Non v’è dubbio la pandemia che ha colpito il mondo intero – quello che in parte è industrialmente avanzato, robustamente tecnologico, assai ricco, ma anche i Paesi più poveri, dove la vita ancora oggi nel terzo millennio, è spesso una lotta quotidiana per la sopravvivenza – è stata ed è una fase per lo più inedita, che mette a dura prova i sistemi consolidati, così come le organizzazioni sociali più deboli.
Non dimenticheremo facilmente l’inverno e la primavera del duemilaventi, stagioni che in Italia hanno voluto dire soprattutto confinamento – per gli irriducibili anglofoni lockdown – cioè la protezione generalizzata nelle abitazioni da opporre alla subdola insidia del contagio di un virus – tanto invisibile quanto pericoloso per i suoi possibili effetti dannosi – giacché il contesto è proprio quello raggelante dell’emergenza sanitaria.
Forse l’unica similarità che si può istituire è quella con gli effetti di un conflitto armato, di una guerra insomma; comunque non è del tutto calzante questa analogia, non vi sono stati infatti degli eserciti contrapposti in armi, semmai si può constatare un’assonanza nella restrizione delle libertà individuali, nella difficoltà di reperimento di qualche merce, nella sofferenza che in molti hanno purtroppo sperimentato.
Le relativamente nuove generazioni poi, non posseggono un ricordo diretto dell’ultimo conflitto mondiale per ragioni anagrafiche, così il repentino cambiamento delle abitudini di vita ha causato loro un certo shock, anche di tipo psicologico, minando magari quella fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” del “sistema”, che ha contraddistinto – con luci ed ombre s’intende – l’italian lifestyle durante il lungo periodo del benessere.
È infatti assai difficile da dimenticare il cospicuo elenco dei morti, che per tante persone non ha rappresentato soltanto un numero all’interno di un report, ma una madre, un padre, un nonno, una sorella…, magari senza neanche avere avuto la possibilità di dare loro l’estremo saluto.
Il disagio nell’udire certe asserzioni “giustificatorie” dei decessi in relazione magari all’età avanzata o alle eventuali co-morbilità, è ancora vivido. Così come il ricordo di città spettralmente vuote e degli ospedali invece straboccanti, con il personale sanitario che si è prodigato con estrema generosità per erogare le cure; oppure le aule scolastiche desolatamente deserte, la solitudine degli anziani, l’angoscia dei malati e dei familiari.
Ma anche la grande capacità di coesione e di adattamento del popolo italiano che ha compreso la serietà della contingenza. Che ha capito l’interdipendenza sussistente tra le persone, non soltanto quando è di palmare evidenza come nel caso, ad esempio, del rapporto tra il medico e il malato, ma anche nella quotidianità della vita, dove magari servono presso il proprio domicilio i generi di sostentamento oppure semplicemente il conforto telefonico di una persona amica.
Gli abitanti del Belpaese hanno maturato che soltanto insieme, con comportamenti adeguati e solidali se ne poteva uscire, cioè con un’azione collettiva dove devono prevalere le ragioni del “noi” su quelle dell’ “io”. Un gran bello schiaffo all’individualismo imperante. Un passo in avanti per diventare non tanto dei consumatori globalizzati ma dei cittadini del mondo.
Adesso la fase probabilmente più drammatica dovrebbe essere alle spalle, tuttavia questo tempo di “ricostruzione” non è meno insidioso, poiché il virus è ancora presente, mentre gli effetti della pesante crisi del sistema produttivo innescata dalle conseguenze dell’epidemia, diventano sempre più tangibili.
L’incertezza sul futuro riduce così la fiducia, cosa quest’ultima che rende molto più difficoltosa la ripresa civile ed anche quella economica. Si sono utilizzati fiumi di inchiostro per descrivere l’inaspettata situazione sanitaria planetaria, immaginando scenari più o meno possibili e più o meno apocalittici, convergendo però generalmente sulla constatazione conclusiva che comunque “nulla sarebbe più stato come prima”.
A parte la speranza prioritaria di debellare il male che ci sta affliggendo, che cosa non dovrebbe più essere come prima? La pandemia ha messo a nudo non soltanto l’interdipendenza tra le persone, ma anche quella tra gli Stati, tra le istituzioni di livello mondiale, giacché un evento di tale portata non può essere affrontato soltanto con la logica dell’ “ognuno a casa sua”, e con le proprie forze.
Vi è di certo la necessità di numerosi cambiamenti, a partire dal fatto di riuscire a ridisegnare un nuovo modello sviluppo, costruendo un diverso equilibrio planetario; ed anche una produzione di beni di consumo maggiormente sostenibile, eco-compatibile, che non disperda le risorse della Terra, oppure le renda disponibili ma soltanto alla fascia di popolazione più benestante.
Papa Francesco aveva già indicato in tempi pre-Covid una direzione per questo cambiamento epocale, quella dell’ “ecologia umana integrale”, nell’enciclica sulla cura della nostra “casa comune”, dove si percepisce in ogni sua pagina che “tutto è in relazione”, “tutto è collegato”, ”tutto è connesso”.
È un’occasione questa della crisi innescata dall’epidemia per rinnovare i nostri stili di vita, i quali accanto ad indubbi aspetti positivi, impongono però una riflessione critica circa le disuguaglianze che la condizione attuale ha ulteriormente amplificato, aprendo un solco profondo tra chi è più strutturato anche per affrontare le emergenze, e chi permane invece ai margini in uno stato di grave vulnerabilità.
La malattia infatti ha colpito maggiormente i più deboli ed avrà conseguenze occupazionali rilevanti di genere e tra i giovani, con probabile diminuzione della natalità, ed effetti negativi significativi sulla popolazione che possiede minori livelli di istruzione.
Non possiamo archiviare questa fase con un ritorno ad una presunta “normalità” costruita però sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze: su città caotiche e perennemente inquinate, sul lavoro per pochi e la disoccupazione e la povertà invece molto diffusa.
La comparsa del temibile Covid-19 non può essere derubricata soltanto come un mero “incidente di percorso”. Va abbandonata quindi la perniciosa opinione che la spesa sociale sia soltanto un costo improduttivo, sacrificabile in nome di astratti pareggi di bilancio, considerando quei settori nevralgici come la sanità, l’istruzione, la ricerca, il welfare, come dei centri di spesa, da ridurre con ottusa pervicacia e mettendoli sul mercato, mentre ad essi è legata la qualità della vita sia presente che futura.
Va anche prefigurata una diversa modalità della prestazione lavorativa, dove concetti come lo smart working non siano estranei, cioè un’operatività in grado di conciliare le esigenze della produzione con quelle della vita, riorganizzando inoltre i tempi di fruizione nelle nostre città.
Non si tratta quindi soltanto della necessaria ricerca di enormi risorse finanziarie da utilizzare per il “recovering”, ma anche del fatto più sostanzioso di voltare veramente pagina rispetto ad un paradigma organizzativo che ha dimostrato parecchi limiti. Scriveva Salvatore Natoli nel suo agile testo di qualche anno addietro “Antropologia politica degli Italiani”: “…nel tempo gli italiani sono cambiati e cambiano, ma in generale non dirigono i processi di cambiamento, li subiscono. Diventano cioè diversi senza rendersene (pienamente) conto…”[1], cioè di quella sorta di abituale “navigare a vista”, quel “sapersela cavare” come arte dell’arrangiarsi, ed in questo modo magari gli stessi patiscono meno le crisi di altri popoli. “...Un lungo andazzo, un’indole nazionale, una sorta di Dna e perfino una regolarità della politica italiana…”[2] – asseriva Giovanni Bianchi in merito – presentando proprio quel volumetto qui al Circolo Dossetti di Milano.
In buona sostanza parrebbe che in Italia i sistemi normalmente non possano cambiare per evoluzioni, men che meno per rivoluzioni, mentre più spesso ciò avviene per i contraccolpi causati magari da eventi imprevisti, o non del tutto posti sotto il necessario controllo.
A sostegno di questa tesi si potrebbero enumerare una lunga sequela di comportamenti storicamente ricorsivi, quali la prevalenza del particulare di Guicciardiana memoria inteso come interesse personale, così come il non elevato senso dello Stato, od un culto esagerato per la furbizia, oppure ancora il diffuso familismo.
Il tutto in associazione con una tendenza di fondo verso un netto conservatorismo, che non depone a favore delle innovazioni, le quali sono viste in genere con sospetto, oppure subite obtorto collo, poiché il cambiamento è sinonimo di rottura di stratificati equilibri economici, di potere e financo di privilegio.
Per venire ai giorni nostri, l’Italia ha reagito certamente bene nel lockdown e alle limitazioni imposte, tuttavia le sue criticità strutturali permangono e potrebbero invece essere assunte come dei punti di forza, facendo come si dice “di necessità virtù”, se soltanto ce ne fosse la volontà.
Prefigurando così soluzioni inedite, più eque e meno impattanti, andando al di là e ben oltre i semplici slogan, del tutto inappropriati ed anche un po’ retorici, del tipo “andrà tutto bene” oppure “niente sarà più come prima”. Forse questo habitus mentale aperto alle novità è una caratteristica propria delle nuove generazioni, nelle quali dobbiamo confidare, ma anche (e per fortuna) delle tante persone lungimiranti che sono in grado con le loro idee di costruire un futuro di giustizia.
Andrea Rinaldo
[1] Salvatore Natoli, Antropologia politica degli Italiani, La Scuola, Brescia, 2014, p. 23
[2] Fonte: https://www.circolidossetti.it/salvatore-natoli-antropologia-politica-degli-italiani/
2 commenti
Grazie Massimo per il tuo commento.
Concordo sul fatto che la pandemia abbia dato un ulteriore duro colpo alle relazioni sociali, peraltro, in generale, già in stato di evidente crisi.
Forse l’elemento contenutistico più determinante del pezzo, sta nella possibilità di cogliere l’occasione per un cambiamento del paradigma organizzativo, nella direzione di una maggiore giustizia sociale ed uguaglianza.
La pandemia ha messo in primo piano la necessità di ricostruire la relazione sociale e anche la reciproca fiducia. Il messaggio istituzionale è stato dapprima prudenziale, poi ha ceduto il passo alla tecnicalità, annullando quasi l’essere umano e convincendolo che è meglio stare chiusi, piuttosto che vivere il rischio. Le conseguenze socio – psicologiche di questa regressione le subiremo per anni, così come la cieca fiducia della sinistra nella scienza, guarda caso quella più catastrofista e non prudenziale. Insomma, se dobbiamo tirare le somme, il coronavirus ha dato il colpo di grazia ad un universo relazionale in crisi da una vita. Ma attenzione! Per quanto si sia prudenti, la ricostruzione non potrà prescindere dal ritorno alla relazione e alla fiducia, basi fondalmentali del vivere sociale