Conoscenza e crescita. Mauro Magatti: cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando al futuro.

Corso di formazione alla politica

Il concetto chiave di questo nuovo libro, che porta un titolo tanto bello quanto impegnativo: Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando al futuro è quello di “sostenibilità”, che si declina secondo tre significati principali: la sostenibilità ambientale, la sostenibilità sociale, la sostenibilità umana.

Magatti propone quindi un pensiero “a lungo termine”, che proceda oltre l’immediatezza del profitto perseguita dalla finanza, la servitù dai sondaggi a cui è prona la politica, ma anche oltre i flussi di desiderio che orientano i consumi, così ben compresi dalle varie forme di marketing proprie della nostra società spettacolarizzata.

Locandina: Mauro Magatti. Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando al futuro.

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Presentazione di Luca Caputo 12′ 37″

Introduzione di Roberto Diodato a Mauro Magatti 30′ 23″

Relazione di Mauro Magatti 77′ 50″

Domande del pubblico 09′ 51″

Risposte di Mauro Magatti 13′ 28″

Domande del pubblico 12′ 15″

Risposte di Mauro Magatti e chiusura 15′ 02″


Roberto Diodato, Mauro Magatti, Luca Caputo

Roberto Diodato, Mauro Magatti, Luca Caputo (foto Enrico Leoni)

Il pubblico in sala

Il pubblico in sala (foto Enrico Leoni)

Introduzione di Roberto Diodato a Mauro Magatti

Ringrazio molto Mauro Magatti per avere accettato l’invito del Dossetti.

Mauro Magatti, insegna Sociologia all’Università Cattolica ed è editorialista del Corriere della Sera, e non è la prima volta che ci fa il piacere di venire a dialogare con noi. Direi anzi che il Dossetti ha seguito con grande attenzione l’evoluzione del suo pensiero, a partire dal 2004, quando Lorenzo Gaiani ha presentato qui il suo libro L’io globale. Dinamiche della socialità contemporanea; poi nel 2007 Giovanni Bianchi ha presentato Il potere istituente della società civile, e sempre Bianchi nel 2010 ha presentato La libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista; nel 2013 Paolo Masciocchi ha presentato La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, e infine Luca Caputo ha presentato Chiara Giaccardi e Mauro Magatti in occasione del libro Generativi di tutto il mondo unitevi. Ho notato che se scarichiamo dal sito del Dossetti gli interventi di introduzione e quello che Magatti poi ha detto nei suoi commenti ne viene un libro di più di 100 pagine!

Anche per questo, per via di questa costante e per me istruttiva attenzione, anch’io mi sento di ripetere quello che Giovanni Bianchi ha scritto in una sua introduzione: confesso di essere un da un po’ di tempo un adepto del magattismo… soprattuitto perché Magatti ci ha dato tanti motivi per pensare e riflettere positivamente, cioè non solo relativamente alle analisi ma anche alle proposte.

Ora il concetto chiave di questo nuovo libro, che porta un titolo tanto bello quanto impegnativo: Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando al futuro è, a me pare, quello di “sostenibilità”, che si declina secondo tre significati principali:

la sostenibilità ambientale, cioè “assunzione del vincolo ecologico per lo svolgimento delle attività economiche, ma anche nuovi stili di vita personale e nuovi modelli di organizzazione sociale (si pensi al tema della mobilità), qualità dell’aria che si respira, cura idrogeologica del territorio, efficienza energetica e così via” (105);

la sostenibilità sociale: “Contrariamente al credo neoliberista, oggi per rilanciare la crescita occorre tornare a investire sulla società che la sostiene: dal punto di vista infrastrutturale, istituzionale, culturale. Alla lunga, se non c’è sviluppo sociale – con una redistribuzione della ricchezza equa e inclusiva, un forte investimento nell’educazione, la fioritura culturale, tecnica, scientifica, infrastrutturale – non c’è più nemmeno crescita economica. Per questo l’eccessiva concentrazione della ricchezza è un tema che non può essere aggirato: uno dei modi che abbiamo per rilanciare i mercati interni è tornare a redistribuire in modo più equo la ricchezza prodotta. Partendo dalla ritrovata centralità del lavoro e dalla sua remunerazione. E’ chiaro infatti che in alternativa alla logica dello sfruttamento – che ha il problema di reggere solo per un po’ – vi è solo quella della valorizzazione che concepisce la crescita come un fenomeno globale” (106);

la sostenibilità umana: “che ha a che fare con tre aspetti: uno demografico, uno generazionale e uno formativo” (106) e implica le politiche famigliari, la questione dell’età pensionabile, la disoccupazione giovanile, la scuola e più in generale la formazione della persona, una formazione continua e a lungo termine “per evitare che le persone possano trasformarsi in scarti nel corso della loro vita. In questa accezione integrale, l’idea di sostenibilità è un vero e proprio antidoto all’intossicazione prodotta dalla finanziarizzazione che ha pensato di essere in grado di sostenere da sé, con la propria espansione illimitata, la crescita” (108).

Su tutto questo direi: come non essere d’accordo?

Mi pare semplicemente impossibile “non essere d’accordo”. Non essere d’accordo vorrebbe dire ritenere che l’ambiente vada soltanto sfruttato fino a spremerlo come un limone, magari costruendo case abusive, discariche non controllate, edifici che crollano al minimo movimento tellurico, inquinando i mari e l’aria e così via, cioè vorrebbe dire fare precisamente quello che da tempo facciamo. Non essere d’accordo vorrebbe dire non investire sulla ricerca e sull’educazione, anzi ridurre gli investimenti in questo settore strategico, burocratizzare l’università e aziendalizzare la scuola, introdurre una mentalità tecnicistica nella formazione della persona ecc. cioè fare ciò che precisamente facciamo; vorrebbe dire non rendere precario il lavoro soprattutto giovanile, in modo da consentire l’elaborazione di progetti vita: mi sposo, compro la casa, metto al mondo i miei figli… evitare insomma che la vita dei giovani pesi sulle famiglie, sui genitori, sui nonni, perché questo accentua le differenze di classe e non permette ascesa sociale, cioè fare il contrario di ciò che precisamente facciamo.

Magatti propone quindi un pensiero “a lungo termine”, che proceda oltre l’immediatezza del profitto perseguita dalla finanza, la servitù dai sondaggi a cui è prona la politica, ma anche oltre i flussi di desiderio che orientano i consumi, così ben compresi dalle varie forme di marketing proprie della nostra società spettacolarizzata. Magatti ritiene, direi realisticamente, che “Scardinare questa mentalità in condizioni normali è probabilmente impossibile” (109) ma anche che si possa nutrire una speranza di cambiamento proprio perché l’attuale situazione è anormale: “E’ la perdita degli equilibri dello scambio finanziario-consumerista – scrive infatti Magatti – a poterci spingere verso una nuova stagione capitalistica di cui la sostenibilità integrale possa costituire il presupposto” (109).

“Verso una nuova stagione capitalistica”, abbiamo letto: ma cosa è il capitalismo: leggiamo la definizione che dà la Treccani: “Nell’accezione comune, sistema economico in cui il capitale è di proprietà privata (sinonimo di ‘economia d’iniziativa privata’ o ‘economia di libero mercato’). Nell’accezione originaria, formulata con intento fortemente critico da pensatori socialisti e poi sviluppata nelle teorie marxiste, sistema economico caratterizzato dall’ampia accumulazione di capitale e dalla scissione di proprietà privata e mezzi di produzione dal lavoro, che è ridotto a lavoro salariato, sfruttato per ricavarne profitto”.

Mi chiedo: siamo sicuri che le due accezioni si possano separare? cioè che ciò che chiamiamo “capitalismo” non implichi comunque lo sfruttamento in funzione del profitto? Non è ciò che vediamo accadere tutti i giorni? E’ pensabile un “capitalismo ben temperato”? temperato da chi, se non da ciò che chiamiamo Stato? Ma che ne è degli Stati, quali funzioni di orientamento, controllo degli “spiriti selvaggi”, redistribuzione del capitale, in epoca di globalizzazione? E che ne è dello Stato italiano, considerando la quantità in circolazione del capitale legato alla corruzione, alla criminalità organizzata, all’evasione fiscale, al lavoro nero e spesso schiavizzato, presenza così massiccia da distinguere l’Italia molto bene nel contesto degli stati europei?

Ora la proposta di Magatti si articola su analisi, svolte nei capitoli dall’11 al 14 del suo libro, che spingono a una prospettiva positiva: un nuovo capitalismo è possibile, un capitalismo non orientato al solo accumulo di profitto, ma capace di adottare la sostenibilità come condizione per la sua stessa sopravvivenza. Oggi anche le imprese si fanno promotrici della sostenibilità: “A livello economico – scrive Magatti – la sostenibilità istituisce un nuovo modello di sviluppo in cui il valore economico e valore sociale sono ricongiunti in un’ottica di lungo periodo” (111). Magatti al proposito indica per esempio il successo delle Benefit Corporations “ovvero imprese che, pur rimanendo strutturalmente orientate al profitto, dichiarano anche qual è il beneficio che intendono proporre alla propria comunità di riferimento … In termini pratici, ciò significa pensare a imprese che operano per alleviare la povertà, per costruire comunità più forti e per salvare l’ambiente. Il tutto a favore delle generazioni che verranno. Con l’obiettivo di permettere alla società nel suo insieme di godere e di condividere, il più a lungo possibile, una ritrovata prosperità”. (113).

Vorrei qui attirare un attimo l’attenzione sulla parola “obiettivo”: obiettivo indica l’orientamento, il fine, ma si tratta davvero di un fine o di un mezzo? Perché se l’impresa è “strutturalmente orientata al profitto” (e ricorderei che anche Weber ha indicato la peculiarità del capitalismo nel calcolo razionale del profitto) vuol dire che ha come fine il profitto, e quindi permettere alla società di godere e condividere una ritrovata prosperità diventa un mezzo. Ora la nozione di “mezzo” sarebbe interessante da studiare in sé, ma qui interessa soltanto stabilire se la prosperità sociale sia un mezzo “necessario” per ottenere il profitto, o meno, perché nel caso si riesca a stabilire tale necessità – non una necessità logica e nemmeno una necessità storica, ma direi una “necessità contingente”, cioè legata alla fase attuale del divenire politico e sociale – la proposta è certamente interessante (ed è interessante a questo proposito il rinvio che Magatti fa all’articolo di Porter e Kramer Reinventing Capitalism, dedicato a mostrare “la congruità tra progresso sociale e produttività della catena del valore”).

Ovviamente a questo rilievo si può facilmente obiettare che la felicità non consiste soltanto nel profitto: se la società è nel complesso prospera, è anche soddisfatta e pacifica, e questo è un bene per tutti, anche per chi persegue come scopo il profitto e accumula capitale, poiché in genere costui non desidera vivere in un ambiente conflittuale, o almeno altamente conflittuale, in quanto tale situazione metterebbe in gioco la sua sicurezza. A questo però si può ulteriormente obiettare che la sicurezza può comunque essere garantita attraverso l’uso della forza, come oggi avviene in molte parti del mondo, e che può anzi essere meglio garantita in situazioni di forte squilibrio sociale, perché queste producono una più chiara separazione socio-ambientale, come avviene in molti paesi non europei. E poi, più profondamente, cosa sia la felicità (quel fine ultimo nei confronti del quale il profitto sarebbe uno scopo), quanto essa sia legata a processi di differenziazione sociale e quindi al controllo sul corpo e sull’anima degli altri (delle persone altre da me) non è facile sapere. Abbiamo a che fare con dispositivi di estrema complessità, che implicano un intreccio, una matassa quasi indistricabile, di desideri, immaginazioni, pulsioni, che travalicano la sfera dell’economico ma incidono potentemente su di essa, perché costituiscono l’ambito di un fine rispetto al quale il profitto è un mezzo.

Tutto ciò non è oggetto specifico del nostro incontro di oggi, ma Magatti dice cose interessanti anche su questo punto nel capitolo dedicato Nuovi consumatori, nuovi beni. Il “nuovo consumatore” ha un’accresciuta sensibilità valoriale, dice Magatti, “in via di metabolizzazione: rispetto delle regole ambientali, sensibilità sociale e qualità dei rapporti di lavoro sono tutti aspetti che, un po’ per volta, si stanno affermando come valori a cui i consumatori tengono e che, non a caso, le imprese più intelligenti hanno già chiaramente colto” (118). A partire da tale incremento di attenzione si tratta di riflettere “su quali possano essere i nuovi beni in grado di aprire nuovi spazi economici per il nostro futuro” (119), e qui si aprono i grandi temi delle infrastrutture della vita sociale e delle possibilità associate all’innovazione tecnologica, che complessivamente precipitano nell’idea di un rinnovato welfare: “Più che un insieme di prestazioni individualizzate – che rientrano nella logica del modello di consumo – il welfare va dunque concepito di nuovo in rapporto a un progetto di società, a un modo di stare in relazione, di vivere la propria individualità all’interno di una comunità di appartenenza. Dalla qualità di questo rapporto, reciproco e sostenibile, dipende una buona parte del nostro futuro. Il welfare non va ridotto alle pur necessarie tecnicalità delle politiche sociali, né a semplice meccanismo di spesa. Al contrario, esso va pensato come processo intimamente associato alla dinamica stessa dello sviluppo. Più che un costo il welfare è un investimento: di crescita individuale, di capacitazione, di soddisfazione, di tutela e cura, di coesione. Metterci in questa prospettiva aiuterebbe a valutare meglio, in un’ottica economica più adeguata e approfondita, l’impatto di determinate politiche e la loro efficacia. Proviamo a tradurre concretamente questo principio generale” (122-123).

Direi che questo è l’invito che possiamo rivolgere ai politici che ci governeranno.


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  1. Presentazione di Luca Caputo 12′ 37″
  2. Introduzione di Roberto Diodato a Mauro Magatti 30′ 23″
  3. Relazione di Mauro Magatti 77′ 50″
  4. Domande del pubblico 09′ 51″
  5. Risposte di Mauro Magatti 13′ 28″
  6. Domande del pubblico 12′ 15″
  7. Risposte di Mauro Magatti e chiusura 15′ 02″

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