Mentre il Governo giallo-verde (“carioca”, come dicono alcuni) procede imperterrito nella sua politica di graduale avvicinamento di un Paese che si sempre fatto un vanto, dal 1945 in poi, di appartenere all’Occidente democratico e sviluppato alle post-democrazie di Vysegrad, il Partito Democratico sembra forse prossimo ad uscire dal percorso che viene definito “analisi della sconfitta”, che ha ben poco a che vedere con la politica e molto con la psicanalisi, oltretutto condizionato dalle opinioni non disinteressate dei cattivi maestri cui la sinistra italiana si è affidata da almeno un trentennio, a partire dai giornalisti e dagli opinionisti del gruppo Espresso-Repubblica.
Naturalmente la manifestazione del 30 settembre ha avuto un effetto rivitalizzante, almeno momentaneo, e lo scontro degli ideologismi leghisti e grillini con la complessità della situazione interna ed internazionale può, se non altro, accendere un lampo di consapevolezza in qualche elettore sul disegno illiberale e reazionario di cui i due partners di governo sono portatori. Ma la strada rimane lunga.
Così, il dibattito sul Partito Democratico a undici anni dalla sua nascita ufficiale con le elezioni cosiddette “primarie” (ossia aperte al pubblico e non solo agli aderenti al partito) svoltesi nell’ottobre 2007 che portarono al trionfo di Walter Veltroni, è in realtà uno dei tanti aspetti dell’eterna campagna elettorale in cui il nostro Paese è immerso, e i giudizi sulle vicende di due lustri fa sono piegate sulle esigenze dell’oggi, con un occhio al domani e al dopodomani. Nulla di nuovo, in un Paese in cui il dibattito politico, complice una classe dirigente incolta e di breve respiro ed una classe giornalistica altrettanto incolta e superficiale, si riduce ad una pratica cinica in cui non solo una vicenda tutto sommato circoscritta come la nascita di uno dei tanti partiti frutto della transizione infinita apertasi nel 1992 con il crollo delle appartenenze tradizionali, ma anche passaggi storici più impegnativi diventano argomenti per un litigio selvaggio da bar dello sport fra opposte tifoserie.
Certo, una visione retrospettiva dimostra come la nascita del PD sia stata estremamente travagliata, con molte false partenze e molti ripensamenti, a significare un’insufficiente assunzione della dialettica propria dei sistemi maggioritari da parte di una classe politica che era cresciuta con una mentalità proporzionalistica, e che alla fine ha ricondotto il Paese nelle secche del proporzionalismo senza però che le caratteristiche peculiari della cosiddetta Prima Repubblica – a partire dal vincolo internazionale della guerra fredda e dall’autentico radicamento sociale dei partiti politici – fossero riproducibili.
Lo storico Pietro Scoppola – che venne a mancare proprio nei giorni della costituzione del PD – in un seminario svoltosi un anno prima ad Orvieto sulle ragioni fondative del nuovo partito, rilevò l’impossibilità per i cattolici democratici di farsi semplicemente assorbire in un partito di matrice socialdemocratica come era accaduto , ad esempio, in Francia o in Spagna, e ciò “per tre ragioni che si riassumono in tre parole: per la forza maggiore nel nostro Paese della tradizione politica cattolico democratica, per la debolezza della tradizione socialdemocratica e per il peso dell’eredità comunista nella nostra storia. E quando dico peso, dico importanza, forza di condizionamento della nostra società e della vita politica, in positivo e in negativo. E per un’ulteriore ragione alla quale tutti i democratici dovrebbero essere sensibili: perché spingerebbe irrimediabilmente verso una destra senza storia la Chiesa italiana vanificando lo sforzo di due generazioni di democratici cristiani da De Gasperi a Moro che hanno lavorato con passione, con sofferenza, ma con frutto per tenere la Chiesa agganciata alla democrazia, per l’ “istituzione della democrazia nel mondo cristiano” per dirla con Tocqueville. E’stato più difficile che altrove per la Chiesa italiana adattarsi ad uno schema bipolare: evitiamo di favorire il riflusso verso destra di questa Chiesa.
A distanza di anni la previsione di Scoppola sembra essersi avverata a metà, nel senso che il PD ha effettivamente aderito al Partito del socialismo europeo, di cui anzi costituisce al momento la componente nazionale più forte nel Parlamento di Strasburgo, ma questo è avvenuto – paradossalmente – nel momento di maggior debolezza della presenza dei postcomunisti nel PD, e l’operazione è stata gestita laicamente da un leader di matrice cattolico democratica in un contesto in cui l’aderire o meno al PSE aveva perso tutta quella carica insieme psicologica e taumaturgica che molti gli attribuivano due lustri prima.
Nello stesso tempo, la radicalizzazione del dibattito in materia religiosa che Scoppola aveva ben presente nell’ottobre del 2006, che verteva all’epoca sulla tematica delle unioni omosessuali, è stata largamente sminata dall’imprevedibile avvento di un nuovo pontificato che ha rapidamente preso le distanze dalla sovraesposizione partitica (non politica, ché il magistero di Francesco è politicissimo) delle gestioni precedenti, al punto che una legge sulle unioni civili è stata approvata sempre sotto la gestione di una leadership di matrice né postcomunista né socialdemocratica.
In questi anni indubbiamente nel PD si è assistito ad un forte avvicendamento di presenze con il crescere dei cosiddetti “nativi”, ossia di persone che non avevano una militanza di partito precedente: nello stesso tempo, è innegabile che vi sia stato un rimescolamento fra persone di provenienze diverse, ed anche i più critici nei confronti di Matteo Renzi non si sentono di mettere in discussione la loro appartenenza al partito a causa del malessere di leader legati ad un passato prossimo o remoto. Semmai cercano di portare le loro battaglie all’interno del partito, sapendo che se esso è stato contendibile a beneficio di Renzi potrebbe esserlo per converso contro di lui.
Ovviamente ci sono molti problemi, il primo dei quali consiste nella difficoltà ad articolare presenza territoriale e proposta politica: al netto di tutte le chiacchiere su partito “leggero” o “pesante”, è evidente che il PD deve avere una sua presenza autorevole e capillare sul territorio, ed il protrarsi di crisi strutturali come quelle di Napoli o di Roma fa capire che il problema esiste ed ha dei risvolti che debbono essere affrontati con nettezza, soprattutto per evitare la sistematica degenerazione delle pur legittime differenziazioni politiche e personali in guerre per bande che costituiscono una manna dal cielo per una stampa che fa dello scandalismo e dell’antipolitica l’additivo per la vendita di più copie e per forze politiche che ad organizzare primarie (che sono sempre a rischio di inquinamento, come qualunque strumento politico) non ci pensano minimamente perché tanto a decidere di tutto è un Capo autoproclamato o un algoritmo facilmente manipolabile.
E qui si situa la seconda difficoltà del PD, ossia la mancata crescita di una classe dirigente autorevole nel Partito e nelle istituzioni: non si può dire che non vi siano delle esperienze importanti, ma ha latitato fin qui un processo sistematico di costruzione di questa classe dirigente. Certo, a sua volta questa difficoltà è figlia dell’irrisolta ridefinizione dell’identità del partito politico, il quale modella la sua struttura su quella delle istituzioni. L’incompiutezza del percorso fra la dimensione maggioritaria agognata e le nostalgie proporzionalistiche sempre in agguato, aggravata dal risultato del referendum del 4 dicembre 2016 che sembra aver chiuso per non si sa quanto tempo la porta delle riforme istituzionali, ha fatto sì che i partiti non avessero più precisi termini di riferimento. Semmai, le elezioni del marzo scorso hanno dato fiato alle tentazioni di un progetto di “democrazia diretta” in materia di produzione legislativa che ha precedenti in Europa solo ed esclusivamente nell’esperienza svizzera (cioè in un Paese più piccolo del nostro e dalle tradizioni politiche radicalmente differenti) rinunciando alle mediazioni tipiche della democrazia rappresentativa in favore di un’ambigua devoluzione di poteri ad un’opinione pubblica che i fatti hanno dimostrato essere largamente manipolabile da demagoghi e spin-doctor abituati a far credere vero il falso e viceversa.
Sta di fatto che la costruzione di una classe dirigente non può procedere per metodi empirici, ma richiede percorsi formativi e di crescita che a loro volta richiedono strutture, agili quanto si vuole, ma comunque stabili, ed una programmazione di lungo periodo. Un modello praticabile potrebbe essere quello dei partiti tedeschi, ognuno dei quali si appoggia ad una fondazione culturale che svolge ricerche e studi spesso di livello universitario con forti proiezioni internazionali sviluppando un’autentica capacità formativa.
Resta da capire se e quanto le componenti che hanno dato vita al PD innervino tuttora la sua identità e la sua progettualità.
E’ impressionante ad esempio l’involuzione massimalista di quelle componenti del Partito che ne sono progressivamente fuoriuscite, e che hanno compiuto passi indietro rilevanti nel giudizio sulla globalizzazione, sulla moneta unica o addirittura sull’Unione europea in quanto tale e sulle necessarie riforme di struttura, arroccandosi quasi a rinnegare la svolta del 1989 e a rimpiangere un PCI largamente immaginario. Sembra qui operare quel meccanismo di negazione della realtà perché troppo lontana dai propri schemi intellettuali che, come afferma lo scrittore spagnolo Javier Cercas è un “vizio inguaribile di certa sinistra che non ha dimestichezza con la democrazia e di certi intellettuali la cui difficoltà ad affrancarsi dall’astrazione e dall’assolutismo impedisce di collegare le idee all’esperienza”. Un vizio, si potrebbe aggiungere, profondamente radicato nella sinistra italiana e di cui hanno beneficiato soprattutto le destre.
Per il cattolicesimo democratico il discorso è diverso, giacché la storia di questo filone politico poteva già considerarsi compiuta con il venir meno dell’esperienza politica della Democrazia Cristiana, in cui aveva giocato un ruolo essenziale, rivelandosi però incapace di avere una propria consistenza autonoma nella fase successiva. Si potrebbe dire che la presenza dei credenti in un partito di centrosinistra debba essere connotata da un lato da quel forte senso delle istituzioni che rimane a tutt’oggi la più importante eredita politica del cattolicesimo democratico tradizionale (un’eredità importantissima in tempi di antipolitica e di disprezzo per le istituzioni) e dall’altro all’attenzione alle crescenti disparità sociali – in un’ottica non solo italiana ed europea ma schiettamente globale – su cui particolarmente insiste l’attuale Pontefice.
Certo, la fase congressuale potrebbe sancire, per reazione al tonfo elettorale, un ritorno surrettizio alle vecchie appartenenze, ai collateralismi sindacali ed associativi, a rassicuranti parole d’ordine spacciate per neo-laburiste: gli entusiasmi di certuni per le esperienze di Sanders e Corbyn sono lì a dimostrarlo, ovviamente astraendo dalla fatica di contestualizzare tali esperienze (ad esempio, il fatto che una personalità fortemente caratterizzata a sinistra come Alexandria Ocasio-Cortez vinca le primarie democratiche in un collegio newyorkese da sempre feudo del partito dell’Asinello significa ben poco: avrebbe più significato, ad esempio, se un candidato con quelle caratteristiche strappasse ai Repubblicani un collegio in Texas o in Arizona).
Ma un simile risultato rappresenterebbe per il PD un vero e proprio capolinea, non tanto per la struttura in sé che potrebbe perpetuarsi, quanto per la dispersione complessiva del progetto autenticamente riformista che era alla base del percorso che si aprì nell’ottobre 2007.
E allora la democrazia italiana sarebbe veramente a rischio, mancando una vera alternativa riformista al populismo e al nazionalismo.
Lorenzo Gaiani
2 commenti
Ma uno Stato ,per garantire la libertà di tutti dovrebbe essere laico, avere leggi che impongano doveri e stabiliscano diritti, che ricordino che la propria libertà finisce dove comincia quella degli altri. Mi permetto di commentare questo ottimo articolo, con presunzione, a 64 anni. Mio padre è stato in Russia tra il 1942 e il 1943 e mio zio don Aurelio è stato cofondatore dell’O.S.C.A.R. e questo è quanto credo di aver capito.
…”istituzione della democrazia nel mondo cristiano” Tocqueville/Scoppola. Grande compito che non è stato perseguito.