Sobornost
(agosto 2007)
Per lunghe strade cammina il credente. E con gli sguardi lunghi che lo Spirito Santo suggerisce. Sa di venire da lontano e di andare lontano. Sa di essere chiamato e di essere diverso: custode di una differenza che non soltanto a lui appartiene. Sa anche che il cristianesimo è storia, quella custodita dal passato, e quella della quale sempre lo Spirito getta indefettibilmente semi nel futuro. Sa anche che la fede, come la socialità e la politica, si pongono talvolta contro la storia.
E’ sempre evidente che le parole contengono a fatica la ricchezza e le sfumature della realtà, soprattutto quando questa risulta profondamente segnata dalla spiritualità. Danno parzialmente conto del reale e malamente si lasciano tradurre in idiomi diversi. E’ il caso del termine sobornost, praticamente intraducibile nell’esperienza di chiesa italiana, e solo parzialmente approssimabile con la dizione “conciliarità cristiana”. Per cui mi sembra più agevole assumere il termine russo sobornost, così come fu fatto durante la stagione gorbacioviana con le parole perestròika e glasnost, rapidamente adottate dalla politica nel Bel Paese e dal lessico dei giornali.
Sobornost dunque ci spiazza e ci interroga, con l’imbarazzo e la curiosità di chi avverte di accostarsi all’esperienza originale di fratelli nella fede, costretto a misurare insieme distanze e vicinanze. Ed ho scoperto che nel nostro caso le vicinanze sono maggiori delle distanze.
Mi pare di intuire che l’ideale proposto da Khomyakov indichi un popolo di Dio che testimonia la chiamata divina praticando la carità fraterna, in ciò sostenuto, come palesemente accadeva nelle prime comunità, dallo Spirito Santo. Sintesi, ancora una volta, della Legge e dei Profeti. Invito alla paziente attenzione nella lettura dei segni dei tempi, lontana dagli estremismi delle ideologie così come dalle accelerazioni neoapocalittiche: perché a distinguere il credente non è l’impazienza, ma la perseveranza di chi sa lavorare e attendere con pazienza.
Il sogno di Giacobbe
Vi è un’icona che può sinteticamente dar conto della prospettiva che ci importa? Mi pare di poterla rintracciare nel sogno di Giacobbe così come viene narrato nel capitolo 28 della Genesi.
“Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra” (Gen 28, 10-14).
Giacobbe è in fuga da Esaù al quale ha sottratto con uno stratagemma culinario la primogenitura. Mai piatto di lenticchie fu pagato con tanta leggerezza a così caro prezzo. Mentre le circostanze dell’amore fraterno sono ancora una volta declinate in dramma dalla Scrittura. Ansia e stanchezza propiziano in qualche modo il sonno del Partiarca.
Anzitutto il sogno e la sua origine. Il sogno lo manda il Signore della storia. Indi il luogo. Il luogo è occasionale e dunque non previsto o programmato né tantomeno deputato. Dimora occasionale dove una dura pietra fa da guanciale. In terzo luogo la discendenza. Illimitata e benedetta. La scala lungo la quale gli angeli salgono e discendono unisce palesemente la terra al cielo, garanzia di benedizione nella quale, per dirla con Mounier, la dimensione orizzontale e quella verticale si tengono. Essa unisce tra loro le persone nelle quali inibita lo Spirito Santo. Sobornost e solidarietà garantite insieme dalla divina benedizione.
Il commento di Giacobbe, ridestato e sorpreso, è rivelatore: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gen 28, 16). Seguono propositi e decisioni: “Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai io ti offrirò la decima” (Gen 28, 22).
Il culto e la diaconia procedono di pari passo. E noi siamo sollecitati a scoprire come sobornost e solidarietà si tengano e praticamente procedano appaiate, quasi coppia sponsale, in maniera che la solidarietà non scada in filantropia ed in ideologia della filantropia.
Una dura pedagogia
La vicenda cristiana è tutt’altro che avara di esempi. Al punto che alla ricerca della Chiesa di rinnovare in tal senso la vita nelle nuove condizioni storiche si presenta l’imbarazzo della scelta.
La sperimentazione coraggiosa è infatti rintracciabile già presso la prima comunità di Gerusalemme.
Narrano gli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo ed un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra essi era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”(Atti 4, 32-35).
Poema sinfonico. Anche qui cielo e terra evidentemente si tengono, fuori dal sogno, lungo la scala di Giacobbe, in una pratica di intensa comunità e di totale comunismo dei beni. Una comunità dove la gioia del dono s’è fatta entusiasmo quotidiano, non priva, starei per dire ovviamente, di defezioni, cadute e frodi. E’ il caso, ricordato con grande rilievo, e con evidente intenzione pedagogica, di Ananìa e Saffira:
“Un uomo di nome Anaìa con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: “Ananìa, perché mai satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Ananìa cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano. Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono.
Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò anche sua moglie, ignara dell’accaduto. Pietro le chiese: “Dimmi: avete venduto il campo a tal prezzo?”. Ed essa: “Sì, a tanto”. Allora Pietro le disse: “Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te”. D’improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito. E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose (Atti, 5, 1- 11).
Un quadro idilliaco si trasforma rapidamente in tragedia. La frode e la menzogna nei confronti di una comunità che ha scelto di condividere le sostanze vengono sanzionate dall’autorità di Pietro con la morte. Pedagogia implacabile, che peraltro non assicura la riuscita dell’esperimento comunistico, che va incontro a un rapido e catastrofico fallimento, al punto che l’apostolo Paolo si incaricherà di una colletta presso i fratelli che abitano le sponde del Mediterraneo per soccorrere la Chiesa di Gerusalemme altrimenti condannata alla fame. Resta il fatto che fin dagli inizi i seguaci del Nazareno ci hanno provato, portando fino alle conseguenze più radicali il rapporto tra sobornost e solidarietà fraterna. Resta altresì evidente il rigore col quale fu perseguito. Come pure l’entità dello scacco subito. Al punto da indurre l’ipotesi che quella sconfitta si collochi non soltanto nella lunga memoria delle Chiese, ma anche nel loro inconscio storico. Il mio maestro, il domenicano francese Marie-Dominique Chenu, suggeriva di trarre la lezione che non tanto importante e risolutiva è la messa in comune dei beni quanto la liberazione dal bisogno…
Mi è parso comunque utile non cancellare le bobine, nella convinzione che da allora sia la Chiesa che la società hanno percorso una lunga strada nella ricerca del vero senso delle parole sobornost e solidarietà.
Un lungo itinerario
Affrontare questo tema significa anche domandarsi che cosa voglia dire essere cristiani nella polis di oggi. Noi tutti abbiamo conoscenza storica del fatto che il cristianesimo scosse fin dalle origini la società. Non a caso le parole di Gesù il Nazareno risultarono da subito eversive per la teocrazia giudaica. Si tratta di un percorso la cui ricostruzione è stata riproposta nel mese di giugno di quest’anno nel monastero di Bose dal priore Enzo Bianchi. Esistono infatti modalità proprie d’essere solidali da parte dei cristiani. Secondo Enzo Bianchi, dopo una prima fuga dalla città, della quale dà conto Tertulliano, i primi cristiani vennero man mano elaborando un approccio diverso.
All’inizio l’autoesclusione faceva parte di una lotta anti-idolatrica, dal momento che l’appartenenza piena alla città implicava l’ossequio religioso nei confronti dell’imperatore. Per questa ragione i cristiani non entrano nell’esercito e non fanno parte dell’amministrazione imperiale. Non mancano ovviamente le perplessità e le critiche rappresentate in particolare da Celso. Ma le cose progressivamente evolvono e nella lettera A Diogneto ( da collocare tra la metà del II secolo e l’inizio del III ) i cristiani vengono descritti come coloro che condividono i beni di tutti i cittadini. Non condividono però i letti e non espongono i figli. Col linguaggio odierno potremmo affermare che essi si erano andati man mano radicando nel tessuto della società civile. Leggiamo infatti nell’A Diogneto: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale”.[1]
Stile di vita paradossale e minoritario che finirà per produrre quel rovesciamento epocale che porterà i fedeli ad essere assunti come paradigma di una nuova cittadinanza e ad ottenere il pieno riconoscimento imperiale. Semmai, osservava il Priore di Bose, siamo noi nella condizione di doverci chiedere che cosa abbia potuto significare l’aver avuto per cinque secoli un imperatore cristiano, quando i fondi vennero tolti alle fondazioni pagane e dati nelle mani delle comunità cristiane, con qualche tentazione forse di passare da perseguitati a persecutori…
Molta acqua è passata da allora nei secoli sotto i ponti della cristianità ed è probabile che i cristiani si sentano abilitati nella costruzione della polis da una lunga e provata esperienza che ne rende lo stile di vita più adatto a fare i conti con le trasformazioni in quest’ora di globalizzazione. Mi pare si possa leggere così il n. 55 dell’enciclica Evangelii nuntiandi. E se è vero che i credenti si sono trovati poi a fare conti durissimi con la modernità, è altresì vero che la loro testimonianza è risultata tale da rendere accessibile la santità a tutte le persone. Le sfide sono andate rinnovandosi e crescendo di intensità, ma proprio per questo non è venuto meno lo stile di una presenza che interroga se stessa e il costume complessivo sugli esiti del processo di sviluppo e di secolarizzazione.
Quel che accade, accadendo insegna, e ciò risulta vero anche per la società dei consumi, la quale fa sì che il fare la spesa tra i banchi di un supermercato comporti oggi la scelta, prodotto dopo prodotto, corridoio dopo corridoio, di uno stile di vita.
La comunità cristiana, madre e maestra, così come non deve tacere, non deve neppure cessare di dare l’esempio. In questi decenni siamo passati da una vicenda storica ricca di movimenti, a una fase nella quale si fanno presenti soltanto le mobilitazioni. Senza essere soreliani, abbiamo nella memoria storica i bisogni e la volontà di potenza del movimento operaio, le attese del movimento giovanile e delle donne, i movimenti che hanno attraversato le diverse confessioni religiose. Tutto questo riguarda anche l’Italia, nella quale la chiesa pellegrinante ha evitato il rischio che i francesi definiscono “secolarizzazione della secolarizzazione”, incamminandosi piuttosto su una via che, sempre un grande francese, il domenicano Marie Dominique Chenu, leggeva come prospettiva di un cristianesimo eminentemente popolare e associativo.
Va pur detto che anche questa prospettiva merita una qualche puntualizzazione, nel senso che se è vero che il 90 % dei miei connazionali si definisce cattolico, solo il 25% frequenta la messa domenicale, e soltanto il 45% afferma di credere nella risurrezione di Cristo. Va pure aggiunto che qualche ulteriore verifica sociologica ha stabilito che solo il 19% di quelli che affermano di frequentare il servizio domenicale vanno poi realmente a messa…
E’ evidente che una ricostruzione tanto rapida può soltanto limitarsi ad estrapolare qualche cenno indicativo. Credo a questo punto di poter affermare due cose: che l’esperienza dei cristiani in Italia mantiene, sul piano etico e talvolta tuttora su quello legislativo, una sorta di “egemonia normativa”. In secondo luogo mi pare che essa dia conto dell’esattezza dell’osservazione del patriarca di Venezia, Angelo Scola, quando osserva che “con il cristianesimo emerge la possibilità di un totale ripensamento della tesi aristotelica circa la naturale socialità umana, l’introduzione della categoria di persona come realtà che possiede un valore assoluto e costringe a riformulare l’intero rapporto tra l’individuo e la società da un lato e lo Stato dall’altro. Se la natura profonda e inalienabile di ogni uomo creato a immagine del Dio unitrino è comunionale, questa ne fonda anche in modo assolutamente prioritario il carattere sociale. Quest’ultimo non è pertanto definito anzitutto dall’inserimento della persona nello Stato, che non è l’espressione originaria della dimensione sociale dell’esperienza umana. Lo Stato, modernamente inteso, è chiamato a essere una funzione della società civile, a sua volta formata da persone che vivono rapporti vicendevoli nei cosiddetti corpi intermedi, il primo dei quali è la famiglia”.[2]
Siamo così confrontati con quel primato della società civile che è caratteristico di tutta l’esperienza dei cattolici italiani, che rende anche oggi davvero urgente il compito di “costruire una democrazia sostanziale su scala mondiale che riconosca l’inalienabile sacrario di ogni persona attraverso l’esercizio concreto dei diritti fondamentali individuali, sociali, politici, culturali ed economici”.[3] E mi pare di dover dire con forza che il riferimento a questi diritti va mantenuto in tutta la sua integralità dal momento che “diritto ed economia hanno di fatto ampiamente ridotto il peso che una volta teologia e filosofia avevano nella riflessione sull’uomo e sul suo agire personale e sociale”.[4] Si comprende allora come “la società civile non vive di una dialettica permanente tra singoli individui e Stato, ma cresce e si sviluppa armonicamente, come abbiamo detto, attraverso preziosi corpi intermedi”.[5]
E’ il filo di un discorso, il medesimo dei cattolici alla Costituente, da Dossetti, a La Pira, al giovanissimo Aldo Moro, che affermarono nella Carta del 1948 che esistono diritti innati che l’ordinamento giuridico statale è chiamato a riconoscere. Infatti, “secondo la tradizione cattolica che nell’ultimo secolo ha ricevuto organica formulazione nella dottrina sociale della Chiesa, lo Stato resta in qualche modo secondario rispetto alla società. E’ al suo servizio ma non deve mai sostituirla. Lo Stato non è un già dato, un assoluto, un “da sempre e per sempre”: Questi sono attributi che giudaismo, cristianesimo e islam riconoscono concordemente a Dio, ma che quando siano applicati tout court allo Stato conducono alle tragiche vicende che il XX secolo ha posto sotto gli occhi di noi tutti”.[6]
E’ il martellare – lo si sarà inteso – del tema della centralità della società, anche dopo il crepuscolo della societas cristiana. Una società ispirata a un nuovo ordine libertario, ricco di contraddizioni così come la secolarizzazione risulta piena di idoli. Una società che attraverso l’apparato dei media e l’omologazione dei comportamenti generalizza un nuovo conformismo, rispetto al quale i cristiani hanno il dovere della critica e della testimonianza. Una libertà infatti che ignora il proprio limite finisce per attuare lo sfruttamento dell’altro e la sua riduzione a cosa. Non a caso il priore di Bose invita a riflettere su come sia compito della Chiesa rinnovare l’orizzonte escatologico, con la consapevolezza che la verità eccede sempre i credenti, mentre questi la ricercano con una conoscenza sempre limitata, in attesa che si manifesti pienamente con la venuta del Signore della storia.
La scelta “popolare”
E’ il caso di una puntualizzazione. Anche il cattolicesimo italiano moderno ha avuto un difficile rapporto con il potere politico. Infatti lo Stato Unitario viene creato, dopo un lungo periodo di lotte, nel 1860 da una élite capace ma profondamente anticlericale. Per così dire, se vi è una Russia profonda, vi è altrettanto un’Italia profonda. Anche in Italia il potere non conosce la gente: la domina chiedendo consenso. Anche in Italia il rapporto della comunità ecclesiale con il potere è ineludibile e complicato. Perché? Perché il problema non è prendere il potere. Il più grande filosofo vivente in Italia, Emanuele Severino, giustamente afferma che non siamo noi a prendere i poteri, ma i poteri prendono noi…
Neppure il problema consiste nella prospettiva di eliminare il potere: che è l’illusione anarchica.
Il problema è non lasciarsi risucchiare dal potere, ma criticarlo e cambiarlo, rivendicando ed esercitando costantemente la propria autonomia. E’ un problema che sta già di fronte al grande sant’Agostino e alle prime comunità, quelle delle quali dà conto la Lettera a Diogneto.
E dunque: in chiesa o fuori dalla chiesa? Il dilemma non è nuovo e continuamente si ripresenta.
Don Luigi Sturzo, il prete siciliano fondatore del Partito Popolare Italiano (la Sicilia infatti ha uomini e santi eminenti, e non è abitata soltanto dalla mafia), ripeteva con drastica chiarezza che “la religione unisce, mentre la politica divide”. La difficoltà è ovunque reale. Come affrontarla? Qual’ è il luogo reale nel quale sobornost e solidarietà possono incontrarsi?
La soluzione è stata laboriosamente cercata, con grande fatica, con molti esperimenti, in un tempo non breve. Perché le soluzioni non sono già scritte nella pastorale, ma vanno ogni volta cercate.
La scelta dei cattolici italiani, o almeno di una loro parte, non maggioritaria, ma intensa, illuminata e capace di egemonia culturale, fu di puntare su uno spazio “terzo” tra comunità dei credenti e apparato statale: quello della società civile. E’ la scelta dei “popolari”, detti anche “cattolici democratici”. Don Sturzo stesso prima fu promotore di cooperative, poi fondò negli anni venti il Partito Popolare Italiano. E anche da grande leader nazionale mai cessò di occuparsi della sua città siciliana, Caltagirone, della cartiera e della latteria della sua città, del bosco di San Pietro…
E’ una strategia che ha puntato e punta sui cosiddetti “corpi intermedi”: a partire dalla famiglia e dagli enti locali, come il Comune. “Corpi intermedi” perché stanno in mezzo tra la parrocchia, le comunità e le istituzioni politiche. Si tratta di una strategia che legge e vive la società civile come lo spazio dei movimenti. Movimenti di credenti e non credenti, delle comunità, delle associazioni (le Acli sono una grande associazione di lavoratori credenti), delle cooperative, del volontariato, delle Casse rurali e artigiane, dei circoli famigliari e sociali, delle amministrazioni locali.
Una via, quella dei popolari e cattolici democratici italiani, che si è dunque avvalsa di una elaborazione teorica, quella della Dottrina Sociale della Chiesa, e di una vivace presenza di movimenti e associazioni che ad essa si sono ispirati e ispirano.
In uno scenario che è a pieno titolo quello di un’Europa dalle radici cristiane, che respira tuttora con quelli che il papa Giovanni Paolo II chiamava i due polmoni: quello “occidentale” di Caterina e Benedetto, e quello “orientale” di Cirillo e Metodio.
Scrive di questa Europa Giuseppe Alberigo, perorando un rinnovamento profondo, che prenda cioè atto “del fallimento dell’universalismo, sia come utopia interna, che come ideologia per uso “esterno”. Per questo “occorre avere il coraggio e la fantasia di immaginare un pianeta – e, dunque, anche un continente – composito e nello stesso tempo unito da una fraternità fatta di accettazione reciproca, di complementarietà dei doni e delle capacità di ogni popolo e continente. Dalle vertigini determinate dalla scomparsa di un “avversario” si può uscire invece che cercando “ nuovi nemici” (o, addirittura creandoli), accettando la ricchezza e il rischio della diversità e della alterità? E’ possibile trascendere il “fondamentalismo continentale”, che sembra affliggere gli europei e costringerli in una condizione angusta e storicamente obsoleta?”.[7]
Gli fa eco il Priore di Bose: “Rinnovare l’orizzonte escatologico significa che la chiesa rinuncia ad essere puro strumento di moralizzazione della società, fornitrice di un fondamento etico alla società, per essere invece se stessa, cioè la voce della speranza che proclama il Regno veniente di Dio, la vittoria della vita sulla morte, e la testimonianza dell’amore – agápe ben oltre un’economia di filantropia umana. Rinnovare l’orizzonte escatologico significa anche recuperare nelle cose penultime la dimensione provvisoria di ogni situazione culturale, religiosa e politica e far quindi emergere la necessità della sinfonia tra le differenti culture ed esperienze umane sempre complementari”.[8]
E perché non restino dubbi Enzo Bianchi conclude così il suo intervento: “Vogliamo con l’evangelizzazione convertire gli altri, dare un supplemento religioso alla società e non siamo capaci di riconoscerci fratelli che confessano in un solo battesimo l’unico Signore e così esercitiamo un proselitismo gli uni contro gli altri. Infine vorrei anche ricordare che la chiesa più forte per numero di membri e disponibilità di mezzi deve interrogarsi e tener presente che questa sua posizione di fatto crea difficoltà alla chiesa più piccola, più povera”…[9]
Il lieto annunzio ai poveri
Su tali temi la Chiesa cattolica ha elaborato, a partire dall’enciclica “Rerum novarum” di papa Leone XIII, il patrimonio della dottrina sociale. Essa muove dal presupposto che è impossibile promuovere la dignità della persona se non prendendosi cura della famiglia, dei gruppi, delle associazioni, delle realtà territoriali locali, di tutte quelle espressioni cioè di tipo economico, sociale, culturale, alle quali le persone danno spontaneamente vita e che rendono loro possibile una effettiva crescita sociale. E’ questo l’ambito della già richiamata società civile intesa come l’insieme dei rapporti tra individui e società intermedie che si realizzano in forma originaria grazie alla “soggettività creativa del cittadino”.[10]
La rete di questi rapporti attraversa tutto il tessuto sociale e costituisce la base di una vera comunità di persone, aprendo nel contempo la possibilità di forme più elevate di socialità. Presiede a questa prospettiva il principio di sussidiarietà, elaborato dall’enciclica “Quadragesimo anno” , nella quale tale principio è indicato come importantissimo nella filosofia sociale: “Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle”.[11]
In base a tele principio tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto (subsidium) e promozione rispetto alle minori. In tal modo i corpi sociali intermedi possono adeguatamente svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e per vedersi negata alla fine la propria dignità. Ciò impone allo Stato di astenersi da quanto restringerebbe di fatto lo spazio vitale delle cellule minori ed essenziali della società. Infatti la loro iniziativa, responsabilità e libertà non devono essere soppiantate. E’ un discorso che ritroviamo svolto, riassunto e sottolineato dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa.[12]
Se la sussidiarietà è metodo, la solidarietà è però orizzonte e stile complessivo, in quanto conferisce particolare risalto all’intrinseca socialità della persona umana, all’uguaglianza di tutti in dignità e diritti, al comune cammino degli uomini e dei popoli verso una sempre più convinta unità.
Mai come oggi c’è stata una consapevolezza tanto diffusa e profonda del legame di interdipendenza tra gli uomini e i popoli, legame che si manifesta a qualsiasi livello. E’ sotto gli occhi di tutti il precipitoso moltiplicarsi delle vie e dei mezzi di comunicazione, gli straordinari progressi dell’informatica, l’accresciuto volume degli scambi commerciali e l’invasività dell’informazione. Tutto ciò dice che è ormai possibile, almeno tecnicamente, stabilire relazioni anche tra persone lontanissime e sconosciute.
Ma accanto alle opportunità reali di interdipendenza crescono in tutto il mondo fortissime disuguaglianze tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo, mentre aumentano altresì le disuguaglianze tra coloro che sono inclusi nei sistemi economico-produttivi e coloro che ne sono esclusi. E’ perciò evidente che il processo di accelerazione dell’interdipendenza tra le persone e i popoli deve essere accompagnato da un impegno sul piano etico-sociale altrettanto intenso e determinato. Ciò potrà evitare le nefaste conseguenze di una situazione di ingiustizia di dimensioni planetarie, destinata a ripercuotersi assai negativamente anche negli stessi Paesi attualmente più favoriti.
Ne consegue che le nuove e concrete relazioni di interdipendenza tra gli uomini e i popoli devono trasformarsi in relazioni tese ad una vera e propria solidarietà etica e sociale, rispettando perciò un’esigenza morale presente in tutte le relazioni umane.
La solidarietà deve essere colta, anzitutto, in quanto principio di valore sociale ordinatore delle istituzioni. Ne consegue che le “strutture di peccato”[13] che dominano i rapporti tra le persone e i popoli devono essere trasformate in strutture di solidarietà, operando attraverso le leggi e le regole del mercato. Il Compendio della Dottrina Sociale fa inoltre rilevare che la solidarietà è anche una vera e propria virtù morale, non un sentimento di vaga compassione. Al contrario, essa si presenta come la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, nel senso che tutti siano veramente responsabili di tutto.[14]
Al credente indirizzato alla sobornost come piattaforma per una autentica solidarietà non si addice dunque l’impazienza indotta dall’utopia o dalla neoapocalittica, ma la perseveranza di chi sa attendere il ritorno del Signore, i cui tempi ci sono ignoti. Alla luce della fede dunque la solidarietà va oltre se stessa e riveste la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale. E’ la lezione degli apostoli, così come la lezione di Francesco d’Assisi. E’ così che il prossimo non appare soltanto come un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva immagine di Dio Padre, “riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo”.[15]
Un atteggiamento siffatto richiede sia la pratica dei principi fondamentali della vita sociale, sia l’esercizio personale delle virtù. A partire dalla verità, per la quale gli uomini sono tenuti in modo particolare a rispettarla e ad attestarla responsabilmente, passando per la libertà, che è nell’uomo segno altissimo dell’immagine divina e, conseguentemente, segno della sublime dignità di ogni persona umana. Approdando alla giustizia, che è valore che si accompagna alla corrispondente virtù cardinale e morale. Secondo la più classica formulazione, “essa consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è a loro dovuto”.[16]
Un percorso destinato a snodarsi lungo la via della carità. Perché? Perchè la carità presuppone e trascende la giustizia, e quest’ultima deve trovare il suo completamento nella carità. Non si possono infatti regolare i rapporti umani unicamente con la misura della giustizia: “L’esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa…E’ stata appunto l’esperienza storica che, fra l’altro, ha portato a formulare l’asserzione: summum ius, summa iniuria”.[17]
E’ evidente da tutto quanto detto che la solidarietà non si esaurisce nei rapporti tra le persone, ma si dispiega nella rete in cui tali rapporti si strutturano, che è appunto la comunità sociale e politica. E su questa la solidarietà interviene mirando al bene possibile per la comunità nel suo insieme.
Ho ripercorso un buon tratto della dottrina sociale della Chiesa perché questo serve a chiarire il nostro modo di porci nei confronti di questo magistero.
Torna qui opportuno citare un aureo libretto apparso sul finire degli anni venti con il titolo I tempi e gli uomini che prepararono la Rerum Novarum, e firmato da tal Mario Zanatta. Abbiamo tutti in seguito appreso che dietro lo pseudonimo di Mario Zanatta si nascondeva Alcide De Gasperi, destinato in seguito a diventare il leader della Democrazia Cristiana e uno dei più grandi statisti dall’unità d’Italia in poi. Allora De Gasperi era esule presso la biblioteca vaticana, per sfuggire alle persecuzioni di Mussolini e del fascismo.
Aureo libretto, perché fin dal titolo indica un metodo e dà conto di una ricerca: prima del capolavoro di papa Leone XIII si danno esperienze di lavoratori ed artigiani credenti, riflessioni di cenacoli intellettuali che anticipano e preparano il testo mirabile dell’enciclica. Da coloro che si raccolgono a Magonza intorno all’arcivescovo Von Ketteler, a quanti fanno riferimento, a Londra, al Manning, pater pauperum. E dall’enciclica, una volta pubblicata, riprendono le mosse nuovi gruppi di testimonianza, nuovi cenacoli culturali… E’ la circolarità di un far memoria nel fare esperienza che dà conto del magistero sociale della Chiesa come di coscienza di un popolo di Dio e di lavoratori in camino all’interno di grandi trasformazioni epocali.
Alle origini della famosa enciclica ci sono dunque decenni di preparazione minuta, sul campo, decenni di “opere”, di un movimento associativo che attraversava dal Nord e dal Sud la nostra penisola. “Banche, banchette, cooperative, casse rurali, cantine, latterie, cucine sociali, tutte gravitanti attorno alla parrocchia, ricevono la loro convalida. Non vi è dubbio che questo capitalismo popolare parrocchiale abbia costituito il solo soccorso di cui abbiano beneficiato una gran massa di piccoli proprietari, fittavoli ed emigranti, in anni caratterizzati dalla fuga dei contadini dalle campagne, dall’urbanesimo, da malattie gravissime dovute alla scarsezza di alimentazione”. Così scrive Gabriele De Rosa circa alcuni aspetti del movimento cattolico tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento.
E tutto ciò non basta ancora. Alle origini del magistero sociale ci sono anche le grandi figure di “santi sociali”: da don Bosco a Cafasso, a Cottolengo. Non è stata ancora studiata a fondo la storia della pietà dell’ottocento italiano, la storia della carità sociale in cui si espresse la vita di tante congregazioni religiose, di suore, di preti, di laici che dedicarono la loro vita a soccorrere le miserie spaventose che produceva l’avanzata dell’industrializzazione, dell’economia di mercato, dell’inurbamento, dell’emigrazione.
Ma tutto questo è nella memoria storica dei lavoratori italiani ed in particolare delle ACLI.
La lezione di Mounier
E’ in questa prospettiva storica ed in questo medesimo spazio che Mounier ritorna d’attualità, proprio perché ci consente di ripescare utili strumenti da quel che si è definito un “luogo minerario”, dove stanno cose vecchie e cose nuove, sempre interessanti e non di rado utili per l’oggi.
Per l’impianto complessivo del suo pensiero Jean Marie Domenach ha ricordato che “il capitalismo rappresentava per lui il punto estremo dell’imperialismo della ragione, legato a quello del denaro e della forza”. Ma il marxismo ne era il “figlio ribelle”, o piuttosto il fratello nemico. Fin dall’inizio, distinguendo nettamente l’esperienza rivoluzionaria dall’egoismo dei possidenti, Mounier colse l’unità profonda dei due sistemi antagonisti, ugualmente viziati da produttivismo – ciò che egli chiama per derisione “l’umanesimo Ford-Stalin”. Ed è a partire dall’intuizione acuta dell’omologia dei due sistemi “occidentale” ed “orientale” che la critica dell’ordine stabilito conduce al progetto di una città personalista e comunitaria. Un progetto che si proponga di tenere il campo a dimensione di una crisi totale: crisi che chiede di “disorganizzare in Dio” quel mondo che i teorici della cristianità hanno creduto che la fede imponesse loro di organizzare in Dio. Un progetto che separi la causa del cristianesimo (e dell’uomo) dai regimi borghesi come da quelli autoritari di destra e di sinistra.
L’orizzonte in cui si situa l’intervento di Mounier è dunque quello dell’ottimismo tragico: una volontà di vita che sa stare di fronte alla tragedia storica e l’attraversa. Quale allora il destino della persona gettata nel mondo e nel dominio del tempo? La scelta di Mounier è quella di schierarsi in opposizione a due esperienze fallimentari: l’individualismo e il collettivismo. “L’individualismo è quel diffondersi della persona alla superficie della propria vita e la sua compiacenza a perdersi”.[18] Ancora: “L’individualismo è un sistema di costumi, di sentimenti e di istituzioni che organizza l’individuo sulla base di un atteggiamento di difesa e di isolamento”.[19] Ed invece: “La persona è il volume totale dell’uomo. E’ equilibrio in lunghezza, in larghezza e in profondità, è in ogni uomo una tensione fra le sue tre dimensioni spirituali: quella che sale dal basso e l’incarna in un corpo, quella che è diretta verso l’alto e la eleva ad un universale, quella che è diretta verso il largo e la porta verso una comunione.”[20]
Ma la persona è più spesso circondata dalla desolazione che dalla comunicazione e ci resta “una fragile felicità”.[21]
Siamo così entrati nell’altra opposizione rispetto alla quale si definisce la persona: quella del collettivismo e della massa. Il collettivismo moderno è infatti al di sotto di qualsiasi forma di comunità, non conosce persone, ma individui, masse. Al suo fondo un cieco materialismo non gli consente di andare oltre una dimensione meccanica del sociale.
Dietro questo “buco nero” stanno due ordini di ragioni: di ascendenza filosofica, e storico-politica. In questo quadro la coscienza personale viene considerata estinta perchè giudicata storicamente in effettuale, e sul piano storico-politico pesa la riduzione della politica a mero rapporto di forza operata dal leninismo come dal giacobinismo. Dove la struttura economica determina la struttura giuridica e l’orizzonte dei rapporti di forza (liberismo e marxismo), lo spazio della comunicazione non ha senso, il senso delle relazione elettive, liberamente scelte, viene annullato. Determinismo e comunità stanno agli antipodi: si escludono a vicenda. Eppure l’epoca che si apre è per Mounier l’epoca che sente un crescente bisogno di comunità e quindi di solidarietà.
Pratica e ricerca delle Acli
Tra queste coordinate muove la ricerca e l’esperienza delle Acli. Lo spelling delle Acli stesse risulta da subito interessante dal momento che suona: Associazioni Cristiane (e dunque al plurale, e non cattoliche, come uno si attenderebbe nell’Italia del Vaticano, ma più estesamente cristiane, e l’aggettivo conta e conterà…) Lavoratori Italiani. Dove l’esplicita appartenenza a quella che veniva definita anche in ambito cattolico la “classe lavoratrice” segnava da subito una scelta di campo e un’esigenza di riscatto. E dunque, ancora una volta, sobornost e solidarietà…
Le Acli sono nate nel 1945, nell’immediato dopoguerra. Hanno attualmente 600 mila iscritti e 6 mila circoli territoriali. Sono presenti sul territorio italiano e a seguito dei lavoratori italiani emigrati all’estero in Europa: Svizzera, Belgio, Francia, Germania, Regno Unito. Negli Stati Uniti e in America Latina: Brasile, Colombia, Cile, Uruguay, Venezuela. In Argentina, dove la metà della popolazione è di origine italiana, gli aclisti sono 20 mila.
Credo che la metafora più accredita per dar conto delle Acli, della loro multiformità e della loro non facile storia, sia quella del volo del calabrone; come tante altre, prodotta dalla genialità immaginativa di Livio Labor, inevitabile punto di riferimento tra quanti hanno ricoperto la carica di presidente nazionale. Nel senso che in ogni fase e stagione l’Associazione è chiamata a reinventarsi un mestiere, coordinando al meglio movimento e servizi. Si tratta al contempo di una necessità, di un rischio, di una grande opportunità. L’Associazione si riorienta, si riattrezza, si vede costretta a rielaborare una cultura che le consenta di viaggiare con una nuova bussola verso il Nord. E bisogna constatare che fin qui ci è sempre riuscita.
Tutto ciò obbliga ogni volta a fare i conti con le radici e con la storia. Perché nell’impegno sociale, diversamente che nella vita, i genitori uno li deve scegliere, con discernimento, attento a non allargare a dismisura l’albero genealogico per non fare confusione… Del resto chi non sa da dove viene non sa neppure dove dirigersi. E le Acli hanno oculatamente avuto cura della propria storia e quindi anche della storiografia. Delle cose scritte su di noi ci importa, non per il gusto di rimirarci in un gioco molteplice di specchi, ma perché siamo ogni volta, in ogni fase, chiamati a ricostituire un punto di vista dal quale progettare futuro. Achille Grandi, il fondatore, ne aveva, già agli inizi, piena avvertenza: “Non so se faremo un tentativo destinato a fallire o se faremo un esperimento di portata storica. Abbiamo il merito di aver affrontato un grande compito”.
Non mancano, ad ogni stagione, problemi di macchina e di cambusa. Diceva del resto il primo assistente ecclesiastico, mons. Luigi Civardi, che le Acli “avevano scelto di arrivare al cuore della gente passando per lo stomaco” …, via quantomeno realistica. Alludeva infatti all’immediato e difficile dopoguerra quando i circoli Acli erano luoghi di distribuzione di pacchi di pasta e di zucchero forniti dalla Pontificia Opera di Assistenza e di coperte UNRRA consegnate dagli alleati statunitensi, che, tinte di un colore più appropriato, si trasformavano in utili cappotti per reggere al rigore dell’inverno. Possiamo in proposito usare il titolo del Convegno sui mali di Roma del 1976: “Evangelizzazione e Promozione Umana”, dal momento che la pratica solidale aclista anticipa di trent’anni il titolo del Convegno voluto da mons. Bartoletti.
Ha scritto Clemente Rebora, nei Frammenti (31 ottobre 1955):
Fatalità tremenda del mangiare
che grava addosso all’anima che vola!
Ma proprio questa ingegneria aclista richiede un più di riflessione. Riorganizzare una associazione significa occuparsi anzitutto della sua anima.
Le Acli non si discostano dalle “tre fedeltà” indicate dal presidente nazionale Dino Penazzato, e cioè: fedeltà alla classe lavoratrice; fedeltà alla democrazia; fedeltà alla Chiesa. Diceva Dino Penazzato in quel primo maggio del 1955: “Una triplice fedeltà guida ed illumina il nostro impegno di oggi e di sempre”, quasi ad indicare tre piani in sintonia e tra loro articolati dentro un’idea forte di cristianità da promuovere.
I valori fondativi dell’Associazione sono non a caso definiti dall’ articolo 1 dello Statuto che afferma: “Le ACLI fondano sul messaggio evangelico e sull’ insegnamento della Chiesa la loro azione per la promozione della classe lavoratrice e organizzano i lavoratori cristiani che intendono contribuire alla costruzione di una nuova società in cui sia assicurato secondo giustizia lo sviluppo integrale dell’ uomo”.
Dunque fra i valori fondativi cui le ACLI affermano di voler essere fedeli vi sono il Vangelo e l’insegnamento sociale della Chiesa, vi sono gli interessi dei lavoratori e vi è l’ ideale di una società più giusta e quindi più democratica.
Ognuno di questi valori rimanda ad una modalità di azione che, pur nella diversità delle situazioni concrete e nel mutare dei tempi, sia comunque sempre tesa alla testimonianza di questi valori fondativi, e che impregni di essi gli obiettivi concreti che di volta in volta il Movimento, i suoi servizi, le sue imprese sociali e le realtà comunque afferenti alle Acli perseguono.
Ma tali valori, tali principi, non possono essere intesi come una pura e semplice enunciazione di buoni propositi, ma debbono essere assunti come capacità di creare e di orientare in termini nuovi le forme tradizionali di presenza del Movimento. Ecco dunque imporsi la necessità di un costante approfondimento nello studio e nella prassi di ognuno di questi riferimenti valoriali nel loro significato più profondo, sia per quanto riguarda l’ evolversi della comprensione del ruolo del Vangelo e dell’ insegnamento della Chiesa nella complessità della realtà sociale , sia per quel che concerne una concezione del mondo del lavoro che sia ancorata alle persone dei lavoratori, ai loro bisogni e ai loro interessi, più che a meccanismi astratti e lontani dall’ esperienza di vita concreta delle persone.
Non sappiamo quanto fondamento abbiano alcune astrazioni sociologiche sulla società del non lavoro, ma intanto dobbiamo rilevare come la quantità di lavoro disponibile vada complessivamente diminuendo e quanto stia mutando l’atteggiamento di almeno una parte delle giovani generazioni (ma anche di quelle meno giovani) che, più che alla ricerca e al mantenimento della stabilità del lavoro e del reddito, sembra maggiormente preoccupata di mantenere e accrescere in qualsiasi modo i livelli di consumo acquisiti e che diventano i nuovi parametri di riconoscimento sociale.
Si aggiunga che fino agli ultimi decenni del secolo scorso le politiche del lavoro e le politiche attive del lavoro avevano l’obiettivo della tutela e dello sviluppo del lavoro dipendente, che era connotato da forme giuridiche e parametri certi che lo distinguevano nettamente dal “non lavoro”(quello economicamente non produttivo, o marginale), dal lavoro autonomo, dal lavoro imprenditoriale. Ora la frammentazione dei sistemi produttivi, la flessibilità dei mercati del lavoro e l’alto grado di competitività introdotta dalla concorrenza internazionale vanno affievolendo quelle caratteristiche e quei parametri, al punto che molta parte del lavoro autonomo è tale nella forma giuridica, ma sostanzialmente subordinato a organizzazioni che hanno decentrato o esternalizzato parti dei processi produttivi, che molto volontariato sociale, gratuito o in qualche modo ricompensato, è indispensabile all’erogazione di alcuni servizi, che nascono decine di migliaia di imprese in cui l’imprenditore è anche l’unico occupato.
Allora ci pare che elaborare, proporre e attuare oggi politiche del lavoro significhi innanzitutto ridefinire i soggetti di tali politiche, ampliando la tipologia degli appartenenti alla categoria ‘lavoratore’ per includervi chi il lavoro lo cerca, gli atipici/flessibili/precari, gli stagisti- borsisti- perfezionandi a vita, ma anche il lavoro irregolare, quello in nero e clandestino.
Ma restare fedeli a se stessi e alla propria missione in tempi diversi implica necessariamente una lettura evangelica dei “segni dei tempi”. Di più, richiede la capacità di non limitarsi a un pensiero difensivo, ma di elaborare un pensiero critico. Quel “nucleo fondativo” dove una grande memoria si solidifica per consentire lo slancio verso un grande futuro. E’ in tal senso essenziale il fare memoria. Così come è essenziale il confronto con le frontiere più avanzate delle trasformazioni che stiamo attraversando. Ma a partire da quel nucleo fondativo originale (e potrei perfino dire identitario) che consente di discernere e di “piegare” in senso aclistico la realtà.
Perché? Perché se ti modernizzi senza criticare e senza discernere passi dalla parte dell’avversario, ti iscrivi non ai segni dei tempi, ma allo spirito del tempo. Sperperi il tuo sale fino a renderlo insipido. E’ questa cautela, anzi, questo rigore che deve attraversare l’elaborazione: seminari e convegnistica, ma, se fosse possibile con un più di radicalismo, la prassi quotidiana. Perché, insisto, se cresce soltanto la modernizzazione, ci ritroviamo dall’altra parte, dalla parte dell’avversario. E le Acli, lo desiderino o meno, sono in ogni loro stagione obbligate a prendere parte, a diventare una parte. Non è un’opzione. Si tratta di vocazione. Detto con il linguaggio manageriale dell’attualità, si tratta, appunto, di mission… Dal momento che il conflitto non è eliminabile dai rapporti sociali. Dal momento che la politica e l’amministrazione che sono chiamate a costruire la città dell’uomo sono insieme polis (città) e polemos (guerra). E comunque non mettendo mai tra parentesi il fondamento di una solida sobornost: viene in proposito alla mente il grande De Lubac: “Christus hodie, heri et semper”…
Non è dunque uno slogan “dall’ispirazione cristiana alla vita cristiana”. E’ la fotografia, o meglio il film di un percorso che tutta l’Associazione ha fatto.
Lo stesso incontro col Papa in Sala Nervi nel dicembre del 1991, dopo vent’anni di “astinenza”, è il traguardo e insieme il riconoscimento di questo percorso.
La nostra esperienza di aclisti aveva incontrato a partire dagli anni settanta grandi difficoltà perché il mondo del lavoro, la classe operaia erano attraversati da grandi trasformazioni: nella tecnologia, nella struttura stessa delle imprese, nei comportamenti, nelle ideologie, nella cultura. Anche dal punto di vista della testimonianza le Acli si erano trovate in prima linea.
Uno dei maggiori pensatori della sinistra italiana in un libro – il più bel libro del marxismo italiano del dopoguerra, Operai e Capitale, che finisce con un capitolo intitolato “Marx a Detroit” – definisce i lavoratori “rude razza pagana”… Noi lì in mezzo eravamo a testimoniare: con gli stessi problemi, le stesse difficoltà, un progetto di mondo. Venne anche un aiuto decisivo da un vecchio domenicano francese, più volte già citato: Marie Dominique Chenu. Avevo letto un suo libretto sulla Dottrina Sociale della Chiesa. Lo chiamai al telefono al convento parigino di Saint Jacques. Lui venne a Milano e nel cinemino dei Salesiani in via Copernico lanciò la parola d’ordine del movimento operaio come luogo teologico. Fu una boccata d’ossigeno. Una illuminazione che attraversò tutta l’associazione.
Anche perché le Acli hanno l’abitudine di riflettere su se stesse. Di fare formazione, come si dice in gergo. Qualcuno brontolava per questa abitudine. Diceva: siamo tutti testa e poche gambe. La mia risposta era che non c’è pericolo a questo mondo d’essere troppo intelligenti…
Ora, il credente se non testimonia con la vita e con le opere, anche collettive, è una specie di turista della fede. E quindi la vita cristiana per gli aclisti era importante ieri. E’ centrale oggi e lo sarà domani. Non basta metterla negli statuti.
Perché in Italia le Acli partecipano per essenza, fin dall’inizio, e al mondo cattolico e al movimento operaio. Due mondi sovente divaricati. Solo l’autonomia del laicato può fare da ponte perché gli aclisti crescano e possono crescere in partibus infidelium. Perennemente in equilibrio instabile. Sono credibili per i lavoratori se non hanno perso la benedizione dei Vescovi. Sono utili alla Chiesa se “fanno apostolato” tra i lavoratori.
Questa condizione genera una domanda teologica dentro le Acli. Essa viene affrontata soltanto parzialmente con la presenza istituzionale degli assistenti. Viene talvolta evitata dagli aclisti quando si sentono impreparati a sostenere il confronto. Due furbizie imparano così a coesistere, cercando di evitare le emergenze. Difficoltà e conflitti vengono affrontati e risolti sul piano pastorale, dove buonsenso e sano pragmatismo (oltre al reciproco riconoscimento di sane convenienze) possono incontrarsi.
L’autonomia del laicato pone interrogativi su tutti i fronti, da una parte e dall’altra. Mi riuscì di convincere a metà degli anni settanta il cardinale di Milano, Giovanni Colombo, che “sì, è vero, le Acli lasciano sul campo morti e feriti, ma questo discende dalla loro vocazione che è, appunto, di essere a cavallo di due mondi in attesa di riconciliazione”. Conclusione fulminea e inaspettata del cardinal Colombo: “Se le Acli non ci fossero, bisognerebbe inventarle”.
Non è dunque affermazione da convegno sostenere che sobornost e solidarietà si tengono indissolubilmente nella lunga e contrastata storia delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani. Anzi, la loro mission consiste nel praticare insieme questi due territori: e quando essi divaricano le difficoltà sono destinate ad aumentare così come lo sforzo di lettura dei segni dei tempi. La nostra storia originale è lì a testimoniarlo.
Non una spiritualità disincarnata, ma il soffio dello Spirito Santo che attraversa una società dove nuovi saperi e poteri si accavallano, insieme a nuove potenzialità e a nuove dolorose esclusioni. Crisi di identità, con il rischio di fughe all’indietro o in avanti, non ci sono risparmiate.
Ma il calabrone continua a volare. E vola in una fase storica che si sta concludendo. Quando ricordiamo il nostro passato, non dimentichiamo che è il futuro che dà senso al passato. Non dimentichiamo che il credente deve essere sempre disponibile a rimettersi in cammino. Deve tenere le valigie pronte. Non ci sono soluzioni per ogni stagione. Ma ogni tempo può contare su una puntuale sollecitazione dello Spirito.
[1] A Diogneto, cap. V.
[2] Angelo Scola, Una nuova laicità, Marsilio, Venezia, 2007, pp. 27-28.
[3] Ibidem, p. 31.
[4] Ibidem, p. 32.
[5] Ibidem, p. 33.
[6] Ibidem. p. 34.
[7] Giuseppe Alberigo e Enzo Bianchi, La fede cristiana nella costruzione dell’Europa, Edizioni Comunità di Bose, Vercelli, 1993, p. 20.
[8] Ibidem, p. 24.
[9] Ibidem, p. 26.
[10] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Sollecitudo rei socialis, 15.
[11] Pio XI, Lett. Enc., Quadragesimo anno; AAS 23 (1931) 203.
[12] Cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria editrice vaticana, Roma, Città del Vaticano, 2004.
[13] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Sollecitudo rei socialis, 36-37; AAS 80 (1988) 561-564.
[14] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Sollecitudo rei socialis, 38 AAS 80 (1988) 565-566.
[15] Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, op.cit., p. 108.
[16] Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 58, a. l: Ed. Leon. 9, 9-10: “iustitia est perpetua et constans voluntas ius suum unicuique tribuendi”.
[17] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Dives in misericordia, 12: AAS 72 (1980) 1216.
[18] E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, Comunità, 1955, p. 87.
[19] E. Mounier, Il personalismo, Roma, Ave Minima, 1974, p. 47
[20] E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, Comunità 1955, pp. 90 -91.
[21] E. Mounier, Il personalismo, cit. p. 52.