Un anno complicato

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Giovanni BianchiL’anno 2009 che si è appena chiuso è stato sotto molti riguardi uno dei peggiori che si siano mai registrati nella vita pubblica italiana, in cui si sono sommati gli effetti della crisi economica globale, che forse per quanto riguarda il nostro Paese non sono nemmeno del tutto cessati, e quelli di una grave crisi etica e di pensiero della politica che sta trascinando con sé quel che rimane della coesione sociale e del tessuto democratico garantito dalla Costituzione repubblicana.

Infatti, se il Premier Berlusconi è stato in grado di mettere in secondo piano le vicende legate alla sua poco limpida vita privata, non ha potuto completamente eliminare, nemmeno all’indomani dell’ inqualificabile aggressione subita in piazza Duomo a Milano, il retrogusto di una dialettica politica ormai ridotta alla dimensione del boudoir du prince in cui i favoriti e, soprattutto, le favorite, sostituiscono la dialettica politica con la piaggeria verso il Padrone e l’invettiva nei confronti degli avversari, ai quali, per ricevere una patente di affidabilità democratica che peraltro nessuno è autorizzato a rilasciare, viene richiesto in sostanza di ridursi all’irrilevanza e di passare sopra a ciò cui non è possibile passare sopra, ovvero alla distruzione del sistema giudiziario in nome dell’interesse di uno solo.

Dal canto suo il Partito Democratico, all’indomani di una campagna elettorale con la quale si è garantito il minimo indispensabile della sopravvivenza politica, e di una altrettanto defatigante campagna congressuale che di fatto ha sancito l’esistenza di una pluralità di progetti per la costruzione del partito stesso, si ritrova oggi a fare i conti con la duplice necessità di costruire, come sostiene giustamente il Segretario Bersani, le condizioni per l’alternativa al sistema di potere berlusconiano e quella di mantenere un minimo di dialogo istituzionale con la controparte politica.

Problema complesso, giacché i soggetti politici con cui  costruire l’alternativa (che sono essenzialmente l’ UDC, l’Italia dei Valori e la galassia della sinistra radicale) sono assai diversi fra di loro, ed in taluni casi considerano la presenza dell’altro come un buon motivo per negare la propria. Nello stesso tempo, il necessario confronto con la maggioranza rischia di degenerare in una sorta di monologo dedicato a quella sorta di Sacro Graal (o, per rimanere nella logica arturiana, di Fata Morgana) che sono le cosiddette “riforme”. Considero chiarificatrici le parole scritte  a tale proposito da Nadia Urbinati (“Repubblica” del 28 dicembre) quando ricorda lo slittamento semantico subito nel corso di questi anni dalla parola “riforme”, che originariamente stava a delineare l’esigenza di correzioni strutturali di elementi portanti del sistema politico, sociale ed economico del nostro Paese a favore delle classi lavoratrici e più in generale dei ceti subordinati, mentre invece nella pubblicistica politica corrente “riformare può anche significare smantellare quelle promesse: per esempio decurtando i diritti sociali, impoverendo la scuola pubblica, istituendo un federalismo che ricusa la solidarietà nazionale”.

Se questo è vero in campo sociale ed economico, a maggior ragione vale per la dimensione istituzionale, che sembra essere anzi l’unico campo in cui le riforme, almeno nella vulgata diffusa a piene mani dagli organi interni ed esterni dell’attuale maggioranza (fra i secondi segnaliamo in particolare un “Corriere della sera” ormai completamente prono ai voleri della Reggia di Arcore per motivazioni nemmeno troppo imperscrutabili legate alla pessima situazione imprenditoriale della sua composita proprietà), possono essere concepite, con una costante critica alla Carta del 1948, al suo “consociativismo”, al suo “statalismo” e via delirando.

La situazione kafkiana in cui il PD si trova è quella di una dirigenza che, in preda ad una pulsione politicistica in cui non trovano spazio le esigenze di carattere sociale, vorrebbe discutere delle riforme in base ad un’agenda di tipo proporzionalistico e  parlamentaristico con un avversario che invece è ben deciso a far sanzionare il suo tendenziale bonapartismo come già fece con la riforma unilaterale respinta dagli elettori nel giugno 2006, mettendo in cima ad ogni cosa le sue esigenze di carattere giudiziario. Già questo basterebbe a far crollare la pretesa, così cara ad esempio a Massimo D’Alema, di una completa autonomia della politica, giacché è evidente che in questa fase la politica in Italia non è affatto autonoma, ma dipende interamente dalle private e pubbliche ossessioni di Silvio Berlusconi circa il suo spiacevole passato di affarista e la sua altrettanto spiacevole vita privata.

Ovviamente a questo punto la palla passerebbe ad un’opposizione che fosse in grado di articolare delle proprie proposte coraggiose ed innovative sapendo parlare agli interessi e alle sensibilità diffuse dei cittadini. In assenza di ciò, si preferisce appunto scantonare nel politicismo, nella logica delle alleanze ad ogni costo, nel tatticismo del “dialogo” con la maggioranza eretto a totem, un dialogo peraltro incentrato unicamente su quella dimensione istituzionale che poco suscita l’interesse dei cittadini ed assai meno attrae il loro consenso.

Le alleanze sono indispensabili per governare, e chi non lo sa? Ma subordinare la propria proposta politica alla ricerca spasmodica e senza condizioni, come stiamo assistendo in questi giorni ad esempio in Puglia, significa non solo rinunciare ad ogni e qualsiasi vocazione maggioritaria, ma soprattutto porta a riconoscersi prigionieri di una cultura subalterna che non crea alcuna alternativa ma si limita a inseguire le aritmetiche da tavolino.

Valeva la pena di fondare il Partito Democratico per arrivare ad un simile, mediocre esito?

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