Oltre il principio della Sovranità.

Premessa: la ricerca della via sbagliata come metodo

Prima di addentrarci in questa breve trattazione, una premessa è doverosa: tra quello che ci orienta nelle nostre ricerche c’è un momento in cui abbiamo ricevuto da Giovanni Bianchi, con il carisma e il sapere tipici dei buoni maestri, quello che voleva essere insieme una raccomandazione, una consegna e un consiglio:

di conservare la nostra impostazione giuridica come punto di forza delle nostre riflessioni.

All’ interno di questa variegata cassetta degli attrezzi, fonte allo stesso tempo d’aiuto ma anche di ulteriore lavoro, ve n’è uno affine a molte scienze, tipico del processo penale: la ricerca critica di una verità postulata, al fine di poterla confermare o, semmai, negare a ragion veduta, arrivando così ad una verità più compiuta.

Parafrasando una metafora sovente usata da Bianchi, è come ricercare appositamente le Indie per arrivare ad una possibile America.

Cercare la via forse sbagliata, insomma, per trovare quella più probabilmente giusta, se una giusta esiste.

 

Ritorno alle sovranità tradizionali

I nostri ragionamenti sulla Sovranità prendono le mosse in un momento storico ben preciso: quando, cioè, con l’ esplosione della crisi economica globale e di quella del debito sovrano, i rapporti tra gli Stati dell’Unione Europea, soprattutto nell’Eurozona, hanno iniziato a deteriorarsi e la questione della sovranità (statale) è così tornata all’ordine del giorno sotto la bandiera del sovranismo.

Si è allora iniziato a sostenere una tesi (peraltro indirettamente avvalorata, anche a sinistra, da alcuni teorici della cessione di sovranità): cioè che, a causa degli accordi internazionali, e dei Trattati UE in particolare, il nostro Paese avesse rinunciato all’autodeterminazione e ceduto porzioni di sovranità. E che si fosse reso vitale il recuperarli.

Pur conoscendo, in effetti, la debolezza (teorica e pratica, v. Infra) di questo argomento, va onestamente detto che anche noi eravamo pienamente calati nello spirito del tempo, e muovevamo a partire da un punto di vista particolare: quello di chi, avendo vissuto come giovane coscienza il periodo della Guerra Fredda, aveva visto quel mondo cambiare intorno ad una promessa, poi non mantenuta, di pace e progresso economico per tutti.

D’altro canto, ben conoscendo la intrinseca debolezza del diritto internazionale pattizio proprio al cospetto delle sovranità, ed essendo liberi da dogmatismi, ci appariva almeno doveroso sondare la percorribilità della via inversa rispetto a quella da più parti professata (necessità di una crescita nei livelli di integrazione tra Stati). E, pur senza sapere se questa ricerca fosse in effetti praticabile, e con qualche dubbio morale sulla sua bontà, abbiamo iniziato a cercare SE esistesse una via ragionevole alla definizione di un possibile rafforzamento della sovranità statale italiana.

L’oggetto delle nostre ricerche non è stato, quindi, la via politicamente accettabile alla cessione definitiva di quote di sovranità (sforzo su cui una consistente parte del pensiero riformista e di quello tecnocrate si stavano concentrando), bensì il possibile rafforzamento delle sovranità degli Stati all’interno di un contesto mondiale magmatico; nel quale, per riferirci ad una analisi svolta proprio da Giovanni Bianchi, quel “vecchio arnese del Seicento” continuava ad essere il più efficace nel fornire risposte agli scompensi ed ai disastri prodotti dalla globalizzazione.

 

Lo spirito del tempo: l’individualismo totale

Potrebbe sembrare improprio fondere insieme princìpi e concetti di natura “privatistica” e “pubblicistica”, così come l’innestare dei ragionamenti sulla condizione dell’individuo in una trattazione sulle sovranità statali; tuttavia, i comportamenti individuali possono assumere rilevanza sociale e valenza politica fino a tradursi in politiche di Stato: dalle forze in movimento si arriva spesso, quasi naturalmente, alle regole che sopraggiungono per indirizzarle ed organizzarle.

Si ricade, insomma, nello scenario prospettatoci dalla professoressa Albina Candian, secondo la quale ad essere improprio è, semmai, il tracciare barriere nette tra diritto privato e diritto pubblico.

 

Lo spirito del tempo: le certezze smarrite

Il benessere morale, economico, lavorativo, nel medio-lungo periodo, rispetta la tendenza ad una crescita costante;

il trattamento sanitario e pensionistico, la scuola pubblica, l’istruzione universitaria, l’impiego rispondente ai propri studi;

la vittoria definitiva della democrazia, della civiltà dei diritti, della integrazione internazionale, sul totalitarismo, l’autoritarismo, lo statalismo;

l’Europa come destino ineluttabile;

le frontiere, materiali e immateriali.

Ecco alcune delle più grandi certezze smarrite in questo inizio di XXI secolo.

Il senso di disorientamento che lo smarrimento di queste certezze comporta in capo agli individui, è diventato pienamente una categoria del prepolitico; la cui rilevanza, in qualche caso, resiste alle reali implicazioni di fatto dei fenomeni da cui muove.

 

Lo spirito del tempo: il paradosso dell’ individualismo universale

La caduta dell’ Occidente è stata declinata in molti modi.

Ve n’è uno forse non messo a fuoco a sufficienza: l’implosione della civiltà dell’ individuo. Priva dello scudo rappresentato dal “vecchio arnese del Seicento”, cade la certezza centrale del nostro modello di civiltà[1]: l’ intangibilità fisica e morale, l’umana onnipotenza dell’ individuo. Che a questo ha risposto per istinto di conservazione, restando all’ interno di una dimensione individuale e della sua strutturazione istituzionale: lo Stato-nazione. O, a seconda dei casi, della sua evoluzione particolaristica: la Piccola Patria.

E’ stata, a nostro avviso, la deificazione dei diritti individuali, giunta fino alla pretesa intangibilità degli individui rispetto a qualunque autorità pubblica, ad aver prodotto coloro i quali successivamente, nella crisi del soggetto garante (l’autorità statale sovrana), negheranno il dogma che li ha generati (cioè l’ universalità e la “naturalità” di quei diritti).

Da questo alla deriva autoritaria, cioè all’accettazione di una compressione di diritti e libertà individuali, in nome della sicurezza e della conservazione dei livelli di benessere raggiunti, il passo rischia di essere drammaticamente breve.

 

Lo spirito del tempo: la spugna satura delle coscienze

A questa radicalizzazione in chiave egoistica dell’individualismo, i poteri tradizionali, nel tentativo di salvare lo status quo, hanno risposto cercando di focalizzare le forze vitali delle società sulla necessità del proseguire lungo strade tradizionalmente riconosciute come virtuose o proficue (anche sotto il profilo del consenso): tra queste, senza dubbio, quella del riconoscimento dei diritti individuali a coloro i quali ne sono esclusi, o di ulteriori, sempre più specifici, diritti individuali a chi già gode di piena cittadinanza formale.

Una battaglia di retroguardia, condotta rimandando di continuo in avanti, oltre una immaginaria trincea della civiltà, l’oggetto da conquistare. Poco incisiva perché poco profonda nelle analisi (d’altro canto la disponibilità del giusto rapporto tra i tempi del pensare e quelli del fare, politici, è una fortuna sempre più rara) e poco capace di fronteggiare un elemento di fatto che l’avrebbe resa infruttuosa: la spugna satura.

Il metodo della crescita nella cultura dei diritti condotto per “sensibilizzazione” aveva esaurito la propria portanza: il sensibilizzare passa dal ferire, il ferire porta al cicatrizzare; ma alla lunga i tessuti cicatrizzati perdono di sensibilità e le risposte agli stimoli cessano di arrivare.

Una serie continua di stimoli, tutti dello stesso segno, soprattutto se accettati ma non adeguatamente elaborati, può portare alla lunga alla saturazione e all’indifferenza da parte di chi ne è colpito. E, all’aumentare della complessità delle nostre vite, sono cresciuti anche il numero e le tipologie degli stimoli ricevuti quotidianamente.

La spugna della civiltà occidentale si era saturata da tempo ma nessuno è stato in grado di tradurre questo in nuova politica, uscendo dal dogmatismo retorico del progresso civile.

A questo si è aggiunto, in Italia, un ulteriore elemento: la delegittimazione del potere politico (la casta):

pretendendo di colpire un sistema parassita ed autoreferenziale, e difendere i cittadini e la società, la frangia intellettuale e mediatica formatasi intorno alla battaglia contro i privilegi della c.d. “casta” ha avvelenato i pozzi a cui entrambi, rappresentanti e rappresentati, avrebbero dovuto abbeversarsi per uscire della contingenza e produrre risposte nel solco di una nuova cultura politica; ha tagliato, cioè, i ponti attraverso cui gli inviti alla difesa delle conquiste del Novecento avrebbero dovuto essere accolti.

 

Lo spirito del tempo: l’ identità nazionale. La balcanizzazione della civiltà

Si è aperto così il campo per un movimento di rinculo: la riscoperta delle identità nazionali come risposta alle sfide della società transnazionale[1].

Su questo bisogna essere chiari: raramente si vedono i tratti di una affermazione “in positivo” di valori culturali e sociali specifici di una terra, un’etnia, una “nazione”; è il caso di pochi, fortunati episodi nell’alveo dei movimenti subculturali di critica e rigetto della globalizzazione omologante e di riscoperta di ricchezze culturali locali e specifiche.

Nei casi più sfortunati, invece, vengono eretti dei totem alla sovranità come espressione concreta del diritto alla autodeterminazione dei popoli, forzando le definizioni di “popolo” e di “nazione” per intendere “coloro che mi somigliano per lingua/dialetto, aspetto fisico, stile di vita, religione ufficiale, autorità amministrativa locale. ”

Un fenomeno che, nel suo complesso, pare oscillare dall’attrazione per il richiamo della foresta alla fascinazione per un monolito muto (ri)piovuto in mezzo a noi.

In due, successive, ondate:

  • dopo la caduta del Muro, con le prime manifestazioni di rigetto della retorica mondialista;
  • dopo l’esplosione della globalizzazione finanziaria, con il territorismo,

la spugna satura della civiltà è sembrata balcanizzarsi: covare cioè spinte centrifughe e particolariste, fino all’aumento della conflittualità tra i popoli e gli Stati.

 

Lo spirito del tempo: il sovranismo

Appaiono a questo punto evidenti le contiguità tra la pulsione individuale all’ autoconservazione e quella all’avvicinamento della frontiera del proprio protagonismo politico: in estrema sintesi, è il tentativo di definire una propria identità nell’appartenenza ad una comunità, i cui tratti e la cui ampiezza variano, a seconda di quale punto di debolezza nella propria condizione (culturale, spirituale, politica, materiale) venga volta per volta sollecitato; da quale nemico esterno appaia necessario difendersi o affrancarsi.

Unione Europea (tecnocrazia arrogante, prepotente, non controllabile), multinazionali e finanza globale (capitalismo tecno-nichilista [2]), BCE e partners europei (perdita della sovranità monetaria, leva del ricatto sui debiti sovrani), Stato centrale (aspirazioni all’ autodeterminazione fiscale e amministrativa delle Regioni), la casta (parassitismo del ceto politico), Islam radicale che tenta di islamizzare l’Europa (scontro di civiltà), migranti (importazione della criminalità), terrorismo islamista, sicurezza alimentare, vaccini patogeni…

Sono solo alcuni delle questioni sulle quali gli Europei si sono sentiti via via minacciati ed hanno prodotto risposte sempre dello stesso segno: tentando cioè di invertire il corso della globalizzazione, chiudendo le frontiere, erigendone di nuove, riavvicinando alla propria persona fisica, e al proprio territorio, centri e potestà decisionali.

Con alcuni macroscopici paradossi (almeno secondo le categorie tradizionali): quali l’ essere contemporaneamente statalisti e localisti, secolari ed intransigenti cristiani; o invocare la chiusura delle frontiere usando, come mezzo di propagazione del proprio pensiero, apparati tecnologici prodotti in altri continenti con materiali estratti dagli stessi schiavi da cui ci si vuole proteggere.

D’altro canto, la spugna satura ha continuato a rigettare gli stimoli conservativi e/o distrattivi (cultura dei diritti, integrazione europea, principi della responsabilità e della governabilità, linguaggio politicamente corretto, parità di genere, contrasto alla violenza sessista) provenienti dal “sistema”, cogliendone la natura retorica e strumentale; e finendo per classificare come vettori della malattia quelli che volevano essere in realtà delle soluzioni, seppur timide, quando non semplici palliativi, ad una difficoltà strutturale di interpretazione della fase.

L’assenza, nella proposta politica, di un grande orizzonte da inseguire (anch’essa, in un certo senso, una conquista del Novecento) ha finito per rendere irricevibili le soluzioni conservative, culturalmente esauste, la miseria delle cui ambizioni ne ha determinato il rigetto.

 

Sovranità e sovranismo

Così come la pregnanza di certi valori proposti si rivela per lo più retorica, povera o priva di analisi di senso, analogamente priva di solidi fondamenti risulta, però, essere la risposta politica che, partendo dalla difesa della propria sfera individuale, porta al sovranismo.

Il termine denuncia chiaramente la fatica nell’utilizzo di un concetto, quello della sovranità, il cui significato risulta non più univoco, al punto da essere evocato in maniera errata e, soprattutto, la cui validità perenne nel tempo e nello spazio è data, impropriamente, come valore assoluto.

Sembra quasi di assistere alla riscoperta del culto di un vecchio dio, del quale tutti ci eravamo dimenticati, e dei cui tratti ricordiamo, in effetti, poco.

Due, in particolare, le critiche che ci sentiamo di muovere:

  • manca, del tutto, la considerazione che il concetto di sovranità, come qualsiasi costruzione giuridica, nasce in un certo luogo e in un certo momento, in risposta a dinamiche precise e con tratti parimenti precisi: il suo significato e la sua validità non possono, insomma, essere considerati metastorici;
  • manca, inoltre, una definizione coerente del soggetto in capo al quale la sovranità si dovrebbe attestare: la sovranità esiste, è giustificata ed accettata, ha senso, quando è reclamata da soggetti la cui identità positiva è forte e rende necessario (di più, proficuo su scala generale) riconoscere loro una potestà decisionale “assoluta”.

Ab-soluta: sciolta, cioè, dalla sottoposizione ad altri.

Sotto il primo profilo, si evoca la sovranità come se fosse un ventaglio di potestà, o di libertà, alle quali sia possibile rinunciare o ritornare un pezzo alla volta: la sovranità monetaria, la s. militare, la s. energetica, la s. alimentare e via discorrendo; la decliniamo, cioè, ricalcando la nostra idea dei diritti e delle libertà individuali.

Ma la sovranità è, innanzitutto, unica. Ed è indivisibile: non è possibile cederne o riprenderne una porzione aggiungendole un attributo[3]. Non è, insomma, attraverso i Trattati Europei o gli altri accordi internazionali che uno Stato sovrano cessa di essere pienamente tale.

E’ anzi vero il contrario: [v. supra]

  • sotto il profilo formale, atti e accordi continuano ad essere validi e vincolanti proprio in forza della sovranità del soggetto che li ha prodotti e sottoscritti;
  • sotto il profilo sostanziale, se ci muoviamo nel solco del diritto internazionale (o del diritto pubblico mondiale, volendo momentaneamente schivare il concetto di nazione), è solo la piena sovranità di uno Stato contraente a conferire senso, qualità d’impegno e forza giuridica a qualsivoglia accordo.

Inoltre, non si tiene in alcun conto di quali siano i tratti della sovranità; tra le dimenticanze più macroscopiche, quella che riguarda il suo “doppio volto”, interno ed esterno: come si può lamentare la perdita della sovranità esterna (cioè rispetto agli altri) dello Stato, nello stesso momento in cui si nega sempre più valore alla sua dimensione interna?

Veniamo, quindi al secondo punto della questione:

chi è, in una accezione moderna del termine, IL soggetto identitario, unitario, univocamente titolare della sovranità? Come è possibile individuarlo e definirlo con certezza?

In epoca moderna, il titolare di ultima istanza della sovranità è stato il Popolo-Nazione (i due termini, spesso usati indifferentemente, non sono in realtà equivalenti). In una ideale triangolazione tra Sovranità, Popolo-Nazione e Identità (di fatto e di forma) questo ultimo elemento è centrale: per appellarsi al noto principio di autodeterminazione dei popoli (che, è bene ricordarlo, è potenzialmente càduco come tutte le costruzioni teoriche umane), è necessario, tra le altre cose, che l’aspirante soggetto sovrano manifesti una identità oggettiva, un insieme cioè di condizioni che ne traccino la riconoscibilità interna ed esterna.

Ecco quindi che, per individuare il titolare ultimo della sovranità, si rende necessaria una definizione storica (cioè, adeguata al tempo presente) dei concetti di popolo e di nazione. Per rivendicarla, è necessario poter dire con certezza di essere espressione di una civiltà definita, di un’ identità collettiva chiara, di una organizzazione pubblica condivisa nei fini e negli orientamenti generali, riconoscibile ed in grado di esplicarsi all’esterno ed all’interno.

 

Quale sovranità

Se, dunque, la sovranità rientra nel novero di quelle cose non immutabili, bensì determinate dalla storia, è di tutta evidenza la necessità di declinarla in un modo che tenga conto, nella propria tipizzazione, del carattere transnazionale delle nostre società e della tendenza di beni e valori immateriali a sostituirsi ad alcuni di quelli materiali.

Sul versante della identità del soggetto sovrano, appare plausibile ritenere che i suoi tratti debbano essere più precisi che in passato, e con un incremento di importanza degli elementi immateriali.

La riconoscibilità culturale, la capacità di essere determinanti nello stabilire e strutturare relazioni cooperative anziché conflittuali, l’intelligenza nel proporre e praticare linee di condotta idonee a generare benessere e ricchezza per tutti, anziché solo per se stessi, appaiono elementi in grado di conferire forza (sovranità) a popoli, e alle loro organizzazioni statali, altrimenti destinati:

  • ad esercitare una auctoritas sempre più violenta e distruttiva nei confronti di tutto ciò che non riescono a controllare;
  • a dissolversi come forme organizzate, erose come un terreno privo di vegetazione sottoposto all’azione disgregatrice degli elementi.

 

Comunque lo si intenda, quello della sovranità è un concetto che, anche nella sua accezione sovranista, non può trascendere da due fattori: è espresso in relazione ad altri soggetti, che da quel potere sovrano sono interessati; reca in sé la tendenza a produrre effetti diversi, talvolta addirittura inversi, rispetto a quelli tipici che si prefigge, sia sul versante interno che su quello esterno. Per questa sua natura duale, relazionale, la sovranità tende a portare, nel lungo periodo, alla propria negazione e al mutare delle proprie caratteristiche.

Appare pertanto difficile immaginare, nel mondo d’oggi, globalizzato e percorso da flussi che attraversano società dai confini permeabili, una sovranità materiale svincolata dal prestigio morale di cui un popolo può, ed in qualche caso deve, godere nei confronti degli altri.

Alla sua capacità di essere luce e guida per le coscienze, punto di riferimento e porto sicuro anche negli aspetti materiali rispetto ai popoli più deboli, e non solo per una sovrana determinazione ad esserlo, ma innanzitutto perché le circostanze della storia lo richiedono.

Ripensando alla più grande e duratura entità statale che abbia governato la penisola italiana, Repubblica e Impero di Roma, non si può non notare che essa era anche centro di civiltà: la cui grandezza iniziò, a parer nostro, proprio quando Roma fu costretta ad un atipico compromesso con gli Italiani: la fine della Guerra Sociale in cambio della cittadinanza per tutti.

Romanus sum: era una espressione declamata con orgoglio anche dai conquistati; perchè si era individualmente parte di una civitas di cui si riconosceva la grandezza, che andava ben al di là degli elementi materiali e giuridici connessi ai diversi livelli di cittadinanza.

Civitas e civilitas, insomma, come due elementi determinanti della grandezza e della forza di quella istituzione.

La via praticabile per il rafforzamento della nostra sovranità passa necessariamente dalla volontà, dall’impegno, di essere la luce riconoscibile di una nuova civiltà, in grado di suscitare, in noi stessi e negli altri, un nuovo desiderio di appartenenza, una riconoscibile ed ammirata identità.

Luca Emilio Caputo


[1] vedasi, in merito: Diego Quaglioni, La sovranità

[2] secondo la definizione di Mauro Magatti in Libertà immaginaria

[3] vedasi, in merito, Salvo Andò, Un altro Mediterraneo è possibile

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