Le ultime settimane sono state contrassegnate da importanti movimenti e posizionamenti dentro il principale partito del campo progressista, in vista della prossima scelta del nuovo segretario.
Più in generale, però, tocca registrare la prosecuzione, da parte dei gruppi dirigenti del Partito Democratico, lungo il solco di una forte prudenza, laddove non di una chiara immobilità: una tendenza cominciata, pur tra tensioni e frizioni interne anche aspre, all’ indomani della netta sconfitta elettorale del 4 marzo scorso.
I connotati dell’esito elettorale sono stati ampiamente studiati, analizzati, messi in evidenza, tanto ad opera degli organismi di supporto ai partiti, quanto dai centri culturali e di studio indipendenti, avvalendosi spesso dell’aiuto di esperti appartenenti al campo delle scienze sociali, umane, e statistiche.
Ampiamente, si diceva. Forse troppo.
Lo spostamento delle analisi dei comportamenti elettorali prevalenti dentro una dimensione molto incentrata sugli aspetti emotivi e psicologici coinvolti, e la loro successiva declinazione in considerazioni di carattere generale, paiono quasi aver scavato il terreno residuo sotto i piedi del gruppo dirigente del Partito Democratico; che, cadendo nella medesima logica, ha finito per somigliare all’immagine che si è fatta degli elettori (soprattutto di quelli che hanno scelto di cambiare orientamento di voto), dominati cioè dalle emozioni, dalla irrazionalità, dal miope egoismo.
Ma questo non può essere il comportamento adatto ad un gruppo dirigente.
L’orrore del vuoto, di quella piazza che secondo la vulgata comune non è più comprensibile, pare essersi tradotto in una acuta difficoltà ad operare scelte e distinguo: come chi è terrorizzato dal baratro che ha davanti, i gruppi dirigenti del Partito Democratico sono apparsi terrorizzati dal rischio che qualunque altro movimento potesse far perdere anche il consenso residuo, spalancando l’abisso della dissoluzione del partito. Un comportamento poco avveduto e privo, ad opinione di chi scrive, di senso dei tempi.
Non ci si è, cioè, resi ancora conto che nel tempo dato non sono le scelte fatte, a perderci, ma quelle non fatte: l’orrore del baratro che ci si è prospettato davanti ci impedisce così di vedere che, ad oggi, il rischio di perdere altro consenso prendendo la decisione sbagliata è di gran lunga inferiore rispetto alla concreta possibilità di perderlo tutto non prendendone alcuna. Ci illudiamo di poter salvare qualcosa e restiamo così paralizzati in difesa di una posizione debolissima, preparando in definitiva il terreno per perdere, allora sì, tutto.
Si poteva, si può ancora, quindi, operare un distinguo?
A nostro modo di vedere sì, passando da una dimensione verticale ad una orizzontale, dalla logica del consenso a quella della relazione, smettendo di interrogarsi sui motivi per i quali qualcuno ha “voltato le spalle” al Partito Democratico e iniziando a chiedersi se riusciamo ancora ad interpretare, invece, coloro i quali continuano a vedere in questo soggetto politico un punto di riferimento.
Che, a nostro avviso, è il vero nodo della questione.
L’errore recente più grave dei gruppi dirigenti del PD non è stato, cioè, il non aver saputo parlare a chi se ne è andato, ma semmai l’incapacità di interpretare chi è rimasto.
Da qui al sentirsi franare il terreno sotto i piedi, e via fino all’immobilismo, il passo è conseguente, forse persino logico.
Più in generale, siamo stati schiacciati dall’idea che gli elettori fossero tutti ugualmente difficili da trattenere, a tratti semplicemente irrazionali e dominati da emozioni e risentimento, incapaci di comprendere l’enormità delle sfide che l’Italia ha davanti in questa lotta globale per la sopravvivenza; che in qualche modo la verità andasse loro nascosta, o somministrata con prudenza, a piccole dosi intrise in un po’ di miele.
Questo ci ha portato a negare loro fiducia, a chiudere la porta del rapporto tra una pretesa classe dirigente e i cittadini, a smettere di costruire comunità; quindi, a compiere un peccato capitale per un partito democratico, progressista, riformatore, a vocazione maggioritaria, figlio di famiglie politiche che facevano del rapporto con ampi strati della società il proprio punto di forza. Che, soprattutto, in essi avevano un fine.
Come poter, quindi, svolgere il proprio compito, senza il recupero di una logica di dialogo e di confronto con la propria base elettorale? Con le migliaia di persone che continuano a credere nell’ idea di Stato e di società che era alla base dell’idea su cui si sono costruiti l’Ulivo prima e il Partito Democratico poi? Senza il ritorno (convinto, non il “bisogna tornare nella società” di cui ci pare si faccia un poco intelligente abuso) su di un piano di relazione con la propria, e poi magari anche l’altra, gente?
Abbiamo commesso l’errore (insensato, nel tempo dei tempi brevi e brevissimi anche in politica) di ritenere che le dinamiche elettorali innescatesi fossero destinate a confermarsi fatalmente nel tempo, negando ai cittadini la possibilità di un vero rapporto politico con una componente importante dell’arco parlamentare, della politica del Paese. Errore insensato, come si è detto, e politicamente gravissimo. Ancora una volta, a nostro personale avviso, non conosciamo chi pretendiamo di rappresentare e guidare.
Si proceda quindi con coraggio, con fiducia, senza l’orrore del vuoto ma con lo spirito di chi si mette in gioco insieme al Paese al quale chiede di fare altrettanto, ad un confronto chiaro, onesto, leale, che ridia alle persone la possibilità di avere un vero interlocutore circa le proprie istanze, e in qualche caso anche di concorrere a realizzarle. A partire dall’ ascolto, dal dialogo con i tantissimi, impegnati per puro spirito di servizio al bene comune, disseminati in ogni parte d’ Italia, e dal loro pieno coinvolgimento nella costituzione (ancora tutt’altro che compiuta) di un partito che realizzi in maniera vitale, adatta ai tempi, quella idea di unità tra riformatori che lo ha concepito.
Se davvero vogliamo vincere questo terrore del baratro che paralizza noi e non offre un buon servizio all’Italia, men che meno lo offrirà all’Europa, scarichiamo le zavorre sui merli delle nostre torri d’avorio, e saltiamo.
Luca Emilio Caputo