Per alcuni storici il novecento è stato un “secolo breve”, per altri invece un’ “epoca lunga”: comunque sia questo periodo ha certamente suggellato la centralità dell’Europa come epicentro di propagazione di politiche che hanno finito per condizionare poi la gran parte degli Stati dell’intero pianeta. L’affermazione degli Stati sovrani ed autonomi era il tratto distintivo di quella fase, mentre un corpus di norme, di patti, e di diplomazie, aventi un certo radicamento storico, ne garantirono il rispetto reciproco internazionale. Il sistema consolidato delle monarchie era già stato pesantemente incrinato dall’evolversi di alcuni cambiamenti politici ed economici quali: la rivoluzione francese del 1789, quella americana, quella industriale inglese. Comunque sarà l’influente congresso di Vienna del 1814-15 a contribuire alla reintroduzione di una sorta di “legittimismo” reazionario dei più potenti regnanti basato sulla tradizione, sulle dinastie e sulla religione, e sulla cooperazione dei sovrani; definito come ordine “presentabile” e in grado di garantire stabilità e pace, ma al tempo stesso conferendo alla nascente “Europa” la nuova connotazione di collante delle diverse entità statuali.
1. leggi il testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo
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1. premessa di Giovanni Bianchi 7’06” – 2. introduzione di Andrea Rinaldo 27’38” – 3. relazione di Guido Formigoni 45’00” – 4. prima serie di domande 4’43” – 5. risposte di Guido Formigoni 12’06” – 6. seconda serie di domande 12’54” – 7. risposte di Guido Formigoni 22’00” – 8. terza serie di domande 16’04” – 9. risposte di Guido Formigoni 14’20”
Introduzione di Andrea Rinaldo a Guido Formigoni
Un quadro storico della politica internazionale nel “secolo breve” e fino all’attualità.
Un potente e documentato trattato sulle interrelazioni tra le politiche internazionali e le recenti dinamiche globalizzative, e le profonde ricadute che tali politiche hanno generato nel contesto socio-economico, culturale, religioso e militare delle diverse nazioni. Introduzione di Andrea Rinaldo al testo di Guido Formigoni.[1]
Uno. Le radici storiche del “secolo breve”
Per alcuni storici il novecento è stato un “secolo breve”, per altri invece un’ “epoca lunga”: comunque sia questo periodo ha certamente suggellato la centralità dell’Europa come epicentro di propagazione di politiche che hanno finito per condizionare poi la gran parte degli Stati dell’intero pianeta. L’affermazione degli Stati sovrani ed autonomi era il tratto distintivo di quella fase, mentre un corpus di norme, di patti, e di diplomazie, aventi un certo radicamento storico, ne garantirono il rispetto reciproco internazionale. Il sistema consolidato delle monarchie era già stato pesantemente incrinato dall’evolversi di alcuni cambiamenti politici ed economici quali: la rivoluzione francese del 1789, quella americana, quella industriale inglese. Comunque sarà l’influente congresso di Vienna del 1814-15 a contribuire alla reintroduzione di una sorta di “legittimismo” reazionario dei più potenti regnanti basato sulla tradizione, sulle dinastie e sulla religione, e sulla cooperazione dei sovrani; definito come ordine “presentabile” e in grado di garantire stabilità e pace, ma al tempo stesso conferendo alla nascente “Europa” la nuova connotazione di collante delle diverse entità statuali. Ma gli incipienti processi di industrializzazione e di diffusione mondiale dei commerci di impostazione spesso liberista, che videro il Regno Unito protagonista indiscusso di quella temperie, estesero l’influenza del nuovo modello di organizzazione europeo fuori dai confini del vecchio continente; tuttavia le rivoluzioni di metà ottocento decretarono invece il trionfo degli Stati-Nazione, e il conseguente decadimento del “modello d’ordine Viennese”, ed anche del patto cooperativo tra le “grandi potenze”. Un sistema economico, un territorio, uno Stato; la Nazione: ecco sono questi gli elementi salienti del nuovo modello generalizzato di concentrazione del potere che si affermarono. In questo contesto di analisi, si colloca lo sforzo elaborativo di Guido Formigoni, docente universitario presso l’università IULM di Milano, che nel suo corposo testo ci conduce nel percorso di intrecci storico-antropologici su queste tematiche, il quale abbraccia più propriamente il decisivo periodo intercorrente tra la fine dell’ottocento e la caduta del muro di Berlino; e poco oltre, fino all’attualità.
Due. Dall’apogeo dell’egemonia europea alla tragedia della ”Grande Guerra”
Interessante è la notazione introduttiva di questo squarcio storico che il professor Formigoni ci offre, relativamente alla nascente definizione di “opinione pubblica”, spesso intesa come massa da manipolare e da tenere all’oscuro delle vere intese raggiunte dai governi. Inoltre ricca di spunti che rimandano all’attualità è anche la considerazione che la nuova e crescente economia industriale era saldamente allora (come oggi?) nelle mani dei coevi poteri pubblici, in un intreccio indissolubile tra la sfera della politica e quello della forza della finanza. Che la svolta imperialista di alcune nazioni europee fosse la logica conseguenza di una sempre più esasperata competizione per i mercati di espansione economica è parsa quindi una inevitabile conseguenza delle tensioni in atto, alla quale, come sappiamo, non si sottrasse neanche l’Italia, che anzi si avventurò su questa strada mediante l’occupazione di alcuni Stati del Corno d’Africa. Inoltre, ovviamente, assunsero una nuova centralità alcune industrie private di armamenti, a causa delle crescenti commesse statali, e della spinta verso un forte impegno imperialistico delle potenze europee. Tuttavia, ci dice il docente universitario qui con noi stamattina, non si deve pensare che la competizione per i mercati economici portasse inevitabilmente prima o poi a scontri militari: la fase espansiva di inizio ‘900 favorì invece la ricerca di nuovi equilibri, rappresentando così la faccia meno cruenta dell’imperialismo europeo. Le alleanze difensive siglate dalle principali potenze (la Triplice Alleanza, germanica-austroungarica-italica, e la Duplice franco-russa) erano in un certo senso “plastiche” nelle relazioni reciproche, pertanto non furono tout-court, all’origine del primo conflitto mondiale; comunque sia però “…l’epoca più alta dell’imperialismo coloniale produceva nel suo seno i germi della futura dissoluzione…” [2],afferma il professor Formigoni nel suo testo. Gli esasperati nazionalismi nascenti soprattutto nelle loro rivendicazioni radicali, conducevano però verso inevitabili scontri, che dai livelli circoscritti locali avrebbero potuto diffondersi a “macchia d’olio”; parallelamente le storture che si appalesavano attorno alle degenerazioni di un “nascente capitalismo”, furono invece all’origine di movimenti politici di stampo marcatamente antimperialista e rivoluzionario. Comunque che il conflitto generalizzato fosse nell’aria parve a molti una profezia che si poteva però avverare, generato da una esasperata competizione per l’egemonia sul Vecchio Continente e da bulimici appetiti imperialisti, anche se l’attentato di Sarajevo del 1914 non sembrò sulle prime l’evento in grado di dar seguito a questa triste profezia; invece la crisi balcanica, complice anche la macchinosità dei meccanismi di mutuo sostegno delle potenze europee (Triplice Intesa in primis), fu in grado, attraverso progressivi avvitamenti, di innescare il primo conflitto mondiale. La “Grande Guerra” con il suo carico enorme di morti, di crisi generalizzata, decretava il passaggio dal “sistema ottocentesco” a quello nuovo del XX secolo, certificando nel contempo il crollo dell’egemonia europea e la nuova emergente leadership degli Stati Uniti, e consegnando ai superstiti anche una nuova geografia continentale.
Tre. Un diverso assetto mondiale e l’ennesima tragedia della seconda guerra totale
Il nuovo assetto mondiale sorgeva sulle ceneri dei grandi imperi multinazionali, e pareva appunto dare più centralità al concetto di nazionalità e di democrazia, ponendosi in competizione con l’ “altro modello”, quello di impostazione socialista inverato dal nuovo Stato, cioè dall’Unione Sovietica. Tuttavia gli accordi parigini dei vincitori si rivelarono ben presto decisamente fragili, mentre gli emergenti totalitarismi di stampo fascista e gli insoddisfatti dei patti di Versailles, finirono per portare il continente europeo (e quindi l’intero mondo) verso il baratro della seconda guerra mondiale. In questo escursus storico è incredibile constatare l’invarianza (fino ai giorni nostri!) dell’assurdità di alcune ricorrenti “concettualizzazioni belliche” che hanno costituito il sostrato ideologico di legittimazione di taluni conflitti: “guerra preventiva”, “ultima guerra”, “guerra lampo”; ma perché, verrebbe da chiedersi (magari un po’ retoricamente), non è la historia magistra vitae? Comunque l’invenzione statunitense della “Società delle Nazioni”, nonostante nascesse dal presupposto Wilsoniano di “pace senza vittoria”, era in realtà uno strumento nelle mani dei vincitori del 1918, nonché il frutto di numerosi compromessi, (non ultimo il disimpegno americano dalla stessa) manifestando così una debilitante debolezza intrinseca; tuttavia essa richiedeva comunque alle potenze imperialiste di rispondere dei loro atti ad una istituzione internazionale. La nuova fase negoziale tra Francia e Germania degli anni ‘20 sembrò scongiurare il pericolo di devastanti derive, mentre il ruolo economicamente egemonico degli Stati Uniti diveniva sempre più evidente e determinate; e l’allargamento poi della Società delle Nazioni ai paesi vinti, così come il patto anti-belligerante sottoscritto da molti stati, parevano anch’essi andare in questa direzione. Ma la grande crisi economica del 1929 scoppiata proprio negli USA si propagò immediatamente in altri paesi “legati” economicamente all’America ed anche quindi nel continente Europeo, decretando quasi la “crisi del modello di civiltà liberale e capitalista”, mentre la risposta generalizzata a questa debacle fu la ripresa nei singoli stati delle tematiche marcatamente nazionaliste e quindi imperialistiche. A questo proposito sembrano molte le analogie che si possono istituire tra quella fase e la crisi attuale, scaturita attorno alla fine del decennio scorso; e ancora ben lungi dall’essere superata, anche perché, quantomeno nel nostro Bel Paese, non si scorge nulla che possa avere una qualche similitudine con l’efficace New Deal Rooseveltiano. In quella temperie aumentò invece la credibilità del modello isolazionista, autoritario e statalista sovietico; mentre la stratosferica condizione di crisi in Germania, portò al potere il partito nazista nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi guidato da Adolf Hitler. L’uscita per motivi diversi della Germania e dell’Italia dalla Società delle Nazioni, sancì la crisi irreversibile di questo organismo sovranazionale, e il consolidarsi dell’asse “Roma-Berlino”, stabilì un legame tra le due dittature che le vedrà accomunate nel secondo conflitto mondiale. La politica bellico-espansionista imperiale teutonica stabilì ad inizio degli anni ‘40 un “nuovo ordine europeo”, che apparirà a molti “…osservatori come la seconda e decisiva fase acuta di un’unica <guerra civile europea> di dimensioni epocali, che durava dal 1914…” [3]. Lo scontro fu anche apertamente ideologico tra il totalitarismo nazifascista e quello comunista, ma anche con la liberal-democrazia con intenti universalistici dell’occidente. Tuttavia la crisi sul fronte russo rappresentò l’inizio della fine delle mire imperiali tedesche, mentre d’altro canto andava sempre più a delinearsi un diverso ordine decretato per “sfere d’influenza”, e si costituiva il nuovo organismo internazionale di cooperazione tra le nazioni chiamato ONU.
Quattro. L’”uscita di scena” dell’Europa, il bipolarismo delle grandi potenze e la guerra fredda
L’ Europa ridotta ad un cumulo di macerie dopo la fine del secondo conflitto mondiale perse anche quel ruolo di baricentro politico-economico-culturale, che le era stato congeniale per moltissimi anni; questa centralità era ora nella disposizione delle due “superpotenze” uscite vincitrici dal conflitto: Stati Uniti ed Unione Sovietica. Si trattava comunque di una spartizione del mondo in “sfere di influenza”, sostenuta anche da uno scontro ideologico sulle due diverse visioni economico-sociali: quella comunista da un parte, e quella liberale delle nazioni cosiddette appunto “libere” dall’altra. Questo scontro durerà, come sappiamo, fino alla caduta del muro di Berlino del 1989; alternando momenti di altissima tensione, ad un sempre più attivo conflitto carsico mai dichiarato (ma strategicamente dispiegato), che è passato alla storia con il nome di “guerra fredda”. Un conflitto dai caratteri quasi “religiosi”, ci dice il professor Formigoni, in quanto non prevedeva una possibilità di mediazione o di interlocuzione con il “nemico”, ma la ostentata convinzione che solo l’eliminazione politica e fisica dell’avversario avrebbe potuto porre termine al conflitto stesso. Il piano statunitense “Marshall” di aiuti ai “popoli liberi”, andava appunto nella direzione di contenere la penetrazione comunista, e nello stesso tempo creava le premesse per un sistema mondiale di commercio multilaterale, dove l’abbondanza delle merci e dei consumi avrebbe potuto comprimere se non annullare le tensioni di classe; completava tale quadro internazionale anche la creazione dell’alleanza difensiva del “patto atlantico”, della quale la NATO, cioè un’organizzazione militare integrata costituiva l’accordo di difesa specifico del Nord Atlantico. Il boom economico conseguente ad un incremento della produttività del lavoro, alla libera iniziativa, oltre che ad un robusto intervento pubblico nell’economia, rappresentò un elemento a favore del “modello occidentale” rispetto a quello pianificato d’oltre cortina. Una sempre più apprezzabile consistenza dei cosiddetti “paesi indipendenti o non allineati” però, e la dichiarazione da parte dell’ONU di contrarietà del colonialismo allo spirito della Carta costitutiva, andavano invece nella direzione di una possibile alternativa alla divisione del mondo in blocchi e in sfere di influenza. Ma “l’equilibrio del terrore” imposto dalla vacuità dell’utilizzo dell’arsenale atomico da parte delle due superpotenze in competizione tra loro, ed anche delle altre potenze nucleari, impose una nuova fase di deterrenza e di stabilizzazione per così dire de facto; motivi diversi che si intrecciarono indussero poi a considerare la prospettiva di una “distensione”, intesa spesso come una cristallizzazione dello status quo generato dalla guerra fredda. Tuttavia la fase critica della leadership mondiale via via conquistata dagli Stati Uniti fu la guerra in Vietnam, che rappresentò forse il punto di non ritorno della politica imperialista americana; comunque “…alla fine del decennio ‘60 – ci dice il professor Formigoni – una serie di avvenimenti, dispiegatisi soprattutto all’interno dei due blocchi (e in particolare nel mondo occidentale), avevano posto le basi di una notevole modificazione del quadro internazionale. La fase caratteristica del bipolarismo della guerra fredda e dello sviluppo lineare dell’egemonia delle superpotenze all’interno dei rispettivi blocchi si poteva considerare conclusa…”[4]
Cinque. La globalizzazione economica e le mutazioni sociali conseguenti
La crisi del modello bipolare si rese evidente nel passaggio tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso con l’appannamento della leadershipamericana, e fu infine asseverata dalla dissoluzione dell’URSS avvenuta tra il 1989 e 1991: l’ordine internazionale così determinato mandò in soffitta la precedente competizione ideologizzata e consegnò un nuovo mondo in un certo senso già un po’ “globalizzato”. La fase storica della distensione e del contenimento degli armamenti e soprattutto di quelli nucleari, liberava risorse ed energie che potevano essere impiegate nelle economie per lo sviluppo; quest’opportunità però fu colta più prontamente dagli USA, mentre l’Unione Sovietica non comprese la portata dell’occasione che consentiva invece di ristrutturare l’obsoleto sistema interno. Tuttavia “l’età dell’oro” costituita dalla crescita economica delboom del primo dopoguerra, stava esaurendosi: l’emergenza petrolifera dei primi anni settanta, unita ad una perdurante “stagflazione”, portarono la quasi totalità dei paesi europei più avanzati verso un periodo di crisi generalizzata. La risposta americana a queste dinamiche fu un innalzamento dei tassi di interesse in modo da attirare l’afflusso di capitali, a fronte invece di una economia reale che segnava il passo; sarà questo l’inizio di una progressiva finanziarizzazione dei mercati che segnerà i decenni successivi. Comunque la politica americana degli anni ‘80 incentrata sul rispetto dei diritti umani utilizzato come conditio sine qua non per l’instaurazione di rapporti bilaterali, il riavvicinamento degli stessi USA alla Cina in chiave antisovietica, unito all’improvvido intervento dell’URSS in Afghanistan e alla preoccupante instabilità in Polonia, furono invece le spie di quella che è stata definita come una “seconda guerra fredda”: in queste dinamiche la riaffermazione sul piano militare statunitense servì per confermare il ruolo di prima superpotenza a scapito della perdita di leadership economica. Fu però la fine dell’Unione Sovietica avvenuta tra l’ ‘89 e il ‘91 a decretare la nuova fase di “fine (anche) delle ideologie”; o meglio di vittoria di una sola ideologia, quella del “pensiero unico del mercato”. Si è così iniziato a parlare di “globalizzazione”, un neologismo spesso dal significato sfuggente, che in pratica definì (e tutt’oggi definisce) l’unificazione economica del mondo appunto sotto l’egida di un enorme mercato, con il conseguente corollario di ricadute dal punto di vista socio-culturale, favorita dalle nuove tecnologie e in particolare dalle innovazioni nel settore delle comunicazioni. Questa temperie facilitò poi la nascita di nuovi poli economici in aree prima del tutto marginali: per esempio le cosiddette “tigri asiatiche”, o il nuovo dinamismo di talune nazioni come India, Malesia, Filippine. Ma anche il progressivo imporsi del gigante Cinese (che ha “comprato” attraverso i titoli finanziari americani, una buona parte dell’enorme indebitamento appunto degli USA) ed altresì dell’emergente Brasile.
Sei. Gli interrogativi sospesi
Ne “La politica internazionale nel Novecento”, Guido Formigoni inanella con l’acribia dello storico fatti e vicende che hanno segnato l’evoluzione relativamente recente del “sistema europeo degli stati”, intersecando obliquamente gli eventi più salienti (e in alcuni casi più drammatici) con la conseguente evoluzione delle caratteristiche antropologiche delle nazioni oggetto dell’analisi. Cosa rimane come sedimentazione profonda nella mente del lettore, dopo aver effettuato questa lunga “cavalcata”, nelle non sempre verdi praterie della Storia? Beh intanto, che il consolidamento del “sistema europeo degli stati” ha oscillato continuamente tra uso delle armi e legittimazione politico-ideologica all’uso della forza; eppoi il retrogusto amaro che rimane visto che spessissimo il susseguirsi degli eventi che “hanno cambiato il mondo” è stato il prodotto delle scelte molto egoiste di talune ristrette élite, mentre i “costi” di queste scelte, che si tradussero quasi sempre nella perdita di moltissime vite umane, sono stati pagati dall’estesa platea popolare. Ed ancora che la Storia, purtroppo, non è quasi mai “maestra di vita”, dato il ripetersi ciclico di tanti analoghi errori, seppur declinati nelle forme diverse dell’evolversi apparentemente mutageno dei fatti. A costo di apparire in questo contesto di riflessione internazionale un po’ provinciale, prendo ad esempio il paradigmatico caso dell’Italia, nel senso di una democrazia bloccata per più di quarant’anni dal clima cupo della “guerra fredda”. A questo proposito, e per venire all’attualità, verrebbe da chiedersi se sia ipotizzabile pensare ad un fil rouge,anzi più probabilmente noir, che ha tenuto insieme idealmente iniziative e fatti apparentemente diversi in una tensione reazionaria, come il cosiddetto “piano Solo”, la strage di piazza Fontana a Milano, la P2 e il “piano di rinascita democratica”, la presunta trattativa Stato-mafia dell’inizio degli anni novanta, per finire tristemente con la “macelleria messicana” nella scuola Diaz durante il G8 di Genova, solo per citare alcuni eclatanti esempi. C’è un nesso tra queste vicende e la progressiva sterilizzazione delle istanze rivendicate dal movimento operaio, studentesco, pacifista eno-global? Quel che risulta evidente è però la difficoltà per il nostro Paese di “fare i conti con il proprio passato”, e in particolare con l’eredità del fascismo. Fare i conti significa cercare elementi di verità condivise, pertanto non mantenendo chiusi gli “armadi della vergogna” reali ed anche quelli solo mentali, assumendo il rischio però che aprendoli si possano trovare parecchi scheletri. Ed è anche necessario rendere compatibile “l’anomalia italiana” in un ormai ineludibile contesto europeo. Queste dinamiche comunque non riguardano solo l’Italia, ma la quasi totalità degli stati del Vecchio Continente, e soprattutto le “grandi potenze”, per esempio sul tema di un possibile “bilancio storico” condivisibile, relativamente alla reiterata ed incanaglita politica imperialistica esercitata per molti anni da queste nazioni, con la scusa magari di “incivilire” popolazioni altrimenti arretrate. Oppure sulla condizione di oppressione che ha caratterizzato la vita sociale negli stati dove si è realizzato (?) l’ “altro modello”, e cioè il socialismo reale; o sulla qualità della vita dei cittadini in quelle nazioni dell’ex blocco comunista che solo apparentemente hanno oggi abbracciato forme di organizzazione democratiche. Ma ancora, sulla funzione di paladino della difesa del modello occidentale per i “popoli liberi” esercitata però ad ogni costo dagli Stati Uniti, con riferimento per esempio alle “tutele” riservate ad alcune nazioni dell’America Latina e nello scacchiere medio-orientale o indocinese. Tuttavia, in provvisoria conclusione, come ci dice il docente universitario qui con noi oggi, “…la sfida è aperta: trovare una nuova sintesi culturale e progettuale che regga e guidi lo sviluppo delle nazioni tra i soggetti del sistema, partendo da un’analisi realistica delle condizioni date e costruendo su queste un nuovo ordine, appare un’esigenza politica cruciale…”[5]; c’è da augurarsi però che questo processo non avvenga passando sopra le teste dei cittadini, ma attraverso il loro coinvolgimento e con il loro consenso.
1] Guido FORMIGONI, La politica internazionale nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2007
[2] Guido FORMIGONI, La politica internazionale nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 83
[3] Guido FORMIGONI, La politica internazionale nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 173
[4] Guido FORMIGONI, La politica internazionale nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 255
[5] Guido FORMIGONI, La politica internazionale nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 334
Trascrizione della relazione di Guido Formigoni
Grazie per l’invito, mi ha fatto molto piacere. È sempre bello trovarsi un po’ a sostegno, come diceva Giovanni Bianchi, dell’attualità e a ragionare su prospettive che vanno un po’ al di là dell’attualità. Grazie ad Andrea Rinaldo che ha fatto una bellissima sintesi. Lo capisco perché so che il libro non è proprio semplicissimo e quindi ci ha dedicato molta attenzione e ha tirato fuori una serie di riflessioni, mi pare, di grande utilità. Prendo spunto dalle sue osservazioni conclusive per dire due cose a mo’ di premessa, dopo tento di tirar fuori un ragionamento che collega questo orizzonte di lungo periodo anche ai problemi che abbiamo di fronte oggi.
Le due affermazioni che mi vengono dalle sue domande conclusive sono queste. La prima è il discorso sullo storico militante: questo è un vecchio problema nel senso che siamo consapevoli da tempo che potere fare una storia oggettiva, neutrale, è un’illusione. Comunque, ricordava don Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, cioè si guarda al passato a partire dal presente, e guardare al passato a partire dal presente vuol dire che si guarda con gli occhi che ciascuno di noi ha e quindi anche con i valori e con le prospettive, diciamo così, di tipo intellettuale, di tipo ideale, di tipo politico che ciascuno di noi si porta dentro. Quindi, l’oggettività non esiste. Partendo dal proprio punto di vista nell’oggi si fa storia liberante se si rispetta il passato in quella che è la sua diversità, la sua originalità, la sua dimensione non riducibile allo schemino ideologico che ciascuno di noi può avere. Questa è un po’ la sfida, la scommessa, cioè se si riesce a tenere assieme un punto di vista che comunque è ineluttabile, che è quello che fa porre le domande al passato, ha questo grande rispetto. Altrimenti, arriviamo al 1984, a George Orwell, a quei signori che erano addetti a prendere i giornali negli archivi e a correggere quello che era successo nel passato a seconda delle esigenze politiche del presente. Il tentativo non è mai facile, ma insomma va un po’ tenuto insieme.
La seconda cosa che mi sollecita tantissimo nelle conclusioni di Andrea Rinaldo è questo discorso sul rapporto guerra fredda/storia italiana; mi sollecita tantissimo perché su questa cosa sto scrivendo un libro che spero, la cosa è un po’ faticosa, nel giro di un annetto venga fuori, quindi caso mai ci ritroveremo a discutere di quel libro in futuro. Però dico solo una battuta sul fatto che il rapporto tra storia internazionale e storia interna dell’Italia e della Repubblica è stata una vicenda piuttosto complicata in cui c’è anche il condizionamento, la cappa, lo schematismo del fatto che uno doveva stare da una parte perché si era accusati di stare con il nemico… Insomma, tutti questi discorsi. Però ci sta anche qualcosa di molto diverso che è il fatto che in qualche modo gli attori interni al paese, i grandi partiti di massa, ma non solo, hanno utilizzato degli schemi della guerra fredda internazionale per le loro finalità, quindi c’è stato sempre un gioco di rimandi. Cioè non è da immaginare che l’internazionale è un dato a cui la storia interna di un paese deve adeguarsi. No, c’è un gioco complesso di rimandi per cui il quadro internazionale fornisce l’orizzonte, i grandi centri di potere internazionali condizionano, ma nello stesso tempo sono utilizzati dagli attori interni per affermare le proprie logiche che, per esempio, nel caso della DC, come sapete, erano logiche piuttosto complicate, ma composite, in cui ci stava il discorso del mantenimento del potere, il discorso del cambiamento; per cui questo è un orizzonte interessantissimo che non è stato ancora gran che sviscerato dalla storiografia sugli ultimi anni e sulla storia della prima fase repubblicana in Italia, che però sarebbe appunto bello lavorarci sopra e io sto cercando di farlo ma però è un altro capitolo rispetto a quello che oggi mi premeva di più mettere al centro della nostra discussione.
Che cosa mi premeva mettere al centro della nostra discussione? Appunto, se c’è una possibilità di tirare qualche ragionamento da questa visione diciamo di medio-lungo periodo, non secolare, sui problemi che abbiamo di fronte noi oggi. E allora, con lo schematismo di ogni intervento che serve a suscitare la discussione tra noi, volevo tentare di fare questo tipo di ragionamento. Cioè, tirare fuori tre conseguenze, diciamo, di metodo, tre lezioni di questa storia in termini di metodo rispetto a una lettura degli eventi e poi ragionare sul fatto di come queste tre dimensioni strutturali giocano nella storia recente.
Le tre dimensioni strutturali le definirei così: leggere la politica internazionale ci fa rendere conto, primo, che c’è sempre un problema di capire i nessi tra ricchezza, potere e ideologia, diciamo così; cioè, noi a volte anche qui ragioniamo un po’ con degli schematismi, cioè chi è ricco comunque domina, comunque controlla: non è sempre così, nella storia ci sono state esperienze di civiltà, di raggruppamenti, di realtà che hanno scelto di non tradurre l’accumulo di ricchezza in potere di condizionamento nei confronti della periferia, di chi stava fuori al proprio mondo, e in altri casi, invece, ci sono state scelte consapevoli di tradurre questa realtà in funzione appunto di condizionamento nei confronti dell’esterno.
E nello stesso tempo questo tipo di rapporto tra ricchezza e potere non è mai disgiunto da una dinamica ideologica: dai tempi appunto del Congresso di Vienna, come ricordava giustamente Andrea Rinaldo, il problema non è solo costruire un assetto di potere in qualche modo sostenuto da risorse, e quindi da elementi di ricchezza, ma è quello di renderlo legittimo, cioè di farlo in qualche modo accettare, di costruirlo e legittimarlo attraverso un discorso ideologico. Oggi, in tempi di studi culturali questo tema sta diventando addirittura dominante, c’è chi legge tutta la storia semplicemente come discorso, come costruzione intellettuale di una legittimazione all’esistente. Non bisogna esagerare in queste cose perché appunto ci sono libri di politica internazionale dove praticamente non compare mai l’economia e dove non compare mai l’esercito, che è una cosa un po’ curiosa, no? quasi che tutto fosse discorso, però non dobbiamo arrivare a questi eccessi ma non dobbiamo neanche dimenticare che il discorso è decisivo perché appunto nella storia contemporanea non si può prescindere da questo per cogliere il senso reale degli eventi.
Seconda grande questione: la politica internazionale non è mai solo storia di conflitto, ma è vicenda complicata in cui ci sta dentro conflitto e cooperazione, ci sta dentro conflitto e riconoscimento reciproco nella misura in cui il modello europeo dello stato sovrano è diventato modello dominante in giro per il mondo (dopo arriveremo sulla crisi dello stato sovrano), ma nella misura in cui questo è la modernità politica internazionale, lo stato sovrano è appunto affermazione della sovranità contro le altre sovranità e quindi competizione strutturalmente, ma è anche riconoscimento che al di fuori c’è il proprio pari, c’è una realtà analoga, e comunque il riconoscimento di far parte, sia pure implicito, di un contesto e questo apre la possibilità della cooperazione. Conflitto e cooperazione si intrecciano: la storia della politica internazionale non è solo una storia di guerre, è la storia di guerre, di guerre combattute e di guerre non combattute, ma anche di intrecci di riconoscimenti, di cooperazione, di attività comuni all’interno di un orizzonte in qualche modo condiviso.
Terza riflessione di lungo periodo: questa storia è una storia anche di egemonie e cioè di centri di potere in grado di affermare la propria volontà sul resto del mondo, e quindi strutturare un sistema, dare le regole di un sistema: l’egemone è quello che fissa le regole a cui poi la competizione e il conflitto si adeguano, ma le egemonie durature sono sempre state egemonie in qualche modo non basate solo sul dominio; le egemonie basate solo sul dominio si sono rivelate storicamente più fragili. La grande egemonia strutturante la vicenda internazionale del dopoguerra, quella americana, quella statunitense, dopo il ’41, dopo Pearl Harbor per intenderci, dopo l’ingresso nella Seconda guerra mondiale, forzato che fosse, è stata un’egemonia che ha avuto il suo grande successo nella capacità inclusiva, di coinvolgere, di fare un gioco di mediazione di interessi con altre parti del mondo, altre civiltà, altri popoli, eccetera.
La parabola di Napoleone in Europa, come la parabola del nazismo, sono in qualche modo, se volete, i punti di riferimento simbolici di un modello esattamente contrario dove l’incapacità a giocare l’egemonia in termini di inclusività dà un limite a questa dinamica.
Tre questioni. Non so se solo la storia è maestra della vita, questa cosa che si dice ogni tanto, ma insomma credo che siano tre riflessioni che l’analisi un po’ di lungo periodo ci porta dentro in termini di metodo. Come queste riflessioni le possiamo applicare a un tentativo di leggere quello che sta succedendo? Mi rendo conto che il libro ha qualche anno ormai, è uscito nel 2007 e l’ho finito di scrivere, e in realtà è la seconda edizione di una cosa che avevo scritto qualche anno prima e non è aggiornato alla crisi, per intenderci, con cui stiamo ragionando per fare un restyling che ci permetta anche di entrare in queste vicende. Però secondo me l’impianto aiuta anche a capire la crisi attuale e come lo riporterei questo tentativo di far capire la crisi attuale alla luce di questo ragionamento a lungo periodo?
Secondo me, si potrebbe un po’ tentare di dire così, proprio un po’ ridotto all’osso: il punto di riferimento per capire quello che sta succedendo è il fatto che nella storia della politica internazionale c’è stata una svolta, c’è stata una crisi che è stata una crisi sistemica e come tutte le crisi sistemiche ha dato poi origine a un riassestamento, a un mutamento delle regole, che ha strutturato appunto un certo tipo di assetto: ricchezza, potere, ideologia, cioè il discorso che facevamo prima. Qual è stato questo punto di riferimento? Grosso modo è stato l’uscita dalla crisi degli anni ’70. Come era stata strutturante la crisi degli anni ’30 che poi aveva portato alla Seconda guerra mondiale e, in qualche modo, all’uscita dalla Seconda guerra mondiale come soluzione definitiva delle vicende scatenate dalla crisi degli anni ’30, la crisi degli anni ’70 è stata un’altra crisi strutturale. Nell’Occidente è stata la crisi del fordismo, si dice, cioè del modello di produzione di massa di beni in quantità crescente, standardizzata, ecc., ma mettiamoci dentro anche le vicende sociali, mettiamoci dentro la contestazione giovanile, la crisi dell’egemonia americana che era stata quella che aveva strutturato il Dopoguerra, cioè la risposta alla grande crisi degli anni ’30, la risposta alla guerra civile europea dei trent’anni, a quella disastrosa vicenda che ha portato l’Europa sull’orlo appunto dell’autoconsunzione; quell’egemonia si era rivelata alla fine sempre più faticosa, sempre più difficile e quindi gli anni ’70 sono stati anni di una dura difficoltà, insomma, di risistemazione. Più li rileggiamo a distanza di tempo, più li vediamo così.
E anche però il modello sovietico che era l’altro interlocutore incomparabilmente meno potente dell’egemonia americana nel mondo occidentale. Noi tendiamo a volte a leggere la guerra fredda come bilanciamento di due realtà simili: non esiste, cioè non ci sono state due realtà simili, c’è stata una realtà che era l’Occidente tendenzialmente globale a guida americana, e c’è stato un ridotto territoriale sovietico che ha in qualche modo sottratto una parte del mondo all’egemonia americana ma non ha costruito qualcosa di altrettanto universale. Questo ci porterebbe lontano, ma l’accenno.
Il mondo sovietico anche lui negli anni ’70 entra in crisi, e lì ci sono le radici poi dell’89, del ’91, cioè del fatto che Gorbaciov non riesce a fare il suo ultimo tentativo di salvataggio e il sistema implode. Il sistema implode aprendo uno scenario di fine della guerra fredda, ma anche una scenario, come dire, di estensione di quell’assetto di ricchezza, potere e ideologia che era venuto fuori dalla ristrutturazione del mondo occidentale. Qui sono decisive, diciamo, le scelte dei primi anni ’80, di come il mondo occidentale esce dalla crisi. E come il mondo occidentale esce dalla crisi? Esce, diciamo, con questa accettazione della fine della centralità dell’industria, l’apertura all’orizzonte della finanziarizzazione dell’economia, scelte politiche quindi che portano in questa direzione.
Scelte politiche compiute dove? Questo è un altro elemento decisivo per capire il sistema. Non all’interno di una grande area di cooperazione internazionale, non all’interno di una vera e propria egemonia che in qualche modo non c’è più, fa fatica; l’egemonia americana comunque fa fatica nonostante Reagan baldanzosamente la rilanci in termini nazionalistici. E quindi non si afferma un grande disegno cooperativo, non si afferma un’egemonia capace di includere come era stata l’egemonia americana del ’41 e seguenti, ma si afferma il fatto che, diciamo così, le scelte prese in alcuni stati cruciali del sistema, Stati Uniti prima, ovviamente, Gran Bretagna e alcuni altri paesi europei in fila, determinano la linea di tendenza che è appunto la linea di tendenza dell’accettazione di questa nuova stagione economica in cui si dà, diciamo, la specializzazione post-industriale dei servizi della finanza dell’economia occidentale. Bisogna trovare una qualche altra parte del mondo che fornisca i beni di consumo a basso costo, e questi diventano le tigri del sud-est asiatico prima, la Cina poi e compagnia bella, e si crea quindi questo triangolo economico mondiale, Stati Uniti da una parte, Asia orientale dall’altra, Europa in mezzo in cui l’Europa sta, diciamo, un po’ a cavallo perché da una parte si adegua alla linea anglosassone Stati Uniti-Gran Bretagna e dall’altra mantiene un orizzonte più produttivo-industriale, pensate alla Germania, alla vocazione di esportazione di beni strumentali che servono poi alle nuove economie nascenti che devono produrre i beni di massa a basso costo per il consumismo occidentale.
È chiaro che tutto si tiene in questo orizzonte, tutto si tiene e tutto vale anche le conseguenze sul piano dei comportamenti interni, dei flussi di capitale. Qui diventano determinanti i flussi di capitali, qui diventano determinanti le grandi concentrazioni finanziarie che crescono. Avevo portato delle slides, delle immagini che avevo trovato, che però per un disguido tecnico non vi posso far vedere, sono cose rievocative che illustrano la struttura della finanziarizzazione delle maggiori economie occidentali: ci sono delle immagini che sono molto divertenti sotto questo profilo. Si vede per esempio il rapporto tra PIL di un paese e quota di asset finanziario che esiste, il rapporto è ormai di 7-8 a 1, cioè ci sono 7-8 volte tanto assetfinanziario di quanto c’è di PIL nel paese: questo per dire è uno squilibrio, squilibrio che però ha fatto riprendere il sistema dalla crisi degli anni ’70.
In termini economici quindi c’è stato un sistema che ha ricominciato a funzionare, a prezzo naturalmente della volatilità, a prezzo del fatto che appunto lo schema globale è stato quello in cui c’è stato qualcuno si è inserito e ha trovato in termini positivi il proprio ruolo e c’è stato qualcuno che è rimasto ai margini. E quindi c’è una parte dell’ex terzo mondo che da questo schema è rimasto escluso, non tutto perché anche qui bisogna essere attenti sui discorsi troppo generici. Che questa stagione ha aumento le disuguaglianze globali non è del tutto vero: ha aumentato alcune disuguaglianze, ma alcuni paesi hanno ridotto le disuguaglianze sia al loro interno che rispetto alla parte sviluppata del mondo; molti altri invece sono rimasti ai margini, pensate appunto alla crisi del debito. Bianchi evocava prima le vicende degli anni ’90, eccetera.
Questo è quell’orizzonte che poi con una parola, un neologismo anglosassone, ha cominciato a essere chiamato globalizzazione che è insieme un fatto e un’ideologia. Qui torniamo al discorso di prima: cioè non bisogna mai essere troppo schematici, cioè non è il problema del neoliberismo, il neoliberismo è un aspetto perché la globalizzazione è anche un fatto, cioè è anche una dinamica che nel lungo periodo era già cominciata con i velieri di sua maestà britannica nell’800, per certi versi, poi dopo aveva conosciuto un regresso, aveva conosciuto una ripresa e ha conosciuto una stagione di ulteriore slancio proprio con l’uscita della crisi degli anni ’70 e con questa logica, diciamo, di integrazione crescente in un unico mercato in tutte le parti del mondo, almeno in tutte le parti del mondo non escluse.
Insieme però è anche un’ideologia perché è la rappresentazione del fatto in termini ineluttabili e quindi è la descrizione di quello che sta succedendo come da un destino da cui non ci si può in qualche modo scostare. E questo è l’aspetto ideologico del discorso della globalizzazione che va insieme al sistema monetario internazionale e a tutte quelle cose che sappiamo.
Ora, in questo discorso ci sta esattamente anche una sorta di riduzione del ruolo degli stati, consapevole, in quanto gestita appunto da alcuni stati importanti che hanno giocato in questa direzione. Ridurre il ruolo degli stati, ridurre il ruolo della politica e depoliticizzare i conflitti potremmo dire così, è servito anche a far sì che la crisi degli anni ’70 non sboccasse in qualcosa di simile alla crisi degli anni ’30, cioè a conflitti nazionalistici. In qualche modo ha depotenziato anche i possibili conflitti nazionalistici e ha trovato sul terreno della apertura internazionale dei mercati un modo per stemperare le difficoltà, però un modo non guidato dalla politica, questo come logica di questo sistema.
Lo dimostra anche come si è usciti dalla crisi dell’89-’91: finisce il mondo sovietico, implode. Qui sarebbe interessante discutere perché implode, ha vinto l’Occidente, la sfida di Reagan, diciamo, al riarmo, i sovietici non ce la fanno a star dietro al nostro passo, che è un tipo di rappresentazione, oppure ha vinto la distensione diciamo così, cioè il fatto che nel periodo della distensione si erano aperti quei canali di collegamento sotterranei che poi alla fine hanno fatto implodere il sistema, perché se le guardie di frontiera della Germania Est avessero sparato sulla folla nel novembre dell’89 come ha fatto la Cina a Tienanmen, il discorso poteva stare in piedi, ma questo non potevano farlo perché la DDR era uno stato che dipendeva finanziariamente ormai dall’Occidente e questo era stato esattamente il frutto della distensione. Però lasciamo un attimo da parte questo discorso.
Quello che succede cos’è? È che appunto l’89 è la conseguenza di quel modo diverso di rispondere alla crisi degli anni ’70 di cui abbiamo parlato. Cosa succede dopo l’89-91? Per qualche anno si parla del nuovo ordine internazionale, del fatto che l’ONU finalmente può diventare la tutela di un orizzonte più compartecipato, esteso, comune, ma di fatto si capisce subito che questa cosa qui non ha fiato. Non ha fiato perché gli Stati Uniti ci credono poco all’inizio e ci credono sempre meno dopo, ma non ha fiato perché anche gli altri interlocutori non ci credono più di tanto. Pensate per esempio all’icona di Srebrenica, per dire, al fallimento dell’ONU nella vicenda Yugoslavia, è un po’ il simbolo di questo fatto. Quindi, non c’è l’uscita da quella vicenda della guerra fredda che comunque era stata un ordine globale, discutibile quanto vogliamo, ma aveva strutturato il sistema attraverso la costruzione di un altro ordine: si lascia alla globalizzazione, cioè a questa dinamica economica, sorvegliata dalle scelte politiche di cui abbiamo parlato, di tenere insieme il sistema.
E non c’è nemmeno l’egemonia di cui parlavamo, perché l’egemonia americana è un’egemonia francamente sempre più discutibile, più fragile, più in difficoltà; l’egemonia americana apparentemente si riafferma come superpotenza militare, unica superpotenza militare, tant’è che uno dice: dopo il ’91 non c’è più il bipolarismo della guerra fredda, c’è l’unipolarismo americano. Pensate alla guerra del Golfo, pensate al ’95 in Bosnia, appunto pensate al Kosovo. Erano tutte questioni in cui gli Stati Uniti si affermano come gendarmi del mondo, gli unici che realmente possono regolare le cose. Però si capisce ben presto che questa funzione è una funzione relativa, perché è una funzione che dal punto di vista strettamente militare ha i suoi limiti, e i limiti vengono fuori in Afghanistan e Iraq. Cioè quando si tratta non solo di fare, come faceva la Gran Bretagna nell’800, il controllo dei mari e poi quello che succedeva all’interno dei continenti e dei paesi, va beh, se lo gestivano loro. Ma quando si tratta di andare a controllare la situazione, quando si tratta di essere presenti sul territorio, quando si tratta di gestire direttamente l’ordine, di imporre l’ordine, di esportare la democrazia, questo esercito si rivela fragile, questo esercito si rivela incapace di vera costruzione di un dominio duraturo. Nonostante il fatto che questo esercito… anche qui avevo una slide che faceva vedere che la spesa militare nel mondo è per metà la spesa legata a questo esercito, non sono noccioline, sono questioni solide dal punto di vista delle risorse e stiamo appunto a una fatica a esercitare questo ruolo di egemonia.
E d’altra parte, se teniamo conto dell’aspetto economico, il discorso torna anche qui, perché gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi degli anni ’70, hanno attirato i capitali che servivano per rilanciare questa fase di crescita basata sui servizi, sulla finanza, eccetera, ma questo è avvenuto a prezzo dell’indebitamento internazionale crescente che è doppio perché è indebitamento dello stato e indebitamento internazionale del paese. Per cui appunto molte redini dell’economia americana sono tenute ormai fuori dagli Stati Uniti, sono tenute dagli gnomi comunisti delle finanze cinesi, dai fondi pensione di Tokyo, dalle grandi centrali finanziarie che hanno prestato grandi quantità di capitali crescenti alla grande superpotenza.
L’indebitamento quindi conta, ma conta anche una sorta di persistente incapacità della potenza egemone a esprimere in termini inclusivi, appunto, la capacità di egemonia. Questo è il paragone con la prima vicenda del dopoguerra. Lì c’era stata questa capacità. Pensate al fatto appunto che l’Italia, Germania e Giappone, gli sconfitti della guerra, rientrano nel sistema a distanza di pochi anni e vengono a entrare in un grande compromesso internazionale che gli permette di ritornare a crescere e quant’altro. Oggi un’operazione di questo tipo gli Stati Uniti non sarebbero in grado di farla, tant’è che la logica dei nemici è una logica del tutto problematica, una logica che tenta la repressione, che tenta la grande guerra globale al terrore ma poi fa fatica a portarla a fondo.
Questo è il punto. Nonostante le buone volontà, nonostante che possiamo metterci anche Obama, cioè non è che si sia buttato fino in fondo questo orizzonte di una egemonia americana che fa il power, o il soft power che si voglia, appare rischiosamente impositiva e poco capace di inclusione.
Se mettiamo insieme questi tre elementi, allora abbiamo il dato che completa un po’ il quadro, cioè, appunto, ricchezza, potere, ideologia: l’ideologia della globalizzazione, il triangolo geo-economico mondiale di cui abbiamo parlato, l’assenza di una struttura di potere condivisa, solida, stabile perché non è né partecipata, né egemonica; cioè non c’è l’orizzonte condiviso comune in cui veramente si possono fare le scelte comuni o, meglio, non c’è, sceglie solo alcuni brandelli, perché non è che manchi del tutto. Pensate, per esempio, al fatto che continuiamo ad avere i riflettori sul G7, o sul G8, e anche il movimento “no global” ha avuto i suoi riflettori sul G7-G8, ma le cose più importanti che succedono oggi nel mondo, succedono nel G20, cioè in quello spazio nel quale stanno insieme i paesi più avanzati e i paesi emergenti, gli altri soggetti che stanno crescendo, crescono dal punto di vista economico e quindi assumono anche ruoli politici. Quindi ci sono anche spazi, come dire, di contemperamento di interessi, di discussione sui problemi, il WTO, la Federazione mondiale del commercio sotto questo profilo è una cosa su cui si sono fatti dei passi avanti in questi anni per prendere in considerazione il punto di vista della parte meno favorita del mondo, ecc.
Però, diciamo, non c’è ancora un modello di potere condiviso, strutturato, stabile, capace di guardare al futuro in termini stabili. E non c’è più o, meglio, c’è solo parzialmente la funzione egemonica del potere degli Stati Uniti, perché siamo di fronte appunto a questi limiti. Questo è quindi un po’ l’aspetto problematico dell’assetto che abbiamo alle spalle e questo, e vado verso la conclusione, è esattamente l’orizzonte in cui la crisi finanziaria, economica, globale si è incistata: in qualche modo ha rivelato gli aspetti fragili di questo sistema. Perché? Perché appunto ha messo in luce che la confidenza nei mercati che si autoregolano è una confidenza che non sta in piedi: i mercati non si autoregolano, i mercati finanziari meno ancora.
Quello che è emerso è per certi versi in maniera incredibile, cioè il modo con cui le grandi banche internazionali hanno gestito la vicenda degli anni ’90 e del 2000 che è emersa poi con i buchi di bilancio, con i titoli tossici e tutte queste cose qui, è veramente incredibile. I mercati non si autoregolano, però il sistema aveva portato in una direzione in cui, appunto, i regolatori erano fragili. E c’è stata quindi una sorta di, come dire, ritorno di una richiesta di politica, di una richiesta di statualità.
Lo so, a me ha colpito che ForeignAffaires, la grande rivista delle relazioni internazionali americana, sia uscita, un anno e mezzo fa, due anni fa, con un editoriale che intitolava: “La globalizzazione ha passato il suo picco?”. Come dire, stiamo tornando indietro? Stiamo in qualche modo rivedendo questa realtà? Perché effettivamente la crisi ha portato con sé un ritorno di domanda di politica, gli stati sono ritornati ad avere un ruolo cruciale. Pensate che cosa ha voluto dire negli Stati Uniti, nel bene e nel male. Qui noi ancora una volta sottovalutiamo le dimensioni del cosiddettobailout americano: Obama che ha salvato le banche, ha salvato la struttura economica che era lì sull’orlo del crollo con Lehman nel 2008, eccetera, è una dimensione incredibile, cioè 9 mila miliardi di dollari di aiuti pubblici, altro che piano Marshall, altro che spese delle guerre americane.
C’è anche lì una slide interessante che mette in fila quanto sono costate le guerre americane dagli anni ’50 agli anni ’70, quanto è stato il piano Marshall? Così. quanto è stato il bailout? Così. Cioè parliamo di cose di questo tipo e parliamo quindi del fatto che lo stato è tornato al centro in questa dimensione. E questo vuol dire uno stato che è in grado, per esempio, di indebitarsi e di arrivare a un livello di debito pubblico, a parte il debito internazionale americano come economia, ma il debito pubblico americano che è a un livello italiano praticamente, che nonostante questo non è stato oggetto di speculazioni internazionali.
Vi ricorderete che Moody ha già derubricato il debito pubblico americano un annetto fa, non è più AAA, e tutti dicevano: oddio, adesso che cosa succede? Non è successo niente perché gli investitori hanno continuato a comprare: uno dice, certo gli investitori vuol dire che sono i cinesi e ci pensano su prima di giocare contro il debito pubblico americano perché altrimenti anche le loro riserve si svalutano e poi ai cinesi fa comodo che ci siano i consumatori americani che comprano i giocattoli, perché altrimenti loro come fanno ad andare avanti a produrre i giocattoli e le cose che sono ben più complicate dei giocattoli?
Quindi è chiaro che c’è tutto questo orizzonte di interessi reciproci, ma c’è anche un dato che là dove c’è una statualità forte non è vero che i mercati finanziari sono delle potenze invincibili. Dove c’è questa statualità forte si riesce anche a confrontarsi con questa realtà. E questo, per esempio, riflette invece il problematico e il discorso europeo.
Riflette il problematico e il discorso europeo perché in Europa abbiamo avuto la crisi del debito sovrano, il fatto che il nostro spread è andato su e che c’è stata la vicenda della Grecia e quant’altro, esattamente perché c’è stata la sensazione dei grandi speculatori internazionali che non c’era uno stato forte, in grado di bilanciare e di affrontare il momento di crisi. Non c’era lo stato forte, e qui la storia ci dice che non è una condanna, che è un motivo legato a questa vicenda perché l’integrazione europea non è nata come unificazione statuale, l’integrazione europea è nata come salvataggio dei singoli stati europei che erano le vecchie grandi potenze egemoni nel sistema e quindi che non volevano perdere la loro originalità, la loro sovranità apparente se volete, ma che rimane simbolicamente forte, e che attraverso l’integrazione hanno cavato un ragno dal buco, cioè sono riusciti a inserirsi nel grande disegno americano del Dopoguerra, salvaguardando, nello stesso tempo, l’equilibrio interno dell’Europa, la pace e il loro spazio di crescita però comunque illusoriamente sorvegliato ancora dallo stato sovrano.
E quindi che oggi noi ci rammarichiamo che non esista uno stato federale europeo, è una sorta di autocommiserazione, non esiste perché c’è stata questa vicenda alle spalle. Non poteva esistere per certi versi, e quindi il problema che abbiamo è esattamente questo: cioè, se siamo all’origine di una svolta del grande modello che ha retto per trent’anni le sorti di questo pianeta nel bene e nel male, con tutte le critiche possiamo fare, che però ha funzionato, dopo la crisi degli anni ’70 si è creato questo orizzonte, se veramente questo orizzonte sta per essere messo in discussione in modo radicale dalla crisi economica (io ho l’impressione di sì, ma questo potrebbe essere discusso perché qualcuno teorizza di no, qualcuno dice che la crisi economica è in fondo un po’ più grande di altre ma è una cosa congiunturale da cui si uscirà), se veramente fosse così, allora è chiaro che il problema diventa anche quello dell’Europa che cosa ci sta a fare di fronte al fatto che nel resto del mondo sembra che, come dire, non c’è un’egemonia unica, non c’è un sistema consensuale e condiviso, ma c’è il ritorno di statualità forti.
Perché ci sono gli Stati Uniti appunto con tutti i loro limiti, c’è la Cina dove, fin quando tiene, questo incredibile coacervo del socialismo di mercato, come dicono loro, il ruolo dello stato è assolutamente decisivo, e si è visto addirittura già nel ’97-’98 la crisi del Sudest asiatico quando la Corea, la Malesia, la Thailandia hanno rischiato la bancarotta, di fronte a una increspatura delle finanza internazionale la Cina è andata avanti tranquilla perché esattamente controllava in termini politici, in termini statuali, i grandi flussi economici internazionali.
Allora l’Europa in questo orizzonte può essere un punto di riferimento ma però è chiaro che lo può diventare solo nella misura in cui riesce a costruire un orizzonte politico comune; cosa difficilissima però, cosa difficilissima perché la storia che abbiamo alle spalle è quella lì, perché le classi dirigenti europee non mostrano di avere grande fiducia in questa direzione a partire, anche qui, dal discorso ideologico, perché appunto il discorso ideologico, abbiamo detto, mette da parte la realtà ma conta. Cioè, se si continua a presentare la crisi come il fatto che noi, poveri tedeschi, dobbiamo pagare per i pelandroni greci o spagnoli, non si va da nessuna parte; come al contrario, per certi versi, come se i greci possono continuare a presentare la crisi dicendo che la colpa è dei cattivi tedeschi che impongono l’austerità. Come dire: c’è una via di mezzo, bisognerebbe tenere conto che qualcuno ha sbagliato sia da una parte che dall’altra, che forse per ricominciare insieme bisogna ricominciare su un piano di compenetrazione di interessi, di logica di costruzione di un discorso che riesca a spiegare come si possa andare avanti e come ciascuno ci deve mettere del proprio.
Questa cosa non sembra tanto presente nell’orizzonte europeo e siccome è l’unica chance che in Europa venga fuori una struttura politica tale da essere all’altezza di questa nuova fase, è esattamente quella di costruirla come progettualità, perché non è un dato di fatto, non è che ci è stato consegnato dalla storia, non c’è una lingua comune, non c’è la storia comune. E allora l’unica chance è questa, cioè che ci sia un investimento paziente di classi dirigenti intorno a questo tentativo di mettere insieme interessi, di ragionare in una logica globale e di non continuare a fare i giochini per cui, appunto, la Francia rispolvera la grandeur mandando i soldati nel Mali. D’accordo voglio dire, non è che andiamo molto lontano in questa direzione.
L’Europa però avrebbe tutte le potenzialità. Questa è l’ultima cosa che dico perché vi ho tediato già troppo. Avrebbe tutte le potenzialità perché, se vogliamo, molti hanno osservato come l’Europa ha vissuto questi ultimi 30-40 anni della globalizzazione salvando molto di più di quello che era stato l’aspetto positivo della stabilizzazione post-bellica, il modello sociale europeo poniamo, il discorso anche di una logica internazionale attenta alla cooperazione piuttosto che non all’imposizione. L’Europa in giro per il mondo è considerata meno imperialista degli Stati Uniti, forse perché assente. Però, insomma, questa cosa qui potrebbe diventare una carta da giocare e ci sono degli atout, delle possibilità per una realtà per l’Europa a patto naturalmente che si riesca a creare qualcosa che vada in questa direzione, probabilmente non di uno stato federale europeo, cosa difficilissima, praticamente impossibile, ma di qualcosa che sia politicamente forte e rappresentativo di una statualità. Insomma, quello che ha fatto Mario Draghi alla BCE, salvando l’Euro sostanzialmente l’ultimo anno e mezzo, è già un tassello deciso in questa direzione. Perché l’Euro si è rivelato fragile per tutta una serie di motivi ma è comunque un presupposto fortissimo di una potenzialità in questa direzione.
Ecco, allora questa mi sembra che sia un po’ la problematica che sta in gioco rispetto al tema europeo, visto che appunto il corso aveva questo fuoco per cui arriviamo qui, ma tentando di leggerlo all’interno di questo discorso un po’ più globale.
Scusate se vi ho tediato troppo.