Non come Pilato. Cattolici e politica nell’era di Francesco. Il testo che esaminiamo è in sostanza una raccolta di riflessioni del prof. D’Ambrosio a partire da quell’evento veramente spiazzante che è stata l’elezione di Papa Francesco nel marzo 2013 e del ricco Magistero che questo Pontefice sta donando alla Chiesa e al mondo.
Occorre dire subito una cosa: questo Magistero è spiazzante per tutti. Lo è per coloro che, come rileva D’Ambrosio, avevano stabilito da tempo un’impropria alleanza fra cristianesimo e liberismo, e si trovano davanti un Pontefice che parla di periferie esistenziali, che chiede ai pastori di avere l’odore delle pecore e ripudia la mondanità e la ricerca della ricchezza, e soprattutto denuncia in termini strutturali un sistema di potere basato sull’oppressione dell’uomo, smitizzando le derive ideologiche di ciò che si è definito “occidentalismo” o pensiero neo conservatore.
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1. premessa di Giovanni Bianchi 09’14” – 2. introduzione di Lorenzo Gaiani 21’50” – 3. relazione di Rocco D’Ambrosio 1h 03’06” – 4. domande 07’34” – 5. risposte di Rocco D’ambrosio 16’44” – 6. domande 11’40” – 7. risposte di Rocco D’Ambrosio 23’01” – 8. chiusura di Rocco D’Ambrosio, Lorenzo Gaiani, Giovanni Bianchi 20’01”
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Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Rocco D’ambrosio
IL POTERE E LE SUE SEDUZIONI
– Impressioni dalla lettura di “Non come Pilato” di Rocco D’Ambrosio – di Lorenzo Gaiani
Il nostro Circolo, costituitosi ormai quasi vent’anni fa sotto il nome augurale di Giuseppe Dossetti, ha sempre fatto della riflessione sul legame fra spiritualità, formazione e politica il centro della propria attività, assumendo come esigenza fondamentale quella di una “politica pensata” in anni in cui sembra invece prevalere una politica emozionale, basata sulla logica di schieramento più che sull’adesione intima a certi valori .
In questo senso, era quasi inevitabile che la nostra strada si intrecciasse prima o poi con quella di Rocco D’Ambrosio, presbitero della Diocesi di Bari – Bitonto, docente di teologia alla Gregoriana e soprattutto animatore del periodico “Cercasiunfine” _ un nome che deriva direttamente da don Milani e dalla sua esperienza- che è l’anima di numerose scuole di formazione politica.
Il testo che esaminiamo oggi è in sostanza una raccolta di riflessioni del prof. D’Ambrosio a partire da quell’evento veramente spiazzante che è stata l’elezione di Papa Francesco nel marzo 2013 e del ricco Magistero che questo Pontefice sta donando alla Chiesa e al mondo. Occorre dire subito una cosa: questo Magistero è spiazzante per tutti. Lo è per coloro che, come rileva D’Ambrosio, avevano stabilito da tempo un’impropria alleanza fra cristianesimo e liberismo, e si trovano davanti un Pontefice che parla di periferie esistenziali , che chiede ai pastori di avere l’odore delle pecore e ripudia la mondanità e la ricerca della ricchezza, e soprattutto denuncia in termini strutturali un sistema di potere basato sull’oppressione dell’uomo, smitizzando le derive ideologiche di ciò che si è definito “occidentalismo” o pensiero neo conservatore.
Ma lo spiazzamento, ripeto, è generale, riguarda anche coloro che furono critici con il pensiero mainstream della Chiesa italiana negli ultimi decenni, perché Francesco non è venuto dalla fine del mondo a schierarsi da una parte o da un’altra di una battaglia fra ombre in cui veramente i morti dovrebbero seppellire i morti.
In qualche modo, e senza quasi dire una parola in proposito, Jorge Bergoglio si lascia alle spalle le defatiganti e spesso dolorose querelles circa la validità e la corretta interpretazione del Vaticano II in quanto egli spontaneamente e senza difficoltà vive – nella sua condizione di Vescovo e ora di pastore della Chiesa universale – quella straordinaria assise come parte integrante della Tradizione ecclesiastica .
“Il Concilio Vaticano II – ha scritto nella sua prima enciclica, quella redatta “a quattro mani” con il suo predecessore – ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni”. La stessa questione a lungo dibattuta della collegialità episcopale, rimessa all’ordine del giorno non solo dalla percezione dell’inutilità dell’istituto sinodale così come esso è attualmente, ma anche dalla crescente insofferenza degli episcopati più lontani dal Vaticano dell’eccessivo e spesso controproducente potere della Curia romana, è oggetto di uno studio approfondito. Esso non coinvolge soltanto il Consiglio dei Cardinali per la riforma del governo ecclesiastico che il Papa ha istituito solo un mese dopo la sua ascesa al pontificato (e alla cui guida ha chiamato un altro latinoamericano, l’honduregno Rodriguez Madariaga, da sempre critico verso i meccanismi curiali), ma va probabilmente a modificare alcuni aspetti non marginali della struttura della Chiesa.
Qualcuno ha accusato il Papa di abbandonarsi anche lui alla deriva populista.
Se dobbiamo dar retta alla politologia più recente, la miglior definizione di populismo è quella di Daniele Albertazzi e Duncan Mc- Connell, per i quali il populismo è “un’ideologia secondo la quale al “popolo” (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle “elite” e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del “popolo sovrano”.”
Nella logica populistica non esistono le classi sociali; ed i richiami in ordine alle rivendicazioni economiche e sociali, che pure vi sono, non sono inseriti in un ordine coerente ma vengono, per così dire, affogati in una concezione del “popolo” come se fosse un tutt’uno da contrapporre ad una “casta” di privilegiati che quasi sempre è composta non dalle élites economiche ma dai politici professionali, o dai ceti intellettuali, o magari dai sindacati, in nome di una concezione della democrazia che si esercita nel rapporto fra il Capo e la folla. E tuttavia, non è possibile che la critica del populismo ci faccia dimenticare il popolo: in altre parole, se il modo di porsi dei populisti suscita ben a ragione non poche perplessità e preoccupazioni, è inevitabile rilevare che se esso è riuscito nel corso di qualche mese a divenire – sia pure di poco – il primo partito del Paese è perché ha impattato domande sociali che altrove non trovavano risposta.
Una chiave interpretativa della “politica” di Francesco ha provato a fornirla un suo amico, il prof. Francisco Mele, che gli è succeduto sulla cattedra di psicologia del Collegio gesuitico del Salvador di Buenos Aires. Egli guarda al nuovo Pontefice come ad un esponente della “teologia del popolo”, intesa come “superamento della teologia della liberazione, pur non rinnegandola. I teologi della liberazione si ispiravano ad un’interpretazione socio-strutturale di carattere marxisteggiante . I teologi del popolo (…) non credono nelle classi ma appunto nel popolo. Con una speciale attenzione ai poveri, che in America Latina sono ancora tanti, troppi. Bergoglio vuole una Chiesa “dei poveri per i poveri”, schierata al fianco del popolo sofferente, umiliato, tradito dalle élite ed esposto alle insidie dell’individualismo edonistico-libertario, del capitalismo selvaggio e della globalizzazione imperialista (…) Per il papa vale l’idea per cui la dottrina ci insegna in chi credere, ma il popolo ci insegna come credere”.
La veridicità di queste asserzioni emerge chiaramente anche dal testo di D’ Ambrosio, e non si può negare che molti indizi in questo senso siano stati lasciati dal card. Bergoglio in alcune sue dichiarazioni degli scorsi anni, che ovviamente non ebbero alcuna eco in Italia e in Europa. Ad esempio, parlando della “condanna” della teologia della liberazione avvenuta sotto Giovanni Paolo II ad opera del card. Ratzinger, Bergoglio afferma : “Non parlerei neppure di una condanna in senso legale di certi aspetti, bensì di una segnalazione. […] Il rischio era di snaturare una cosa che la Chiesa ha chiesto nel Concilio Vaticano II e che da allora non ha mai smesso di ripetere: bisogna trovare il cammino giusto per rispondere alla preoccupazione per i poveri,esigenza evangelica assolutamente imprescindibile e centrale”. E ancora: “Più gli agenti pastorali scoprono la pietà popolare, più l’ideologia decade, perché si avvicinano alla gente e ai suoi problemi con un’ermeneutica reale, tratta dal popolo stesso”.
Dunque, la “politica” di Bergoglio è per i poveri e in mezzo ai poveri, in una logica che scarta la dimensione avanguardistica ed elitaria, ma che valorizza la dimensione complessiva dell’approccio alle problematiche sociali senza mai dimenticare che l’ottica da cui partire è quella della povera gente. E in qualche misura questo pensiero si riflette anche sulla comunità ecclesiale nel suo complesso, come quando afferma: “Vorrei anche chiarire che, quando si parla di ‘Chiesa’ – soprattutto sui giornali – si tende a parlare dei vescovi, dei preti, della gerarchia; ma la Chiesa è tutto il popolo di Dio”.
Salutare ammonimento, si potrebbe dire, sia nei confronti di una certa iattanza clericale, sia nei confronti della superficialità con cui di certe vicende ecclesiali si parla da parte di giornalisti che preferiscono dar credito ad ogni spiffero curiale piuttosto che all’esperienza vivente della comunità ecclesiale.
La povertà e l’esclusione sociale diventano quindi la chiave interpretativa della storia, conducendo così ad un capovolgimento dell’ottica abituale, ed assume quindi significato la scelta del Papa, come prima dell’Arcivescovo, di vivere poveramente e di amare quei sacerdoti che mescolano la loro vita con quella del popolo, i famosi “pastori che hanno l’odore delle pecore”, secondo una felice immagine coniata dallo stesso Francesco.
Eccoci dunque all’“hic Rhodus hic salta”, che non solo conduce ad una denuncia della strutturale ingiustizia del sistema politico e sociale che domina il nostro pianeta, richiamando l’assai poco approfondita categoria delle strutture di peccato, che Giovanni Paolo II aveva coniato oltre venticinque anni fa nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, e che è stata ripresa dal nuovo Catechismo universale senza, peraltro, che vi fosse un tentativo sistematico di definire quali fossero queste strutture e come operare per superarle. Ma un richiamo indiretto viene anche per quei molti progressisti da salotto del Primo Mondo che la miseria dei “dannati della Terra”, perusare la sempre efficace espressione di Frantz Fanon, la conoscono solo per sentito dire, e che spesso barattano la loro impotenza ad immaginare una struttura sociale più giusta con una serie di battaglie sui “diritti”che dimenticano come il primo diritto sia quello a vivere dignitosamente. In qualche misura assomigliano anch’essi a quei teorizzatori del “giusto mezzo” che non hanno la grandezza filosofica degli ideologues francesi del XIX secolo, ma ricordano piuttosto certi critici della virtù ascetica del cardinale Federigo Borromeo che, come scrive il Manzoni, “predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi”.
Tanto più che Bergoglio non è affatto un ingenuo o un sognatore. In quello che è forse il suo testo “politico” più organico, sviluppatosi da un discorso pronunciato nel 2010 per il bicentenario dell’indipendenza argentina, egli ricorda che “bisogna farsi carico del conflitto, bisogna viverlo, ma ci sono diversi modi di assumerlo. Uno è quello adottato dal sacerdote e dal levita di fronte al pover’uomo sulla via da Gerico a Gerusalemme. Vedere il conflitto e voltarsi dall’altra parte, dimenticarlo. Chi evita il conflitto non può essere cittadino, perché non lo assume, non se ne fa carico. È un abitante che di fronte ai conflitti quotidiani se ne lava le mani. Il secondo modo è prender parte al conflitto e restarne imprigionato. […] Il terzo modo è immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo”.
È significativo questo passaggio perché segna un diverso approccio alla questione del conflitto – in primis, ovviamente, quello sociale – che la dottrina sociale della Chiesa ai suoi esordi semplicemente negava riducendolo a cattiva disposizione d’animo fra ricchi e poveri, e che i successivi sviluppi hanno riconosciuto mettendolo tuttavia fra parentesi, soprattutto alla luce della tormentata relazione con il marxismo che sul conflitto sociale costruiva la sua architettura. Il Papa non nega il conflitto, anzi dice che chi lo fugge è un cattivo cittadino e forse primariamente un illuso, ma invita a guardare in fondo al conflitto e cercare di costruire a partire da esso, anche tramite un duro scontro, una sintesi superiore che non escluderà ulteriori conflitti ma permetterà alla dialettica sociale di progredire.
Più avanti Bergoglio propone la sua peculiare visione del rapporto fra cittadini, società civile e Stato, affermando che : “Le persone sono soggetti storici, cioè cittadini che formano un popolo. Lo Stato e la società devono creare le condizioni sociali atte a promuovere e tutelare i loro diritti e a consentire loro di essere costruttori del proprio destino. Non possiamo ammettere che si consolidi una società duale. […] Questo debito sociale esige la realizzazione della giustizia sociale. (…) Dobbiamo recuperare la missione fondamentale dello Stato, che è quella di assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà (…). C’è consenso nell’accordare allo Stato una presenza più effettiva nella questione sociale. Lo Stato e la società devono lavorare insieme per rendere possibili questi cambiamenti e modificare alla radice l’affronto dei problemi di disuguaglianza e distribuzione”.
Ben a ragione, nella sua introduzione all’edizione italiana di questo testo, mons. Mario Toso, noto studioso salesiano della Dottrina sociale della Chiesa ed ora Vescovo di Faenza, può annotare come nel pensiero del nuovo pontefice “la vera democrazia mira a sradicare la povertà e a perseguire lo sviluppo integrale per tutti”. Se ne può concludere che la questione democrazia per Bergoglio è essenzialmente una questione di sostanza e non di procedura: una democrazia formale che si limiti all’enunciazione di taluni principi senza dare loro sostanza, consolidando la supremazia del forte sul debole, non serve a nulla, è finzione e inganno e prepara da sé la propria rovina.
Ma allora da qui di pongono degli interrogativi, che vorrei condividere con il prof. D’Ambrosio e con tutti voi, a partire da quello per me (come credo per tutti coloro che fanno politica, in particolar modo se credenti), che è quello del rapporto con il potere, quel potere che, come scrive D’Ambrosio può essere “bestia o grazia”, può essere strumento per il bene o idolo da adorare.
A me pare che qui stia o cada ogni discorso realistico in materia politica fra credenti, superando la retorica spesso stucchevole e mielosa della politica come servizio che spesso assurge a discorso della domenica, quello che si fa per scaricarsi la coscienza ma poi lascia le cose come prima e peggio di prima.
Il potere esiste, ed il suo esercizio è per l’appunto l’oggetto di quella scienza o arte che si chiama politica: parlare della politica disgiungendola dal potere equivale a parlare di amore disgiungendolo dal sesso, e non è un caso che in ambito cattolico questi due tipi di discorsi distorti vadano di pari passo , con conseguenze catastrofiche.
Il potere ed il sesso sono due forze terribili ed affascinanti, hanno una loro profonda consistenza e toccano la vita di ognuno di noi chiedendoci di rapportarlo ad essi. Quanti individui mutilati nella profonda essenza di sè, quanti matrimoni infelici ha generato un certo modo “cattolico” di parlare dell’amore come se il sesso fosse una specie di necessità sporca di cui parlare il meno possibile?
E quante figure patetiche e mediocri di politicanti di infimo livello hanno generato i discorsi sulla politica che pensavano di prescindere dalla dimensione del potere, dalle sue tentazioni, dalle sue infinite possibilità di far bene o far male?
Perchè si può partecipare a tutti i corsi matrimoniali che si vogliono, si può frequentare ogni scuola politica diocesana, ma alla fine queste due grandi forze presentano il conto, e se non incontrano una persona adulta e formata ma un ragazzino immaturo con in testa quattro concetti astratti possono rapidamente asservirlo e stritolarlo.
Torniamo quindi al problema di sempre, a quello della spiritualità che deve plasmare coloro che sono vocati a misurarsi con la forza straordinaria del potere, una spiritualità insieme esigente e realistica, che sappia chiamare le cose con il loro nome ed educhi a non distogliere mai lo sguardo dal fine “onesto, grande, che chiede null’altro che essere uomini” anche attraversando il campo minato delle tentazioni.
Trascrizione della relazione di Rocco D’Ambrosio
Buon giorno a tutti, grazie per l’invito, grazie a Giovanni Bianchi e agli amici del Circolo. Sono contento di stare con voi perché credo che il pontificato che stiamo vivendo è un dono di Dio, ma i doni di Dio non sono facilmente comprensibili, quindi quanto più moltiplichiamo gli incontri, le riflessioni, gli scambi di opinioni, insomma io dirò qualcosa, ma poi mi fa piacere sentirvi e confrontami con voi.
Del resto, quella che abbiamo ascoltato non è stata una introduzione, è già stata una parte della mia relazione, io sono contento delle cose profonde che hai detto e cercherò anche di riprenderle. Dico solo a mo’ di introduzione che questo pontificato, che tra l’altro mi ha portato a scrivere sia questo testo e un altro testo che è uscito sull’aspetto della riforma di papa Francesco, è un pontificato sovraesposto mediaticamente e lo dico con una battuta: gli amici vaticanisti prima, con gli altri pontificati, mi chiamavano perché veniva nominato un monsignore, un cardinale, una nuova nomina, mi dicevano: dammi una mano, io devo riempire mezza pagina, non so che scrivere su questo. Ora invece le telefonate vertono su altro: dammi una mano a selezionare la quantità di materiale che così domani ho mezza pagina. Infatti, ieri chiacchieravo con un’amica che lavora all’ANSA, mi dice: oggi hai capito la notizia è Radio Maria, quindi proviamo a dire qualcosa sui terremoti e sui castighi divini. È un pontificato sovraesposto mediaticamente.
Quindi, il papa parla spesso alla mattina a Santa Marta, poi ha degli incontri, dei gesti anche molto belli, ha anche un seguito, ripercussioni, e quindi nella sovraesposizione mediatica il rischio che corriamo noi credenti, perché, attenzione, non è colpa dei giornalisti, anch’io sono giornalista, i giornalisti fanno il loro mestiere. Il problema è che noi credenti ci dovremmo fermare ogni tanto invece di riflettere solo sulla frase a effetto, sullo slogan che il papa ha detto, riflettere anche su quello che sta succedendo. Fra l’altro, i denigratori del papa, che sono tanti ma che non voglio qui affrontare, spesso sono quelli che dedicano più attenzione al papa, vivisezionando i suoi discorsi, andando a caccia di eresie o di altro.
Beh, questo a mo’ di introduzione. In termini generali, la riflessione che farò io la pongo su un dato conciliare che credo vi appartenga e su cui avete spesso riflettuto. Cioè, noi lavoriamo per fedeli laici che sono cittadini responsabili, maturi, formati, come dirò, nella Chiesa e nel mondo, a seconda delle varie vocazioni personali. Ed è questo il Concilio, né più, né meno. Il papa stesso, in un’intervista ad Antonio Spadaro, dice: io non voglio cambiare niente, io ho ricevuto un mandato che è quello di continuare l’attuazione del Concilio, poi lo riprende in una conferenza stampa, e poi stare attento ad alcuni elementi di riforma. E in questo si inserisce il nostro discorso di questa mattina. Cioè, è un papa che dottrinalmente, al di là di quello che si scrive, alcune volte per ignoranza, altre volte per malafede, non dice niente di nuovo. Lo ridice il Concilio naturalmente alla luce della sua esperienza, alla luce del suo vissuto, ma come ha fatto anche Benedetto XVI, come ha fatto anche Giovanni Paolo II e Paolo VI, ognuno reinterpreta un testo, lo riattualizza alla luce di quello che è, sente, crede nella storia.
E in questo pontificato io vedo una sottolineatura di alcuni problemi, di alcune sfide che riguardano i cattolici impegnati nel mondo. E anche qui sono le sfide di sempre, ma sono delle sfide in cui noi ritroviamo degli elementi nuovi, degli elementi antichi; l’immagine è quella dello scriba buono, come dice Gesù, che sa trarre dal suo tesoro ciò che è antico, ciò che è valido, ma anche ciò che è nuovo. Ma questa è la dinamica della parola di Dio.
E queste sfide, secondo me, sono cinque, su cui mi voglio soffermare brevemente. Quella della formazione, la seconda è il problema dell’appartenenza, quella della spiritualità che qui ho scritto come essere del Signore, poi ritornerò, anche tu hai fatto riferimento alla spiritualità, la questione potere a cui accennavi poco fa e il problema della corruzione (poi vi lascio questo materiale).
Allora parliamo prima di tutto di formazione. Il vostro circolo nasce per formare. Non abbiamo ancora scritto una storia della formazione sociale e politica in Italia, ovviamente parliamo dell’Italia negli anni del dopo Concilio, ma prima o poi dovremo farlo perché io ho lavorato con la CEI quando eravamo al massimo storico delle scuole di formazione politica; in Italia ci sono 240 diocesi grosso modo, e c’erano 220 scuole di formazione politica diocesane, attualmente ce ne sono un’ottantina. Quindi, è un elemento storico da tener presente. Il dato è quello conciliare, il Concilio nella Gaudium et spes scrive che bisogna curare assiduamente l’educazione civica e politica, oggi particolarmente necessaria sia per l’insieme del popolo, sia soprattutto per i giovani, affinché tutti i cittadini possano svolgere il loro ruolo nella vita della comunità politica.
La capacità di sintesi che aveva il Concilio la conosciamo, potremmo fare molte sottolineature. Io inizierei dall’assiduamente. L’assiduamente è stato molto trascurato: le parrocchie, i movimenti, i gruppi, le associazioni, le diocesi hanno avuto con l’educazione civica e politica un rapporto schizofrenico; e siamo in un periodo di schizofrenia. Io passo parecchio del mio tempo a rispondere ai parroci che non basta un incontro prima del referendum per spiegare la Costituzione, per capire quello che sta succedendo, soprattutto se è fatto in quella maniera ignobile del talk show dove il sì si contrappone al no e la gente non capisce assolutamente niente, si parlano tra di loro e quindi non serve a niente. Io non partecipo mai a questo tipo di cose perché credo che la cosa che serve è prendere il testo della Costituzione, prendere il testo della riforma, leggerseli tutti e due in maniera sinottica e poi prendere la propria decisione nel rispetto delle idee e delle convinzioni di tutti.
L’assiduamente non c’è, la formazione sociale e politica nei nostri ambienti è aun po’ schizofrenica, fatte le nobili eccezioni; lavoro nel campo della formazione politica per volontà del mio vescovo che era Mariano Grassi da quando sono prete, tranne i primi tre anni, è stata questa la mia croce e delizia, la porto avanti con tutto il cuore. E quindi ne ho viste tante di scuole di formazione, ne seguo: dovremmo scrivere una storia.
E venne Francesco in questa situazione che, dico sinteticamente, riprende i temi conciliari, e sono d’accordo che la Evangeli gaudium è il suo manifesto programmatico: non credo che scriverà altro. Cioè, in termini programmatici della sua idea di Chiesa, forse scriverà su altri temi come ha scritto sull’ecologia, come ha scritto sull’amore coniugale eccetera. Ma di programmatico non penso che dovremmo aspettarci molto, poi tutto è possibile.
Scrive nel numero 75 Francesco: vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianze in qualsiasi cultura, in qualsiasi città (c’è una parte bellissima sulla città nell’Evangeli gaudium) migliora il cristiano e feconda la città. L’approccio è antropologico, si passa attraverso il tessuto delle persone, cioè la nostra fisicità, il nostro essere emozioni, il nostro essere in cognizioni, cioè quello che noi siamo. E cogliere le sfide, ricordiamo che Gaudium et spes inizia con le gioie e le speranze, e i dolori e le angosce non sono solo del mondo, sono anche della comunità dei credenti come fermento di testimonianza.
La testimonianza, vedete, viene dopo l’assunzione di questo tessuto umano. Ecco, questo è un primo criterio perché dice già qualcosa alla nostra formazione sociale e politica. In fondo, cosa vuol dire vivere fino in fondo ciò che è umano? Vuol dire formarsi alla vita, che non è solo la vita individuale, non è solo la vita nella famiglia, non è solo la vita nella scuola, nel mondo del lavoro, ma è anche la vita nel contesto sociale e politico. Cioè un’affermazione a 360 gradi. A me non piace diventare un propagandista di quello di cui mi occupo, come se vado in una comunità a dire: dovete formare alla vita sociale e politica, e poi: non dovete formare al lavoro, o non dovete formare alla vita familiare e a un sereno approccio alla vita sessuale eccetera. No, noi dobbiamo entrare in un discorso di categorie più piene altrimenti frammentiamo esistenze che sono già frammentate; le nostre esistenze sono frammentate, rischiando di stare in compartimenti stagni: il lavoro, la politica, l’impegno sociale, il volontariato, la famiglia, la vita di coppia, la parrocchia. Mancano degli educatori da questo punto di vista che abbiano una capacità di sintesi. Ci interessa ciò che è umano, ovunque esso sia, nella vita di famiglia, nella politica, nella società, nell’economia, nella cultura, nella borsa di Milano, o a Radio Maria, ovunque, o nei terremoti, ovunque voi riuscite a pensare a questo umano, partendo da se stessi naturalmente.
Ma siamo anche coscienti, e chiudo questa parte sulla formazione, che noi lottiamo oggi, sposo pienamente la tesi della Arendt, che quando noi andiamo al politico, noi lottiamo contro il grande pregiudizio verso la politica, cioè non troviamo un terreno spianato, troviamo un terreno pieno di pregiudizi. Quindi, dobbiamo parlare con un giovane che ha 20-30 anni eccetera e dice: ma perché mi devo impegnare se il panorama è questo? Cioè, perché un giovane si deve impegnare? Non è facile. Attenzione, io ho 53 anni, non ha le motivazioni di chi ha cinquant’anni, sessant’anni, settant’ anni, quindi non ha un bagaglio o un tesoro a cui attingere; ha un quadro che è abbastanza desolante, fatte salve le nobilissime eccezioni. Quindi, il pregiudizio verso la politica è ciò che lui sente istintivamente. Ma non solo i giovani, anche gli adulti, anche gli anziani. Noi accogliamo questa sfida nel formare, ma sappiamo che lottiamo contro questo pregiudizio.
E le scuole di politica che io seguo con questi amici hanno come maestro Milani. Io da Milani ho imparato tante cose. Una che mi piace molto ricordare, a parte il cercarsi un fine, è il fatto che Milani concepiva la sua scuola, sono sicuro che molti di voi lo conoscono meglio di me, come apprendere parole nuove o confermare quelle che già uno conosce. La politica, per esempio, è una parola che suscita molti pregiudizi, è una parola che, come anche quella di potere su cui ritornerò dopo, crea fastidio certe volte; ecco che allora la dobbiamo riapprendere o dobbiamo confermarla senza fare questi giri mentali: sinceramente sono un po’ scocciato di questa storia soprattutto negli ambienti cattolici, quando si vuole parlare di politico dobbiamo parlare del pre-politico, se non si può parlare del politico bisogna parlare del sociale: ci sono parroci che mi dicono: l’importante è che lei non parli molto di politica, con una specie di terrore. Ma guardi, gli dico, che io insegno questo e mi occupo di questo, piuttosto non vengo, non riesco ad autolimitarmi in questo. Le parole vanno spiegate, va spiegata la parola potere, va appresa di nuovo, gli va dato significato; se c’è un pregiudizio sulla parola potere, sulla parola politica dobbiamo aiutare chi ci ascolta, se siamo degli educatori, a superare questo pregiudizio, a reimpostarlo.
Io vivo a Roma e sinceramente ho molte difficoltà quando i parroci mi chiamano a parlare di politica a Roma perché il problema è che noi non reggiamo più lo stato della città, cioè siamo al disastro, ci manca solo un colera. Non sto scherzando, cioè non stiamo affrontando cose… non c’entrano niente i colori politici, qui c’è un elenco di responsabilità che va dal secondo Veltroni fino alla signora che siede oggi, ma la signora intanto non fa niente, dice solo che la responsabilità è di quelli che stavano prima: ti è piaciuta la bicicletta, ora devi pedalare, non devi stare a dire ma la bicicletta è un po’ rovinata, eh no, pedala, cerca di ripararla. Va beh.
È faticosissima questa cosa di parlare di politica, quindi parlare di formazione, di apprendere nuove parole. Sono belle le cose che dice il vescovo di Roma, che si chiama il papa, sulla città quando poi la città è in uno stato di sofferenza atroce. Ringraziate il cielo di vivere a Milano in questo momento storico, forse ci sono stati momenti storici in cui era il contrario, ma in questo momento storico, ringraziate. (rivolto a Bianchi) Non so come è la tua cittadina e quindi…
Allora, secondo punto, il problema delle appartenenze. Che è un problema nella formazione politica che per noi italiani è sempre stato un punto di riferimento, fino a dopo quella famosa della appartenenza al partito di ispirazione cristiana. Ma oggi io vi invito, ma non perché lo faccio io, perché credo che questo pontificato ci sta lavorando molto bene. Fra l’altro vi siete accorti che questo papa fra i suoi limiti, i suoi vezzi, chiamateli come volete voi, c’è quello che non cita. Il papa non cita, non ama citare, è un po’ antiaccademico, devo dire la verità. Cita il Concilio, ma non dice mai che è il Concilio e la gente che non ha letto il Concilio dice: ah, interessante questa cosa. Ma come, quello è il Concilio. Cita autori, verso qualche autore ha una forma di sacro rispetto, Romano Guardini è uno di questi: quando lo cita, lo cita a memoria, se lo ricorda bene. Non era un gesuita, è italiano Guardini, lo dobbiamo sempre ricordare, nato a Verona anche se è vissuto in Germania.
Allora, c’è un discorso di appartenenze e nel pontificato, che poi, secondo me è in perfetta linea conciliare, ci sono vari riferimenti a questo problema delle appartenenze e io ne prendo tre perché mi sembrano molto interessanti: l’appartenenza ideologica, quella politica e quella biblica che rientra in quello che si diceva prima relativamente alla spiritualità.
Partiamo dalla appartenenza ideologica. Cosa intendo per ideologia? Dico molto sinteticamente: quel sapere compatto, indiscutibile, proprietà di alcuni illuminati. Vengo da studi in cui l’ideologia viene collegata ai fenomeni gnostici sia antichi che moderni. Questo tipo di sapere compatto porta a una impostazione della propria identità in maniera molto molto forte. Io domenica scorsa ho fatto un riferimento, durante l’omelia, voi siete di liturgia ambrosiana, il Vangelo era per noi quello di Zacheo, della misericordia di Dio che è per tutti, per chi non ha pagato le tasse e per chi le ha pagate, perché ha rubato, per i migranti, non c’è bisogno di fare le barriere… ebbene, è venuta una signora dopo la messa inviperita, inviperita, urlava e mi ha detto: lei non può fare questi comizi. L’ho lasciata parlare, poi: mi dica, signora, dov’è il comizio? Ecco la misericordia di Dio non è per tutti, ha detto, perché la misericordia di Dio non può essere per i mussulmani che vengono a diffondere la loro religione qui. È stato molto difficile, ho detto: signora, ma ha ascoltato il brano della Sapienza che era per noi la prima lettura, la tenerezza di Dio si espande su ogni creatura. Non è che ci sia scritto, virgola, tranne i mussulmani che sono venuti da chissà quali paesi nei nostri paesi. Era un fiume in piena, era un problema psicologico, era un problema identitario, era una concezione, per quello che ho compreso, molto ideologica della fede. Poi se ne è andata urlando e mi ha detto: ma lei non capisce niente e si legga i testi del cardinal Biffi così capirà qualcosa. Ho risposto: signora, con tutto il rispetto per sua eminenza buonanima, io cerco di leggere prima la Bibbia e poi anche i testi dei cardinali. Lei ha detto che ero mancante perché non avevo mai letto i testi del cardinal Biffi. Va bene.
Però così è, c’è questo approccio ideologico alla fede, dove c’è un blocco compatto, non ci sono dubbi: l’impostazione ideologica è prendere o lasciare, se hai dei dubbi te li chiarisco io e dopo vivi tranquillo perché la domanda è: padre, che cosa devo fare? Qual è la volontà di Dio? Io non so rispondere, io non so neanche nella mia vita certe volte qual è la volontà di Dio. Non ce l’ho la risposta. Ho un’altra risposta: camminiamo insieme, illuminiamoci reciprocamente, come dice il papa, facciamo discernimento. E poi è chiaro che in questo tipo di impostazione è ovvio che radio Maria commenti la guerra in Iraq come l’avanzata cristiana contro i mussulmani, è ovvio che dica che il terremoto è la punizione per le unioni civili; come ha detto un comico di Bari: praticamente, siccome nel mio condominio ci sono due divorziati ho capito da dove derivano i miei guai. Di fatto, viene da ridere davanti a un’affermazione simile. (Tra l’altro, l’armata che sta liberando Mosul è fatta da mussulmani.)
Esatto. Allora, sul rischio della fede ideologica si era già espresso Giovanni Paolo II: la verità cristiana non è fanatica, fondamentalistica, ideologica. Questo è nel Centesimus annus, ho riportato qui il brano e poi ve lo lascio. E questo papa ci ritorna spesso con il suo linguaggio un po’ più chiaro, perché così è un suo dono: gli ideologi falsificano il Vangelo. Ogni interpretazione ideologica, da qualsiasi parte venga, da una parte o dall’altra, è una falsificazione del Vangelo. E questi ideologi, abbiamo visto nella storia della Chiesa, finiscono per essere intellettuali senza talento, eticisti senza bontà. E di bellezza non parliamo perché non capiscono nulla. Invece, la strada dell’amore, la strada del Vangelo è sempre semplice. È quella strada che hanno capito i santi; i santi sono quelli che portano la Chiesa avanti, quelli che seguono la strada della conversione, dell’umiltà, dell’amore, del cuore, della bellezza. C’è un collega che insegna estetica e quindi credo che possa dire meglio di me questo richiamo molto bello all’estetica.
Quindi, Francesco è per una fede anti-ideologica. Ci sono dei passi in cui anche precisa meglio, ma lo ha fatto a Firenze, con la Chiesa italiana dove dice espressamente la fede è anti-gnostica, che è un contributo intellettuale molto chiaro al dibattito, ma non abbiamo tempo per affrontarlo.
L’appartenenza politica. Premetto, io sono stato anche tesserato un anno della Democrazia Cristiana prima di entrare in seminario, non ho niente. La Democrazia Cristiana è stata un dono di Dio per alcune cose, per altro meno di un dono di Dio, anche a causa di molti problemi ed è chiusa questa vicenda. Nel bene e nel male, poi, si studia, si dice quali sono gli errori, molti di voi ci avranno partecipato eccetera. Perché faccio questa premessa che ho messo dietro lo scudo crociato? Perché noi, dal punto di vista… ecco, questa è una cosa tutta italiana. Perché sapete la Democrazia Cristiana è un fenomeno prettamente italiano, altrove ci sono stati dei tentativi, cose simili. Perché noi quando parliamo di appartenenza politica siamo ancora… In Gregoriana c’è un gruppo di signori (la Gregoriana è un ambiente internazionale, anche il rettore non è italiano), quando arriva qualcuno che vuole parlare di politica, soprattutto di Democrazia Cristiana, li manda da me. C’è un gruppo di signori che mi viene a trovare frequentemente che sono quei signori che hanno fatto causa per la questione non del simbolo, quella è stata risolta, ma del nome e stanno aspettando la sentenza, cioè se possono di nuovo riutilizzarlo. Un giorno sono venuti illuminati: sa, professore, siamo vicini. A che cosa, dico io, a nostro Signore? Siamo vicini, potremo usare… Ho detto: guardate, le stagioni storiche sono stagioni storiche, nel bene e nel male si chiudono, ma voi sapete benissimo che in molti cattolici il problema dell’appartenenza politica è il problema del contenitore politico, e senza il contenitore si sentono persi. Perché voi sapete, fra l’altro, che uno dei difetti di quel contenitore era il voto di delega in bianco, o il voto ideologico che coincidevano. Cioè, scusami Giovanni, bravo, cattolico, certo, io voto croce su croce e delego tutta la politica a Giovanni Bianchi, e nel caso di Bianchi mi andava bene, ma poi ci sono stati casi in cui non ci è andata poi così bene la delega in bianco.
Questo passaggio di Paolo VI, che gli costò parecchio, non è stato assimilato dalle nostre comunità; una medesima fede cristiana può portare a impegni diversi. L’aveva già scritto Sturzo nel ’36: i cattolici si divideranno sempre in un’ala, cosiddetta, lui diceva, democratica, sociale eccetera, e in un’ala invece conservatrice, tradizionale, sempre. Com’è negli Stati Uniti: ci sono cattolici che si riconoscono nel Partito repubblicano, e in quel che resta del Partito repubblicano, e ci sono cattolici che si riconoscono nel Partito democratico. Da noi la DC ci ha portato a questo problema, e quindi abbiamo passato, vado avanti, anni a discutere se dovevamo rifare o non rifare la DC, se dovevamo fare i percorsi di ricomposizione dell’area cattolica. Basta, siamo nel 2016. Basta.
Già Benedetto XVI in un bel discorso a Praga aveva detto che il problema dei cattolici impegnati in politica, l’ho riportato in qualche parte nel libro, non è un problema di appartenenza, è un problema di coerenza, ovunque tu sia, la coerenza con la tua fede, la testimonianza. Sembrerebbe che il papa abbia chiuso questo dibattito, cioè il 3 aprile del 2015 ha detto: si sente che noi dobbiamo fondare un partito cattolico (sono parole sue, non le ho messe io, stanno sul sito del Vaticano), quella non è la strada, la Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve i doni dello Spirito, non è un partito politico e questo è Gaudium et spes: la Chiesa non si riconosce in nessuna delle compagini politiche eccetera eccetera. E questa è una citazione indiretta. No, non diciamo partito, ma un partito di soli cattolici non serve, non avrà capacità convocatorie perché farà quello per cui non è stato chiamato, ma è un martirio quotidiano cercare il bene comune senza lasciarsi corrompere.
Bene. Io sono stato qui a Milano a presentare un libro sulla storia dei cattolici dopo il Concilio, nonostante questa affermazione ho trovato, l’ho scritto nel libro, che di nuovo dovremmo ripensare a forme di aggregazione dei cattolici in politica. Signori, voi siete persone intelligenti, giudicate voi: più chiaro di così il papa non glielo poteva dire. Quindi, cos’è? La maledizione che moriremo comunque democristiani? Che cos’è, non lo so. È possibile che noi non riusciamo a emanciparci in termini di appartenenza? Ripeto, non è un giudizio negativo sulla DC, è il problema dell’oggi che mi interessa, la DC è passata con il suo bene e con il suo male. Punto. Oggi dobbiamo ripensare delle altre forze.
Questa attenzione al problema del contenitore politico ha fatto cadere l’attenzione alla spiritualità, alla formazione di coloro che si impegnano in politica, ma anche alla spiritualità, alla formazione di noi come cittadini che dobbiamo andare a votare non solo per il referendum, dobbiamo partecipare alla vita sociale e politica, quindi alla formazione di tutti. Cioè, il problema qui è: ma la Scrittura che cosa dice?
È stato interessante che un parlamentare italiano ha scritto al suo vescovo e ha detto: eccellenza, le devo chiedere una cosa; una volta al mese ci convochi come politici e ci faccia un ritiro non sui temi politici, sui temi più profondi dell’essere cristiano perché noi viviamo nel mondo con il nostro impegno politico e molte volte dimentichiamo le cose essenziali. Un parlamentare. Il vescovo gli ha risposto: non fa parte del mio compito. Non gli ha chiesto un’opinione cristiana sulle leggi, non gli ha chiesto se dobbiamo rifare o non rifare la DC, gli ha chiesto di fare un ritiro per riflettere sui fondamenti della fede perché dice: noi facciamo un mestiere, dove non dico che la si perde, la fede, ma è sottoposta a logorio, a difficoltà.
A chi apparteniamo noi? Isaia che è un profeta che, come tutti i profeti, vuole riavvicinare le persone a Dio, sottolinea fortemente che noi apparteniamo al Signore. E questo è il punto di partenza. Il punto di partenza non è il mondo, non è l’impegno, quello viene dopo. Il punto di partenza è che siamo del Signore, siamo nel mondo, dice Gesù, ma non siamo del mondo. E come dice Paolo: sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. Del resto questo tipo di appartenenza è quello che noi troviamo commentato e sviscerato nella lettera a Diogneto: qualsiasi impegno nel mondo, ma qualsiasi impegno di vita, non può essere portato avanti se non rafforziamo la nostra fede.
Se la mia idea di fede è ideologica, magica, fatta di terremoti che il Padreterno manda per punire, fatta di misericordia che non può essere applicata ai mussulmani, fatta di bioetica, fatta semplicemente dei voti che diamo alla legge sull’eutanasia o non diamo alla legge sulla fecondazione in vitreo, o quello che volete voi… Noi abbiamo passato il ventennio della presidenza Ruini in cui il cattolicesimo è stato identificato con queste cose. E come ha detto monsignor Nogaro: il cattolicesimo è diventato l’autovelox dei peccati. Che bellissima frase per uno che viaggia molto in macchina come me, l’autovelox dei peccati. Il cattolicesimo è appartenere al Signore, il cattolicesimo, il cristianesimo è essere nel Signore ovunque tu stai.
E le difficoltà di un politico non sono più grandi di quelle di un operatore della cultura o di un imprenditore, o di un papà di famiglia o di una mamma, o di un genitore o di un insegnante. Essere del Signore è difficile ovunque come dice la lettera a Diogneto: essere l’anima nel mondo e non farsi fagocitare dal mondo.
Questo sono convinto che andrebbe riproposto, come diceva San Francesco, sine glossa, così com’è. Cioè, la nostra testimonianza di fede nel mondo è perché noi siamo del Signore, sia che viviamo, sia che moriamo siamo dunque del Signore, dice Paolo, e dobbiamo rispondere a Lui. Io non devo rispondere alla signora con le sue idee bislacche sui mussulmani e sulla misericordia di Dio, io devo rispondere al Signore perché Paolo dice: guai a me se non predicassi il Vangelo. Ben venga quando un fedele viene e mi dice: non stai predicando il Vangelo, stai predicando altro, ben venga, ma se mi viene a dire che mi devo leggere i libri del cardinale x o del cardinale y no, non mi interessa, ma con tutto il rispetto, che il Signore abbia misericordia di tutti. Non dobbiamo neanche perdere tempo nella nostra formazione cioè andare a cercare tutte queste elucubrazioni mentali, per non dire altro, questi collage tra politico e non politico… Basta. Va bene, io parlo molto, scusate, ma devo stare nei tempi, mi piace raccontare delle cose, ma non posso. Andiamo avanti.
Allora, condivido pienamente quello che hai detto; se nei confronti della politica siamo schizofrenici, non parlo di voi, parlo della sensibilità diffusa nelle nostre comunità, pastori eccetera, il che diventa ancora più amplificato nei confronti del potere. Volete una prova? Provate a contare tutte le volte che persone che hanno potere non dicono mai la parola e hanno fretta di dire: servizio. Attenzione, non perché cristianamente il potere non è servizio, il potere è servizio cristianamente, ma perché la parola servizio viene usata con un alto tasso di retorica. Retorica, retorica ecclesiastica, retorica politica, retorica civile: io sono al servizio dei miei studenti. Parlo di me non voglio parlare di voi. Io sono al servizio dei miei studenti, è vero, sì, ci mancherebbe altro. Ma io ho un potere sui miei studenti, i miei studenti mi vogliono bene, mi stimano la maggior parte, quindi se dico una fesseria ho la grande responsabilità di aver trasmesso una fesseria e siccome vengono da 125 paesi ho anche una diffusione abbastanza globale delle mie fesserie, per giunta in una materia che non è dogma, che è la politica. Quindi sì, sono al servizio, e questo significa che devo rispondere alle e-mail, che devo farmi trovare agli appuntamenti, che non devo snobbarli, i colleghi sanno benissimo com’è fatta l’accademia italiana e non solo, anche quella ecclesiastica. Sì questo va bene, ma il potere, il potere che eserciti? Ricordo che Max Weber era un cristiano, non cattolico ma era un cristiano, e nel lavoro intellettuale come professione, che insieme alla politica come professione, ricorda l’onestà che deve avere il docente nel dire, per esempio, dove prende le sue idee, quali appartengono ad altri e quali appartengono a lui. Questo è potere, è un potere culturale.
E i genitori hanno potere sui figli? Sì certo, hanno un potere educativo, invece non si può parlare… C’è tutta una mimica. Bisogna piegare il collo, portare le mani così e dire: noi siamo al servizio. Di chi? E poi l’aggiunta: siamo al servizio perché lo vuole la volontà di Dio. E come disse un prete al suo vescovo: eccellenza, mi spieghi perché ogni volta che io entro qui dentro la volontà di Dio sta sempre da quella parte e mai da questa parte. Potrebbe stare pure da qualche altra parte la volontà di Dio, ma questo lo chiederemo a Radio Maria dove sta la volontà di Dio per avere certezza che è quella la volontà di Dio.
Allora, la Scrittura dice questo, pone questa domanda: se il potere è una bestia come dice Daniele, e come riprende l’Apocalisse 13, oppure è una grazia. Non è un Moloc, non è un Leviatano, il potere è uno strumento e diciamolo come si dice ai bambini: il potere è come un coltello, in mano tu ce l’hai, o per tagliare il pane e per dar da mangiare a te stesso e agli altri, oppure, se sei impazzito o altro, per ficcarlo nello stomaco di qualcuno e ammazzarlo. Non è il coltello che è cattivo, è l’uso. Gesù non ha paura di dire (Marco, 28, 18): mi è stato dato ogni potere (εξουσία, dice il testo greco), ogni potere in cielo e in terra, se lo prende tutto il potere Gesù, non lo nega: voi dite che io sono Maestro, e dite bene, e lo sono. Non si nega il potere perché quando lo iniziamo a negare sta già diventando mezza bestia, lo dobbiamo prendere tutto quello che ci è dato, dal potere educativo, dal potere politico. Non è che il sindaco può dire: mi autosospendo in questo. No, no, te lo prendi tutto il potere che hai e cerchi di esercitarlo. È una linea biblica questa: qua abbiamo messo dei brani. Giudici parla delle piante che governano, non sempre a governarci è l’ulivo, io vengo dalla Puglia, e quindi sono ben contento di questo sponsor per l’ulivo, o il fico, o la vite. Capita anche che il rovo prenda il potere. Lo dice la Scrittura questo: altrimenti un fuoco uscirà da me e mi consumerà. Samuele e la disputa sul potere, chiedono il re e Samuele risponde una prima volte che il Signore si è arrabbiato perché se chiedete un re vuol dire che non riconoscete la mia autorità, poi lo concede. La bestia di Daniele, la bestia dell’Apocalisse, e poi ho saltato per motivi di spazio tutti i brani evangelici a iniziare da quello che ricordiamo: i capi delle nazioni dominano su di essi. Non così dovrà essere tra voi, dice Matteo. Luca invece all’indicativo: è. Poi lasciamo ai biblisti quali sono lexissima verba Christi, le parole sante di Gesù, però valgono tutte e due.
E Gesù fa riferimento al servizio, li chiama diaconos, il servizio c’è, ma non deve essere retorico, non si deve dire, si deve fare, il servizio non si deve dire, si deve fare. Il potere invece va affermato: io ce l’ho; poi, se non lo esercito servendo, esiste anche una correzione fraterna. Quanti cattolici in politica abbiamo visto negli ultimi trent’anni, vent’anni, radicati nel Signore, responsabili del loro potere. Io non sto qui a dire tutti i percorsi autoreferenziali, tu hai citato quello populista, tutti i percorsi di degenerazione del potere, di mediatizzazione, come dicono gli esperti, del potere di ricerca esasperata dal consenso, eccetera.
Poi abbiamo una cosa che è tutta italiana che è la sindrome del salvatore della patria, da Garibaldi in poi non si salva nessuno, c’è sempre qualcuno che deve fare qualcosa per cui ha già deciso che passerà alla storia. Si è capovolta la cosa, non è cioè la storia che gli dà il riconoscimento per quello che ha fatto, ha deciso in partenza che passerà alla storia perché deve salvare la patria. Certe volte viene da dire: no grazie, non fumo. Cioè, abbiamo bisogno di persone un po’ più normali che fanno il loro dovere e che non hanno la presunzione di salvare la patria, ma di fare un pezzettino di bene loro e un pezzettino di bene faranno gli altri. Sindaco, lo dico anche a lei, che non deve fare tutto il bene, a parte che è impossibile.
Siete stanchi? Mi date ancora qualche minuto? Allora, la corruzione. Qui va fatto qualche riferimento storico. La prima pagina italiana sul fenomeno della corruzione interna alla politica è di Sturzo ed è del ’53, se mi sbaglio correggimi, e c’è anche un testo di Einaudi in cui parlano delle bustarelle, tutti e due. Ma noi, attenzione, perché ora tutti parlano di corruzione, cioè dal 17 febbraio 1992 gradualmente, data che voi conoscete molto bene per il Pio Albergo Trivulzio, non so quanto sia lontano da qui, ma voi conoscete quella data. Da quella data sono tutti diventati pian piano esperti di corruzione, analisti di corruzione. Mi astengo, fin ultimo anche a persone che lo stato italiano paga per dire delle corbellerie tipo, io ho scritto un libro con dei viceprefetti di questa serie che si chiama Corruptia, signori che lo stato italiano paga perché devono dire le frasi a effetto e dicono, per esempio, una che gira molto (l’ha detta anche Luigi Ciotti, amico e buono) è che la corruzione è la nuova forma di mafia. Beh, non c’è stupidaggine più grande di questa perché la criminalità organizzata è una cosa, la corruzione è un’altra.
Fra l’altro, qualcuno che vuol capire deve vedere mafia capitale, perché mafia capitale, giusto per fare una battuta e chiudere, ai tre soggetti tipici della corruzione, cioè l’imprenditore, il pubblico amministratore e il politico aggiunge il rappresentante della criminalità organizzata nella persona di Carminati. Ma Carminati se avete la fatica di leggervi non i giornali, ma gli atti, Carminati da rappresentante della criminalità organizzata sa benissimo che partecipa al tavolo quando gli conviene e come gli conviene e non vuole essere assolutamente confuso con il giro di corruzione, cioè tratta con il giro di corruzione.
Bene. Questa cosa che ho capito io nella mia ignoranza, perché non la capisce chi invece noi paghiamo per svolgere un ruolo molto importante e va dicendo in giro questa sciocchezza, che la corruzione è uguale alla mafia? A parte poi che lì c’è il problema dei codici simbolici. Voi avete qui a Milano una persona che è molto brava e che si chiama Nando Dalla Chiesa. Se leggete il suo manifesto dell’antimafia, ha spiegato con immagine molto semplice dicendo che la corruzione ha una parte del DNA della criminalità organizzata, è come se fossero cugini, ma non sono né fratelli, né gemelli.
Va bene sto parlando a Milano e questa è una città che non solo ha visto Mani pulite, ma ha visto anche, grazie a Dio, una bella riflessione su questo. Cosa mancava? Mancava, non l’ho omesso per un errore, che in una conferenza stampa in aereo, papa Francesco in aereo si sente un po’ più libero, è l’aria, ha detto: di corrotti ce ne sono anche nella Chiesa, e in Kenya, e a Napoli. A Napoli ha usato poi quella espressione che trovate qui nel libro, quell’espressione tipica torinese; i miei studenti mi hanno chiesto: ma si dice in italiano spuzza? No, c’era uno studente torinese: si dice a Torino spuzza, ma in italiano si dice puzza. E quindi, la corruzione, ha detto il papa ricordando probabilmente sua madre, spuzza, ma invece puzza. Stiamo traducendo in inglese il libro su Francesco dove ho citato questa cosa e ho detto al traduttore: lasciamo stare, andiamo direttamente su puzza se no dobbiamo spiegare anche agli inglesi che il papa è mezzo torinese da questo punto di vista.
Poi in Kenya ha detto: la corruzione esiste anche nella Chiesa, esiste anche in Vaticano, esiste in tutte le istituzioni. Del resto, Bergoglio è l’autore di questo libretto che è un suo discorso che si chiama Corrupcion y pecado che in italiano è stato tradotto Guarire dalla corruzione. È un discorso che lui ha fatto in Argentina nel 2005 e lo hanno messo in libretto, che è una cosa che io vi invito a leggere, in Italia è edito da ERI e si chiama Guarire dalla corruzione, perché finora non ho trovato mai una riflessione così profonda dal punto di vista evangelico. Il papa analizza proprio con la Scrittura alla mano la corruzione, tanto è vero che arriva a quello slogan che è stato molto discusso: peccatori sì, corruttori no. E in questo lui riprende, senza citarlo, il concetto di struttura di peccato di Giovanni Paolo II, poi nel libro l’ho detta meglio questa cosa. (C’è pochissima produzione teologica e dottrinale su questo.) Sì! è vero, ce n’è pochissima, perché? Ma per tanti motivi, uno per quello che abbiamo detto prima sulla questione del potere. Ecco, lo dico con una battuta: una volta mi è successo a una lezione che uno studente (faccio due o tre lezioni sulla corruzione dal punto di vista etico, però prima di parlare dell’etica la devo spiegare) alla fine delle due ore mi ha detto: professore, la prossima volta lei parlerà ancora di queste cose? Dico: sì, perché devo finire di spiegare che cos’è la corruzione e poi faremo l’aspetto etico. Ha detto: allora, io non vengo. Perché non vuoi venire? Non ce la faccio a sopportare tutte queste cose brutte che lei sta dicendo. Di che paese sei? Era africano e ha detto il nome del suo paese. Va bene, prendiamo la classifica di Transparency e leggiamo come sta messo il tuo paese, anche il mio, ho detto, sta messo male, stai tranquillo, proprio non è una critica sul tuo. Leggiamo, dico: tu hai questo tasso di trasparenza di 3,8, quindi significa tasso di corruzione di 6,2, sapete Transparency ragiona al positivo sulla trasparenza. Come fai a evangelizzare i tuoi fedeli se non conosci il fenomeno, se non sai la corruzione del tuo paese che forme ha? Che non saranno quelle del Pio Albergo Trivulzio, ma saranno altre, avranno altri soggetti, il Carminati di turno, il sindaco di turno, non lo so, devi conoscere.
Anche questo: noi abbiamo la difficoltà ad approfondire ciò che non è bello, ciò che è bestia però primum cognoscere deinde judicare, se non li conosciamo i fenomeni come possiamo dire che i fenomeni vanno sanati così? Certo che non sono cose belle sulla corruzione, sono bruttissime, sono vergognose, però, a seconda delle responsabilità che abbiamo, dobbiamo studiarle, dobbiamo capirle.
E dobbiamo capire quello che dice il papa, che la corruzione non è un atto ma uno stato, uno stato personale e sociale. Ecco il richiamo implicito a struttura di peccato, nel quale uno si abitua a vivere; i valori o non valori della corruzione sono integrati in una vera cultura con capacità dottrinale, linguaggio proprio, maniera di procedere peculiare. Questa è la struttura di peccato. Tant’è vero che c’è una bella espressione in questo libretto quando il papa dice: i corruttori non hanno amici, hanno sempre complici; i corruttori non hanno amici perché trattano con le persone per fare affari, quindi sono complici o sono falsi amici.
La sociologia studia che i rapporti (ecco un’altra differenza con la mafia) interni ai gruppi di corruttori sono molto labili, mentre i rapporti all’interno della criminalità organizzata sono fatti da un patto di sangue simbolico e altissimo. Invece, il corruttore oggi incontra quel sindaco perché sta al gioco, ma domani andrà a incontrare un altro sindaco, o andrà a incontrare un altro imprenditore. (Il motivo per cui alla fine certe catene di corruzione si sfaldano più facilmente e sono più facilmente individuate dagli inquirenti è perché non c’è alcun tipo di vincolo criminale come quello che, ad esempio, c’è tra i mafiosi.) Esatto. Poi c’è la telefonata come al San Camillo in cui poi si accorge che dice la verità e dice: stiamo per far vincere l’appalto a quello. Va beh.
Allora, chiudo. Sulla corruzione potremmo anche dire ancora, però è una faccenda che noi dobbiamo riprendere e, guardate, sto girando molto per questo libro sul papa, la resistenza al papa, al pontefice negli ambienti italiani è enorme. Non c’è solo Socci! Magari ci fosse solo lui! Anzi, lui ha l’onestà di scrivere pubblicamente le cose che pensa, ma io mi sono ritrovato a presentare questo libro che si chiama: Ce la farà Francesco? (faccio un po’ di autopromozione), la sfida della riforma ecclesiale, con un vescovo che, seduto qua, dice: eh sì professore, sì Francesco, ma Francesco… Eccellenza, dica. Francesco… Completi la frase. Eh, Francesco…
Cioè, il tono di voce è una malattia che ci siamo presi. Armiamoci di pazienza finché passa. Perché quando senti a lezione un giovane di 22 anni che dice a un altro giovane, tutti e due seminaristi: tranquillo, tra tre o quattro anni muore e ritorna tutto come prima… 22 anni! È una tristezza! Non è tanto sua responsabilità, è anche sua responsabilità, non è uno stupido, e io ho il dovere di educarlo, però è vissuto in un clima in cui ora ovviamente vede delle cose… Ed è disorientato. Del Concilio questo giovane non sa assolutamente niente e dell’opzione preferenziale per i poveri non sa niente: ma è andato avanti ideologicamente che per essere cattolico basta essere contro l’aborto, il divorzio, la fecondazione assistita, l’eutanasia e le unioni civili. Di quel decalogo poi, l’altra parte, che fu pubblicata dall’allora cardinal Ratzinger, viene dimenticata, cioè, l’economia giusta, l’impegno per la pace eccetera, eccetera.
Bene, allora abbiamo molto da lavorare. Chiudo. Dalla mia esperienza ho imparato… (Un’illusione. Non credo che anche se il papa dovesse mancare tra poco le cose rimarranno esattamente come adesso.) Sì, la penso anch’io così, molti processi sono già irreversibili, altri no, però alcuni sono irreversibili. Grazie a Dio, la Chiesa non la guidiamo né noi, né il papa, né questi signori, né Socci, meno male. La Chiesa la guida il Padreterno e quindi sa quello che deve fare.
E tutta questa lunga chiacchierata io ritengo che dalla mia esperienza oggi sono tre le cose su cui anche nelle nostre scuole di politica insistiamo molto e sono: la formazione, la partecipazione e l’assunzione di responsabilità. E così possiamo, secondo me, preparare una nuova classe dirigente anche di credenti, di cattolici. La partecipazione è quella della partecipazione ai diversi livelli, quella che viene chiamata cittadinanza attiva e tutto il resto. E poi l’assunzione di responsabilità. Molte volte abbiamo dei cattolici formati, non so a Milano ma dalle mie parti sì, ma quando gli chiedi di impegnarsi direttamente, di assumere una responsabilità dicono: no, non ci sto, non mi voglio sporcare le mani. Io ricordo che per ogni persona per bene che dice no, ci sono pronti tre delinquenti a dire sì. Quindi, per ogni persona per bene che dice: non mi voglio impegnare in politica, ci stanno tre delinquenti, forse anche quattro ma su tre ci scommetto, che sono pronti a candidarsi e fare tutto quello che… Quindi, anche qui formazione, partecipazione. responsabilità
Grazie di cuore.
1 commento
E’ molto interessante ascoltare la registrazione di Rocco D’Ambrosio facendo scorrere il Power Point sopra la fotografia. Ti fa sentire nel contesto ma ti senti anche attivo perché sei tu a far scorrere le slides, a soffermarti a ritornare indietro se ritieni.