Ammanniti dentro la civiltà dei consumi

Non c’è dubbio l’utilizzazione di massa di beni di consumo è la cifra distintiva della nostra epoca, suscitata ab origine dalle vecchie e nuove forme di suggestione pubblicitaria, allo scopo di espandere indefinitivamente le possibilità connesse alla produzione seriale. Il “gioco” era ed è quello di far apparire “reali” i bisogni generalmente considerati come fittizi, e di collegare la “felicità edonistica” alla capacità di consumo individuale, propagandata in certi casi dalle mode, in altri dalla ostentazione del proprio status, in altri ancora semplicemente per sentirsi “al passo con i tempi”. I Paesi occidentali hanno conosciuto dopo il secondo conflitto mondiale una fase di notevole ampliamento del benessere, allargando così la fascia del miglioramento delle condizioni di vita anche a quegli strati sociali precedentemente relegati in una condizione di marginalità. La nostra Penisola non si sottrasse alla “americanizzazione” del suo modello di sviluppo, che anzi si manifestò in modo prorompente negli anni del cosiddetto boom economico, trasformando l’Italia da una nazione arretrata prevalentemente di matrice contadina e ridotta ad un sostanziale cumulo di rovine dalla guerra, in una potenza industriale.

Così il mercato interno fu inondato di prodotti spesso di derivazione d’oltre oceano come la gomma da masticare, il cioccolato, le sigarette ma anche da relazionare alle neonate esigenze di vita mutuate dal new style life borghese come gli elettrodomestici, i mobili d’arredo componibili, i mezzi di trasporto privati a motore. La costruzione di un solido welfare tendeva a rendere sostenibile nel tempo un modello che garantiva le sue potenzialità positive a molti ma non a tutti, amplificando un social gap che si inasprirà con il passare degli anni tra i “beneficiati dal benessere” e gli esclusi da quella nuova belle époque. Così mentre le abitazioni si riempivano di oggetti tra i più disparati slegati comunque dalle necessità vitali, assumeva una maggiore rilevanza il “tempo libero”, cioè quello sottratto al lavoro, da utilizzare per le esigenze personali (anche in questo caso però soventemente indotte) come le vacanze, lo svago, gli hobbies. Il “giocattolo” però sembrò rompersi verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso: così dopo una parentesi iniziale di euforia generalizzata lo “sviluppo senza progresso” come lo definì Pasolini, mise a nudo i suoi tratti critici. Intanto il benessere che avrebbe dovuto essere generalizzato si è rivelato a macchia di leopardo, acuendo le disuguaglianze tra nord e sud sia d’Italia che del mondo. Il “turbocapitalismo” finanziario della contemporanea “fase matura”, oltre ad avere neutralizzato il tempo libero per i sempre meno (fortunati?) lavoratori, i quali però sono invece sempre più oppressi dallo scambio tra la prestazione d’opera e l’acquisto di beni, ha infine desertificato anche i posti di lavoro, ancorché la piena occupazione fosse mai stata raggiunta nella temperie della massima espansione dell’epopea consumeristica.

Senza voler mettere in campo analisi sociologiche troppo sofisticate è innegabile la mutazione antropologica connessa alla civiltà dei consumi: la “democratizzazione” degli stessi ha elargito agli italiani una “falsa tolleranza” dentro al territorio del sociale promanata dall’ “alto” verso il “basso” e funzionale essenzialmente alla libertà di acquisto di beni, poiché ogni sistema di valori ancestrale rappresentava un ostacolo al dispiegarsi del mercato. Anche in questo senso può essere letto il presunto “scatto in avanti” del popolo italico in materia di divorzio e di aborto – (referendum abrogativo del 1974 e legge 194 del 1978) – in aperta contrapposizione con le indicazioni in merito sia dell’establishment democristiano di allora che della Chiesa cattolica, da parte di un elettorato però che permaneva (e permane!) in maggioranza di indole conservatrice. Così come le recenti “difficoltose aperture” su altre e più attuali tematiche come i diritti civili, la morale sessuale, la gestione del “fine vita” o delle cure mediche nel caso di assenza di coscienza. La società di massa nel suo conformismo omologativo è in nuce tutt’altro che tollerante: essa non può che finire per stritolare l’individuo reso peraltro debole dall’allentarsi dei legami collettivi, mentre lo integra contemporaneamente in una dimensione solitaria regolata dalla tecnica del consumo, dove la soggettività è bandita. Nell’illusione di essere persone libere e di potersi autodeterminare, i modelli comportamentali proposti (o meglio “imposti”), si dispiegano poi come una forma totalizzante di controllo, finalizzata (nel migliore dei casi) alla creazione di valore economico. Un esempio su tutti è quello del settore del fashion, l’astuzia della produzione in questo caso propone la composizione di un look individuale unico ed irripetibile a fronte di una standardizzazione generalizzata del capo di abbigliamento: quindi il massimo del conformismo dietro una apparente diversificazione merceologica.

Inoltre le forme di invidia sono incentivate poiché funzionali a questo tipo sviluppo, ma esse sono anche la manifestazione di un sentimento spiacevole nei confronti dei beni materiali che si vorrebbero per sé e ai quali si attribuisce valore, che normalmente costano tantissimo in termini monetari e che sono fonte di infelicità se non si riescono ad ottenere. Spesso all’invidia è associata la competitività. Il desiderio di possedere “cose” accresce la competitività tra gli individui mentre nell’eccesso parossistico di bramosia, le relazioni umane tendono ad essere “cosificate” al pari delle cose che si vogliono ottenere. Questo dinamismo competitivo quindi raramente è scevro da conseguenze negative: in primis il deterioramento dei legami sociali e della dimensione solidaristica dell’esistenza. E poi lo strascico inevitabile costituito dalle “vittime di questa globalizzazione”, cioè da coloro che proprio non ce la fanno a stare dentro a questo paradigma. E’ quella “cultura dello scarto” stigmatizzata più volte da papa Francesco, epifania di una economia iniqua che anziché liberare l’uomo dal bisogno lo imprigiona, e infine lo “uccide”.

Così nel terzo millennio una parte notevole del Paese reale, dell’Italia, al di là di certe “narrazioni” di comodo – basta per favore poi con l’abuso di questo sostantivo e di tale modalità di analisi, così come dell’altra locuzione per qualche tempo ricorsiva “rottamazione” – si diceva al di là di certe visioni ottimistiche è in sofferenza: quasi 1/3 dei cittadini è a rischio di povertà, le disuguaglianze si amplificano anche in ragione dei diversi territori, e sono sempre più trasversali al corpo sociale di riferimento. Ai giovani è stato tolto il loro protagonismo poiché sono confinati all’in-dis-occupazione, molti altri sono costretti ad andare all’estero per lavorare, altri ancora (i pochi che trovano un impiego) sono spesso sfruttati e mal pagati. Stupisce quindi se una fetta consistente della popolazione italiana ha richiesto più tutele? Sul lavoro quando c’è, e opportunità quando esso manca, e perfino nei confronti di una presunta “minaccia” che viene da fuori a causa dell’immigrazione, la quale in fondo è comunque sussumibile nella mobilità di tanti potenziali lavoratori. Possibile però che quasi nessuno si senta toccato dal fatto che soltanto l’1% più ricco della popolazione mondiale continua a detenere la maggior parte della ricchezza del restante 99%? Questa enorme disuguaglianza distributiva delle risorse può essere soltanto il frutto del caso? Come mai la parte politica più progressista non soltanto italiana ha armi così spuntate su questi argomenti?

Dare rappresentatività, speranza e soprattutto risposte ai “vinti di questa globalizzazione” è un orizzonte programmatico che può e dovrebbe essere percorso, poiché la globalizzazione deve essere gestita, governata, indirizzata. Potremmo chiamarlo semplicemente diritto di cittadinanza, di inclusione, di dignità, in un momento storico in cui la “fase novecentesca” delle compagini politiche di sinistra sembrerebbe essere conclusa e all’attualità la dicotomia si misurerebbe sull’apertura intorno ad una globalizzazione governata versus una chiusura di stampo sovranista e neo-protezionista. Anche questa lettura però risulta piuttosto didascalica, nei diversi contesti la “neo-borghesia” ed il “neo-proletariato” per dirla così, in forme mutate rispetto al passato esistono ancora, ed hanno in genere interessi divergenti e comunque si può sempre stabilire un dualismo sociale oppositivo tra gli sfruttatori e gli sfruttati. Il busillis potrebbe allora addensarsi intorno al lavoro inteso nelle sue multiformi articolazioni; sulla promozione e sulla tutela dell’occupazione quindi depurata sì da una obsoleta lotta di classe così come si è manifestata nel “secolo breve”, tuttavia senza giungere a soluzioni artatamente interclassiste ma inadeguate, come ad esempio quella di una sorta di “macronismo in salsa nostrana”. Ed anche nel comprimere il trasferimento delle risorse operato spesso per via politica incredibilmente tra le fasce a reddito basso verso quelle con reddito più elevato.

Forse il tema vero è ancora quello di arginare lo sfruttamento “dell’uomo sull’uomo”, declinato nella fase apparentemente nuova attuale, punto zero e metteteci il numero cardinale che più vi aggrada secondo una definizione mutuata dal mondo dell’informatica così à la page. La nuova “lotta di classe” (dopo la vecchia lotta di classe avrebbe forse affermato il compianto sociologo Luciano Gallino) è combattuta prevalentemente dentro al corpus dei lavoratori, e passa anche attraverso i clic sulle tastiere dei computer o degli smartphone, poiché dietro a quel gesto così apparentemente ingenuo si è costruita una forma moderna di “pauperismo consumista”, che li mette in competizione tra di loro, abbassando le soglie di protezione e rendendoli inconsapevoli/insensibili circa le sorti degli uni nei confronti degli altri. Ancorché piuttosto iniquo questo modello mutuato per buona parte dal pensiero unico neo-liberista (ma anche nella forma più soft dell’ “economia sociale di mercato”) permane ancora molto attrattivo, giacché soltanto un numero esiguo di persone è disposto a rinunciare agli agi dei consumi; si può tentare di abbozzare qualche critica ma nella sostanza il “consumatore-massa” non è disposto a negoziare al ribasso il tenore di vita raggiunto, mentre non si scorgono all’orizzonte inediti e soddisfacenti migliori approdi. Nell’attesa che si riesca magari a formulare un paradigma economico alternativo (perché ci si deve sforzare di immaginare una struttura organizzativa più equilibrata), sarebbe necessario orientarsi quantomeno verso uno “sviluppo davvero sostenibile”, ed una produzione abbondantemente green di tipo circolare, che trova fondamento nella salvaguardia dei valori umani, sociali, ambientali, anzi proprio dentro la loro promozione. Senza dimenticare però che un’ampia parte del Terzo Mondo permarrebbe comunque estranea alle “magnifiche sorti e progressive” anche di questa ultima forma più digeribile di globalizzazione.

Andrea Rinaldo

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