttosto che la tecnica che riempiono la nostra vita? Da dove vengono? Chi li ha creati? Sono, come dice Parsons, lume a logiche sistemiche che sono prodotte dai sistemi? Naturalmente non è che possiamo scartare del tutto questo pezzo di ragionamento, oppure, li hanno prodotti in qualche momento, in qualche luogo, in qualche contesto gli esseri umani? Io credo che questa seconda risposta non possa essere elusa.
Qui si usa piuttosto questa immagine: la relazione interpersonale, seguendo Weber, è la base delle istituzioni. Cioè Weber ci dice: le istituzioni sono relazioni stabilizzate. Le istituzioni, secondo Weber sono rapporti tra esseri umani che si strutturano e si stabilizzano fino appunto a diventare cristallizzati. Per cui, quando l’allievo va a scuola sa cosa deve fare, si siede nel banco, deve evidentemente star zitto, deve ascoltare, ci saranno degli esami…..è una relazione stabilizzata dove tutti noi sappiamo, in qualche modo, cosa dobbiamo fare. Non è che ogni volta dobbiamo ripartire da zero, se dovessimo ripartire da zero saremmo, come dire, all’età della pietra. Quindi, gli esseri umani danno vita a delle istituzioni all’interno delle quali poi questo processo continua.
L’idea che si propone è una sorta di nucleo originario da cui progressivamente gli esseri umani hanno estratto degli assetti istituzionali. E se voi ci pensate bene io credo che questa immagine non sia del tutto sbagliata nel senso che quando dico che è un nucleo originario, dico che la relazione ha dentro tutte quelle cose che noi consideriamo “valore”. C’è dentro il tema della comunicazione, c’è dentro il tema della decisione, c’è dentro il tema della violenza o della non violenza, della cura, c’è dentro il tema dell’efficienza, tutte le cose che poi abbiamo tirato fuori per fare diventare istituzioni sono compresse in questo nucleo originario della vita sociale, la dimensione relazionale.
Dunque la prospettiva che qui propongo è che questa dimensione relazionale, personalistica di ultima istanza non è inessenziale, non è qualcosa per cui ci sono questi grandi apparati, c’è la tecnica, c’è l’economia mondiale, e questa dimensione delle relazioni è una piccola cosa…Cioè alla fine, a chi importa che siamo qui a parlare, col casino che c’è nel mondo, siamo si è no quattro poveretti, siamo qui a parlare, impieghiamo per ore il nostro tempo, c’è un gran casino e noi cosa stiamo facendo? Siamo fuori di testa? Ecco io non credo che questa affermazione sia vera. Credo che per quanto ci sia una crescente sproporzione tra questa dimensione relazionale e gli apparati che poi, storicamente, sono stati costruiti, io credo che questa dimensione mantenga un suo potere, una sua forza; è un luogo in cui può nascere qualcosa di nuovo. Naturalmente la probabilità che da questo qualche cosa di nuovo si generi qualcosa che trasforma il mondo è sempre più scarsa, ma io non credo che sia irrilevante.
Però questo luogo non è il luogo della bontà; ecco questo io lo sottolineo con forza perché poi in ambito, diciamo così, velatamente cattolico, questo equivoco accade continuamente. Cioè non è il luogo della bontà contrapposto alla dimensione istituzionale che è il luogo della cattiveria. Non è che per il fatto che parliamo di relazioni allora vuol dire che siamo appunto tutti buoni e che ci vogliamo bene. Questa è una sciocchezza perché se no non si capirebbe, appunto, da dove viene fuori il potere. E poi, sempre nella tradizione cattolica, ci viene insegnato che c’è il bene, che c’è il male, che c’è il peccato originale, che l’uomo è insieme buono e cattivo. Allora questo luogo della relazione, questo luogo personale, è un luogo in cui possono avvenire delle cose nuove, ma non è il luogo della bontà. Non è che la società civile è il luogo dei buoni, e dall’altra parte ci sono i cattivi. Non è che la società civile è buona e le istituzioni politiche sono cattive. E’ proprio sbagliato, ma continua a circolare questo fraintendimento. Non è che io faccio un discorso della società civile contrapposta alla società politica in questa chiave moralistica. Invece insisto nel dire che mi interessa salvaguardare, riuscire a pensare questo spazio intermedio tra la dimensione delle istituzioni e la dimensione individuale, questo spazio in mezzo che io ho chiamato una membrana, mi interessa riuscirlo a pensare, perché se non riesco a pensarlo, la probabilità di riuscire a mettere insieme individui e istituzioni, in alternativa al modello comunicativo, io credo che non ci si darà.
Allora, che cosa è che rende non tanto “buono”, ma rende civile il processo di auto-organizzazione della vita sociale? Che cos’è che rende civile il fatto che gli esseri umani capaci di pensare ad altre relazioni comincino a fare una cosa nuova? Rende civile l’auto-organizzarsi della vita civile il rapporto con la dimensione istituzionale, perché per definizione l’istituzione è universalistica. Ha questa capacità, se volete, di astrazione che invece le relazioni, per definizione, non hanno. Se io mi prendo cura del povero per la strada, non è che faccio un discorso sulla giustizia universale, mi prendo cura di quella persona, divento amico di quella persona e mi interesserà quella persona, non potrò occuparmi contemporaneamente di tutti gli altri poveri. Devo occuparmi di quella persona, devo entrare nella contingenza, devo specificarmi in una situazione. L’istituzione, invece, non si occuperà del singolo povero, l’istituzione metterà in campo delle strutture che parlano ed affrontano la questione dei poveri.
E’ meglio l’una o è meglio l’altra? Ci servono tutte e due se vogliamo essere umani, c’è bisogno che noi ci fermiamo a parlare con un povero e la piantiamo di fare discorsi sulla povertà e dall’altra parte non possiamo pensare che fermandoci ad aiutare un povero noi risolviamo il problema della povertà nel mondo, perchè evidentemente questa cosa non avviene.
Il problema della società civile è che volendo calarsi dentro questa dimensione della contingenza, della relazione, non può essere per definizione universalistica. Il problema delle istituzioni è che volendo sganciarsi dal particolare, andando verso l’universale, dimenticano dei pezzi per strada, perdono tutta quella particolarità, tutta quella sensibilità, tutta quella specificità che è dell’umano, che le istituzioni non potranno mai raggiungere. Strappano necessariamente, proprio perché astraggono e astrarsi vuol dire, come la parola stessa dice, tirarsi fuori dal particolare. Se noi non riusciamo ad articolare qualche cosa in mezzo, tra il particolare e l’astratto, la vita sociale non funziona.
La società civile è l’auto-organizzazione del sociale, che presta ascolto al particolare, ma che si mette in rapporto, che ammette il suo limite e si mette in relazione con l’istituito, con l’universale, con l’astratto, ma capisce che in questa particolarità, che è il suo bene, sta anche il suo male.
Potremmo fare degli esempi molto noti, circa la pretesa di gruppi della società civile di non riconoscere questo loro limite e questo li fa, tendenzialmente, dei gruppi di società che io definisco incivili. L’auto-organizzazione del sociale può essere civile se si misura e si confronta con le istituzioni, oppure può essere incivile se pretende di fregarsene delle istituzioni.,o addirittura di sostituirne, o di prenderne il posto, o addirittura di occuparle, o qualunque altra forma che voi conoscete e pensate. Questa è auto-organizzazione sociale che diventa incivile, cioè distruttrice di vita sociale, di socialità, anche se animata da buoni sentimenti., anche se animata da buone intenzioni. Tante volte nella vita ci capita di avere buonissime intenzioni e di produrre risultati disastrosi.
Questo è il secondo punto. Io insisto a considerare un punto di potenziale novità della vita sociale l’auto-organizzazione, cioè i rapporti tra le persone in carne e ossa. Questa auto-organizzazione sociale è un elemento importante che va colto e diventa civile a condizione che si misuri con una dimensione istituzionale, laddove ammettiamo che l’istituzione è il luogo dell’astrazione e dell’universalismo, e quindi della generalità.
Il terzo punto che vorrei sottolineare è questo. Noi siamo distorti in questi ultimi decenni. Anche la tradizione da cui io provengo e alla quale mi iscrivo ha una distorsione, e cioè che, considerato anche il successo di ciò che è stato ottenuto nel periodo post-bellico, ci siamo abituati a pensare che le istituzioni tendenzialmente hanno a che fare con lo Stato nazionale. Anche qui Weber è stato molto importante: le istituzioni hanno a che fare con lo Stato nazionale fondamentalmente, e dunque con il sistema politico. Quindi le istituzioni le fa il sistema politico. Il sistema politico serve per mettere a punto gli assetti istituzionali della vita sociale. La vita sociale è contenuta dentro delle comunità politiche e ci sono dei luoghi deputati per costruire le istituzioni: il Parlamento fondamentalmente, il Governo, ecc. E’ una visione che ho definito “pan-politica” della società.
In realtà, storicamente, io credo che noi possiamo vedere chiaramente pensando primo allo Stato, e allo Stato democratico in particolare, e poi guardando ad un’altra istituzione che noi oggi tendiamo a concepire come istituzione, che è il mercato, laddove il mercato è istituzione nella misura in cui è un insieme di regole, è un insieme di norme che permettono e rendono possibili determinati rapporti tra gli esseri umani. Se noi vediamo così il mercato, e io credo sia opportuno vederlo così, dobbiamo costatare come storicamente lo Stato non è sempre stato democratico. Lo Stato è stato tante cose e ad un certo punto siamo riusciti, nel novecento in particolare, a creare questa struttura istituzionale; lo Stato democratico del ‘900 che ha raggiunto tutta una serie di equilibri. Ci abbiamo messo dei secoli. Ma chi ha costruito questi equilibri? Chi ha reso possibile raggiungere quegli assetti che sono stati, per quanto ne sappiamo noi, tra i più decenti che è possibile raggiungere in tema di rapporti di decisione politica? Chi ha messo in piedi questo Stato democratico? I parlamenti certamente, ma non c’è dubbio, che hanno dato un contributo formidabile i gruppi sociali, quelli che poi sono diventati i partiti, i movimenti, le associazioni.
Tanti soggetti di auto-organizzazione sociale che hanno visto una serie di problemi e che si sono messi insieme rispetto alla questione politica, hanno dato una spinta, poi c’è stato anche il momento formale dell’organizzazione delle istituzioni. Le istituzioni si costruiscono così: sono dei processi complessi, nascono da spinte di diversa natura; non ci sono da una parte i parlamentari che fanno le istituzioni e dall’altra noi per metterci poi d’accordo. Questa è un’immagine veramente distorta di quelle che sono le istituzioni. Ma ancora di più se ammettiamo, affermazione un po’ ostica per qualcuno, che il mercato sia anch’esso un’istituzione. Ma chi l’ha fatto il mercato? Ma come è nata questa istituzione del mercato? Ma chi l’ha creato? Se noi lo guardiamo storicamente, vediamo che progressivamente, per tutta una serie di ragioni, i mercanti, i commercianti, i borghesi, gli industriali, il sindacato, lo Stato, la regolazione del mercato del lavoro, tante cose, pezzo per pezzo, hanno messo in piedi quello che chiamiamo mercato.
La terza idea è questa: le istituzioni sono delle costruzioni complesse storico-socialio, costruzioni alla quale partecipano molti attori.
La società civile è un ponte, qualche volta è una critica, qualche volta è un laboratorio, ma deve avere, come orizzonte, se è tale, la trasformazione degli assetti istituzionali perché non ha dentro di sé il rifiuto della dimensione istituzionale, ma ha dentro di sé il recupero e la valorizzazione della sfera intersoggettiva relazionale, come una sfera preziosa e concepisce questa sfera solo in rapporto alla dimensione istituzionalizzata, cioè universalistica.
In questo senso la società civile si propone come membrana, può far passare dei significati, assorbe dei significati dalla sfera istituzionale, non li assume come dati chiusi, inquestionabili, li prende, li passa sulla dimensione soggettiva del relazionale. Questa dimensione è capace d’innovazione e rimanda alle istituzioni degli altri significati, degli altri valori, degli altri contenuti, delle altre forme.
Questa per me è un’idea importante: la costruzione delle istituzioni è un processo storico-sociale che riguarda tutti noi, veramente, tutti; questo è un pensiero che in occidente si è perso. Tutti noi abbiamo l’idea che le istituzioni le fa qualchedun altro. Abbiamo veramente perso questo senso della cittadinanza in senso proprio, cioè il fatto che siamo cittadini, quindi siamo chiamati, in qualche modo, a partecipare ad un processo storico. Non vedremo il risultato; già nell’Esodo c’era scritto che non sempre si vedono i risultati. La vita è fatta in questa maniera, non si può aver tutto e subito. Però la bellezza di stare dentro ad un processo è anche la consapevolezza che stai facendo un pezzettino, non hai il potere su tutto, ma hai il potere su quel pezzettino. Va bene, sarà poco, sarà tanto, ma è il tuo potere. Comunque è bellissimo perché uno ha un potere non distruttivo, perché quando uno ha il potere su tutto può essere Dio, ma può anche essere un distruttore. Quindi avere un potere che per definizione è limitato è bellissimo perché uno esercita il suo potere nella libertà di non distruggere tutto quanto, è una situazione ideale. Quando siamo attirati da questa idea del potere, che deve dominare tutto siamo trascinati da un’idea demoniaca, letteralmente demoniaca.
A questa idea che le istituzioni sono questi processi storico-sociali complessi, se ne associa un’altra, per me molto importante, che è l’idea della differenziazione delle istituzioni. Cosa voglio dire? Voglio dire che questa è un’idea che trovate in molti autori: per esempio è molto sviluppata da Luhmann e poi dai suoi allievi. Luhmann è un sociologo importante tedesco, sistemico, che ragiona in maniera completamente diversa da me per tanti versi; però uno dei suoi principali allievi, Gunther Tolmert, che insegna alla High School Economic, recentemente è venuto in Cattolica a fare una lezione e sono stato colpito dal fatto che, partendo da una logica sistemica, è arrivato a dire alcune cose che sono molto convergenti con le cose che sto cercando di dirvi.
Lumann parla di sistema sociale, che poi è il sistema mondo e parla delle differenziazione delle istituzioni. Quello di cui noi abbiamo bisogno, dice Lumann è il fatto di creare continuamente delle sfere istituzionalizzate che consentano di far funzionare dei pezzi della nostra vita sociale. In questo senso io dico che il mercato è un’istituzione. Non è un’istituzione politico-democratica ovviamente, ma è una istituzione nel senso che consente di regolare i rapporti tra gli esseri umani. Relativamente a che cosa? In questo modo dentro alle istituzioni otteniamo un vantaggio grandissimo, cioè sappiamo usare in maniera efficace ed efficiente le risorse di cui disponiamo. È una cosa importante, è molto importante.
Il mercato è una macchina, è un insieme di relazioni che ci consente di utilizzare in maniera efficiente le risorse di cui disponiamo. Ottimo risultato, basta che non usiamo quella macchina per fare altre cose. Se hai la macchina taglia erba e vai a tagliare i capelli alla gente l’ammazzi. Serve per tagliare l’erba del giardino non per tagliare i capelli, non serve a quello, usala in giardino che va benissimo. Se pretendi di tagliare i capelli ai bambini fai un massacro. Allora il mercato è un’istituzione che si è progressivamente enucleata rispetto ad un’esigenza di uso efficiente delle risorse.
Così lo stato democratico io credo che fondamentalmente sia un’istituzione, un apparato, una sfera istituzionalizzata che serve essenzialmente per risolvere il problema fondamentale della risoluzione dei conflitti fra gruppi diversi. Risoluzione dei conflitti fra gruppi diversi che convivono insieme, che hanno l’esigenza di trovare il modo per prendere delle decisioni comuni. C’è un problema di decisione nel vivere insieme in una famiglia prima o poi qualcuno deve decidere, bisogna mettersi d’accordo. Oppure nella Chiesa. Qualcuno dice la Chiesa non è democratica e giustamente, perché non è che tutto debba essere democratico, Però ci siamo messi d’accordo sul fatto che nella sfera politica la cosa migliore per non ammazzarsi, è la democrazia. È la cosa migliore? Relativamente migliore per il fatto che ci sono degli apparati, delle procedure istituzionalizzate che consentono di prendere delle decisioni su delle questioni che noi riteniamo importanti.
Come ho detto prima, questa differenziazione, credo che non sia un’esigenza sistemica, io credo che sia invece un prodotto storico del fatto che gli esseri umani pongono dei problemi, cominciano a ragionarci sopra, parlano di organizzazione, mettono a punto dei modelli, poi si scontrano con altri modelli, si trovano delle soluzioni. Insomma si procede a quella costruzione di cui parlavo prima: la differenziazione è un processo storico sociale a cui gli attori, cioè noi, contribuiscono.
Allora qual è il punto della differenziazione contemporanea? Noi abbiamo differenziato lo Stato e il mercato, relativamente, con una serie di problemi: prima c’è stata una fase in cui dominava lo Stato, adesso siamo in una fase in cui palesemente in larga parte del mondo, prevale il mercato rispetto allo Stato. Il problema non è, secondo me, tentare di rimetterli insieme, il problema, secondo me, è questo: andiamo avanti a differenziare. Cosa voglio dire? Faccio due esempi.
Pensate la questione del welfare: il welfare è nato come un apparato dello Stato, ha tenuto i piedi in tutto l’occidente, in America è stata una camminata un po’ diversa. Cos’è il potere istituente della società civile? Il potere istituente della società civile, secondo me, si pone in questa fase storica nel seguente modo. Prendiamo il caso europeo e italiano, che ha un welfare statale: ha avuto tutta una serie di problemi, è nato il volontariato, intanto lo Stato ha cominciato a ritirarsi, il volontariato un po’ per volta è diventato privato-sociale, terzo settore, adesso abbiamo questo terzo settore che non sappiamo dove mettere; per me il terzo settore non sta tra lo Stato e il mercato. Il terzo settore è il soggetto principale che può dare un contributo fondamentale a far nascere una sfera istituzionalizzata che riguarda il tema della cura della persona o che deve progressivamente strutturare regole, norme procedure, logiche che hanno a che fare con la cura e che ha una dimensione istituzionalizzata, cioè appunto, universalistica, e che dobbiamo differenziare, che non è ne Stato, né mercato. E’ una cosa diversa.
Cosa vuol dire una sfera istituzionalizzata? Decidere che caratteristiche devono avere i soggetti, le organizzazioni che entrano in questo campo. Come si accede alle risorse all’interno di questo ambito istituzionalizzato? Chi gliele dà, le dà lo Stato, le dà il mercato, le danno le donazioni? Come fare perchè questo campo abbia le risorse che collettivamente decidiamo che siano opportune? Come si fa a valutare i risultati e le azioni di questa organizzazione? Quali sono i criteri di valutazione? Sono solo criteri di mercato o sono criteri di altra natura? Quali sono i soggetti istituzionalizzati che vigilano sull’operato e sui risultati ottenuti? E’ la costruzione di una sfera organizzata che riguarda l’ambito della cura e che costruisce un po’ per volta le regole di quel campo.
E l’altro esempio che faccio, fondamentale a mio modo di vedere, è la questione della comunicazione, in particolare la sfera pubblica comunicativa, quella di cui parla Habermas, quella composta dai mass media. I giornali, la radio prima e la TV dopo sono nati all’interno della capsula dello Stato nazionale. Prima, negli anni ’50-’60 le televisioni pubbliche sono state addirittura assorbite dallo stato nazionale. Questa questione della comunicazione arriva poi fino alla scuola.
Dopo di che, negli anni ’70, c’è stato il processo di privatizzazione; siamo passati dalla sfera pubblica alla sfera privata; gli interessi privati determinano i palinsesti televisivi. Risultato: un disastro. Si sta diffondendo questo processo: ci sono quote di popolazione che non guardano più la TV perché è inguardabile e questi sono processi non tanto elitari ma che riguardano anche i ceti medio alti. Cioè una persona normale, a meno che abbia i neuroni spenti perché la sera è stanco morto, non può guardare la TV italiana; credo che sia una cosa ormai al di là del bene e del male. Risultato di questi vent’anni di TV: un disastro. Con questi dibattiti, secondo me, patetici sulla TV spazzatura; tutta è spazzatura, dalla A alla Z, non se ne salva più niente. Perché? Perché il passaggio dalla dimensione statuale alla dimensione di mercato l’ha resa tale. E cosa volevate che diventasse?
Se riusciamo a pensare la comunicazione come una sfera della vita sociale importante non possiamo pensare che sia il governo Prodi, o Berlusconi che semplicemente detti le regole. Dobbiamo riuscire progressivamente a stabilire in un processo storico, un sistema di regole, di procedure, di conduzioni che enucleino questo campo della comunicazione come una sfera istituzionalizzata che, come dire che si differenzia in senso stretto dalla sfera politico-istituzionale, dalla sfera del mercato, dalla sfera del welfare. Allora questa è l’immagine della società che viene in mente, una società che differenzia le istituzioni, che costruisce ambiti specializzati.
Io sostengo che il processo storico è proprio questo, che è nato secoli fa, che va avanti molto lentamente, che non lo vedremo realizzato, ma io credo che sia sensato pensare in questa direzione piuttosto che pensare di reinserire tutto in sfere politiche. Può anche darsi che ci sia un’altra soluzione alternativa: costruiamo l’Europa abbastanza grande e dentro lì così ci sta tutto. Ma io credo che l’Europa sarà necessariamente diversa dall’Italia e che il problema del rapporto tra l’individuo e le istituzioni si riproporrà e che queste sfere istituzionalizzate si proporranno anche dentro il progetto europeo.
L’idea che vi prospetto è che la società civile è istituente nel senso che comincia a pensare pezzi di nuove istituzioni che non esistono e comincia non a farle integralmente, ma comincia a mettere dei pezzettini, dei prototipi, comincia ad elaborare delle forme, fornisce i materiali che poi ad un certo punto troveranno l’assetto che noi in questo momento non riusciamo ancora a pensare. Come è stato per le altre sfere istituzionalizzate di cui disponiamo: lo Stato democratico e il mercato, perché storicamente le cose sono andate così.
Allora il tema del welfare e il tema della comunicazione sono due temi particolarmente importanti, dove questo esercizio di società civile istituente si può applicare in una maniera particolarmente chiara.
L’ultimo punto che tocco è la questione della così detta società civile globale. Penso che sia un tema importante, ma comunque qual è la questione? La questione è che noi siamo in una fase storica che ha un grandissimo deficit istituzionale. Cioè noi ci rendiamo conto che avremmo bisogno di assetti istituzionali, non solo politici, assetti istituzionali, appunto universalistici, che ci risolvano una serie di problemi ma non ne abbiamo. Ci rendiamo conto che abbiamo questo deficit, e quindi la risposta immediata qual è? Ci pensi il sistema politico. Siete lì, vi paghiamo, vi paghiamo anche abbastanza bene, prendete le decisioni. E’ palese però che i sistemi politici per tutta una serie di ragioni non ce la fanno, da soli non ce la fanno. Può anche darsi che per un colpo di fortuna ce la facciano. Ci sono le combinazioni stellari particolari, dei leaders stupefacenti, può anche darsi che succeda così, ma è irragionevole pensare che i sistemi politici ce la facciano. Ecco, siamo in una situazione, che io chiamo di sbilanciamento istituente, cioè avremmo bisogno di nuove istituzioni, ma non si capisce qual è l’attore che le potrebbe costituire. La società civile nel suo piccolo, proprio perché non ha la pretesa di mettere tutto a posto subito, non ha la pretesa di essere ordinatrice del sistema politico, la società civile è essenziale in epoca di sbilanciamento istituente perché chi può cominciare a costruire appunto quei pezzi, i pezzi che faranno quel ponte su cui si spera possiamo passare, sono questi soggetti della società civile istituente. Io non ne vedo altri, ragionevolmente, a cui è rinviato il compito, assumendo questa affermazione che il potenziale personale che nel mondo c’è, è la risorsa più straordinaria che abbiamo, anche se l’abbiamo perso abbondantemente di vista. Assumendo il fatto che questo enorme potenziale umano sia capace, anche in questa fase, di sostenere la trasformazione che ci sembra impossibile, che ci mette un’ansia incredibile, che ci mette una grande paura perché, la sensazione diffusa è il timore che si sfasci tutto e chissà cosa ci viene addosso. E naturalmente in tempi di paura la cosa più semplice che accade è che ci rivolgiamo a qualcuno che ci rassicuri, è un meccanismo normale e noto.
Io invece credo agli attori della così detta società civile globale, non penso alle sole ONG, ma a tutte le forme di auto-organizzazioni che sono capaci di raccogliere gli uomini e le donne che fondamentalmente vedono i problemi, e cominciano ad elaborare delle soluzioni. Questo fa la società civile istituente. La società civile istituente è costituita da uomini e donne, dotati di intelligenza, che vedono dei problemi irrisolti e invece di dire “chi se ne frega”, provano a ragionare con degli altri esseri umani e ad elaborare delle soluzioni che sono provvisorie, parziali, spesso sbagliate, ma costituiscono il fermento da cui poi possono nascere assetti istituzionali. E in questo momento in cui noi abbiamo un deficit istituzionale potente se non riusciamo a generare questa dinamica e a rafforzarla e a favorirla, il pensiero che ci sia qualcuno da qualche parte che ci metterà a posto è francamente un pensiero abbastanza delirante.
Da questo punto di vista mi piace citare l’ultima pagina del libro di Giorgio Agamel “Stato d’eccezione” perché questo libro sullo stato d’eccezione chiude con questa riflessione che mi è cara: il problema della società civile istituente è che è chiusa in un dilemma, in una contraddizione. Se è istituente non è solo dentro le istituzioni e se non è dentro l’istituzione corre sempre il rischio di sfasciare sempre di più le istituzioni che si generano, che esistono, corre il rischio di diventare mafia. E noi vediamo benissimo, che in questa crisi di deficit dell’istituzione che abbiamo su scala globale, abbiamo alcune grandi direttrici. Per sintetizzare, abbiamo direttrici di grandi poteri politici, in senso forte, di imperi, che detteranno le leggi; abbiamo la soluzione mafiosa, lo smembrasi di tutto è fondamentalmente l’aggregarsi di sistemi, di poteri di stampo mafioso, cioè nemmeno più riferiti alla dimensione della legge e all’istituzione. Interi pezzi di mondo vanno per questa strada, e abbiamo questa fragilità, ma alla fine la più forte possibilità di immaginare che questo potenziale umano sia capace nuovamente, come è stato nel passato incredibilmente, di trovare una strada in mezzo, che è la strada della creazione di nuove forme istituzionali che rigenerino degli assetti un po’ più sensati.
Però il punto che volevo sottolineare è questo: se è istituente non sta dentro alle istituzioni e quindi apre un varco a tutto, è quello che Agamel chiama appunto “Stato di eccezione”. Lo Stato di eccezione è il punto di rottura, è il punto del potere se volete dire così, è il punto in cui il potere si da, e naturalmente di questo bisogna essere molto consapevoli perchè se è il punto in cui il potere si da, è il punto in cui ci apriamo sull’abisso. Allora la società civile non è il consesso dei buoni, la società civile è costituita da esseri umani, uomini e donne, che si organizzano, che vedono i problemi, che tengono aperto questo confronto con le istituzioni esistenti e con le istituzioni future. Ma se noi non riusciamo a tenere viva questa tensione tra l’istituito e l’istituente, tra ciò che c’è e ciò che ci deve essere, noi siamo morti e dice Agamben:
“Esibire il diritto nella sua non relazione alla vita e la vita nella sua non relazione al diritto significa aprire fra di essi uno spazio per l’azione umana che un tempo rivendicava per sé il nome di politica. La politica ha subito una durevole eclisse perché si è contaminata con il diritto concependo se stessa, nel migliore dei casi, come potere costituente, cioè violenza che pone il diritto, quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare con il diritto. Veramente politica è invece soltanto quell’azione che decide il nesso tra violenza e diritto e soltanto a partire dallo spazio che così si apre sarà possibile porre la domanda sull’eventuale uso del diritto dopo la disattivazione del dispositivo che in uno stato di eccezione lo legava alla vita”
Cosa vuole dire Agamben? Vuole dire che nell’epoca contemporanea soprattutto, in questa crisi di fiducia nelle istituzioni, la politica va riportata a questo livello. La società civile fa politica a tutti gli effetti; non fa politica dentro la sfera politico-istituzionale, non diventa un partito. Anche i partiti erano soggetti della società civile naturalmente, poi sono diventati partiti, si sono istituzionalizzati.
I soggetti della società civile fanno politica a tutti gli effetti, sono soggetti della politica contemporanea nel senso che sono tra coloro che contribuiscono a rendere possibile un mondo che palesemente sembra impossibile. E questo gusto della politica deve essere riportato tra le persone. Quando io penso alla politica non devo pensare di candidarmi, qualcuno anche si candiderà e farà certe cose, va benissimo, per fortuna ci sei tu, se no è un disastro, però io faccio politica in questo mio senso di responsabilità storica. Questa è la politica, prima di tutto. E questo riguarda veramente tutti; quello che mi insegnavano da bambino che la politica riguardava tutti. Dentro a quell’assetto storico era chiaro, ma se ora lo dico ai miei figli, ai due più grandi che hanno 19 e 17 anni, se parlo della politica, del parlamento, loro non sanno manco cos’è il parlamento. Eppure sono figli miei, io sono professore universitario dell’Università Cattolica, faccio il sociologo ma i miei figli grandi sanno vagamente cos’è il parlamento. Questo naturalmente è colpa mia, e non va bene, ovviamente, ma sto dicendo che non dobbiamo solo fargli la predica sul parlamento, ma dobbiamo cercare di fargli capire che è ora di essere dentro a questo mondo e di contribuire alla costruzione di un mondo umano, con una loro responsabilità politica.
Naturalmente senza sfasciare tutto, senza partire per la tangente, in rapporto alle istituzioni esistenti, ma anche con questa dinamica di costruzione.