Più che quando e dove, come.
Se pure in questi giorni la nostra attenzione è rivolta al fattore spazio, quello dove in cui siamo confinati o a cui non possiamo accedere; e al fattore tempo, al quando cioè inizierà la cosiddetta Fase 2, o della convivenza con SARS-CoV-2 (meglio noto come Covid 19) forse la domanda più importante che dobbiamo farci è in realtà sul come.
Domanda che pure in molti si sono fatta.
Diverse volte, da quando è iniziata questa crisi sanitaria, diventata poi anche economica, che ha coinvolto pesantemente le nostre vite, e molte le ha portate via, abbiamo sentito dire “niente sarà più come prima”.
Con questa espressione ci si riferisce talvolta al concreto della vita quotidiana, talaltra si ipotizza un vero e proprio cambio di paradigma nel nostro approccio alla modernità. Confondendo, forse, in qualche caso, il possibile con il desiderato, il necessario con il praticabile.
Bisogna essere chiari su questo: un cambio di paradigma culturale appare necessario, a fronte di una pandemia che sembra stare al nostro mondo, globalizzato ed iperconnesso, come l’ iceberg al mondo del 1912, quello della Belle Epoque, con gli stessi caratteri, e pervaso dal medesimo senso di onnipotenza che la tecnologia ci dà.
Un cambio, quindi. Ma quale?
Fare meno? Rallentare? Non fare più alcune cose? Fare tutto diversamente? Un po’ di tutto questo insieme? La risposta non ci pare scontata e però sicuramente le implicazioni economiche di ogni scelta saranno considerevoli.
Dunque delle scelte vanno fatte e delle decisioni vanno prese.
Il momento è certamente quello in cui il protagonismo della cultura può essere massimo: il mondo intellettuale (in primis quello cattolico, da tempo impegnato in un grande sforzo di elaborazione sugli stili di vita e sulla sostenibilità del vivere umano), ha ora il margine di rilievo che troppo a lungo gli è stato negato dalla preponderanza delle ragioni della finanza, del turbocapitalismo o, per meglio dire, del tele-tecno-capitalismo: cioè, di quel nuovo capitalismo che si è fatto sussumere entro le ragioni di quella tecnica tutta rivolta all’eliminazione dello spazio-tempo.
Le ragioni, in effetti, contano: orientano scelte politiche, predeterminano comportamenti individuali; ed è quasi paradossale, al cospetto dell’ egemonia di questa forma di capitalismo, quanta rilevanza abbiano assunto per noi negli ultimi mesi proprio quei concetti di spazio e di tempo nella cui eliminazione esso si gioca.
Da questo, alla catastrofe economica, il passo è pressoché immediato.
Come immediato è, a questo punto, capire che nuove ragioni servono al nostro mondo, alla nostra vita.
Tuttavia, se spetta al mondo della cultura ripensare i modelli anche in campo economico (i due mondi non sono affatto indifferenti l’uno all’ altro), in un certo altro campo la parola spetta alla politica.
In questo si entra, per forza di cose, quando porre rimedio al danno costa più dell’ evitarlo. Quali valori salvaguardare? Quali sacrificare? Quali costi ulteriori far pagare per tutelare questo o quel valore (ad es: la vita)? E quali sono questi valori, e quanto valgono?
In questo campo non può che essere la comunione tra cultura e politica a fare la differenza.
Questa considerazione è sempre stata sullo sfondo nel momento in cui ogni Paese ha scelto come affrontare questa emergenza; e si sta riproponendo ora, a proposito della riapertura e della famosa “Fase 2”.
Le connessioni, tra la cultura economica di base di un popolo e la scelta politica dell’approccio alla gestione dell’emergenza sanitaria, sono apparse spesso evidenti e parecchio permeanti.
È evidente che nella oscillazione tra salvaguardia della vita umana e salvaguardia dell’economia, l’arco è massimo; e la scelta del punto in cui posizionarsi è un dilemma che si riproporrà a maggior ragione nella fase di convivenza con SARS-CoV-2.
E coi suoi tanti possibili simili in cui, in futuro, ci potremmo malauguratamente imbattere.
Quanto può costare, ad esempio, fare in modo che tutti i lavoratori, di cui venerdì prossimo ricorre la Festa, siano al sicuro sin dal primo giorno e per tutta la durata di una epidemia?
Quali norme e disposizioni imperative devono essere rese funzionanti per convertire velocemente una economia di pace in quella che -capiamo e condividiamo le perplessità di chi non ama questa definizione, e teme i rischi culturali e psicologici di un suo abuso; “cionondimeno incombe”- ha molti tratti tipici di una economia di guerra?
Tutto quello che possiamo, e però dobbiamo, fare, è in effetti definire questo come:
il quando e il dove hanno già dimostrato di non essere, in questo mondo, granchè dipendenti, come variabili. Ritornando a dirci quanto siano, invece, determinanti a proposito del bene supremo, ossia la vita.
Senza questo lavoro, temiamo che la gran parte dei nostri discorsi siano inutili al cospetto della RI-svelata fragilità dell’ essere umano.
Luca Emilio Caputo
1 commento
buongiorno Luca, l’analisi di questo pezzo è molto intensa e appropriata. Mi permetto di aggiungere una lettura ancor più umanistica e non solo sociale della crisi: in termini filosofici, questa crisi pandemica ci ha consegnato la paura della relazione umana e la negazione delle relazioni sociali. Seppure con mille giustificazioni appropriate, è la relazione umana ad uscire sconfitta dal covid, e da qui la rinascita di un certo “sovranismo” anche tra le mura di casa: tutto sommato, io sono autosufficiente, ho il necessario in casa, della relazione umana si può anche fare a meno, perché ogni relazione umana e sociale è un rischio. Mi permetto di aggiungere le parole di Massimo Cacciari: “Non esiste posto nel cosmo a rischio zero…”. Chiaro che la ripresa necessiterà anche di una lettura filosofica dell’essere umano in relazione…viceversa, continueremo ad accapigliarci, come fatto in tutte le discussioni di quest’anno, sulle lunghezze e sulle cortezze del lockdown, solo dal punto di vista tecnico e non umano – relazionale (la salute mentale è stata esclusa da ogni considerazione di questo tempo…). L’essere umano, e quindi anche il lavoratore, deve tornare un essere in relazione. Non sono sicuro che tutti lo vogliamo, da buoni italiani meglio una pizza fatta in casa, al calduccio delle dimore domestiche…e del mondo e del prossimo chissenefrega! attenzione a questa italica tentazione, condita anche da un po’ di “sanitocrazia”, secondo la quale il numero sanitario determina la sorte di un’intera società….