Curiosamente Giuseppe Dossetti è più noto per il livore disinformato dei detrattori che per lo zelo propagandistico degli estimatori. Dossetti infatti, dopo Antonio Rosmini, è il grande rimosso della cultura e della Chiesa italiana. È Dossetti stesso ad avere suggerito il rapporto con Rosmini, e d’altra parte una circostanza li accomuna: la difficile “traducibilità” delle rispettive esperienze oltre i confini della terra e della Chiesa nazionali. Entro il quadro di un’ulteriore assenza rappresentata dalla non disponibilità di una storia del cattolicesimo italiano accreditata come credibile.
Dossetti rimosso, di Giovanni Bianchi
Dossetti rimosso
Curiosamente Giuseppe Dossetti è più noto per il livore disinformato dei detrattori che per lo zelo propagandistico degli estimatori. Dossetti infatti, dopo Antonio Rosmini, è il grande rimosso della cultura e della Chiesa italiana. È Dossetti stesso ad avere suggerito il rapporto con Rosmini, e d’altra parte una circostanza li accomuna: la difficile “traducibilità” delle rispettive esperienze oltre i confini della terra e della Chiesa nazionali. Entro il quadro di un’ulteriore assenza rappresentata dalla non disponibilità di una storia del cattolicesimo italiano accreditata come credibile.
Alla fine di un ciclo politico
Eppure, per converso, Dossetti ha avuto la ventura di essere studiato da subito, durante l’impegno politico, e addirittura “storiografato” just in time. Le circostanze possono averne in seguito favorito la sordina dal momento che il monaco di Monte Sole è stato in politica sette anni in tutto, ivi compresi quelli passati in montagna come partigiano. Rivisitarne dunque non tanto la memoria ma il lascito politico, provare a rifare i conti con il metodo Dossetti può essere operazione fondatamente ricostruttiva nella fase in cui il cattolicesimo democratico si trova alla fine di un ciclo politico. Proprio perché la forma che ci siamo lasciati alle spalle è quella del partito, laddove estimatori e critici, tutti, riconoscono in Dossetti una passione per il partito che andava ben oltre quella per il governo.
E dal momento che è impossibile fare una storia del cattolicesimo politico di questo secolo a prescindere dalla storia del partito politico, che ne costituisce la più originale espressione – in rotta di collisione con l’universalismo Vaticano additato da Gramsci e con le pratiche del gentilonismo – il confronto con le prese di posizione e gli scritti dossettiani, tanto avari nel numero quanto determinanti per il contenuto, si impone ancora una volta. I cattolici infatti si affacciano come protagonisti alla storia dello Stato unitario solo attraverso la figura e lo strumento del partito politico (Pino Trotta).[1] E probabilmente non si è sottolineata a sufficienza questa novità che per la prassi della politica cattolica costituì un autentico tornante. Non era infatti scontato che l’impegno politico dei cattolici dovesse attraversare l’esperienza del partito.
Fuori da ogni sistemazione consolante a posteriori, è don Luigi Sturzo a rappresentare la svolta nella prassi dei cattolici nello spazio pubblico nazionale. Ma il convergere di interessi di lungo periodo da parte del fascismo e di breve periodo per la Chiesa cattolica costrinsero il prete calatino all’esilio prima londinese e poi statunitense. Tanto che fu l’esperienza del secondo dopoguerra a sviluppare il granello di senape popolare nel grande tronco della Democrazia Cristiana. E mentre la Santa Sede, proverbialmente lento pede, stava ancora uscendo a tappe dallo Stato Pontificio, l’esperienza dei cattolici radunati in partito segnava momenti di innovazione non soltanto sul piano politico ma anche su quello ecclesiale: al punto che la Democrazia Cristiana può essere considerata un’avanguardia nel grande e variegato corpo della chiesa preconciliare. Per cui l’evento storico del Concilio finirà per segnare una nuova stagione nella quale gli uomini di chiesa sperimentano e si spingono più avanti, disponibili evangelicamente a perdere la propria vita, rispetto alla forma partito fin lì sperimentata. Non è dunque casuale e certamente è provvidenziale il ruolo di solerte “segreteria” giocato da don Dossetti nelle assise conciliari al seguito del cardinale di Bologna Giacomo Lercaro.
Proprio la “tranquilla liquidazione del Partito Popolare Italiano dinanzi alla vittoria del fascismo”[2] consegna irrisolto alla Democrazia Cristiana il problema di saggiare fino in fondo nell’area culturale cattolico-democratica le potenzialità della forma partito. Quella forma rispetto alla quale la Santa Sede oscillerà tra diverse opzioni senza coincidere mai. Ed essendo Dossetti la mente più fervida e appassionata alla forma partito, molto più di De Gasperi, maggiormente attento ai ruoli e alle liturgie istituzionali, è con lui che i conti vanno fatti in una fase dove al vecchio della politica pare succedere il vuoto della politica.
E se Amintore Fanfani, sodale molto pragmatico di Giuseppe Dossetti, reinventa in termini di decisionismo le forme organizzative del partito di ispirazione cristiana, spetta a Giuseppe Dossetti il primato nella visione e nell’approfondimento culturale. Al punto da considerare la cultura politica l’aspetto preminente del fare politica. E vale la pena osservare, non solo di passata, come il dossettismo non estinto in Aldo Moro si riveli in una sua celebre espressione, quando cioè lo statista pugliese afferma che il pensare politica e già per il novantanove percento fare politica.
Ma se si prende come termine a quo l’Ottantanove o il Novantaquattro, tutte queste rischiano di apparire espressioni da antico testamento. Perché la nuova politica si gioca intorno ai narcisismi dell’individualismo che producono il partito personale e alle confusioni tra divismo e leadership che privilegiano la comunicazione onnivora rispetto ai contenuti. Dove il vettore comunicativo cannibalizza ogni sera nei talkshow il contenuto che è stato chiamato a veicolare. Mentre senza il fondamento dei contenuti non si danno partiti.
Neppure le primarie sono ricostituente sufficiente a surrogare nel tempo lungo l’assenza di dibattito e di congressi. Nelle primarie infatti il Partito Democratico ha fortunatamente individuato un canale di comunicazione con gli iscritti e gli elettori: in tempi di antipolitica e di disaffezione le primarie sono una benedizione. Ma le primarie consentono un esercizio diffuso e ripetuto della rappresentanza; quel che resta ancora fuori dalla porta del partito è l’elaborazione culturale, e la rappresentanza non incrocia la politica senza l’individuazione di luoghi dove la cultura venga elaborata ed organizzata. Lasciata nelle fragili mani dell’attivismo la rappresentanza si riduce a sola rappresentazione.
Probabilmente l’estinzione della figura dell’intellettuale, più o meno “organico”, che si occupava dei destini del partito e del Paese e della formazione dei quadri (gli intellettuali non coincidono necessariamente con i professori) è da collocare nel dissolversi del rapporto tra elaborazione culturale, formazione, organizzazione e rappresentanza. Nessun training riconosciuto; molta improvvisazione ed esaltazione di attitudini che non sempre si combinano con la professione politica e meno ancora con la ricerca del bene comune. Il presidente Scalfaro notava con amarezza che dopo il 1992 venivano considerati atti a fare politica soprattutto coloro che fin lì non se ne erano mai occupati. Un filo di ironia lega anche la riflessione in proposito del cardinale Carlo Maria Martini dal momento che ai suoi occhi la politica è l’unica professione senza una specifica formazione. “I risultati sono di conseguenza”. Circa le conseguenze si esprimeva con grande semplicità il rappresentante del popolo Saharawi nel nostro Paese: altrove cambiano gli uomini e restano i partiti; in Italia cambiano i partiti e restano gli uomini. Candore africano!
Una dittatura dell’immagine occupata da una torma di dilettanti, laddove almeno i politici della cosiddetta Prima Repubblica quando sbagliavano (e accadeva non di rado) però – ho in mente Paolo Conte – “sbagliavano da professionisti”.
Resta comunque il fatto che non si dà al mondo democrazia senza partiti. Si aggiungano le nuove tensioni che in senso contraddittorio e contrapposto sollecitano le forme della politica. Da un lato assistiamo alla lenta ma inesorabile derubricazione “elvetica” della politica a semplice amministrazione, complice, nel quadro istituzionale, di promesse impossibili da mantenere e di troppe eterogenesi dei fini, tra le quali, soltanto per fare un esempio, la riduzione italiana del federalismo a inguardabile imitazione del federalismo. Dall’altro l’irrompere delle nuove acquisizioni della ricerca scientifica e delle biopolitiche hanno reso ineliminabile dalla riflessione, dalla legislazione e dalla decisione politica la questione antropologica. Tutto ciò dilata in maniera inedita l’ambito e lo statuto della politica, ne intimorisce ed esalta la responsabilità, fino a produrre una serie di effetti evidenti ma difficili da ricondurre a disciplina. Per questo verso infatti si dilata l’ambito (in termini virtuali) della cultura politica, fino a recuperare in maniera diffusa e diffusiva, ma anche indisciplinata e confusa, il ruolo che negli anni Cinquanta e Sessanta fu – la Francia come epicentro – quello già ricordato dell’intellettuale.
Tutto ciò non bussa alla porta della politica politicante per la semplice ragione che nell’opinione pubblica e nei ritmi della vita quotidiana quella porta è stata divelta.
E’ per questo fascio di ragioni che la politica, proprio nella fase in cui si sono smarriti l’abitudine e i luoghi del pensare, si carica di nuove domande e nuove tensioni. Tutto ciò incalza in particolare il cattolicesimo democratico e, paradossalmente, nel momento della sua massima debolezza e lisi, ne sollecita la funzione. Mai così evidente e così ampio è stato perciò il divario tra le potenzialità e le sollecitazioni del cattolicesimo democratico e la sua capacità di dare risposte. Nessun mistero però; soccorre piuttosto la diagnosi attenta e spietata. Quando Pier Luigi Castagnetti osserva che le primarie di dicembre hanno prodotto una ecatombe di esponenti del cattolicesimo democratico, il problema immediatamente successivo alla lettura dei risultati è quello di domandarsi il perché della prevalenza e della prepotenza di quella che con formula educata ci siamo abituati a chiamare la “dorsale organizzativa”. Nel caso specifico la dorsale organizzativa rappresenta la ferrea continuità di una tradizione burocratica, non priva dei necessari ricambi generazionali, e non solo dipendente da un persistente richiamo della foresta (anche se la foresta non c’è più).
Ma non esiste soltanto la bulimia di una componente saldamente organizzata; vengono al pettine i nodi di una scelta che, a partire dalla crisi dell’Ulivo, ha costantemente privilegiato tra i cattolico-democratici la rappresentanza rispetto alla crescita diffusa di una cultura politica. Di guisa che nel tempo lungo quella che pareva la provvida iniziativa di solerti levatrici ha finito per rivelarsi l’esito malinconico di inconsapevoli becchini.
Non c’è politica, e tanto meno politica vincente nel tempo lungo, senza investimento nella battaglia culturale. Anche in questo senso il problema del partito ha finito per caricarsi, a suo modo, di una valenza dimenticata in un campo e malamente interpretata e strumentalizzata nell’altro. Tanto più che nella storia del cattolicesimo politico l’esperienza del partito fu un’occasione in gran parte imprevista ma non per questo poco riuscita. Se, come nota ancora una volta Pino Trotta, l’intransigentismo cattolico aveva coniugato rifiuto del nuovo Stato e organizzazione di popolo, fedeltà al papato e difesa degli esclusi, opposizione politica e organizzazione sociale, il cattolicesimo democratico aveva trovato il modo per sfuggire al ricatto della propria matrice proprio attraverso la modernità spregiudicata della forma partito.[3]
L’autonomia dei “corpi intermedi” non può che esercitarsi, a partire dal sociale, che dentro il quadro di una democrazia istituzionalmente funzionante: lo Stato “espressione”(Orfei). Al posto dello Stato etico e dello Stato che politicamente educa tutto il sociale da sopra e da fuori. Per questo il partito inventato dal cattolicesimo democratico non sarà un partito conservatore, non sarà una deriva liberale in funzione antisocialista, sarà invece costantemente in rotta di collisione con il clericomoderatismo. Di questo Dossetti e i suoi sodali restano i più autentici depositari ed interpreti.
La lezione dossettiana
È don Giuseppe a consegnarcene l’interpretazione autentica in quello che mi pare possibile considerare il suo testamento spirituale: la conversazione tenuta al clero della diocesi di Pordenone presso la Casa Madonna Pellegrina il 17 marzo 1994 e pubblicata con il titolo Tra eremo e passione civile. Percorsi biografici e riflessioni sull’oggi, a cura dell’associazione Città dell’Uomo.[4]
Dopo avere ricordato con una sorta di civetteria del tempo breve che nel 1952 la sua stagione politica era già finita, Dossetti quasi contraddice se stesso dando conto delle ragioni che lo condussero all’abbandono esplicitato a Rossena e all’impegno successivo all’abbandono.
Dossetti del pari non nasconde che la matrice di tutto il suo agire fosse un “irriducibile antifascismo”. Una opposizione continua e continuata cioè al fascismo inteso come “una grande farsa accompagnata da una grande diseducazione del nostro Paese, del nostro popolo; un grande inganno anche se seguito certamente con illusione dalla maggioranza, che però sempre più si lasciava ingannare e sempre più si lasciava fuorviare”.[5]
Un antifascismo senza il quale risultano illeggibili i lavori della Costituente e l’indubbia regia dossettiana, in grado di condurli ad esiti unitari nei frangenti più problematici. E soprattutto in una fase nella quale la critica e la visione hanno accorciato la prospettiva, si affaccia la coscienza che non ci resta come patrimonio civico comune che l’idem sentire della nostra Carta del 1948: e cioè la visione del personalismo comunitario. Con l’ostinazione di continuare, dentro questa cornice, a prendere le distanze dalla dissimulazione mediatica.
Raffaele Simone in Il mostro mite osserva: “Il falso deborda nel vero, lo avviluppa e divora fino a installarsi al suo posto con piena autorità ontologica”.[6] Arrivati a questo punto, il vero è un momento del falso. Il falso cioè si installa con legittimazione reale e produce effetti reali. Lungo questa lunghezza d’onda muove una missiva del gennaio 2013 di Gerardo Bianco quando osserva che esiste un vero e proprio rischio di continua alterazione del sistema istituzionale e di sotterranea demolizione della nostra Costituzione. “La insensata tesi sostenuta da alcuni, con protervia, di una cosiddetta “costituzione materiale” che dovrebbe ormai sostituire quella “formale” dimostra la confusione culturale e politica in circolazione”. E infatti non sono coerentemente mancati – e per tempo – i tentativi di mettere al passo la Costituzione formale con quella materiale. Non a caso il punto di resistenza più importante alla generale deriva è rappresentato dal referendum del 2006 con il quale gli italiani hanno respinto lo sgorbio di riforma istituzionale approntato dal centrodestra.
Che la Costituzione italiana sia addirittura “bella” è opinione diffusa. La sua scrittura è di tale livello e andamento sinfonico da poter essere solfeggiata. La forma, si sa, attiene al contenuto e la trasparenza del testo non può essere considerata casuale: sappiamo infatti che i padri costituenti stabilirono una commissione che provvide alla redazione finale sotto la bacchetta d’orchestra di Benedetto Croce. E che proprio per questo non sia facile mettervi mano e aggiornarla é valutazione altrettanto nota: si rischia di sfigurarla con toppe che ne sfregerebbero insieme la lettera e il contenuto.
Basterebbe confrontare i sinottici del testo del 1948 con quello della cosiddetta riforma proposta dal centrodestra nel 2005 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre per rendersene conto. Basterebbe ad esempio confrontare gli articoli 70 della versione autentica e di quella taroccata e cancellata col referendum dagli italiani. Il lettore lo faccia e ne sortirà non so se con agghiacciato o divertito stupore. Dice infatti l’articolo 70 nell’originale: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Punto. Tutto qui. Una riga e mezza. La versione bocciata si distende invece lungo un labirinto di ben 83 righe in un lessico che, ad essere davvero indulgenti, può essere definito fantozziano. Leggere per credere, e misurare lo scampato pericolo.
Dunque, la Costituzione del 1948, che ancora vige e ci appartiene, si presenta con un articolo, il primo, che, come arcinoto, suona così: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione“. Imparabile a memoria, e valgono le osservazioni fin qui fatte. Eppure quell’articolo fu a rischio, fino all’ultimo, perché immediatamente prima del voto finale si levò l’onorevole Giorgio La Pira proponendo un incipit diverso per la Carta: “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione“. Fu la consumata abilità del presidente, il comunista Umberto Terracini, a impedire la rissa in assemblea e a indurre quel costituente che passerà alla storia come il “sindaco santo” di Firenze a ritirare la proposta.
Così pure molti italiani ignorano l’autentica svolta a gomito rappresentata dal secondo ordine del giorno presentato da Giuseppe Dossetti nella Seconda Sottocommissione, e votato all’unanimità. Il problema risolto in quella occasione è discriminante perché Dossetti, dopo aver asserito che forze e culture diverse possono scrivere insieme la Costituzione soltanto trovando una base e una visione comune, avanza la propria proposta. Era il 9 settembre del 1946. Di assoluto rilievo la geniale (e non revisionistica) impostazione data in quella occasione al tema fascismo–antifascismo, dal momento che la Costituzione del 1948 è illeggibile a prescindere dalla Lotta di Liberazione. Propone Dossetti: se il fascismo è il prevalere dello Stato rispetto alla persona, noi assumiamo come antifascismo il prevalere della persona rispetto allo Stato. Si tratta di accedere ad una convenzione politica ed anche etica. Del resto i temi etici non hanno cessato d’assediarci: non è forse anche etica la contrapposizione tra ricchi e poveri, contrapposizione sulla quale sono misurati i provvedimenti delle leggi finanziarie? E non aveva ragione Leopoldo Elia quando indicava nel costituzionalismo, in grado di fornire “una disciplina ai partiti”, il vero europeismo del Partito Democratico?
Che il fascismo fosse la prevalenza dello Stato rispetto alla persona lo testimonia l’articolo Che cos’è il Fascismo firmato per L’Enciclopedia Italianada Benito Mussolini e scritto, come è risaputo, da Giovanni Gentile. Quanto alla preminenza della persona siamo al cuore della cultura cattolico-democratica, centrale – anche per la concezione dei cosiddetti “corpi intermedi” e del bene comune – nel filone di pensiero che va dalla Dottrina Sociale della Chiesa a Maritain e Mounier.
Nessuno tra i costituenti, grazie alla soluzione fornita da Dossetti, doveva strappare le pagine della propria storia o almanaccare intorno alla espressione “guerra civile” introdotta da De Felice. Già allora alle spalle, nella chiarezza, le preoccupazioni espresse da Luciano Violante durante il discorso di insediamento in quanto presidente della Camera nel 1996. Ridicolizzata addirittura l’uscita di Berlusconi che in un’intervista parlò di “Costituzione bolscevica”: soltanto un prodigio etilico può legittimare un’espressione simile. Una Costituzione che oppone un muro di legalità e partecipazione alle derive plebiscitarie e che – in sintonia con un acuto intervento in Assemblea di Giorgio La Pira – rammenta che i diritti della persona vengono prima, come fonti, rispetto al riconoscimento da parte dello Stato. Una Costituzione che non a caso menziona il lavoro al primo posto e nel primo articolo: dove il lavoro risulta fondamento della convivenza nazionale, in quanto diritto e dovere della persona, non assimilabile in alcun modo al diritto commerciale, proprio perché la persona non è riducibile a merce e anzi la sua dignità viene dichiarata “inviolabile”.
Una Costituzione in tutto personalista dunque. La persona come crocevia di culture sia pure in fiera contrapposizione tra loro. La persona in quanto trascendenza “orizzontale” e “verticale” (l’Altro), secondo la lezione di Mounier.
Occasione e continuità
Su due registri Dossetti si confida al clero di Pordenone. Da un lato mette in rilievo l’occasionalità, perfino rocambolesca, del suo ingresso in politica, accompagnato da una rottura di testa in un incidente d’auto. Dall’altro insiste sul carattere della propria scelta e sulla continuità di questa scelta nella fase della politica attiva ed in quella del suo farsi monaco e fondatore di una comunità. Eccone i pilastri: “Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica. Una democrazia che voleva che cosa? Che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo e di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale”.[7] Questo il fine.
E il mezzo individuato come il più adeguato per raggiungere il fine è per Dossetti l’azione educatrice: “E pertanto la mia azione cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice. Educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Non sono mai stato membro del Governo, nemmeno come sottosegretario e non ho avuto rimpianti a questo riguardo. Mi sono assunto invece un’opera di educazione e di informazione politica.”[8] Dunque un’azione politica educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Un ruolo e un magistero al di là della separatezza delle scuole di formazione, nel concreto delle vicende e del confronto e – si immagina facilmente, con a disposizione la documentazione di un intero itinerario – prendendone di petto i conflitti e le asprezze. Che appare con tutta evidenza la vocazione di una leadership riconosciuta, il ruolo che fu dell’intellettuale organico, del partito come in parte era e come dovrebbe essere, pur ipotizzandone impreviste metamorfosi: capace cioè di organizzare persone e gruppi intorno a un progetto e a una linea di pensiero.
E siccome non sono mancati nel Dossetti che frequentava le istituzioni gli scontri e le asprezze, don Giuseppe così legittima decisioni e atteggiamento: “I miei contrasti – se ci sono potuti essere – con quelli che comandavano allora, sono stati non tanto contrasti di persone o di sensi, di temperamenti, ma contrasti su quest’aspetto necessario dall’azione politica come formazione della coscienza del popolo.”[9]
In particolare le accuse di filocomunismo sono risultate funzionali a bloccare ogni opera di educazione politica e “quella dimensione della politica attiva che è l’educazione politica del popolo“.[10] (Si noti nel mio corsivo l’espressione “politica attiva” che colloca nuovamente l’educazione politica nell’ambito della politica militante e non in quello del prepolitico.) Una evidente causa d’inciampo alla quale una seconda causa, altrettanto evidente, si aggiunge. “La seconda cosa che mi ha bloccato è la coscienza che la nostra cristianità, la cristianità italiana non consentiva le cose che io auspicavo nel mio cuore. Non le consentiva a me e non le avrebbe consentite a nessun altro in quei momenti, per considerazioni varie di politica internazionale e di politica interna.”[11]
La scelta monastica è allora leggibile come fuga da questo mondo politico grande e crudele e tuttora diviso in classi? La Piccola Comunità dell’Annunziata come convento per ripararsi dal mondo politico e dalle delusioni procurategli? La risposta è ancora una volta netta e tagliente: “Noi non siamo monaci. Conduciamo una vita simile molto o quasi integralmente alla vita dei monaci istituzionali, però non mi riconosco negli istituti monastici tradizionali.”[12]
Che cosa allora? Il cristianesimo come un cruciverba? Dossetti risponde di non credere che esista un’età postcristiana per chi ha fede. Indubbiamente viviamo un tempo che non è più di cristianità, e di questo è necessario prendere atto. La cristianità è finita. E neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità. Il problema da risolvere era come pensare politicamente in quanto cristiani e come vivere conseguentemente. Ma questo richiede una visione del mondo, un nuovo pensiero sul mondo, altrimenti si è destinati alla sconfitta. “Ci vuole una cultura creativa: il cristianesimo forte, non debole, di sempre.”[13]
E qui interviene l’evento storico del Concilio e della sua contrastata recezione: “L’evento – imprevedibile quando io lasciavo la politica, e che fu veramente un grande dono di Dio.”[14] E, tanto per non smentire l’abituale franchezza: “C’è stato poi un ripiegamento che tuttora continua. Si parla molto di Concilio ma non ci si crede più.”[15]
La via scelta è segnata ed esplicitata, sul piano spirituale come su quello di una inedita prassi politica: “Intanto maturava in me la convinzione sempre più acuta che fosse necessario risalire alle cause più profonde e quindi a un nuovo pensiero, un nuovo modo di vivere il cristianesimo. Nuovo perché sempre quello, sempre più legato alle sue sorgenti nuove, sempre più coerente con le sue sorgenti originali. Perciò quello sviluppo – che ho detto – dalla ricerca scientifica teologica alla comunità monastica, significava cosa? Semplicemente questo: vivere da cristiani.”[16] E’ la vita autentica del cristiano che in Dossetti riassume l’esperienza monastica e la supera, nel mentre innova e continua la vocazione politica.
Grande esperienza secolare insieme di ascesi e di laicità quella del monachesimo storico. Ricollegandosi ad essa ha una nuova valenza politica l’azione culturale del “monaco” Dossetti. La “cultura creativa” coincide con un rinnovamento della vita cristiana all’altezza dei segni dei tempi. Una vita cristiana che prende sul serio il primato della preghiera mentre prende altrettanto sul serio l’esigenza di un rinnovamento del pensare politicamente e dell’agire vocazionalmente di conseguenza. È questa inedita scelta politica che mette in discussione la cristianità e le forme del politico che in essa si inseriscono e che ha la temerarietà di confrontarsi, fino al rischio di perdersi – che continua ad essere un rischio evangelico – con una politica bisognosa di nuove idee capaci di nuovi comportamenti.
Dunque, tra i compiti del laico cristiano continuano ad esserci quelli relativi alla politica, e insieme laicità e politica postulano un nuovo tipo di cristiano e un nuovo laico. Chi non intende questo orizzonte e questo approccio dossettiano non capisce la consequenzialità del Dossetti “monaco” rispetto al Dossetti politico militante. Opera una scissione là dove c’è una lucida distinzione. Rimuove (non rischia anche questa di essere una rimozione?) l’originalità del Dossetti vocazionalmente politico che sceglie di salire a Monte Sole dove il dramma della storia e del mistero cristiano pongono allo spirito e alla politica domande rimaste ancora senza risposta. Perché la Lotta di Resistenza non segna soltanto la fine del fascismo, ma schiude l’ingresso a una nuova democrazia alimentata da valori che a loro volta non possono essere rimossi, proprio perché questa democrazia – e la Carta costituzionale che ne discende – non sono un guadagno fatto una volta per tutte.
Vocazione e professione
Se a questo punto confrontiamo la lezione dossettiana con il classico rapporto che Max Weber individua nella politica tra vocazione e professione, dovremmo dire che in Dossetti la vocazione politica è costante, mentre la professione è rigorosamente limitata nel tempo. Dossetti del resto è tutt’altro che reticente in materia. In uno splendido pomeriggio di giugno del 1993 sull’Appennino reggiano, interrogato dalla rivista “Bailamme” sul senso della politica, aveva risposto senza tentennamenti che si trattava per il credente di “occasione” sottratta al professionismo. Escludeva esplicitamente un impegno permanente che si protraesse per la vita intera. La condizione per lui è infatti “la gratuità, la non professionalità dell’impegno. Dove incomincia una professionalità dell’impegno cessa anche la parvenza di una missione e la possibilità stessa di avere realmente qualcosa da fare. Sono allora possibili tutte le degenerazioni”.[17] Un’eccedenza della dimensione ascetica? Ma è possibile un ancoraggio al cattolicesimo democratico a prescindere da una dimensione ascetica? È fuori di luogo pensare una mediazione meno drastica tra i due termini? Continuo a porre interrogativi per i quali so di non avere risposte. Ma d’altra parte mi parrebbe monco e spensierato un cattolicesimo democratico che – dopo il nuovo corso conciliare – prescindesse dalla lezione e dalla testimonianza dossettiana. Anche perché il cuore della sua provocazione riguarda lo “stile” del laico cristiano prima che i contenuti di una politica, che possono essere fungibili, tra loro difformi e variabili nel tempo fino a contraddirsi nella successione, sicuramente pluralistici.
Se non esiste una politica cristiana, la responsabilità della testimonianza del credente si raccoglie intorno allo stile di una vita (insieme vocazione e professione) che non renda ininfluente ed inutile il Vangelo. Il concetto di “lievito” più volte e da più parti richiamato. Altrimenti anche “da sinistra” si scivolerebbe nella soluzione liberale che vuole la fede limitata al solo foro interno. Non è così. Ma evidentemente non esistono né prontuari né catechismi, ed è da mettere in conto anche un ritardo delle ideologie in materia, culture politiche comprese. Giuseppe Dossetti s’è avventurato con grande determinazione su una strada ancora non tracciata e tuttora non segnalata dalle mappe. Forse solo un sentiero, ma certamente innovativo e sicuramente lontano dagli integrismi, dall’angustia delle mediazioni che un tempo furono grandi ed esemplari.
La sua può anche sembrare una svolta a gomito. E certamente non è di tutto riposo rimettere in tensione insieme la militanza politica e l’esperienza monastica. A proprio vantaggio Dossetti può però evocare il rischio ineliminabile dal pensare e fare politica, così come il rischio della vita cristiana disposta evangelicamente a perdersi in maniera esemplare nell’esperienza monastica ma anche nell’ordinarietà della vita quotidiana del laico credente. Indubbiamente più che rassicurare, la sua provocazione inquieta. Probabilmente è il carisma particolare, lo stigma di Giuseppe Dossetti, che ci si presenta unitario e addirittura monolitico là dove una bella e visibile distinzione farebbe comodo a tutti. Né consola l’ipotesi che questo singolare vissuto della vocazione e della laicità della politica abbia probabilmente inquietato anzitutto lui stesso.
E, a ben guardare, a fare soprattutto problema non è tanto il rapporto con la politica, quanto il rapporto, per il credente, fra politica e potere. Oltre le posizioni di chi guarda al carattere demoniaco del potere (posizione generalmente considerata tedesca e luterana) e di chi, un poco alla plebea, ci ammonisce che il potere logora chi non ce l’ha. D’altra parte le tentazioni di Gesù di Nazareth non per caso sono presenti in tutti i sinottici e non possono essere ridotte soltanto a metafore.
Una seconda rimozione?
Si impone una riflessione in grado di schiudere un nuovo orizzonte al laico cristiano dopo la fine di una stagione del cattolicesimo democratico e lungo una transizione dove certamente non abbondano né gli esempi né i cartelli indicatori.
Dossetti conosce diritto e rovescio del problema così come ci è stato lasciato in eredità dal Concilio, così come del tessuto ecclesiale e giuridico precedente e susseguente all’evento conciliare, e la sua genialità lo spinge a forzare ulteriormente il discorso là dove esso si presenta più aperto alle sperimentazioni. Per questo il monaco di Monte Sole fa i conti col monachesimo che ha attraversato i secoli, ne coglie l’essenza profonda, la modernità politica e, mantenendo e traducendo le regole, va oltre la regola fino a far coincidere la vocazione del monaco con una nuova interpretazione dell’essere cristiano. In particolare del cristiano impegnato politicamente a costruire la città dell’uomo. Ripeto la citazione: “Noi non siamo monaci. Conduciamo una vita simile molto o quasi integralmente alla vita dei monaci istituzionali, però non mi riconosco negli istituti monastici tradizionali.”[18]
E’ qui dove troppe interpretazioni – pare a me – non colgono l’essenza della cosa. È qui che si produce la seconda rimozione da parte di chi separa e contrappone un primo Dossetti politico e un secondo Dossetti monaco.
Quel che non si coglie è che dietro il mutamento d’abito permane la vocazione dossettiana esercitata in forme diverse proprio per rispetto delle condizioni storiche reali (quelle del convento e quelle che denunciavano un ritardo dell’opinione pubblica italiana), ma comunque decisa a non interrompere il proprio percorso ed anzi a esplicitarne la funzione in termini mutati sì ma di continuità vocazionale. Osservato sotto questo fascio di luce, non esiste un Dossetti politico e un altro Dossetti monaco. Esiste un Dossetti cristiano che esercita la sua particolare vocazione in forme che una realistica valutazione delle condizioni storiche diversifica. Un cristiano inabituale per la radicalità del confronto con il Vangelo, con la Tradizione e con la storia. E del resto non contribuì in qualche misura il suo impegno – in larga e competente compagnia – durante il Concilio Ecumenico Vaticano II a far sì che neppure uno dei 70 schemi preparatori arrivasse in porto?
Torno alla già citata coppia weberiana. In Weber professione e vocazione si distinguono ma anche ineriscono saldamente l’una all’altra, al punto da perdere vigore se considerate separatamente. Singolare è in Dossetti la sinteticità multiforme del suo carisma, che pare rispondere a una perentoria chiamata alla storicità, come evidente presa di distanze dalla cronaca: “Non dobbiamo occuparci della cronaca, ma della storia sì, con tutta la vigilanza della preghiera e del cuore e, cioè, dei grandi drammi dell’umanità del nostro tempo: l’ingiustizia, la fame, l’oppressione, il buio della fede, la fatica della ricerca di verità e di luce”.[19] La faccia della politicità appartiene a un prisma che lungo l’asse Vangelo–Storia allinea il politico, il monaco, ma anche il giurista, lo studioso, il sacerdote diocesano, il “nomade”, il predicatore, il suggeritore… Per questo, essendomene stata affidata la commemorazione a un mese dalla morte all’inizio dei lavori del III Congresso Nazionale dei Popolari (Roma 1997) chiamai a raccolta tutte le scarse risorse del mio antihegelismo per dire di lui: “Anche la storia può sbagliare”.
Per due ragioni. In Dossetti è infatti il Vangelo che chiama in giudizio la storia nel momento del suo farsi; in secondo luogo perché mi pareva di dover sottoporre finalmente a critica l’etichetta di un Dossetti “perdente” e votato alla sconfitta. Perché? Perché accanto alle fulminee uscite di scena restano – anche per sua esplicita rivendicazione durante la famosa allocuzione all’Archiginnasio – il contributo non marginale alla vittoria repubblicana nel referendum istituzionale dell’immediato dopoguerra e la ricordata “regia” alla Costituente.
Due dunque i luoghi teologici, o meglio, le “fonti” di quello che con estrema titubanza potrebbe essere considerato un “irregolare” di genio del Buondio, della Chiesa e della politica: il Vangelo e la Storia. È sulla sua icona che ancora una volta e non a caso si polarizzano le polemiche di un vigoroso revisionismo conciliare che avverte Dossetti come fastidiosamente più interno alla Chiesa che alla politica. Ma non è forse vero che proprio la tradizione del monachesimo più si affaccenda, senza tralasciare di ruminare la parola di Dio, intorno ai problemi dell’ora? Quando giustamente si rivendicano le radici cristiane dell’Europa non è all’azione civilizzatrice e riformatrice dei monaci che si fa riferimento? Non è un ritardo di cultura politica (in senso complessivo e non soltanto partitico) a suggerire dopo l’abbandono di Rossena la fondazione a Bologna del “Centro di documentazione” per contribuire alla riforma della Chiesa? Non si presenta dunque nei secoli il monachesimo come luogo di incontro tra spirito evangelico e azione di popolo? Non è questa la Traditio che fa i conti con la storia e talvolta – come accade alla grande politica – controla storia?
Il Dossetti che “obbedisce” al vescovo Giacomo Lercaro candidandosi a sindaco di Bologna contro il comunista Dozza, che organizza le primarie per l’occasione già nel 1956, che con il gruppo dei giovani collaboratori redige il Libro bianco che racchiude il programma amministrativo non è il Dossetti che saggia insieme i compiti del laico cristiano e la testimonianza ispirata ed operosa nei confronti della città dell’uomo che ha segnato nei secoli l’azione di generazioni di monaci? Non è curioso che la figura del laico e quella del monaco coincidano nel servizio, nella diaconia e nel rinnovamento?
Potrei continuare a porre interrogativi, non certamente retorici, lungo il percorso dove la sperimentazione sul campo cessa di apparire paradossale. Dossetti saggia occasioni e paradossi con il piglio di chi pratica la radicalità nel solco della tradizione per trarre, dalla tradizione, potenzialità creative non ancora scoperte. Bisognerà continuare dunque a interrogarlo per intenderne la singolare vocazione che si esprime in una professione di volta in volta altrettanto singolare sì, ma anche paradigmatica.
Quel che infatti viene esaltato dall’approccio dossettiano, in entrambe le situazioni, è la vocazione pedagogica della politica, senza la quale nessuna politica autentica può darsi. Capace di resistere alla miopia del contingente e della cronaca, alla pressione degli schieramenti, alla violenza delle ideologie, alla nostalgia del richiamo della foresta.
Una politica proprio per questo in grado di distinguersi dal potere, così come la lotta di Liberazione aveva visto il partigiano Dossetti partecipare all’azione militare ma disarmato. Un modo eminentemente cristiano e “povero”, in tal senso meramente monastico, per distinguere la politica dal potere. Non che la politica non debba mai commerciare con il potere – Dossetti non è né tedesco né luterano – ma una politica in grado di continuare e di esercitarsi anche fuori dai luoghi del potere. Che è la sfida incompresa che sta ancora di fronte a noi.
È forse questa la vocazione politica del cristiano in questa stagione storica? Certamente non la sola, ma anch’essa chiede di essere valutata e sperimentata. Dossetti non lo dice, ma è probabilmente d’accordo con la cristianissima osservazione che Emanuele Severino traduce in filosofico: non siamo noi che prendiamo i poteri, ma piuttosto i poteri prendono noi. La figura del Servizio viene così sfilata e strattonata fuori da facili acquiescenze ed accomodamenti, che presuppongono un commercio troppo pacifico con il mammona della secolarizzazione.
E’ questo il rigore dossettiano, non quello che si cimenta con le forme keynesiane dell’economia. E’ questo il Dossetti che va riscoperto e non rimosso, anche se ci inquieta e ci sfida a una politica per la quale non ci sentiamo attrezzati e della quale non siamo in grado di intuire il valore. Prima viene la coscienza del credente; e per il credente impegnato politicamente prima viene la coscienza politica. È l’altra faccia della testimonianza che la figura cristiana del servizio in politica non è stata ancora in grado di scoprire ed attuare. Una politica che ha il coraggio e la lucidità di mettere al primo posto la cultura politica, prima delle rendite di posizione, prima dei sistemi elettorali, prima della dittatura del tempo breve, prima dell’onnipotenza delle immagini sempre più onnivore.
Ma proprio queste immagini hanno assoggettato la politica fino a svuotarla, e a svuotarla a partire dalla sua istanza pedagogica. Non è forse più tempo di vati come nel Risorgimento, ma certamente è ancora tempo di testimoni piuttosto che di trionfanti ed applauditi testimonial. Ecco perché tornare a Dossetti significa non rimuoverlo in questo aspetto della sua lezione che probabilmente risulta il meno comodo. L’imprescindibilità cioè dello stile del cristiano e della cultura politica, senza la quale il nichilismo dei contenuti si concede allo spettacolo o ai nuovismi che fanno succedere al vecchio soltanto il vuoto.
Onestà vorrebbe che non si rifiuti la sfida e che il cammino prosegua oltre l’attimo di un successo apparentemente felice o di una congiuntura carica di incertezza e di disperazione, superando difficoltà e passaggi difficili, avendo il coraggio di fare esperienze e di proseguire anche a tentoni. Così come camminano quelli che viaggiano di notte.
Appunto, “Sentinella, quanto resta della notte“?
[1] Giuseppe Trotta, Un passato a venire. Saggi su Sturzo e Dossetti, Cens, Milano, 1997, p. 7.
[2] Ivi, p. 8.
[3] Ivi, p. 9.
[4] Giuseppe Dossetti, Conversazioni, In Dialogo, Milano, novembre 1995.
[5] Ivi, pp. 8-9.
[6] Raffaele Simone, Il Mostro Mite, Perché l’Occidente non va a sinistra, Garzanti, Milano, 2008, p. 117.
[7] Ivi, pp. 12-13.
[8] Ivi, p. 13.
[9] Ibidem
[10] Ivi, p. 15.
[11] Ibidem
[12] Ivi, p. 18.
[13] Ivi, p. 20.
[14] Ivi, p. 21.
[15] Ibidem
[16] Ivi, p. 22.
[17] Su spiritualità e politica, incontro con Giuseppe Dossetti, in Giuseppe Trotta, Un passato a venire. Saggi su Sturzo e Dossetti, Cens, Milano, 1997, p, 109.
[18] Giuseppe Dossetti, Conversazioni, op. cit., p. 18.
[19] Maria Gallo, Una comunità nata dalla Bibbia, Queriniana, Brescia, 1999, p. 11.