Nell’ estate appena trascorsa, intorno alla questione della ricezione dei migranti in arrivo via mare verso le nostre coste, è esplosa una diatriba, insieme giuridica e politica, connessa alla validità, e agli effetti concreti, del Codice di condotta proposto alla firma dal ministro Minniti alle ONG che operano nel Mediterraneo con scopi, almeno dichiaratamente, umanitari.
Si è detto infatti che l’adozione e l’ imposizione di un simile protocollo da parte dell’ Italia costituiscano una violazione del diritto internazionale; e si è detto anche che l’applicazione di quel Codice equivalga ad una condanna, inaccettabile dal punto di vista umanitario, dei migranti ad una condizione disumana nei centri per l’immigrazione in Libia.
Sul secondo punto ci limitiamo a dire che, purtroppo, è la verità:
chiunque abbia potuto vedere coi propri occhi -ed in qualche caso a rischio della vita- la situazione in Libia, descrive uno scenario orribile e complesso.
Partiamo dalle persone, terminale finale di una catena di violenze: decine di migliaia, sequestrate più che recluse, in condizioni disumane in attesa di essere riscattate dalle loro famiglie, vendute come schiavi, o avviate alla prostituzione.
Oltre alla discriminazione implicita di questi esseri umani trattati come merce, si segnalano due linee di ulteriore discriminazione: una tra africani e sub-sahariani, che già dai tempi di Gheddafi vengono trattati in Libia come sub-umani; un’ altra tra uomini e donne, laddove le donne sono sottoposte a vessazioni, fisiche e morali, ancora più crudeli, allo scopo di condizionarne la volontà e indurle ad assoggettarsi in maniera remissiva alla prostituzione in cambio della scarcerazione.
Usiamo questo passaggio come spunto per passare al lato più squisitamente giuridico:
perché la Libia vista e raccontata presenta uno scenario variegato e articolato, la cui base è la commissione di svariati illeciti, internazionalmente riconosciuti come tali.
A nostro avviso non si parla abbastanza spesso del profilo criminale dei trafficanti; e si omette gravemente la circostanza che il traffico di persone comporti innanzitutto un passaggio di mano: esattamente come avviene nel caso di altri traffici, quali la droga e le armi, che vedono solitamente coinvolti gli stessi soggetti che trafficano persone.
Torniamo dunque alla prima questione, quella della violazione dei Trattati internazionali.
Essi rappresentano a tutt’oggi l’unico strumento, dotato di effettiva forza giuridica, per il perseguimento di uno scopo comune a diversi Stati sovrani.
Questa circostanza dipende dal fatto che, per usare una formulazione cara a Giovanni Bianchi, questo vecchio arnese del Seicento continua ad essere l’unico soggetto in grado di dare risposte effettive (ossia di tradurre in atti e fatti concreti le volontà politiche e gli slanci di valore) anche agli scompensi, a volte immani, generati dalla globalizzazione.
Il presupposto è, quindi, che gli Stati contraenti siano sovrani.
Tra le caratteristiche della sovranità possono essere ricomprese senz’altro l’integrità territoriale, il controllo militare su di esso, l’autorità delle forze di Polizia nell’applicazione di leggi e trattati.
Niente di tutto ciò accade in Libia, che è, ad oggi, un embrione di Stato, con due governi corrispondenti a due diverse parti della Libia costiera, una delle quali controllata da un Governo militare. In entrambe le parti i compiti di Polizia vengono esercitati spesso da milizie armate private, ed in tutto il territorio libico insistono forti interessi stranieri che orientano le decisioni delle autorità politiche. Le collusioni tra la Guardia Costiera e le milizie armate private, poi, sono riferite da diverse fonti.
Mancano quindi in Libia le condizioni sostanziali della sovranità, e con esse anche quelle formali legate al riconoscimento dei Trattati.
Dei quali pure va detto che, come tutti gli accordi giuridici, intendono perseguire dei fini, e sono sottoscritti a partire da motivi, specifici, che hanno una loro rilevanza quando si vuol discutere della loro validità e cogenza.
Nel momento, ad esempio, in cui ci si appella alla norma che prevede l’obbligo del salvataggio in mare (art. 98 UNCLOS), non si può non tenere conto del fatto che fosse riferita a situazioni occasionali e non al caso di un flusso migratorio spontaneo di massa che diventa poi traffico di esseri umani. Uno scenario difficilmente prevedibile nel 1982, anno di sottoscrizione della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare).
Veniamo invece all’ Italia, Paese dotato di sovranità effettiva e volontariamente condizionata dai Trattati UE. Che ha deciso, per iniziativa del proprio Governo, di dotarsi di un Codice di Condotta che regolamenti l’attività delle Organizzazioni Non Governative attive nel salvataggio dei migranti in mare.
Personalmente troviamo spesso oziosi i richiami alle norme in genere, che rischiano di essere tirate per un verso o un altro a seconda della propria visione o convenienza.
Soprattutto quando si tratta di un Trattato internazionale, che è uno strumento in cui volontà giuridica e cogenza sono sempre in discussione, per forza di cose: i Trattati necessitano sempre che gli Stati che li hanno sottoscritti (per gli altri il discorso è molto più complesso) predispongano il necessario per la loro attuazione pratica.
Tra questi, in materia di diritto del mare, il richiamo alla dimensione fisica dei porti di attracco risulta essere senza dubbio uno dei più interessanti sviluppi verso la loro concreta applicazione.
E tra gli strumenti concretamente utilizzati nella definizione e attuazione di buone pratiche, per il perseguimento di quei fini che coi Trattati si intendevano perseguire, quello dei Codici di condotta, aperti anche a soggetti non governativi, è sicuramente uno dei più efficaci ed opportuni, data la possibilità di utilizzarli anche in maniera regolamentare, interpretativa ed integrativa delle disposizioni di legge previste dai Trattati e dalle leggi di ratifica.
Coi Codici di condotta è possibile, quindi, prevedere quali strumenti concreti si offrono per l’applicazione di una Convenzione.
Nel nostro caso (quello della gestione di un flusso migratorio riconosciuto come considerevole), sostenere che un Codice sia, in quanto tale, uno strumento contrario al diritto internazionale, èerrato. Specialmente quando tra le controparti non vi siano solo le persone e le ONG, ma anche uno Stato (o due), che fin qui ha sempre mostrato di non amare troppo i Trattati, e privo di effettiva sovranità.
Quello che non bisogna, semmai, perdere di vista, è il complesso delle norme internazionali cui l’Italia ha aderito, nello spirito e nei limiti delle quali il Codice deve muoversi, e il destino cui quelle persone sono sottoposte.
Su questo, sì, la politica italiana nel suo complesso deve lavorare: costringendo, semmai, anche le autorità libiche ad un quadro di legalità sostanziale quantomeno nel trattamento dei migranti “salvati”, per dare senso compiuto al Codice; e nel preparare gli strumenti più opportuni, possibilmente in combinazione con i propri partners Europei, perché una ricezione corposa ma controllata di persone, nei limiti di quelle possibilità sociali ed economiche di cui l’Europa dispone, avvenga presto.
E’ davvero il minimo che possiamo fare.
Luca Emilio Caputo