La tesi proposta è che la nozione formale (e generale) di democrazia (chi decide e come decide) non sia di per sè sufficiente a integrare la fassispecie della “democrazia costituzionale”, perchè non dà rilievo al che cosa delle decisioni. Infatti le Costituzioni rigide, che sono alla base degli odierni sistemi, prevedono limiti e vincoli alle attività legislativa e di governo, tali da individuare una sfera dell’indecidibile, la cui invasione determina il c.d. “diritto illegittimo”. Il contrasto tra democrazia formale e democrazia sostanziale è talmente stridente che le odierne democrazie costituzionali non devono essere considerate vere democrazie, se ricolleghiamo a questa nozione solo i primi due aspetti (chi e come decide). Oppure, all’inverso, che quei regimi politici nei quali le maggioranze democraticamente elette legiferano senza il rispetto dei limiti e vincoli costituzionali sul che cosa viene deciso, non sono veramente democratici.
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1 premessa di Giovanni Bianchi 03’58” – 2 introduzione di Luca Caputo a Luigi Ferrajoli 16’39” – 3 relazione di Luigi Ferrajoli 1h 01’47” – 4 prima serie di domande 03’32” – 5 risposte di Luigi Ferrajoli 09’18” – 6 seconda serie di domande 06’44” – 7 risposte di Luigi Ferrajoli 14’00” – 8 terza serie di domande 07’46” – 9 risposte di Luigi Ferrajoli 14’05” – 10 domande + intervento di Giovanni Bianchi 14’05” – 11 risposte di Luigi Ferrajoli e conclusione 23’10”
Testo dell’introduzione di Luca Caputo a Luigi Ferrajoli
Poteri selvaggi: il nome dell’opera, che accosta l’artificialità del potere e la “naturalità” belluina dei rapporti politici in una espressione forse carica di dissonanza, suscita però, al contempo, l’impressione che si tratti di un accostamento molto pertinente.
Quale modo migliore per descrivere l’attualità politica e civile, se non un contrasto di termini che rappresenta bene la distanza tra l’essere e il dover essere, tra lo stato di natura e lo stato di diritto?
Il richiamo alla selva è, quindi, un grido d’allarme: è il segnale della regressione dalla civiltà delle Costituzioni e dei diritti sostanziali a quella dell’uso indiscriminato e irresponsabile (ossia, che non può essere sindacato nella sua legittimità) della forza.
La tesi proposta è che la nozione formale (e generale) di democrazia (chi decide e come decide) non sia di per sè sufficiente a integrare la fassispecie della “democrazia costituzionale”, perchè non dà rilievo al che cosa delle decisioni. Infatti le Costituzioni rigide, che sono alla base degli odierni sistemi, prevedono limiti e vincoli alle attività legislativa e di governo, tali da individuare una sfera dell’indecidibile, la cui invasione determina il c.d. “diritto illegittimo”. Il contrasto tra democrazia formale e democrazia sostanziale è talmente stridente che le odierne democrazie costituzionali non devono essere considerate vere democrazie, se ricolleghiamo a questa nozione solo i primi due aspetti (chi e come decide). Oppure, all’inverso, che quei regimi politici nei quali le maggioranze democraticamente elette legiferano senza il rispetto dei limiti e vincoli costituzionali sul che cosa viene deciso, non sono veramente democratici.
Tali conclusioni non sono azzardate: l’esperienza del secolo scorso ci dice che è possibile l’instaurazione per vie democratiche di un regime dittatoriale, la cui legittimazione, ricevuta una tantum con voto popolare, ha consentito di realizzare sostanziali (ma non formali) colpi di Stato, cancellando le deboli garanzie costituzionali sullo stato di diritto e sulla rappresentanza parlamentare in virtù del fatto che le decisioni erano votate da una maggioranza democraticamente eletta.
Successivamente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, le Costituzioni rigide, ponendo le proprie norme al vertice della gerarchia delle fonti, hanno cambiato radicalmente il paradigma non solo del diritto e delle condizioni di validità delle leggi, ma della stessa struttura della democrazia, non più caratterizzata solo dalla sua dimensione politica e formale, ma anche dalla sostanza dei contenuti delle decisioni.
La questione non è di poco conto: per effetto dell’isomorfismo tra diritto e sistema politico, questo mutamento ha interessato anche il rapporto tra politica e diritto: non più il diritto subordinato alla politica ma la politica come attuazione del diritto.
Democrazia costituzionale, quindi, come fusione tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Concordando con la scelta dell’approccio sistemico e giuridico all’analisi della crisi democratica del nostro Paese, non si può non riconoscere merito allo sforzo teso a sgombrare il campo dagli equivoci e a smascherare contraddizioni e mistificazioni del lessico politico. A partire dalla difesa, affatto di parte, della Costituzione e della sua rigidità, che negli ultimi vent’anni è stata attaccata quasi fosse la causa dell’inefficienza amministrativa, la base giuridica della corruzione dilagante nei partiti, la vera zavorra sul terreno delle riforme verso uno Stato più efficiente e democratico.
Spicca un passaggio in particolare di questo lavoro: tracciato netto il limite tra la sfera del decidibile e quella dell’indecidibile, quindi tra la sfera di pertinenza della politica e del mercato e quella dell’insieme dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, e declinata la democrazia costituzionale in quattro classi di diritti fondamentali (politici, civili, liberali, sociali), l’autore ci riconduce all’essenza di quell’insieme di diritti (liberali e sociali) che fungono da contro-poteri rispetto ai diritti civili e politici: lungi dall’essere meri (e odiosi) limiti ai secondi, essi ne sono la sostanza democratica: in altri termini, la democrazia costituzionale così declinata realizza quello che la democrazia formale da sola non fa, ossia il governo non più solo del popolo ma anche per il popolo.
Tutta l’analisi è dunque centrata, inevitabilmente, in un doppio momento: democrazia formale e democrazia sostanziale, decidibile e non decidibile, diritti e garanzie, poteri e insieme di limiti e vincoli: il tutto composto in un sistema coerente.
Doppio è anche il momento del processo decostituente qui denunciato: la crisi odierna della democrazia italiana va letta non solo dall’alto ma anche dal basso. Agli assalti sferrati dalla classe dirigente corrisponde, in una dinamica di reazione e relazione, la risposta della società. Anche questi senza dubbio composti in un processo unitario, in cui ad esempio il disprezzo delle regole operato da chi le scrive a proprio vantaggio è strettamente connesso con una “morale pubblica in proprio”, caratterizzata dall’ampliamento della percezione di ciò che è un diritto e da una compressione della sensibilità verso i doveri: una opinione pubblica che assume come metro di valutazione i propri interessi personali per le questioni pubbliche.
Abbiamo parlato di “dinamica di reazione e relazione”. Difficile, infatti, stabilire se i comportamenti “devianti” della società siano prodotti da quelli delle classi dirigenti, o se ne siano piuttosto la vera, genuina, legittimazione popolare. Ciò che fa il Capo può essere fatto da tutti, o piuttosto il Capo rappresenta pienamente velleità, pulsioni e istinti di chi lo elegge?
Quello che, senza dubbio, appare come un vulnus democratico, è proprio lui: il Capo.
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una mistificazione circa il ruolo del Capo, dei capi, e della rappresentatività politica. Mistificazione che ha coinvolto inevitabilmente la Costituzione, facendola oggetto del suddetto processo decostituente, volto a smantellarne le garanzie.
La dimensione di questa mistificazione è colossale e ha interessato non solo il sistema politico ma anche, conseguentemente, la stessa struttura della nostra democrazia, sempre meno costituzionale e sempre più orientata verso una forma tutta nostrana di regressione premoderna allo stato patrimoniale, con forti connotazioni populiste. In una bestiale sintesi, il Capo appare inevitabilmente, grazie al voto elettorale, investito di una sorta di rappresentanza legale irrevocabile a tempo determinato. La confusione tra interessi pubblici e interessi privati, l’elevazione a dottrina costituzionale della discrezionalità con cui il proprietario gestisce la propria azienda per i fini che gli (non le) sono propri, la visione insomma mercantilistica della res publica e della società, non potevano che produrre un vero e proprio contratto con gli Italiani, in cui la proposta formulata dal futuro rappresentante riceve formale accettazione per mezzo del voto elettorale. E in conseguenza di questo, legifera, annettendo peraltro le quote di rappresentanza conferite agli altri proponenti: non una semplice onnipotenza della maggioranza ma piuttosto il cannibalismo della maggioranza. Con l’aggravante citata, ma tutt’altro che scontata, della confusione della res publica con la res privata del Presidente del Consiglio.
Analogamente alla costruzione del sistema democratico, il processo decostituente consta di un complesso ma omogeneo sistema di attacchi alla democrazia, articolato in quattro dimensioni, l’una concatenata all’altra e ciascuna, a propria volta, consistente in un doppio momento. Così, all’affermazione del leaderismo e del populismo non può che fare da contraltare l’azzeramento dei dissenzienti e l’omologazione dei consenzienti, in un quadro che vede una sempre maggiore verticalità del potere accompagnata a una dissoluzione dell’opinione pubblica, che con la spoliticizzazione di massa e il primato degli interessi privati è lo specchio del conflitto di interessi ai vertici dello Stato, o per meglio dire all’elevazione a sistema degli interessi privati in luogo di quelli pubblici. E ancora, la trasformazione dei partiti in centri di potere non più democratici (ancora, un attacco alla Carta) e rispondenti innanzitutto al proprio capo anche prima che a sè stessi, divenuti sostanzialmente degli occupanti abusivi delle istituzioni, nelle quali hanno finito per identificarsi (si ricorderà, ad esempio, la proposta di far votare le leggi direttamente dai capigruppo, quasi si trattasse di un’assemblea sociale coi rappresentanti che votano in forza delle quote sociali), ha innescato una crisi della partecipazione politica. Fino all’attuale legge elettorale, che espropria i cittadini dell’ultimo potere decisorio rimasto, distrugge il rapporto tra cittadini ed eletti e degrada questi ultimi al ruolo di emanazioni della volontà del capo, cui devono omaggio come novelli feudatari al sovrano, e al quale solo rispondono. Tuttavia, nel momento in cui i partiti si ritirano dal loro ruolo di intercettori e sintetizzatori delle istanze popolari, per consegnarsi al leader, ci pare che il rapporto causa-effetto sia del tutto chiaro, e che la risposta della società sia diretta conseguenza del modo in cui i partiti intendono sè stessi e il loro rapporto con i cittadini. Per finire, aspetto tutt’altro che marginale, il devastante combinato controllo dell’informazione per mano e proprietaria e politica, nel momento in cui ceto politico e proprietà sono, se non proprio identici, per lo meno molto legati. Da questo enorme squilibrio tutto a vantaggio della libertà imprenditoriale del proprietario ma non del diritto dei cittadini ad essere informati, sono derivate molte delle “risposte” che la società ha restituito alla politica e alle istituzioni, e in definitiva a se stessa.
Si parla sovente, a questo proposito, di anomalia, o specificità, italiana: che pure pare esserci, ma proprio per questo motivo va letta in quanto tale: quanto un simile processo decostituente è proprio di casa nostra e quanto è invece legato alla situazione politica, sociale ed economica, mondiale?
La semplificazione populista del dibattito politico, che ha schiantato come dinosauri della politica interi gruppi dirigenti, è iniziata inneggiando a furor di popolo a sistemi elettorali di tipo anglosassone; la figura del leader, che pure periodicamente la storia restituisce in maniera pesante all’Italia, pare essere un denominatore comune anche a Paesi democraticamente più maturi, e non appare slegata dalla crisi profonda del ruolo dei partiti. La quale è frutto anche dell’inadeguatezza di questa forma associativa a rappresentare dinamiche economiche e sociali la cui complessità è andata crescendo in maniera esponenziale; anche a causa della globalizzazione finanziaria e dell’abbattimento delle regole che blindavano, oltre ai confini delle economie nazionali, le capacità delle istituzioni di intervenire e governare processi sempre più complessi. Nè si può dire che l’informazione proprietaria e l’uso politico della stessa siano un’ invenzione nazionale.
Se c’è una specificità tutta italiana, allora estremamente pertinente ci pare, a questo punto, l’impostazione giuridica dell’analisi che l’autore fa del processo decostituente: la confusione totale di interessi pubblici e privati, e con essi dei ruoli, appare soprattutto nostrana, e si realizza nel disprezzo generale per le regole. Perchè se in tutto il mondo occidentale si può assistere a un generale arretramento delle garanzie per i cittadini, sempre meno tutelati come lavoratori e pochissimo come consumatori, esposti come cittadini a poteri non solo politici sempre più selvaggi, l’irresponsabilità di detti poteri di fronte alle regole, che cerca e trova consenso popolare nel regresso continuo dello Stato e delle sue istituzioni, assume in Italia caratteri che ne fanno uno specifico nel mondo occidentale.
L’impunità che fa apparire tutto come possibile, produce l’allontanamento dei cittadini dalle istituzioni e l’inselvatichirsi non solo dei rapporti tra governanti e governati, ma per naturale conseguenza, anche di quelli tra governati, fino alla regressione a uno stato pregiuridico dei rapporti sociali e civili; l’assimilazione degli interessi pubblici in quelli privati del Capo (sia esso del Governo piuttosto che di un partito); la confusione totale dei poteri, con definitiva teorizzazione dell’illegittimità dell’azione della magistratura quando indaga sul Capo democraticamente eletto. Il quale già ha ridotto il Parlamento a mera emanazione dell’esecutivo, cioè di sè stesso; sono tutte patologie che a casa nostra hanno assunto particolare vigore.
Anche a parità di corruzione, esiste una sostanziale differenza tra la corruzione che ha segnato la degenerazione della Prima Repubblica e quella che è propria della c.d. Seconda Repubblica: tale differenza è la separazione dei ruoli e di identità tra corruttore e corrotto. L’unico baluardo che permette di classificare i medesimi comportamenti come inaccettabile abuso del proprio ruolo pubblico e indebito tentativo di influire sul potere, è la circostanza che pubblico e privato siano ben distinti. L’imprenditore che tenta di corrompere il politico per ottenere indebitamente decisioni a lui favorevoli fa chiaramente i propri interessi, in violazione della legge. Alla stessa maniera, il politico che chiede una tangente o altro genere di beneficio per prendere decisioni favorevoli in particolare a tizio o caio fa chiaramente i propri interessi, in violazione della legge e del (questo sì) mandato ricevuto dagli elettori. Quando però il politico è il corruttore di sè stesso, e l’imprenditore assume in prima persona il potere politico, allora cade la separazione dei ruoli che permette di esigere dall’uomo pubblico ciò che dall’uomo privato non si può pretendere: il rispetto della legge e del mandato ricevuto di operare non solo in nome e per conto, ma nell’interesse esclusivo del popolo.
Cosa c’è allora alla base della specificità italiana? L’immaturità democratica di una nazione giovane o l’opera eversiva di un Presidente del Consiglio che spudoratamente dice alla Guardia di Finanza che l’evasione fiscale è giusta e le tasse sono nemiche dell’economia?
Forse il vizio capitale di Berlusconi è la spudoratezza, che ha prodotto spudoratezza e impunità. In Italia più che altrove, dare sfogo ai propri istinti è divenuto il principio cardine delle relazioni civili, ciò che mi impedisce di esprimermi è contro la mia libertà, ciò che mi vincola come soggetto economico è diseconomico, e via discorrendo…
Come abbiamo accennato, impulsi decostituenti e antidemocratici provenienti dall’alto e spinte analoghe dal basso sono strettamente legati: ciò che può fare il Capo, in quanto questi mi rappresenta e dice di rappresentarmi, lo posso fare anche io: questo è il messaggio eversivo proveniente nientemeno che dal Capo del Governo, veicolato in tutti i modi dai mezzi di comunicazione strettamente legati al potere. Ed ecco le spinte decostituenti che caratterizzano la vita civile ed economica italiana, fino alla denuncia del diritto di sciopero e della rappresentanza sindacale, o alla sostanziale lesione della libertà di circolazione su territorio nazionale. E si potrebbero citare i numerosi casi, molto meno eclatanti, riguardanti l’irresponsabilità di sindaci o titolari di altre cariche pubbliche locali nei confronti degli amministrati, che perseguono in maniera perfettamente legale interessi tutt’altro che pubblici.
La vastità del fenomeno è insomma tale da farci ritenere che questa anomalia, forse innescata , sicuramente esaltata, da Berlusconi, sia tutto sommato un vizio della società italiana nel suo complesso. In chiave storica, ci sovviene il doppio momento delle civiltà, perennemente oscillanti tra le spinte autoritarie e i risvegli democratici: è forse leggibile in questo senso la fase storica della nostra giovane democrazia, quasi che l’inevitabile oscillazione continua tra autoritarismo e costituzionalismo sia oggi a un apice, e comunque destinata a volgersi verso l’altro in una nuova spinta costituzionale? L’attuale Costituzione contiene in sè gli anticorpi che possono permetterle di sopravvivere al processo decostituente? E quanto la recente caduta di Berlusconi cambia questo scenario E’ possibile che la debole democrazia italiana cada preda di nuovi, più virulenti poteri?
Queste sono le domande che consegnamo all’autore; il quale opportunamente vede la via delle regole come unica uscita possibile. Cambiata e aumentata la complessità della società, è possibile che si sia realiazzata una fisiologica erosione delle garanzie costituzionali che rende necessaria, quindi, una nuova stagione delle regole, forse addirittura una nuova fase costituente, per riscrivere la sostanza del nostro essere società di cittadini; passando magari attraverso la scrittura di nuove regole della rappresentanza politica, e la statuizione di nuove, democratiche, forme di partecipazione.
Trascrizione della relazione di Luigi Ferrajoli
Innanzitutto, voglio ringraziare i Circoli Dossetti e Giovanni Bianchi per questo invito e Luca Caputo per questa sintesi, per questa presentazione di questo libretto Poteri selvaggi.
Poteri selvaggi è un’espressione che è dentro una parafrasi di una classica espressione di Kant sulla libertà selvaggia. Kant parla della libertà selvaggia, evidentemente alludendo ed evocando Thomas Hobbes, per riferirsi a quella libertà che hanno gli esseri umani, o avrebbero gli esseri umani in uno stato di natura, senza regole; in uno stato di natura la libertà è totale e dunque si afferma come legge del più forte. E di fatto la libertà del più forte è una libertà che evidentemente produce danni a tutta la società, innanzitutto ai più deboli, ma a tempi lunghi anche ai più forti. Hobbes scrive che anche i più forti dormono, e quindi sono esposti alla congiura dei più deboli.
È dunque questa ipotesi dello stato di natura, che evidentemente non è un’ipotesi storiografica, ma è un’ipotesi teorica, che serve a Hobbes per formulare un’argomentazione a contrario a sostegno dell’artificio giuridico che però per Hobbes è addirittura lo stato assoluto; è la ragione che detta, diciamo, l’utilità e l’interesse di tutti a tutela della vita, della sopravvivenza, del contratto sociale, del patto di convivenza in forza del quale tutti conveniamo ad alcune regole che consentano la pace, che pongano fine alla guerra di tutti contro tutti.
Queste regole sono le regole che garantiscono per l’appunto l’immunità dalla libertà selvaggia di cui parla Kant. Sono un limite alla libertà ma al tempo stesso sono una condizione della convivenza civile. È interessante riflettere sul fatto che Thomas Hobbes, che pure è stato il teorico dello stato assoluto, è stato anche l’inventore, per così dire, della nozione dei diritti fondamentali. Perché il diritto alla vita è per l’appunto un diritto di tutti, è un diritto universale e in questa universalità risiede il suo carattere fondamentale, è la ragion d’essere dell’artificio giuridico. Nella tradizione giuridica, per diritto soggettivo si intendeva comunemente soltanto il diritto di proprietà, il diritto di credito, il diritto patrimoniale, cioè diritti disponibili, diritti alienabili, diritti che sono alla base della disuguaglianza.
Con Hobbes fa il suo ingresso (si potrebbero trovare anche degli antecedenti ma qui serve soprattutto sottolineare l’importanza di questa grande connessione, di questa grande scoperta che è stata la tesi tra la protezione dei diritti fondamentali e del diritto alla vita, e la nascita dello stato moderno), per Hobbes per l’appunto l’artificio giuridico si giustifica e trae il proprio fondamento dalla garanzia di questo diritto, per così dire naturale, che contrariamente ai diritti patrimoniali è un diritto di tutti. E fa il suo ingresso la nozione di diritto naturale, che poi saranno i diritti che verranno costituzionalizzati nelle grandi costituzioni a cominciare dalla Dichiarazione dell’uomo e del cittadino del 1789 e poi in tutte le Costituzioni Europee, come limiti e vincoli a qualunque potere. E si arricchirà questa carta, si avranno diverse generazioni di diritti, diritti appunto di libertà e di proprietà con Locke e poi i diritti politici, i diritti sociali, i diritti delle diverse generazioni, fino ad arrivare alle costituzioni odierne. La nostra è senz’altro una delle più avanzate nel mondo, ma esistono costituzioni, che io chiamerei di terza generazione, che hanno arricchito ulteriormente il catalogo dei diritti e soprattutto il catalogo delle garanzie.
Questi diritti vengono formulati nelle costituzioni moderne e tuttavia rappresentano vincoli e limiti di carattere legale. E con la nascita delle democrazie, della democrazia politica che, non dimentichiamo, è un fatto del Novecento, fino a tutto l’Ottocento la gran parte dei paesi, sia pure liberali, in fatto di diritto non erano dotati del suffragio universale; il suffragio universale si generalizza nel Novecento fondando una legittimazione del potere politico che è anche il potere legislativo, funzioni di governo, legislative e di governo.
E qui quindi si manifesta un’aporia perché questi limiti e vincoli sono, sì, stabiliti nelle costituzioni, negli statuti che non a caso sono il risultato di rivoluzioni, di moti per gli statuti, la rivoluzione francese, tutte le costituzioni sono il risultato di movimenti rivoluzionari che impongono al sovrano la rifondazione della sua legittimazione, del contratto sociale, per l’appunto, sulla base delle clausole; sono contratti sociali in forma scritta, come il contratto sociale hobbesiano o lockiano trasformato in diritto positivo.
E tuttavia queste costituzioni, questi statuti, nel loro modello ottocentesco (non parliamo della costituzione americana perché richiede un discorso diverso, una diversa origine, una diversa struttura), certamente le costituzioni europee, pensiamo allo statuto albertino, altro non sono che leggi, leggi solenni ma pur sempre leggi, leggi ordinarie. E dunque l’aporia si manifesta (ne ha già parlato Luca Caputo) nel fatto che queste leggi sono per l’appunto leggi che possono essere modificate dalla maggioranza, esposte alle contingenti maggioranze.
E qui dobbiamo registrare il fatto che il modello costituzionale caratterizzato da quelle che chiamiamo oggi costituzioni flessibili, e cioè costituzioni che, per quanto solenni, hanno il carattere di leggi ordinarie, e badate hanno questo carattere perché non era stata inventata (di qui l’enorme rilevanza che ha sempre avuto la teoria, non soltanto Hobbes, ma anche Kelsen) nel teorizzare la rigidità delle costituzioni, e cioè il fatto che le costituzioni sono sopraordinate alla legge, ma questa è stata un’invenzione novecentesca. Nel modello dello stato legislativo di diritto, chiamiamolo così in opposizione allo stato costituzionale di diritto, le costituzioni per quanto solenni possono essere modificate dalla maggioranza.
Ed è purtroppo quello che è avvenuto in Italia e in Germania dove fascismo e nazismo hanno preso il potere con mezzi legali, o comunque attraverso la manipolazione, evidentemente, una legge elettorale per altro per il fascismo che ci ricorda quella porcata attuale in vigore in Italia, la legge Acerbo, che dà la maggioranza, (attualmente del 55%, la legge Acerbo dei 2/3), però fissava quanto meno un limite richiesto perché scattasse questo premio, cioè una quota minima, oggi viceversa la fruizione continua a maggioranza relativa e quindi la maggiore minoranza ottiene il 55% dei seggi. Comunque, in ogni caso attraverso mezzi legali furono distrutte le democrazie.
La Costituzione italiana del ’48 e la legge fondamentale tedesca del ’49 nascono a seguito di queste catastrofi, cioè la democrazia prende coscienza di sé e si rende conto che il consenso maggioritario non garantisce la qualità del sistema politico e neppure la sopravvivenza della democrazia. E quindi si conviene, si stipula, proprio nel senso originario del patto di convivenza, del contratto sociale di origine naturalista, ciò che nessuna maggioranza può decidere e ciò che qualunque maggioranza deve decidere nella forma dei diritti fondamentali.
I diritti di libertà sono diritti di immunità a cui corrispondono dinieghi in capo alla sfera pubblica, in capo al legislatore e i diritti sociali sono diritti a cui corrispondono obblighi di prestazioni , il diritto alla salute, il diritto all’istruzione: sono diritti per l’appunto che impongono limiti e vincoli alla sfera pubblica, alla sfera politica. In questo senso, il potere viene sottoposto, anche il potere supremo, anche il potere democratico, viene sottoposto alla legge, al patto di convivenza che è il frutto dell’esperienza dei fascismi. E non a caso in Spagna, in Portogallo e poi oggi nelle recenti costituzioni latino-americane dopo le dittature, si riformula il patto di convivenza attraverso costituzioni rigide, particolarmente rigide, perché la Costituzione italiana è stata una delle prime e quindi c’è una rigidità molto debole. Nelle costituzioni, pensiamo a quella portoghese, a quella brasiliana, alcuni principi sono assistiti da una rigidità assoluta. Il principio di uguaglianza, i diritti fondamentali, la separazione dei poteri non possono essere modificati neppure all’unanimità. Per altro verso altre norme vengono assistite da una rigidità più o meno, diciamo, elevata a seconda della loro importanza, e alcune parti viceversa sono consegnate alla maggioranza assoluta, come per esempio in Italia.
Ma certamente la previsione di una maggioranza qualificata differenzia la legge costituzionale dalla legge ordinaria e quindi consente di superare quello che sembrava un assurdo, anche perché lo era sotto certi aspetti, e cioè in democrazia come si può parlare di una legge sulle leggi? Un postulato, per così dire, in positivo giuridico, della democrazia politica, l’onnipotenza della maggioranza, e un postulato dello stato di diritto è che i poteri sono sottoposti alla legge e la legge, a sua volta, è per l’appunto sovrana.
Viene posta fine a questa sovranità come potestas legibus absoluta in capo al legislatore, grazie a questa straordinaria invenzione che è la Costituzione. E la sovranità cambia di senso. In una democrazia costituzionale non esistono poteri sovrani, non esistono poteri costituiti sovrani. Certo la costituzione italiana ha nel suo articolo primo il principio che la sovranità appartiene al popolo; ebbene questo principio, a parte che la norma prosegue con quelle norme di riforma previste dalla costituzione, ma anche soltanto il principio che “la sovranità appartiene al popolo”, a mio parere, rappresenta una garanzia negativa contro l’usurpazione della sovranità da parte di qualunque altro soggetto, da parte di qualunque parlamento, da parte di qualunque presidente. La sovranità appartiene al popolo e soltanto al popolo e nessun potere costituito può appropriarsene.
Questo è il significato della sovranità popolare. E poiché il popolo non è un macro-soggetto, come ci ha insegnato Kelsen, dotato di una volontà unitaria (come viceversa suppongono tutte le concezioni e tutti gli orientamenti populisti) ma è l’insieme di tutti noi e cioè di milioni di persone, la sovranità popolare significa in positivo che la sovranità appartiene a ciascuno di noi ed equivale ad altrettanti frammenti di sovranità consistenti in altrettanti diritti fondamentali. I diritti fondamentali sono poteri e contropoteri in capo a ciascuno, sicché noi siamo tutelari della Costituzione, la cui somma forma appunto la sovranità popolare. Quindi che la sovranità appartiene al popolo è una garanzia contro l’onnipotenza di qualunque potere costituito.
Ebbene, questo modello, sul quale si è costruita la democrazia costituzionale non soltanto in Italia ma in tutte le democrazie avanzate, è entrato in crisi con la vicenda berlusconiana, per la perdita di memoria, e per la riaffermazione, diciamo, di una vecchia ideologia, quella del carattere per così dire identitario del popolo. Il popolo è un altro soggetto, questa è una vecchia tesi di Carl Schmitt che, in maniera più o meno consapevole (non credo che i nostri governanti conoscano i testi anche orrendi a cui queste ideologie si rifanno), ma certamente si afferma l’idea che la democrazia consiste nell’investitura popolare di un capo e che questo capo non rappresenta ma è la sovranità popolare, è il popolo.
Questa è la tentazione e, a mio parere, il tratto caratteristico del fascismo, dei totalitarismi, che non è tanto la mancanza di consenso: purtroppo questi regimi hanno avuto un consenso maggioritario. Consiste precisamente nella manomissione del principio della rappresentanza e nella identificazione fra rappresentanti e rappresentati, che è una tentazione permanente. Il parlamento è sovrano, siamo il popolo sovrano, quante volte lo abbiamo sentito dire, Che quindi non ammette limiti e vincoli per cui l’insofferenza per la magistratura, per la Corte costituzionale, per il presidente della repubblica, per i contrappesi, per i diritti fondamentali, per i limiti e vincoli, persino per il dissenso, lo abbiamo sentito dire anche per i giornalisti (fatevi eleggere e potete quindi esprimere il vostro dissenso, fatevi eleggere magistrati). Questa idea per l’appunto di un rapporto organico fra ceto politico e società rappresenta la tentazione permanente, il rischio permanente che può minare la democrazia tanto quanto diventa senso comune.
Perché tutto questo è diventato senso comune. Io ho ricordato, l’ho messa in epigrafe in questo volumetto, la tesi di Kelsen che agli inizi degli anni ’30, in una famosa polemica con Carl Schmitt, giurista a mio parere sopravalutato, che era un nazista e che sosteneva che la democrazia consiste per l’appunto nel rapporto organico tra parlamento e popolo e sosteneva che il Presidente della repubblica (siamo mi pare l’anno prima dell’avvento del nazismo) rappresenta l’unità del popolo tedesco, il cancelliere è l’unità del popolo tedesco (di qui poi la logica dell’amico-nemico per cui il dissenziente è anche un nemico), Kelsen replicava dicendo che la democrazia è un sistema politico senza capi.
E aggiungeva, nello spirito di questa tesi, ricordando appunto il passo di Platone, della Repubblica, nel quale a un discepolo che chiedeva a Socrate (siamo nella discussione, nella controversia che prende origine da Platone ma che si ripropone attraverso tutta la storia del pensiero politico, tra il governo delle leggi e il governo degli uomini, è preferibile il governo delle leggi o il governo degli uomini migliori?): “Ma cosa dobbiamo fare se ci troviamo di fronte a uomini veramente migliori, cioè a un genio, a una persona in grado appunto di risolvere i problemi meglio di chiunque altro?”. E Socrate risponde: “Noi, dopo aver espresso a quest’uomo tutta la nostra ammirazione, dopo avergli spiegato che nella nostra repubblica non c’è spazio per uomini di questo genere, cintogli il capo d’alloro, lo accompagneremo alla frontiera”.
Perché tutti i capi vengono esaltati e si autocelebrano come geniali… gli Stalin, gli Hitler, i Mussolini. Tutti i capi si presentano e si accreditano come eroi, come giganti, e questa è una tentazione sempre presente nelle democrazie in cui il popolo viene per l’appunto percepito come totalità.
Fra l’altro, la migliore definizione del populismo si trova a me pare in un passo di Aristotele il quale definisce la demagogia, che è poi il populismo, come quel sistema democratico in cui il popolo figura come totalità, cioè come un unico soggetto. Esattamente l’opposto di quanto Kelsen sostiene che debba essere la democrazia, perché Kelsen dice che questa idea del soggetto popolo, come soggetto unitario, è un’ideologia che occulta il pluralismo politico; il conflitto di classe (sono parole di Kelsen che certamente non era un comunista), la lotta di classe, il conflitto degli interessi, il pluralismo ideologico che non solo attraversa, ma che è giusto che attraversi, e che deve attraversare qualunque società democratica.
La democrazia non consiste tanto nel libero consenso, quanto nel libero dissenso ed è fuorviante anche l’idea rousseauviana della volontà generale, sia in quanto intesa come volontà buona, perché purtroppo dobbiamo registrare dopo il fascismo e il nazismo, che pure ebbero il consenso maggioritario, ma anche lo stalinismo e questa volontà non è affatto buona, sia perché questa idea dell’autogoverno nel quale consisterebbe la democrazia, la volontà generale come autodeterminazione, in realtà si realizza soltanto nell’ipotesi limite di una democrazia diretta in cui tutte le decisioni fossero prese all’unanimità.
Perché nella democrazia rappresentativa le decisioni sono prese dai rappresentanti e gli elettori possono soltanto designare, qualora le leggi elettorali lo consentano, ma non possono decidere. Esiste, e io credo che sia davvero la miglior garanzia della rappresentatività, il divieto di mandato imperativo stabilito nella Costituzione del 1793 e riprodotto in tutte le costituzioni parlamentari, e presente anche nella Costituzione italiana (articolo 67), perché è impossibile per l’elettore prevedere le decisioni che saranno prese. Quindi, bisogna che si riconosca che le decisioni dei rappresentanti che il suffragio universale è sicuramente la miglior tecnica per assicurare la democrazia politica, formale, il chi e il come delle decisioni, ma questo chi e questo come nella democrazia rappresentativa è identificabile come i rappresentanti che non vanno confusi con i rappresentati.
Questa dimensione ha a che fare con la forma della democrazia e non garantisce la qualità delle decisioni, che è invece garantita dai limiti e dai vincoli costituzionali. Ma non garantisce neanche l’autogoverno perché l’autogoverno si ha se ci fosse una democrazia diretta in cui tutto fosse funzione della maggioranza, addirittura all’unanimità. Ma badate che un sistema di questo tipo, una democrazia diretta in cui tutte le decisioni fossero prese all’unanimità, non soltanto è impossibile, ma è spaventosa. Cosa diremmo di un sistema in cui tutti decidessero alla unanimità? Che è evidentemente un sistema in cui le coscienze sono manipolate, che è evidentemente un sistema in cui tutti sono misteriosamente della stessa opinione.
E dunque dobbiamo registrare il fatto che la democrazia politica consiste precisamente nel pluralismo degli interessi, delle opinioni, delle valutazioni; rappresenta il suffragio universale, il principio di maggioranza la tecnica migliore per selezionare i governanti a condizione che non si cada nella mistificazione ideologica di confondere i governanti con i governati, il capo con il popolo sovrano che è precisamente quello che abbiamo vissuto in questi anni e che è stato favorito anche dalle leggi elettorali.
Noi abbiamo negli anni ’90 votato contro il referendum, molti di voi lo ricorderanno, che segnò il passaggio al sistema bipolare; io sono convinto che l’unico metodo elettorale democratico è il metodo proporzionale. Il metodo proporzionale che assicura la rappresentanza di tutti. Un sistema bipolare come quello che è stato introdotto in Italia negli anni ’90 con il mattarellum, e che è stato aggravato e deformato dalla legge porcata attualmente in vigore, un sistema bipolare presuppone, quantomeno, pur essendo sempre comunque imperfetto, una condivisione generale di principi elementari: la separazione dei poteri, il rispetto delle leggi, il fatto che non si ruba; insomma, ci sono alcune cose che formano il presupposto del bipolarismo e cioè che quantomeno (pensiamo a paesi come l’Inghilterra che non hanno mai conosciuto il fascismo) ci sia quello che oggi si chiama il patriottismo costituzionale, il senso della legalità, il senso della comune appartenenza, il patto di convivenza che sia condiviso da tutti.
In Italia abbiamo dovuto registrare che non è affatto condiviso da tutti. Non è giusto pagare le tasse, non è fondato e non è giusto il principio delwelfare, insomma il lavoro leviamolo dalla carta costituzionale come fondamento, i diritti sociali costano e vanno per l’appunto soddisfatti nei limiti delle possibilità di bilancio che fanno sempre salve le grandi ricchezze: questa è la mancanza di condivisione. E d’altra parte il metodo uninominale, o comunque il sistema maggioritario, il metodo uninominale classico, è quello dell’Inghilterra: l’Inghilterra è un grande paese, una grande democrazia perché è una democrazia consolidata che ha potuto conservare istituti premoderni, a cominciare dal diritto comune, il common low, che è poi il vecchio diritto comune non la codificazione, la monarchia e anche il sistema uninominale. Il sistema uninominale che nasce come rappresentanza territoriale allorquando si doveva mandare il baronetto della contea a rappresentare il territorio, ma con il suffragio universale, la democrazia politica il sistema uninominale non ha senso; ha senso se associato a meccanismi come quello presente per esempio in Germania che consentono poi la ripartizione dei seggi proporzionalmente ai voti ricevuti.
E comunque il sistema bipolare ha favorito la personalizzazione della politica grazie anche a quella che a mio parere è la norma più sciagurata della legge attualmente in vigore, che non è il fatto che i deputati vengano nominati dai capi, dalle segreterie e sono vincolati da un mandato imperativo di fatto, ma anche di diritto. Questa cosa ha cambiato talmente il senso comune che abbiamo tutti visto in televisione i dibattiti nei quali veniva considerato un tradimento, un attacco alla democrazia, il fatto che si potesse votare la sfiducia al capo eletto dal popolo: questo ha cambiato il senso comune. Tra l’altro, neanche l’opposizione ha mai protestato di fronte ad affermazioni che segnalavano il mutamento di sistema.
La stigmatizzazione come tradimento, come ribaltone, come aggressione alla democrazia, del rapporto di fiducia che nelle democrazie parlamentari deve accompagnare il rapporto tra Parlamento e governo, si è capovolto: è il Parlamento che deve avere la fiducia del presidente del consiglio e non viceversa.
Ma non è nemmeno questa la cosa più grave e neppure il premio di maggioranza sul modello della legge Acerbo, ma una norma apparentemente secondaria che è la previsione del nome del capo della coalizione sulla lista: Berlusconi, o che so, Casini, Di Pietro, eccetera, in forza del quale il capo della coalizione è stato investito dal consenso popolare e per l’ideologia selvaggia che l’accompagna non ha limiti, né vincoli: ha una legittimazione assoluta.
Adesso noi stiamo vivendo una fase di transizione nella quale certamente dobbiamo registrare la debolezza della politica e il governo Monti è un governo di tecnici: ma badate che contrariamente a quello che si dice spesso, e cioè che c’è stata una sospensione della democrazia, dobbiamo viceversa registrare che, indipendentemente dal fatto che questo governo può non piacere, è certamente un governo di destra, un governo liberista, il governo Monti ha ristabilito la fisiologia della democrazia perché ha ristabilito la fisiologia del rapporto di fiducia: può essere sfiduciato in qualunque momento o da destra o da sinistra, mentre invece prima c’era questo sistema bloccato in forza del quale il Parlamento non poteva formulare la sfiducia. Anche se il presidente del consiglio fosse impazzito, diventato un delinquente, non so, dato prova di dissennatezza, di costumi scorretti, anche in questa ipotesi diciamo di scuola o non tanto di scuola, non sarebbe possibile sfiduciare il presidente. Il governo Monti ha ristabilito il rapporto di fiducia fra governo e Parlamento.
La legge porcata è stata, si dice, salvata dalla Corte costituzionale. Io qui vorrei dire brevemente due cose. La prima riguarda il fondamento di questa decisione che io prevedevo: dal punto di vista tecnico mi pare difficilmente censurabile, anche se avrei sperato forse in una dichiarazione di ammissibilità, ma è un principio elementare, lo si chiede agli studenti di giurisprudenza, che una legge abrogata quale era il mattarellum abrogata dalla legge porcata, non esiste e quindi l’abrogazione per effetto di referendum della legge in vigore non la fa rivivere e questa è una tesi, a parte ragionevole, certamente formulata in almeno 4 o 5 precedenti dalla stessa Corte costituzionale che avrebbe dovuto cambiare giurisprudenza, fare salti mortali, eccetera, eccetera. Lo stato di diritto funziona così, regge tanto quanto viene preso sul serio innanzitutto dai giudici, innanzitutto dalla Corte costituzionale.
Detto questo, io credo che il mattarellum, sicuramente incomparabilmente migliore della legge in vigore, non è la soluzione, perché l’abbiamo sperimentato. Io credo che dobbiamo tornare al metodo proporzionale, al sistema tedesco. Forse ci può essere anche l’interesse della destra che sembra non essere più maggioritaria, ad avere un sistema proporzionale. Il sistema proporzionale è comunque il sistema che garantisce maggiormente contro queste tentazioni.
Gobetti parlava di autobiografia della nazione, ma adesso purtroppo abbiamo una democrazia fragile, la tentazione del culto del capo, la tentazione dell’insofferenza per il diritto, la legge non presa sul serio e quindi anche la Costituzione non presa sul serio, i limiti e i vincoli al potere altrimenti selvaggio non presi sul serio. Il nostro è il paese dove viene premiata la furbizia, la capacità di evadere, di eludere tanto che Berlusconi è stato anche un modello, oggetto per l’appunto di ammirazione e di invidia, e comunque un modello della mancanza di limiti, dell’assunzione della forza, della furbizia, del potere come regola, anziché dei suoi limiti.
E allora il metodo proporzionale alla tedesca diventa la soluzione migliore che dovrebbe essere anche accompagnata da una rifondazione dei partiti. I partiti, tutti i partiti, sono in una crisi irreversibile, se non procediamo a delle serie riforme: il momento migliore dei partiti è stato quando il loro personale politico si era formato nell’opposizione, nella clandestinità, i partiti operai di fine Ottocento che nascono per l’appunto come strumenti per la lotta di classe, come strumenti dei soggetti deboli e furono i primi partiti sui quali si sono modellati i grandi partiti liberali, i partiti non solo di sinistra ma anche di destra. E poi i partiti dopo la Liberazione il cui personale politico veniva dalle prigioni, dall’esilio, dalla lotta di Liberazione, cioè persone che avevano sacrificato la loro vita all’interesse generale e che quindi certamente garantivano contro qualunque possibile conflitto di interesse.
E viceversa il personale politico ha finito per corrompersi, per guastarsi per la perdita di radicamento sociale. Oggi sono sempre meno le persone che si iscrivono ai partiti e quindi c’è anche un problema di reclutamento del personale politico che inevitabilmente avviene attraverso clientele, amicizie, rapporti personali e questa forma di inaridimento della vita politica, perché ci sono i movimenti, i club, i circoli Dossetti eccetera, eccetera, l’Italia è piena di energie politiche che certamente non scelgono la militanza nei partiti, che hanno perso di credibilità.
Leggevo, abbiamo letto tutti probabilmente, le indagini sulla credibilità, il prestigio delle istituzioni: ai partiti spetta il 4%, al Parlamento l’8%, praticamente molto meno della polizia. E questo significa un rischio per il futuro della democrazia gravissimo, una democrazia senza partiti non può funzionare. E allora, i partiti si devono riformare in senso democratico. Io ho fatto anche alcune proposte in principia iuris e non soltanto in questo libretto: la democrazia interna dei partiti come condizione del finanziamento e la proposta più provocatoria (e qui mi rendo conto di essere eccessivamente utopista) è la vecchia ricetta della separazione dei poteri e cioè l’incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali. I partiti devono tornare a essere organi della società, i dirigenti di partito se vogliono andare in Parlamento si devono dimettere dalle cariche di partito. I partiti devono essere organi della società che formulano i programmi e le candidature e chiamano a rispondere i gruppi parlamentari, non rieleggendo e non ricandidando coloro che hanno dato prova di incapacità, di negligenza o altro.
Soltanto in questo modo, se si elimina questo conflitto di interessi che consiste nell’autocandidatura, in questa forma, diciamo, di autopromozione che avviene attraverso la legge porcata in maniera assolutamente patologica (naturalmente sono i capi di partito che scelgono tutti i candidati tra i loro fedeli), ma solo se si spezza questo vincolo in maniera radicale, il partito diventa una sede attraente per i cittadini. Naturalment,e sono proposte che si possono viceversa anche attenuare o prevedere dei limiti. Fatto sta che io credo che la democrazia può sopravvivere solo alla democrazia politica, solo rifondando i partiti,
Ma a proposito dei poteri selvaggi, mi rendo conto di aver parlato forse un po’ troppo, ma avrei molto altro da dire su un’altra grande questione che in questo libro è trattata abbastanza marginalmente e cioè: c’è un altro genere di poteri selvaggi ed è quello dei poteri economici, dei poteri privati, dei poteri dell’economia. Intanto qui cominciamo a parlare di un primo grande equivoco che pesa sull’intera tradizione filosofico-politica moderna. E cioè la confusione che è stata operata da Locke e che è stata ripresa in pratica da tutto il pensiero politico, e anche soprattutto dal pensiero giuridico, tra libertà e proprietà.
Non solo tra libertà e proprietà come diritto reale di proprietà su singoli beni, libertà, proprietà e anche diritto fondamentale a diventare proprietari e a scambiare i beni, cioè i così detti diritti civili, che nella formulazione di Locke vengono praticamente equiparati. C’è un ragionamento fortemente suggestivo: la libertà consiste nella proprietà del proprio corpo e quindi dei frutti del proprio lavoro, e quindi c’è un nesso fortissimo tra libertà e proprietà che si riproduce in tutta la tradizione liberale.
Ebbene, questa identificazione ignora la differenza strutturale che c’è tra le libertà come la libertà di coscienza, la libertà di pensiero, le libertà-immunità, le libertà negative, ma anche la libertà del pensiero che è una libertà il cui esercizio non produce effetti nella sfera giuridica altrui, e quei poteri economici che pur essendo diritti fondamentali, pensiamo all’iniziativa economica privata, è un diritto-potere di autonomia che spetta a tutti, ma il cui esercizio produce effetti nella sfera giuridica altrui e che quindi secondo logica nello stato di diritto deve essere sottoposto a limiti e a vincoli, non diversamente dai diritti politici e quindi dai poteri pubblici che si costituiscono sulla base dell’esercizio del voto, dell’esercizio del suffragio universale.
Questa equivalenza è testimoniata dalla stessa espressione stato di diritto, e qui si apre un enorme problema: stato di diritto allude allo stato e cioè alla soggezione, al diritto soltanto dei poteri statali, dei poteri pubblici statali. Ne restano esclusi i poteri privati, cioè i poteri economici, e i poteri sovrastatali che sono oggi i veri poteri selvaggi, ben più selvaggi e aggressivi e pericolosi per il futuro della democrazia, o quantomeno, non meno pericolosi di quanto non siano i poteri politici selvaggi.
Dobbiamo registrare che nel momento in cui si è realizzato, per così dire perfezionato, il modello dello stato di diritto con le democrazie costituzionali si è aperto quest’altro problema perché sia la democrazia che lo stato di diritto nascono, e sono stati pensati e continuano a essere, vincolati ai territori nazionali. La democrazia è la democrazia politica che si manifesta nell’esercizio del diritto di voto, noi votiamo per il nostro Parlamento, poi votiamo anche per il Parlamento europeo che però non ha nessun potere, e certamente a livello globale si sviluppano poteri che sono sottratti a qualunque potere democratico.
E lo stato di diritto analogamente perché la legge è la legge dello stato, è la legge statale e i grandi poteri economici possono scorazzare appunto nella globalizzazione senza limiti o vincoli, o comunque con limiti e vincoli totalmente inadeguati non essendo stata costruita una sfera pubblica alla loro altezza. Lo stato moderno nasce all’altezza del capitalismo diciamo sette-ottocentesco come sfera pubblica eteronoma rispetto alla sfera privata, alle sfere private e quindi alle sfere economiche. Si rompe quella confusione tra proprietà e sovranità che caratterizzava il sistema feudale, lo stato patrimoniale, e la sfera pubblica si autonomizza dalle sfere private come sfera sovraordinata attraverso la legge all’economia.
Oggi con la globalizzazione abbiamo di fatto un capovolgimento del rapporto tra politica ed economia, non abbiamo più un governo politico dell’economia ma abbiamo un governo economico della politica. In altre parole, si sta producendo una subalternità e una impotenza della politica rispetto a questi misteriosi mercati che poi sono la grande finanza, sono i grandi poteri finanziari, appunto, di cui parla per esempio Luciano Gallino, che sono i problemi oggi più gravi per il futuro della democrazia. Più gravi non solo perché le aggressioni dei mercati si risolvono nell’imposizione di politiche recessive dirette a distruggere lo stato sociale, il diritto del lavoro, ma anche perché si tratta per l’appunto di poteri selvaggi, non democratici e non sottoposti al diritto.
E oggi il vero problema è dunque la necessità di un terzo mutamento di paradigma: il primo mutamento di paradigma si ha con la nascita dello stato moderno, con l’affermazione della legge; il secondo con il costituzionalismo rigido; il terzo è ancora da avvenire perché noi abbiamo un’Europa che è ancora fortemente fondata sulla sovranità degli stati, senza un governo politico dell’economia. È certamente un miracolo, dobbiamo dire che l’Europa, insomma, dopo un secolo e dopo le due guerre mondiali è una zona di pace, eccetera, eccetera, ha fatto comunque un enorme progresso, ma è già superata dai tempi, nel senso che non abbiamo per l’appunto la possibilità, attraverso una banca centrale, attraverso una fiscalità europea, attraverso un governo, ciò che hanno per esempio gli Stati Uniti, la possibilità di contrastare.
Ma soprattutto, questo primato dei mercati che viene per così dire legittimato dall’ideologia liberista in forza della quale i mercati sono il luogo della libertà e non del potere, che sarebbe come dire che lo stato, solo perché fondato sull’autonomia politica dei cittadini è il luogo della libertà e non anche del potere, il potere che è ovviamente anche una necessità ma che deve essere sottoposto a limiti e a vincoli, la mancanza di vincoli e di limiti costituzionali per i grandi poteri economici sta, di fatto, minacciando il futuro della democrazia.
Allora, rispetto a questi processi io credo che di nuovo la risposta non può che essere quella di una accentuazione del costituzionalismo, dei limiti e dei vincoli costituzionali all’altezza dei nuovi poteri. Naturalmente, si tratta di processi che forse non faremo neanche in tempo a vedere (e qui possiamo essere giustamente pessimisti). Tra le aporie della democrazia c’è una sfasatura sia con il tempo che con lo spazio. I governanti dei paesi democratici, in parte anche per la loro mediocre statura, pensano soprattutto all’oggi, al massimo al domani e all’interesse dei propri concittadini da cui proviene il voto e non si fanno carico quindi dei grandi problemi del futuro a cominciare dalla sopravvivenza dell’abitabilità del pianeta, dei problemi ecologici, i grandi drammi e certamente anche le crisi economiche ormai globali, per non parlare della criminalità mondiale, eccetera, eccetera.
I problemi globali non sono mai nell’agenda politica e questo è evidentemente un’aporia delle democrazie. E di fronte a queste aporie è possibile intanto un impegno che dovrebbe essere delle forze democratiche per un costituzionalismo europeo; abbiamo certamente un trattato costituzionale ma non abbiamo garanzie al loro livello. Beni come l’aria, l’acqua, eccetera eccetera, dovrebbero essere demanializzati, si dovrebbe costruire un demanio europeo, un demanio globale, ma non un demanio legislativo. Noi abbiamo nel codice civile la previsione di alcuni beni come beni demaniali, ma è la legge che, come ci ha mostrato Tremonti, può essere sempre modificata e quindi con un colpo di penna possono diventare beni privati. L’unico modo per sottrarli alla privatizzazione, e anche alla devastazione, è prevederli come beni fondamentali, accanto ai diritti fondamentali, come beni demaniali costituzionali che nessuna legge può per l’appunto privatizzare.
Questo ai diversi livelli dell’ordinamento: a livello statale, ma anche a livello europeo, a livello globale attraverso trattati, patti; ci sono già alcuni trattati che prevedono come patrimonio comune dell’umanità, però in spazi extra atmosferici e nei fondi oceanici; quindi siamo con beni molto poco accessibili. Però la categoria esiste e dovrebbe essere sviluppata in direzione dei beni vitali. Beni vitali che dovrebbero essere sottratti al mercato non meno dei diritti fondamentali. I diritti fondamentali si distinguono dai diritti patrimoniali proprio perché sono fuori dal mercato, sono indisponibili, non possono essere alienati, ci piacciono o non ci piacciono, ne restiamo titolari perché sono per l’appunto universali per loro definizione; non possiamo vendere i nostri diritti di libertà, se lo facessimo sarebbero atti nulli, continueremmo a esserne titolari perché la norma costituzionale esiste al di là della nostra volontà.
E per altro verso, i diritti sociali che in questo momento vengono aggrediti da politiche assolutamente irrazionali sulla base, di nuovo, di un luogo comune: i diritti sociali si dice che costano. Ebbene, costa molto di più la loro mancata soddisfazione anche sul piano economico. I nostri paesi sono più ricchi dei paesi dell’Africa perché hanno se non risolto o quantomeno in parte affrontato e risolto i problemi dei minimi vitali, della salute, dell’istruzione. E siamo più ricchi rispetto al nostro passato, pensiamo all’Italia degli anni ’50, pensiamo all’Inghilterra descritta da Engels, pensiamo all’Europa della fine Ottocento, perché abbiamo costruito lo stato sociale. E la soddisfazione dei diritti sociali non è un lusso, ma è la principale spesa produttiva, il principale investimento produttivo. Investire nei diritti sociali, nella salute, nell’istruzione, nel reddito di cittadinanza assicurato a tutti come alternativa alla mancanza di lavoro, le garanzie del lavoro sono altrettanti fattori di crescita economica, la cui assenza produce inevitabilmente non solo impoverimento, non solo riduzione delle capacità delle libertà e dei diritti fondamentali, ma anche produce riduzione della crescita, recessione. E il solo modo per far crescere una società è per l’appunto investire in diritti sociali.
E per altro verso l’aggressione al lavoro, su cui voglio concludere, che è stato praticamente dissolto. È stato dissolto dal governo Berlusconi: pensiamo cos’è stato l’articolo 8, il famoso articolo 8, che prevede la possibilità della contrattazione aziendale di derogare a qualunque legge. Il lavoro è tornato a essere una merce, a essere svalorizzato, oggetto di una svalorizzazione crescente e che è avvenuta attraverso l’aggressione dei diritti, il modello Marchionne, e tutto il precariato consiste in una violazione del diritto del lavoro. Perché gran parte di questi contratti a progetto nascondono in realtà un lavoro dipendente, ma nessun lavoratore potrà mai far causa se il primo effetto è quello di perdere il lavoro.
E questo è un fattore di traumatizzazione anche della vita, di terrorizzazione, perché uno degli aspetti più gravi della crisi economica è la paura del futuro, la paura di non avere futuro, la paura di perdere quello che si ha, ma anche la paura di non inserirsi nel mondo del lavoro, di non avere un reddito, di non poter mettere al mondo una famiglia, che consiste in un fattore di depressione psicologica che ha sempre come effetto e risultato l’aggressività, la fine della coesione sociale, la logica del nemico.
Adesso questa aggressione allo stato sociale è, diciamo, non soltanto grave di per sé, per la riduzione del benessere, dei bisogni vitali, ma è anche un fattore di lesione della democrazia, oltre che di depressione e recessione sul piano economico. E allora le battaglie politiche dovrebbero essere dirette a mettere al riparo anche i diritti fondamentali. Il riparo dei diritti di libertà è molto semplice: c’è la Corte costituzionale, ma di fronte ai tagli, di fronte alle omissioni, di fronte alla mancanza di interventi, la teoria del diritto paradossalmente non ha affrontato dei rimedi, ma ci sono dei rimedi che sono stati approntati, per esempio, in altre costituzioni.
Mi rende conto di fare delle proposte molto utopistiche ma certamente nella Costituzione brasiliana, e la cosa funziona, sono previsti dei vincoli di bilancio. Non sono i vincoli di bilancio che vogliono introdurre da noi per il pareggio, no. I vincoli di bilancio consistono nel prevedere quote minime del bilancio da riservare alla salute, o all’istruzione, o alla sussistenza: almeno il 25% alla salute, almeno il 25% all’istruzione. Poi i partiti si confrontano e possono proporre di più, e la lesione di questi vincoli consente il ricorso alla Corte costituzionale. Questi vincoli vengono rispettati e la crescita del Brasile, è stata introdotta anche la borsa famiglia, è legata in gran parte a questa protezione costituzionale anche dei diritti sociali.
Insomma, io credo che non soltanto la ragione ma anche l’esperienza ci dice che il sistema di limiti e di vincoli che caratterizzano le costituzioni dei diritti per tutti i livelli è la strada: si tratta naturalmente di scegliere i limiti, i vincoli e soprattutto le garanzie, perché le garanzie altro non sono che i divieti e i doveri corrispondenti ai diritti, più praticabili, migliori, più efficienti e più efficaci. Ma certamente questa è la strada per l’appunto. Io credo che si possa stabilire sotto questo aspetto un’equivalenza: crisi della democrazia e sviluppo dei poteri selvaggi di qualunque tipo, poteri politici, poteri economici, ma anche poteri domestici, insomma i poteri per l’appunto abbandonati a se stessi, secondo una logica che Montesquieu descrisse alla perfezione. Il potere tende sempre ad accumularsi in forme assolute, illimitate, non è mai sufficiente, è una bestia vorace come la chiamò Aristotele e soltanto limiti e vincoli molto rigidi può addomesticarla.