Le ragioni dei democratici d’ispirazione cristiana

Nel vuoto di sistema
Le ragioni dei democratici d’ispirazione cristiana

Il presente elaborato si inserisce nella riflessione sempre aperta sul contributo dei cattolici ed in particolare dei cattolici democratici nello scenario politico italiano. Minoranza tra le minoranze, di quel “patriottismo costituzionale” a cui era legato proprio Giovanni Bianchi, lontano dalle alchimie in cui gli stessi cattolici democratici sono convenuti nella speranza di poter dare al Paese una nuova stagione di protagonismo e di affermazione della democrazia. Il presente testo non tocca la dottrina cara ai “cattdem”, né le sintesi possibili, a cui sarebbe tuttavia utile guardare per quanti ancora oggi si riconoscono nel pensiero “popolare” più autenticamente ancorato alla storia propria dei cattolici democratici e democratici cristiani italiani.


La dimensione della rete e quella dei social non agevolano le ragioni dei cattolici, dei moderati, dei democratici, dei riformisti e dei liberali. Sia pure con richiami diversi lo stesso popolarismo non è riuscito ad evolversi nella sfera pubblica e nella polarizzazione tra destra-sinistra. Non esiste una terra di mezzo o un centro politico autorevole nel Paese. Esistono “inizi” che incoraggiano alcuni nel tentativo di garantire all’Italia uno spazio di discussione alternativo al populismo e al ripiegamento al passato. La sinistra italiana rievoca le proprie ragioni mettendo in discussione lo stesso processo che portò alla nascita del Partito Democratico, il più grande partito del centrosinistra europeo e, per l’Italia, il coronamento di un percorso generoso delle tre grandi tradizioni democratiche del nostro paese, post comunista, post democristiana di sinistra, post socialista; tanto da rinunciare al momento, e credo per i prossimi anni, a governare, qua e là anche ad amministrare, a garantire una rappresentanza che sia competitiva con le destre, per dedicarsi ad una riscrittura critica della storia dei democratici e riformisti italiani. 

La destra italiana, almeno quella che si offre in questi mesi alla guida del Paese, sembra paradossalmente meno minacciosa: a tal punto da rendere ancora inerte il contributo, sia pure comunicativo, della nuova segretaria del Pd, Elly Schlein. Paradossalmente in tema di immigrazione e accoglienza, così come in chiave europea, Fratelli d’Italia pare sforzarsi di assumere un atteggiamento responsabile: temi che negli anni di opposizione non pensava mai di affrontare con tanto scrupolo.

Questo assetto sarà durevole per molto tempo, le recenti amministrative lo dimostrano. La destra-centro vince, la sinistra-sinistra in alleanza con il M5S, perde, il centro/terzopolo (ex?) fa testimonianza, l’astensionismo si conferma prima forza del paese con percentuali impressionanti. In tutto questo stenta ad emergere un contributo fattivo dei cattolici.

La maggioranza silenziosa, su cui si sono spese intere stagioni di analisi, torna l’argomento principe; stavolta, però, non a vantaggio delle tesi berlusconiane – che perdeva le amministrative ma contendeva il governo del Paese anche dopo le proprie infelici stagioni (ricordiamo come nel 2013 Bersani riuscì a non vincere, e Berlusconi riuscì a non perdere di fatto, così come nel 2006 sfiorò il pareggio con l’Unione di Prodi) – ma del centrosinistra nelle sue diverse articolazioni (Pd, Calenda-Renzi, Verdi, + Europa) che non convincono i “lontani”.

Il capolavoro di Zingaretti-Letta di aver portato ai minimi storici il consenso del Pd (le percentuali sono pericolose se lette solo in doppia cifra) e averlo fatto sbattere con un maldestro uso del Campo largo, resta tuttavia l’unica ipotesi a cui la stessa neo segretaria Schlein si sta dedicando, nel tentativo di dare una rappresentanza “altra da sé” del suo nuovo Pd.

Il suo personale successo alle primarie e il suo accreditarsi come “oppositrice ideale” del modello meloniano di donna, nel turbinio generale ha completato la mutazione, almeno dei vertici del Pd. Dopo il repulisti operato con l’imposizione dei capigruppo di Camera e Senato, ha di fatto esternalizzato alcuni dossier – perdendo di vista le sintesi già consolidate nei democracts – a personalità che non avevano mai preso la tessera del Pd, lasciando solo la corrente Franceschini ancora agibile. 

Le tensioni del mondo cattdem ed ex popolare non sono una novità. Anche dopo l’uscita di scena di Veltroni, Beppe Fioroni (Quarta Fase, Modem, oggi Tempi Nuovi) si pose in posizione critica e avversa al tentativo di ritorno della Ditta: senza grande successo, accettando di diventare “riserva bianca” di un Pd bersaniano-dalemiano e dell’amalgama non riuscito. Cosa che poi la stagione legata a Matteo Renzi (che ancora resta l’unico leader a poter rivendicare gli anni di governo del Pd e delle riforme mai messe in discussione dai successi esecutivi) è riuscita a fare: contenere la sinistra conservatrice, aprire a nuove energie anche provenienti dal mondo ex Ds (Chiamparino, Nardella, Orfini, Cuperlo), dare garanzie ai cattolici senza per questo retrocedere in laicità (v. Unioni Civili), in pluralismo (dialettica con la Gerarchia e se vogliamo anche nell’approfittare del clima nuovo rappresentato da Bergoglio), offrire ai moderati un’alternativa al centrodestra berlusconiano nel frattempo arenatosi attorno al proprio leader (storia non proprio superata come testimonia lo stallo attuale legato alla salute del fondatore di Forza Italia e del centrodestra italiano).

In tutto questo torna attuale il senso del Popolarismo italiano, sia pure dentro la “teoria dei giochi” che ha visto sempre gli eredi della Dc o i cultori della dottrina politica di Sturzo ma anche di Moro, Zaccagnini, Andreatta, di un cristianesimo democratico amico della Persona, delle imprese, della sussidiarietà (tema non proprio preminente nella Dc di governo intenta a favorire assistenzialismo, clientelismo, rendite di potere, peso di correnti e tessere, corruttele varie), come alieni nel campo del centrosinistra. Il PPI di Bianco e successivamente di Marini e Castagnetti non hanno saputo far emergere le idealità del popolarismo, cedendo spesso a sinistra sui temi della giustizia, dell’economia, degli equilibri raggiungibili, come se sugli equilibri dovessero misurarsi le tradizioni e non sulle idee e le visioni. Le stesse dichiarazioni di Rosy Bindi nei mesi scorsi, forse per rianimare l’interesse sulle Primarie, e l’appello della stessa alla sinistra di fare la sinistra superando lo stesso Pd, testimoniano come quei popolari e ulivisti avevano fretta di liberarsi di una muta diventata scomoda. 

Sappiamo come la Dc, nonostante i vari tentativi di ricondurla sulla “retta via” di partito d’ispirazione cristiana, non confessionale, trasparente e capace di dire qualcosa di nuovo al Paese senza i richiami della propaganda anticomunista, è diventata di fatto il problema dell’evoluzione del sistema politica italiano (G. Pasquino) ma disfarsene così in fretta ha rafforzato l’idea che nulla di quella storia meritasse di essere valorizzata. La DC in quanto partito di maggioranza relativa era anche il partito più esposto al fascino delle “scorciatoie” presenti nel sistema dei partiti italiani fino al 1992 anche se, oggi con più consapevolezza, comprendiamo come l’esperienza di “Mani pulite”, come ricorda l’ex Pm Gherardo Colombo, fu di fatto un Colpo di Stato che mise alle strette il potere esecutivo italiano, e non solo. Di riflesso non possiamo nascondere il decadimento morale delle Istituzioni e dello Stato inteso come articolazione di corpi (politica, intelligence, partiti) che andava ben oltre la DC.

Sul tema del centro, e del popolarismo di ritorno, Giorgio Merlo sta provando a tessere un interessante dibattito anche per non riproporre tout court una proposta popolare, aggiungerei anche anacronistica e superata non tanto dalla storia quanto dal sentimento del Paese (anche i cattolici, sia pure sfumati nelle varie opzioni politiche presenti nel panorama politico italiano, del popolarismo conoscono molto poco). Concordo in particolare con Merlo sul presupposto di qualsiasi Centro: senza la cultura politica dei cattolici popolari e sociali ogni ipotesi di un nuovo, moderno e rinnovato centro non può decollare. Anche Elena Bonetti di Italia Viva ha ragionato su questo presupposto, cioè, “è necessario che nel nuovo partito che nascerà ci sia un’anima costituente popolare, che prende le proprie origini dal cattolicesimo democratico e sociale”.

Nel PD, dove ancora militano molti cattolici democratici convinti di esserne ancora i fondatori e quindi rivendicando giustamente voce e rappresentanza, il dibattito fa fatica a decollare. Solo Andrea Marcucci e Stefano Lepri sembrano prendere parola (il primo ha appena fatto sapere che non rinnoverà la tessera), isolati però dalla restante parte degli “aventi diritto”. E non basta nemmeno la presa di posizione dell’ex segretario PPI, presidente dell’associazione I popolari, Pierluigi Castagnetti: «Il nostro è un partito democratico, l’ultimo rimasto. La linea la danno gli organi direttivi, non un leader da solo, Schlein lo sa». Ma queste dichiarazioni sono già datate. Nel frattempo, la Schlein ha imposto i suoi capigruppo e formato la nuova segreteria, iniziato la pratica della gestione del partito (una conferenza stampa prima di una Direzione, non dopo…). Dei cattdem, nemmeno l’ombra (e qualcuno protesta).

Che spazi si offrono? Due, a prima vista.

  1. Papa Francesco rappresenta insieme una sfida e una crisi: se non vogliamo essere superati da una banalizzazione del suo messaggio, allora si rende necessario fare del suo “fare sociale” quell’agenda inclusiva e partecipativa che privilegia i processi ai risultati, la realtà all’ideale; magari tenendo un occhio particolare al cardinale polacco Konrand Krajenski, senz’altro l’agente speciale di Sua Santità come scrive Lucio Brunelli su Vita Magazine.
  2. C’è un corollario di esperienze territoriali, di innovazione sociale che precede il fare politico di cui ancora la politica non vuole farsi promotrice eppure esiste un’ossatura legata alla promozione autentica della personale che sa farsi impresa, lavoro, assistenza, solidarietà. 

Se c’è poi una dimensione del popolarismo che c’è mancata, o che solo alcuni hanno cercato di mantenere, perdurare oltre le loro vite e testimonianze, è quella del servizio e del “patriottismo costituzionale”: che Giovanni Bianchi aveva incarnato, e che nel suo ultimo libro sembra costituirsi come testamento ma anche come sentiero ancora inedito di cui nessuno vuole farsi protagonista. In Resistenza senza fucile (Jaca Book, Milano 2017), Bianchi rivive e aggiorna il presente anche alla luce di una rilettura delle vicende partigiane e della resistenza, dando spazio alle voci minori: la questione, circa la natura patriottica, popolare, e non meramente ideologica, della Resistenza, non è mai stata risolta e puntualmente ritorna, da qualche anno con insistenza, in occasione del 25 aprile. Dal testo emerge come i problemi, i bisogni e gli ideali delle nostre vite quotidiane possono essere affrontati da una visione del domani nuova che sa farsi «speranza civile» (p. 183): è questa la più grande eredità che ci lascia Giovanni Bianchi. Sperare in un futuro e in un mondo più giusti e umani, impegnandosi per essi con passione, amore e dedizione. A questa dimensione non possiamo non accostare anche il patrimonio rappresentato dall’esperienza di Carlo Maria Martini, Don Lorenzo Milani, Don Primo Mazzolari, Don Mario Franzoni, Don Giovanni Vannucci, Don Zeno Saltini, ma anche Adriano Olivetti, come emblema di quel tessuto economico sano che a questo modello continua ad ispirarsi. 

Francesco Polizzotti


Francesco Polizzotti

Francesco Polizzotti
Classe 1985, vive tra Messina e i Nebrodi.
Docente specializzato nelle attività didattiche di sostegno per le Scuole Secondarie di Secondo grado, con particolare impegno verso la dimensione sociale delle persone con disabilità.
Formatosi nell’Azione Cattolica, è culturalmente vicino alla tradizione del cattolicesimo democratico ed in particolare alle figure di Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Giorgio La Pira, Vittorio Bachelet.
Appassionato di economia civile, si occupa prevalentemente di animazione di comunità, convinto che il coinvolgimento in rete di persone, istituzioni e privato sociale sia alla base dello sviluppo sostenibile e generativo di un territorio.
Dal 2017 svolge attività sindacale nella FELSA CISL messinese, di cui è referente territoriale.

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