Il 3 giugno 1963, al declinare del giorno, Giovanni XXIII lasciava il mondo per entrare nella storia: nel cuore delle donne e degli uomini di buona volontà, quegli stessi a cui aveva dedicato la sua ultima, epocale Enciclica Pacem in terris, era già entrato da tempo.
A distanza di cinquant’anni, in questo periodo provvidenziale dell’Anno della Fede, che si è aperto nel giorno giubilare di quel Concilio che Papa Giovanni volle con tutte le sue forze, e che è proseguito nel misterioso avvicendarsi in vita di due Pontefici, la memoria del “Papa buono” è un tassello di una fase storica che può forse essere definita come un tempo di grazia per la Chiesa e per il mondo, anzi per la Chiesa nel mondo, che è l’oggetto di una delle più note Costituzioni apostoliche del Vaticano II, laGaudium et spes.
Ha ragione il direttore di “Famiglia cristiana” don Antonio Sciortino quando scrive che esiste un filo rosso fra il pontificato di Giovanni e quello di Francesco, nel senso che il Papa argentino chiude il cerchio aperto da quello bergamasco: se Roncalli volle il Concilio, Montini fu uno dei protagonisti della sua prima sessione da Arcivescovo e lo condusse a termine da Papa, Luciani e Wojtyla furono padri conciliari e Ratzinger autorevole perito.
Bergoglio, nato e formatosi a cavallo fra la Chiesa pre e post conciliare, primo Pontefice ordinato al sacerdozio con il nuovo rito e che sempre ha celebrato con esso, e che nello spazio dottrinale e giuridico disegnato da quel Concilio ha situato la sua azione prima nella Compagnia di Gesù e poi nell’episcopato bonaerense, non ha più bisogno di teorizzare l’evento conciliare, e si limita ad applicarlo nella sua attività di tutti i giorni, a partire dalle Messe che celebra con semplicità “parrocchiale” all’ostello di Santa Marta.
E tuttavia Francesco non potrebbe essere pensabile senza Giovanni, senza quell’uomo di formazione tradizionale , cresciuto nel sacerdozio negli anni terribili della lotta modernista accanto ad un Vescovo di eccezione come mons. Radini Tedeschi e poi godendo della stima di un altro uomo straordinario come il card. Ferrari , e poi passato attraverso la diplomazia prevalentemente in terre estranee alla fede cattolica ed infine assurto ad una cattedra prestigiosa come quella veneziana. Nulla, come ha bene evidenziato Alberto Melloni, sembrava predestinare Angelo Giuseppe Roncalli al ruolo di grande innovatore se non la semplicità della sua esistenza e di una fede tutta incardinata sulla centralità dell’Eucaristia e della Parola.
Proprio questa fede semplice e disarmante, questa esemplarità di vita, questa passione evidente per Dio e per gli uomini hanno fatto sì che Giovanni XXIII venisse percepito anche dai cosiddetti “lontani” come il portatore di un messaggio forte, veramente “non negoziabile” non per enunciazione dottrinaria ma per realtà di vita vissuta. Esistono, e sono esistite, figure di questo genere, che nell’approccio all’altro non cercano né la rissa né la spettacolarità della conversione ma la capacità di suscitare echi profondi che vadano verso il nucleo autentico della persona umana, verso le sue domande più fondamentali.
E’ noto che mentre il Papa agonizzava una Messa era in corso in piazza San Pietro per il suo ristabilimento celebrata dal cardinale Luigi Traglia: si disse che Roncalli fosse spirato proprio mentre il Cardinale leggeva il passo evangelico del famoso “prologo” del Vangelo di Giovanni: “Fuit homo missus a Deo…” “E venne un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni”.
Sì, veramente come il Battista fra le genti di Galilea e Giudea il Giovanni di Sotto il Monte fu il vero precursore non di una nuova Chiesa ma di una nuova fase di vita della Chiesa in cui, come ebbe a dire poco prima di morire “non è il Vangelo che cambia, siamo noi che stiamo incominciando a capirlo meglio…”.
Non è sempre stato vero in questi cinquant’anni, ma forse oggi quella profezia può cominciare ad avverarsi.