A chiusura del corso di formazione politica del Circolo Dossetti di Milano, è possibile compiere una sintesi degli spunti emersi nel rapporto tra diritto e società, tenendo conto di alcuni degli strumenti che vengono descritti all’interno dell’opera di Vincenzo Ferrari, un punto di riferimento saggistico essenziale sul tema nel panorama italiano e internazionale. Il titolo del corso di quest’anno è “Cittadinanza oltre le culture”.
Cittadinanza è un termine socio-giuridico, che ben si presta a far ponderare alcuni elementi in gioco nel mutamento sociale e nelle sfide di quest’epoca, attraversando politica e riflessione etica.
Quale cittadinanza è possibile pensare oltre le culture? I modelli europeisti dominanti che vengono assunti come riferimento generale – lo si è visto nella recente campagna elettorale di Macron – pretendono una visione civista della cittadinanza.
Significa, in altre parole, che una cittadinanza inclusiva e attuale deve essere espressa in termini formalistico-istituzionali culturalmente neutri, ed estraniare qualunque fattore universale che non possa essere controllato a monte dalla legge e dagli ordinamenti nel presiedere ai diritti e ai doveri degli individui. È pacifico che i fattori nazionalistici, ereditati dal passato, siano stati considerati l’antimodello di questa visione. Tuttavia, questa scissione disconosce fattori extragiuridici importanti in qualunque discorso sulla cittadinanza.
1. leggi l’introduzione di Paolo Masciocchi a Vincenzo Ferrari
2. leggi testo della relazione di Vincenzo Ferrari
3. clicca sui file audio sottostanti per ascoltare le registrazioni della lezione
(se vuoi scaricare i file sul tuo computer trovi i link in fondo alla pagina)
Premessa di Giovanni Bianchi 7′ 37″
Introduzione di Paolo Masciocchi 21′ 20″
Relazione di Vincenzo Ferrari 1h 07′ 09″
Domande del pubblico 13′ 13″
Risposte di Vincenzo Ferrari 20′ 40″
Domande del pubblico 11′ 26″
Risposte di Vincenzo Ferrari 20′ 00″
Testo dell’introduzione di Paolo Masciocchi a Vincenzo Ferrari
A chiusura del corso di formazione politica del Circolo Dossetti di Milano, è possibile compiere una sintesi degli spunti emersi nel rapporto tra diritto e società, tenendo conto di alcuni degli strumenti che vengono descritti all’interno dell’opera di Vincenzo Ferrari, un punto di riferimento saggistico essenziale sul tema nel panorama italiano e internazionale. Il titolo del corso di quest’anno è “Cittadinanza oltre le culture”. Cittadinanza è un termine socio-giuridico, che ben si presta a far ponderare alcuni elementi in gioco nel mutamento sociale e nelle sfide di quest’epoca, attraversando politica e riflessione etica.
Quale cittadinanza è possibile pensare oltre le culture? I modelli europeisti dominanti che vengono assunti come riferimento generale – lo si è visto nella recente campagna elettorale di Macron – pretendono una visione civista della cittadinanza. Significa, in altre parole, che una cittadinanza inclusiva e attuale deve essere espressa in termini formalistico-istituzionali culturalmente neutri, ed estraniare qualunque fattore universale che non possa essere controllato a monte dalla legge e dagli ordinamenti nel presiedere ai diritti e ai doveri degli individui. È pacifico che i fattori nazionalistici, ereditati dal passato, siano stati considerati l’antimodello di questa visione. Tuttavia, questa scissione disconosce fattori extragiuridici importanti in qualunque discorso sulla cittadinanza.
In realtà, il difetto del civismo è l’assenza di una visione metodologica e strategica della cittadinanza, intesa come fattore che stia al di sopra delle culture e ne determini una direzione pacifica e collaborativa delle persone appartenenti a una comunità politica, negli obbiettivi costituzionali di uno Stato. Tale incapacità del civismo è emersa quando, entrato in crisi il modello estensivo universalistico della cittadinanza e alzatosi il debito pubblico degli Stati, si è trattato di comprendere come proseguire la parabola inclusiva delle persone nell’alveo dei diritti soggettivi, senza trovare una risposta convincente. Non è un caso che i principali modelli di integrazione, come il multiculturalismo e l’interculturalismo, che totalmente difettano di questa direzione a monte, siano di fatto in piena crisi. Il medesimo problema affligge il mercato del lavoro, che risente sempre meno di punti di riferimento stabili, e anche l’impresa e le libere professioni non trovano interlocutori efficaci, o soggetti garanti. Una cittadinanza oltre le culture non può mancare di includere metodi e strategie economico-sociali per riconoscere e rendere effettivi i diritti, al di là della stabilità degli scambi di interesse con entità sovranazionali (UE e BCE per prime), e della gestione delle crisi migratorie.
Si è spesso dimenticato che il modello di cittadinanza in cui si sono sviluppati gli Stati europei del dopoguerra nasce non solo dalla spinta della volontà di ricostruzione dei popoli dalle tragedie della II guerra mondiale, bensì anche da una stagione positiva della riflessione socio-economica cui, ad esempio, dobbiamo il modello keynesiano. Si può dire di più del legame fecondo tra cittadinanza e direzioni della cultura condivisa. Il modello di cittadinanza tradizionale, magistralmente spiegato da Vincenzo Ferrari nel suo libro, sottolinea richiamando Thomas Marshall come i diritti civili, politici ed economico-sociali (fattori universalistici, validi per tutti i cittadini), siano conseguenza dell’avvicendarsi del momento riflessivo liberale prima e socialista poi. Marshall stesso, parlando del mondo inglese del tempo, sosteneva la necessità che obbiettivo primario di una comunità politica fosse creare dei gentleman e per far questo riponeva attenzione agli obbiettivi complessivi socio-economici dello Stato.
Nel dopoguerra inglese nacque infatti il modello di Welfare, che impiegava concetti di calibro economico elaborati anni prima e che trovò parallelo accoglimento anche nelle Costituzioni di molti Stati come frutto delle medesime tradizioni e spinte economico-culturali, compreso quello italiano. La forte coesione sociale nei risultati da perseguire non era la causa, bensì l’effetto di una strategia e di un metodo. La fine delle Grandi Narrazioni, preconizzata da Lyotard nel 1979, e affermatasi come fatto negli ultimi quarant’anni, ha trascinato nella condizione postmoderna l’intero senso del vivere civile, gettando insieme all’acqua sporca delle ideologie anche il neonato fervore di qualunque riflessione tentasse di cogliere una direzione generale, per quanto critica. Ne ha fatto le spese prima di tutto la qualità della riflessione filosofico-sociale. Quali grandi Scuole ha prodotto l’Italia? Anche gli aneliti dei grandi ispiratori del Novecento, si chiamassero Pasolini, Treves o Dossetti, possono dirsi ancora vivi nel dibattito contemporaneo che influenza la politica? Dopo il pensiero, infatti, ne ha fatto le spese la politica, divenuta ricettacolo di una continua situazione di “stato di eccezione”, che richiama sempre più l’idea della governabilità fondata sulla capacità e credibilità mediatica del decisore e sullo snellimento dei processi decisionali, più che sul vaglio dei programmi politici.
Da qui l’idea dominante – totalmente avulsa dalla realtà della tradizione del pensiero occidentale e delle priorità della scienza -, di affidare la legittimazione politica a dati spiccioli facilmente orientabili nell’atto interpretativo. Un certo dato numerico piegato alle esigenze, un altro occultato, possono fare la differenza nel gradimento interno ad un partito, e quindi nel momento elettorale. Di recente, il sociologo britannico William Davies ha affermato su The Guardian che la statistica è una disciplina vecchia, incapace di descrivere la società. Per esempio, la disoccupazione, termometro della salute del Paese utilizzatissimo dai politici, può mascherare il fenomeno della sottoccupazione, ossia delle persone che non lavorano a sufficienza o non trovano impiego adeguato al proprio curriculum. Davies sostiene che sia questa la ragione per cui ha iniziato a diffondersi il sospetto verso gli esperti. Si potrebbe suggerire che in Europa e in America siano questi dati diffusi sul lavoro, insieme a quelli sull’economia finanziaria e sugli effetti delle migrazioni, da considerarsi i veri fautori del fenomeno delle fakenews, più che i movimenti radicali della rete.
Eppure, valgono ancora oggi le differenze e le osmosi tra norme sociali e norme giuridiche. È ancora un punto di riferimento metodologico il modello kelseniano dell’ipoteticità della norma giuridica, che a suo modo ha determinato dal diritto una costruzione tecnica degli ordinamenti. Valgono ancora le riflessioni sulle sanzioni positive e sulla giustiziabilità dei diritti soggettivi di Bobbio, e anche i moniti weberiani sull’etica della responsabilità dell’uomo politico (Berufpolitiker) sopra gli aspetti formali del diritto. Tutti elementi che direttamente e indirettamente vengono trattati con sapienza ricostruttiva da Vincenzo Ferrari. Si tratta solo di comprendere come, con quale metodo e gerarchia di priorità recuperare le tradizioni, le tecniche e le analisi qualitative per importarle in una nuova strategia, in una nuova cultura, in una nuova cittadinanza sopra le culture.
Di certo, non può mancare l’osservazione che vi siano pur stati coloro che, nella riflessione socio-giuridica, hanno tentato di riportare in anni più vicini la riflessione su alcuni aspetti del pensiero sociale tentando di generalizzarli. Eppure nessuna delle più recenti visioni ha dato modo di superare i problemi principali della crisi economica, sociale e politica dei Paesi europei. Per individuare qualche esempio, Beck e il modello del governo del rischio hanno legittimato ancor più la politica dell’”eccezione” anziché stabilire criteri meno frammentati, Luhmann nella sua visione della riduzione della complessità ha spesso delegittimato il valore della capacità direzionale dei governi centrali che invece paiono in gran forma, Habermas per contro ha visto nella sovranità popolare salvaguardata dal diritto un punto fondamentale di sviluppo della democrazia e della civiltà, con la pecca tuttavia che il valore della sovranità popolare sia tutt’ora oggetto di pesante discussione, insieme alle Costituzioni che dovrebbero salvaguardarla, a discapito dei governi ombra finanziari.
Viene quindi la necessità di fare ordine, di stabilire qualche elemento più chiaro che motivi e dia ragione di risposta a fenomeni espressione di crisi come l’anomia, l’interventismo giurisdizionale, l’inefficienza delle istituzioni, e a questioni aperte quali la coerenza del rapporto tra diritto e comunicazione, il valore della scienza nel diritto, la funzione della riflessione economica.
Trascrizione della relazione di Vincenzo Ferrari
Grazie, grazie davvero per questo invito che mi ha fatto molto piacere perché intanto mi dà la possibilità di parlare di temi che oggi sono motivo di riflessione e anche di preoccupazione, ma innanzitutto mi fa piacere parlare in questa sede provenendo da una diversa educazione, da una diversa formazione culturale e politica. Devo dire che poche persone ho ammirato più di Dossetti.
Ogni volta che penso alla formazione della Costituzione italiana, documento fortissimo che è riuscito a resistere a tutte le intemperie, recentemente ancora due tentativi maldestri e malfatti di emendamento, penso ad alcuni personaggi, tra loro diversissimi, che hanno continuato a collaborare anche nel momento della crisi politica più profonda. Ho avuto occasione, recentemente, non tanto recentemente, qualche anno fa, di riprendere in mano gli atti ella Costituente: sono tutti in rete, quindi facilmente recuperabili. Andateli a vedere, a vedere qual era il livello della discussione su temi caldissimi, quale era anche il senso di unità profonda, di cittadinanza comune che riuniva questi signori.
Ricordo sempre che il testo approvato dalla Commissione dei Settantacinque giunse in aula all’inizio del ’47 nel momento in cui De Gasperi, dopo il suo viaggio in America e l’acquisizione dell’appoggio americano per il Piano Marshall, escluse dal governo socialisti e comunisti. Quindi, vi fu un momento di profonda crisi e lotta politica che però non ha turbato la discussione in aula sulla Costituzione. Quello è continuato per conto suo, sui temi della Costituzione, su problemi delicatissimi (mi sono studiato recentemente quello sulla famiglia per il convegno sui sessant’anni della Corte Costituzionale, ma ce ne sono tanti altri) e Dossetti era stato una delle figure assolutamente centrali, che poi trasfondeva nel suo impegno politico un afflato religioso che l’ha poi condotto, come sappiamo, in convento.
La locandina, come ha ricordato anche Paolo Masciocchi, mio allievo, fa riferimento a un mio libro del 2004. In realtà, quel libro, su cui non mi tratterrò se non per qualche secondo, ha una storia particolare, ovvero ce n’era un altro che era uscito negli anni Novanta e che veniva proposto agli studenti come lettura. Poi ci fu una disposizione governativa, cosiddetta del tre più due, che impose dei cambiamenti di programma e la casa editrice Laterza mi telefonò per dire: “Ah, bisogna ridurre i programmi, quindi scriva un libro più breve, 480.000 battute, spazi compresi”. Io ho fatto sforzi sovrumani, ne ho scritte 480.000 e sei, mi sono scusato per quelle sei in più e quello è il libro che è stato proposto agli studenti negli anni successivi e che è stato diffuso anche all’estero in un’edizione in lingua castigliana. Ne ho scritto poi un altro, più breve, al quale sono forse più affezionato, sempre su richiesta della casa editrice, che si intitola Prima lezione di sociologia del diritto, in cui tratto alcuni di questi temi, che peraltro sono anche trattati nel libro che ha richiamato Paolo Masciocchi.
Quello è un libro che riassume, diciamo così, un quadro generale della sociologia del diritto, ne dà una definizione come una scienza che guarda al diritto come modalità di azione sociale e poi sviluppo appunto una serie di tematiche relative alla vita del diritto nella società e naturalmente si occupa anche delle tematiche di oggi. Ma permettetemi di parlare anche della cittadinanza che è il tema di questa vostra serie di lezioni, molto interessanti, e che sicuramente hanno raccolto voci più specialistiche della mia nei mesi scorsi.
I temi che i due amici che mi hanno preceduto hanno lanciato sul tappeto sono moltissimi, e quindi permettetemi di ridurre la complessità, come da sociologo, anche se non sono precisamente un gran seguace di Luhmann, ma insomma di ridurre la complessità e di limitarmi ad alcune cose. I temi sono tantissimi, anche le provocazioni sono tantissime. Le grandi narrazioni, ci ha detto Masciocchi, sono venute meno. Anche qui non so se dobbiamo rallegrarci oppure dolerci del fatto che non ci siano più le grandi narrazioni. Le grandi narrazioni sono le grandi ideologie intolleranti del secolo ventesimo, meno male che son venute meno. Se per grandi narrazioni significa guardare le cose con un minimo di complessità culturale anziché attraverso gli slogan cui purtroppo la cultura tecnologica di oggi ci induce, allora sì, dobbiamo rimpiangere le grandi narrazioni. La statistica, anche questa, è una scienza vecchia. Ma dipende da come si fa. Non per dire, ho una figlia e anche un genero che di fatto si occupano di statistica (dal pubblico: scienza manipolabile). Certo, ma questo lo diceva già Trilussa, non c’è bisogno che lo scopra qualcuno. Ogni tanto qualcuno si sveglia e scopre l’ombrello quando magari è un inglese che dovrebbe averlo già scoperto, visto che lì piove sempre.
La statistica non dice nulla della sottoccupazione; io dico: non dice nulla neanche del lavoro nero, sia del lavoro nero del sottoccupato sia del lavoro nero legato all’economia criminale, che è lavoro nero anche quello in termini statistici. Bisogna vedere come si fa la statistica e quali variabili si inseriscono nel cestello dei dati ,che poi vengono analizzati statisticamente. Alla fine, forse perché faccio il sociologo, è difficile prescindere dalle statistiche.
Sono andato a Urbino la settimana scorsa a parlare della crisi oggettiva delle professioni giuridiche, crisi che in Italia ha raggiunto e sta raggiungendo dei livelli veramente preoccupanti. Pensate che una gran maggioranza di avvocati, una maggioranza relativa consistente attorno al 25%, denuncia meno di 10.000 euro all’anno. Si corre ormai verso i 300.000 avvocati, è una situazione di impoverimento progressivo della categoria veramente grave. Ecco, quelli sono dati statistici che, per quanto possano essere manipolabili, però qualche cosa dicono. Se venissero a mancare anche quelli, finiremmo per parlare sul vuoto.
Sulla cittadinanza, i temi che ho sentito mettere sul tappeto sono molti e tutti molto seducenti. Vorrei dire questo: noi parliamo di cittadinanza nel senso che è andato affermandosi, potremmo dire, dal Sei-Settecento in poi. Naturalmente, ci sono stati i cives romani, naturalmente ci sono stati i politeia ateniesi, naturalmente si è sempre parlato di un rapporto che riunisce coloro che vivono in uno stesso territorio e che rispondono con doveri, di solito, di obbedienza a un governo, se vogliamo a uno stato. La settimana scorsa, anzi, martedì scorso all’Università del Molise hanno detto che, convinti che lo stato c’è sempre stato, scusate il bisticcio, però c’è stata una svolta nella cultura, nella politica e nella filosofia pubblica moderna che è stata quella svolta ben sintetizzata in un libro di un’amica e collega che si chiama Giovanna Zincone, del 1992, intitolato Da sudditi a cittadini. Ci sono ancora i sudditi e mio figlio sta diventando finalmente, per difendersi dalla Brexit, suddito di Sua Maestà britannica, però in realtà è una sudditanza che comporta anche molti cittadini, molti aspetti di cittadinanza. Si sa che alla Regina si deve una allegiance, una lealtà, ma in realtà conta relativamente poco nel contesto della lotta politica britannica. Quindi, da sudditi a cittadini.
Quello che caratterizza questo passaggio è un tema di cui Paolo Masciocchi si è occupato a lungo nella sua tesi di laurea e di dottorato, il tema dei diritti soggettivi, poi definiti, declinati in varie maniere, in varie e differenti maniere: come droit public, diritti verso il governo, diciamo così, che comporta una inversione del tema della legittimazione del potere politico. Potere politico che fino a un certo momento – parliamo dell’Europa, lasciamo perdere per un attimo la Cina o altre realtà che poi oggi sono più conosciute di allora, per molti secoli ce ne siamo disinteressati almeno dal punto di vista della teorizzazione politica – si è auto legittimato attingendo a una fonte sovrumana o attingendo semplicemente alla propria potenza, alla propria forza, alla propria capacità di auto-legittimarsi. Da un certo momento in avanti si è chiesto al potere politico di trovare una giustificazione o una legittimazione sociale. È questa la sintesi, diciamo, della filosofia liberale: il potere non è automaticamente legittimato come tale, deve trovare una legittimazione, e quella legittimazione non promana dall’alto, ma promana dal basso.
Questo è fondamentale, ovvero esistono dei diritti che appartengono a ogni essere umano indipendentemente dal loro riconoscimento da parte dell’autorità politica. E quindi esistono dei limiti ai poteri dell’autorità politica. A seconda delle visioni dei diversi filosofi, questi limiti sono più ampi o più ristretti, ma ci sono dei limiti perfino nel più, come dire, conseguente e rigoroso teorico dell’autorità statale, che è stato come sappiamo Thomas Hobbes: anche lui riconosce il diritto inalienabile alla vita dei cittadini. Infatti, teorizza un contratto sociale il cui contenuto è precisamente l’obbligo sovrano di garantire la vita dei cittadini, quindi la loro socialità, impedendo che la guerra di tutti contro tutti porti alla deflagrazione dell’aggregato sociale. Di contro, John Locke, come sappiamo, teorizza una serie di diritti fino al diritto di resistere entro certi limiti al potere costituito, il diritto di andarsene e molti se ne sono andati, soprattutto per sfuggire alle persecuzioni religiose. L’America, gli Stati Uniti sono nati anche attraverso questi fenomeni migratori, anzi, sono nati attraverso questi fenomeni migratori, e lì abbiamo, come dicono gli inglesi, una panoplia di diritti che sono ritenuti diritti dei cittadini nei confronti del governo, per cui il governo si renderebbe, è responsabile, e quindi violerebbe il patto sociale se disconoscesse questi diritti.
Questo è quello che ha caratterizzato la modernità e su questo potremmo discutere a lungo perché, se da un lato umanizza, questa svolta, il potere politico, dall’altro lato riconosce ai cittadini, ai sudditi se vogliamo, comunque ai cittadini singoli e ai gruppi, soprattutto ai singoli, una dignità personale che viene da prima del patto politico, e potremmo anche chiederci quanto questa visione del singolo individuo debba, per esempio, alla tradizione ebraico-cristiana della singolarità di ciascun essere umano nella sua anima. In Europa, è un mondo nel quale sono poi andate convergendo diverse culture, nessuna delle quali è secondaria.
Fatta questa premessa, io vedo, non so se parlo da sociologo o semplicemente da lettore di storia, o da osservatore ormai anziano di una realtà, credo che questo conti molto, vi dico la verità, tante volte si dice che l’Europa potrebbe deflagrare, e in un secolo abbiamo visto deflagrare l’impero ottomano, l’impero britannico, l’Unione Sovietica, non so quant’altro, negli ultimi anni è successo di tutto, io molte parti di quello che è successo le ho viste, con alcuni probabilmente dei presenti, quindi parlo più che altro da osservatore e cerco di essere più banale possibile con me stesso.
Vedo tre tappe nella storia recente. Una, molto lunga, va fino alla seconda guerra mondiale, perché la prima guerra mondiale non ha mutato di molto, diciamo, il quadro di quanto stiamo dicendo. Vedo poi una tappa che dalla fine della seconda guerra mondiale più o meno è arrivata fino alle soglie del nuovo secolo nel quale stiamo vivendo, cioè alle soglie del Duemila; e poi vedo la tappa attuale che è tutta da costruire, che ci sta dicendo cose di una certa rilevanza.
Allora, se noi asserviamo il rapporto fra stato, cittadino e diritti soggettivi e fondamentali, nella prima tappa io direi che lo stato e la cittadinanza malgrado la caratteristica e la fondamentalità del diritto, rimangono sempre un prius, nel senso che i diritti vengono riconosciuti a coloro che per ascrizione sono considerati cittadini. Si riconoscono loro dei diritti pre-politici, cioè voi siete uomini e donne (lasciamo perdere, c’è voluta una bella lotta prima che venissero considerate anche loro, effettivamente, titolari di diritti fondamentali, uno dei più terribili ritardi che la nostra società ha riconosciuto). Sì, si riconosce una primazia e una fondamentalità dei diritti, e quindi il correlativo obbligo del governo di osservarli, di farli rispettare e di rispettarli esso stesso, ma nel quadro di un rapporto di cittadinanza che nasce da una ascrizione politica, cioè uno è cittadino in quanto nasce in un certo luogo o nasce da una certa famiglia.
Uno è cittadino perché nasce negli Stati Uniti d’America dove vige il principio dello ius soli, quindi per il fatto solo di essere nati lì, oggi ci sono certi temperamenti, è cittadino degli Stati Uniti d’America, anche in Inghilterra si segue fondamentalmente lo stesso principio; o uno è cittadino perché è figlio di genitori che a loro volta, almeno uno di loro, sono stati cittadini, che è il principio tedesco della Blut Gemeinschaft, della comunità di sangue. Ma è cittadino per ascrizione, quindi non può non essere cittadino. A lui, a lei vanno riconosciuti questi diritti; gli altri sono alieni, sono barbari, direbbero i greci; sono gois (?), se vogliamo parlare in termini ebraici: sono fuori, c’è un dentro e c’è un fuori, chi sta dentro e chi sta fuori è qualche cosa che viene definito in maniera rigida, ed è un prius rispetto al posterius del riconoscimento dei diritti. Poi certamente, un immigrato ha i suoi diritti in questo lungo periodo che accompagna, potremmo dire, tutto l’Ottocento e va fino alla fine della seconda guerra mondiale. Certamente, un immigrato ha dei diritti, per esempio se è un lavoratore ha diritto di essere trattato come un lavoratore. Ma il prius è la cittadinanza e l’accesso, quindi, alla panoplia dei diritti e l’appartenenza a uno Stato.
In questo lungo periodo, se vogliamo parlare di teoria generale del diritto, predomina, e ha predominato anche negli anni in cui ero studente universitario qui a Milano, quello che è stato chiamato lo statalismo, in principio monismo, ovvero l’ordinamento giuridico che coincide con l’ordinamento dello Stato. Lo Stato naturalmente non è unico sulla terra, e quindi si rapporta agli altri Stati secondo i due grandi principi di sovranità e di reciprocità, che sono stati fissati al’inizio della modernità giuridica da un personaggio che si chiamava Hugo de Groot, dei Grandi potrei dire, che è lo stesso nome della mia famiglia materna, detto anche Hugo Grozio, di cui troviamo anche la statua, se non ricordo male, all’Università di Delft dove insegnava.
Lo Stato. C’erano voci eccezionali e c’erano voci secondarie. Sempre c’è qualcosa che va contro la filosofia dominante. Ci sono voci eccezionali che mettono in discussione. Ne ricordo due: uno a tutti noto da qualche anno a questa parte, ma prima che ce ne parlasse Tullio Treves in Italia nessuno se ne ricordava, si chiamava Eugen Ehrlich, era professore a Cernovice, in Bukovìna (Ucraina) e in Bukovina vivevano non so se venticinque o trenta diverse etnie in quella grande costruzione socialmente più realista, ma politicamente monista che era l’impero austroungarico. Ehrlich è stato il primo che nell’impero austroungarico dà voce alle etnie diverse: il fatto che appartenesse in origine, poi si è convertito, alla comunità ebraica dice qualche cosa, ma oltre alla comunità ebraica c’erano altre comunità, tanto che oggi quando si parla della pluralità del mondo si parla di una Bukovìna globale. C’erano gli zingari, c’era una serie di diverse etnie ed Ehrlich teorizza l’idea che il diritto non promana solo dallo Stato, ma viene dai gruppi sociali, ognuno dei quali ha il suo modo di autoregolarsi. Lo Stato, semmai, riconosce o disconosce questi complessi di regole. Certamente, le comunità ebraiche si sono in gran parte autoregolate secondo una normazione che, sappiamo, ha radici antichissime e di molte altre comunità si può dire la stessa cosa.
L’altra figura, molto meno nota, si chiamava Leon Petrażycki. Era un polacco che insegnava a San Pietroburgo e che quindi scriveva in russo (ho un allievo che si è messo a studiare il russo per poter studiare di prima mano Petrażycki). Alla fine dell’Ottocento, Petrażycki dà voce alla parola mniak (?), che non era precisamente una minoranza, ma era un non paese perché era diviso tra l’Impero austroungarico, la Prussia e l’impero zarista. Il problema polacco, l’ha ricordato molto bene Giovanni Bianchi all’inizio, è un problema che ha un fortissimo senso di identità, religiosa innanzitutto, perché è un paese cattolico stretto fra il protestantesimo e l’ortodossia, e ha una cultura profonda secolare ben condivisa anche se oggi all’interno veramente si notano due Polonie, come mi spiegava una giovane studentessa polacca del nostro corso di master avviato recentemente. Però Petrażycki sostiene un paio di decenni prima di Ehrlich le stesse idee secondo cui il l’ordinamento giuridico non coincide soltanto con l’ordinamento dello Stato, dà voce pur sempre a un popolo che è disconosciuto pur essendo esistente e anche, diciamo, evoluto come la Polonia. Però era una voce minoritaria che entra in contraddizione, in polemica con Hans Kelsen, altro ebreo che si è convertito prima al cattolicesimo poi al protestantesimo, il quale diede una visione piramidale dell’ordinamento giuridico che nella modernità, perché lui ha cura di specificarlo, coincide sostanzialmente con l’entità Stato ed è qui, all’interno dello Stato, che si può quindi parlare di cittadinanza. Cittadinanza ascritta: uno è cittadino in quanto non può non essere cittadino, come tale nasce con dei doveri ai quali non si può sottrarre se non in casi estremi.
Questo è quello che ha caratterizzato la modernità giuridica e politica per un lungo tratto, fino alla fine della seconda guerra mondiale. Masciocchi ha ricordato poco prima Thomas Marshall, sociologo che parla di queste tematiche dei diritti in un saggio famoso intitolato Sociology at the Crossroads, in italiano è stato tradotto da Maranini e pubblicato con la Utet parecchi anni fa (1974). Marshall ne parla nel 1949 in Inghilterra. Sono le lezioni tenute all’Università di Cambridge e poi apparse un paio di anni dopo se ricordo bene, ma forse non ricordo bene le date, in forma pubblicata e parla in Inghilterra quando c’era ancora l’impero britannico. Mancava soltanto l’India, che non era una cosa da poco, perché l’impero britannico ha perso l’India mi pare nel 1947, come omaggio che la corona ha fatto agli indiani che hanno dato un contributo straordinario alla guerra mondiale.
Ho letto e riletto quel saggio non so quante volte perché è all’origine di tutta la discussione sulla cittadinanza; per un certo periodo era stato dimenticato, poi negli anni Novanta è stato riscoperto e commentato ampiamente. Io vedo in questo saggio di Marshall ancora un’idea fondamentalmente statalista, non un’idea pluralista. In questo senso, il saggio si intitola Cittadinanza e classe sociale, è un saggio famoso perché teorizza una gradualità, potremmo dire tre tappe storiche nel movimento dei diritti: quella dei diritti civili, dei diritti politici e poi dei diritti sociali ed economici sui quali si sofferma dando un contributo fondamentale alla comprensione del movimento dei diritti, però fondamentalmente sono i diritti del cittadino ascritto, cioè del cittadino che nasce cittadino in virtù di una regola fondamentale che è una regola condivisa a livello internazionale malgrado la diversità: cioè, io riconosco i tuoi cittadini americani anche se sono cittadini per il luogo in cui sono nati e tu riconosci i miei anche se i nostri sono cittadini in quanto figli di cittadini.
Ma le tre tappe della visione di Marshall a me pare che afferiscano ancora l’idea statalistica dei cittadini, anche se la Gran Bretagna era già un paese di immigrazioni alla fine degli anni Cinquanta. Nel ’59 sono stato per la prima volta a studiare inglese in Inghilterra ed ero rimasto stupito della panoramica razziale che caratterizzava quel paese. Anche, naturalmente, la Francia. L’Inghilterra era già un paese nel quale si parlava di welfare. Ricordo che pochi anni prima era uscito quel famoso libretto intitolato Why I am a liberal (Perché sono liberale), di William Beveridge, primo fondatore dello stato del benessere in Inghilterra. Era un mondo che malgrado la guerra, le cui tracce si vedevano visibilmente ancora nell’Inghilterra del 1959-60 (l’Italia, benché il paese sconfitto aveva recuperato molto meglio dell’Inghilterra le ferite della guerra dal punto di vista economico), però era pur sempre un centro del mondo, era un paese che faceva parte di quel nucleo di paesi, vincitori o sconfitti, che allora erano una minoranza e che non siamo più. Oggi non siamo più o probabilmente non saremo più entro breve tempo il primo mondo, come si diceva ancora negli anni Novanta).
Questa è stata la prima tappa. Dalla guerra in poi, naturalmente si dice sempre che i processi di Norimberga sono stati simbolici da questo punto di vista, ma non solo quelli, si va progressivamente verso una idea non tanto non statalista e neanche internazionalista dei diritti, e quindi anche dei diritti di cittadinanza, ma verso un’idea transnazionale dei diritti. La dimensione transnazionale dei diritti si distingue dalla dimensione internazionale perché corre sopra i confini degli Stati. Il diritto internazionale riguarda i rapporti fra Stati, il suo simbolo supremo è l’ONU che è un’organizzazione di Stati, il diritto transnazionale è qualche cosa che passa sopra i confini degli Stati e progressivamente – io dico già a partire dagli anni Sessanta, perché ricordo un nostro maestro carissimo della facoltà di Milano che è stato Alberto Scarpelli parlava già di queste cose a metà, potrei dire, degli anni Sessanta – si comincia a parlare di un indebolimento progressivo dello Stato, di un’erosione dei confini dello Stato, sempre più “porosi” e di una crisi del principio di sovranità.
La sovranità non è assoluta, pur temperata dai trattati internazionali, come dice anche la nostra Costituzione, ma è limitata in vario senso. Sappiamo tutti che uno dei teorici della sovranità limitata è stato Breznev quando ha tematizzato questa idea come giustificazione dell’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, ma di sovranità limitata si è parlato anche in altro senso, nel senso precisamente della sovranità limitata dai diritti fondamentali, costituzionali, che appartengono non solo ai cittadini ma a tutti in quanto esseri umani dovunque siano. Il che legittima la pretesa di godere dei diritti spettanti ai cittadini anche se cittadini non siamo, e legittima anche, sull’altro fronte, la pretesa di chiamare in soccorso dall’esterno qualcuno che protegga i nostri diritti lesi, vilipesi all’interno.
Voglio ricordare il caso, per esempio, del Sudafrica. Il caso del Sudafrica è tipico perché per un lungo periodo la comunità internazionale ha premuto sul governo bianco della minoranza bianca africana, fosse inglese o di origine olandese, ma la parte olandese per quanto ancora più minoritaria era particolarmente dura in questo senso, ha premuto perché venisse, come dire, superato il principio di apartheid che vigeva e che significava esclusione della gran maggioranza dei cittadini del paese dal godimento dei diritti anche fondamentali: per esempio, diritto di voto tra i tanti, il caso di Mandela e la famosa difesa di Mandela nel processo che si concluse con la sua condanna all’ergastolo, è tipico. Anche quella è disponibile e vale la pena di leggerla.
Un altro caso, un tantino più dubbioso, è stato quello del Kosovo, in tempi molto recenti, molto più dubbioso perché si giustificò, facendo riferimento ai diritti umani inalienabili transnazionali non negoziabili, un intervento armato in un paese a favore della maggioranza di lingua albanese, ma certamente un intervento che comportava un sacrificio piuttosto vistoso di una fortissima minoranza di lingua serba. Ancora oggi evidentemente, perché nel Kosovo ogni volta che si pongono questi problemi, ci si deve rendere conto che c’è chi viene avvantaggiato e chi viene svantaggiato. L’ingresso in Europa, per esempio, dell’Estonia ha portato con sé un grosso sacrificio dei diritti e delle aspettative della forte minoranza di lingua russa. Certo, si può dire: l’Estonia, che ha una cultura euro-finnica, una lingua euro- finnica simile a quella finlandese, ha subito a sua volta una russificazione forzata col patto Molotov-Ribentrop eccetera, fino all’invasione sovietica. Se si va in arretrato, se si va verso le radici della storia vediamo che siamo sempre di fronte a conflitti di questo tipo.
Però, ho voluto mettere un punto fermo: è in questo periodo che si comincia a parlare, parlo degli anni Sessanta-Settanta. Per me c’è un punto che ricordo personalmente perché nel ’79 ho pubblicato, sempre con Laterza, un piccolo volumetto che si intitolava Intervista sul liberalismo in Europa con Ralf Gustav Dahrendorf, sociologo tedesco che si è anglicizzato per matrimonio, che è stato direttore della London School of Economics dopo essere stato anche commissario europeo, e lui stesso mi diceva: lo Stato ha perduto la sua centralità, parlare del futuro in base al principio statalistico non ha senso, è la meno rilevante delle istituzioni politiche se pensiamo a una riorganizzazione dei rapporti sociali nel futuro. Io vi devo dire che, certamente, questo vento lo sentivo, però su questo ho sempre avuto i miei dubbi che poi vi esprimerò prima di finire.
Quindi, crisi dello Stato, crisi della sovranità, crisi della cittadinanza ascritta in favore di una cittadinanza contrattata. Badate, anche qui, di contratto di cittadinanza si può parlare sia con riferimento al contratto dei cives ascritti, sia però con riferimento all’idea che la cittadinanza possa essere richiesta e contrattualmente concessa a chi la richiede, a certe condizioni. Cioè, tu sei un cittadino islamico, vieni qui però non hai diritto alla poligamia e ti obblighi, in virtù della tua adesione alla cittadinanza di un paese che non pratica la poligamia, a non essere poligamico, il che non risolve tutti i problemi. Non risolve i problemi se questo cittadino ha già tre mogli. Che fare quando muore? A chi va la pensione di reversibilità? Cosa succede? Se le può portare tutte e tre? Hanno tutte e tre diritto a delle prestazioni economiche? Certo, sono esseri umani e ci mancherebbe altro, in virtù del principio di transnazionalità. Dei problemi si pongono in ogni caso.
Però, si può parlare di diritto di cittadinanza contrattata anche in questo senso e negli anni successivi, negli anni che vanno dai Settanta a tutti i Novanta se ne parla in questo senso. Crisi anche delle fonti statali di produzione del diritto, crisi della legislazione. Questa, è vero, è una crisi che perdura, ma per altre ragioni. Quando si dice che la fonte primaria di diritto, che è il simbolo della sovranità statale, cioè la legislazione di origine parlamentare è in crisi, bisogna intendersi su questo: è in crisi perché le metodologie democratiche sono entrate in una confusione generale e quello che si produce per via parlamentare è sempre più confuso e ai limiti talvolta della incomprensibilità. Questo, qualunque pratico del diritto lo può dire con grande amarezza, mentre l’idea primigenia del diritto legislativo, l’idea dei codici, era l’idea di un diritto chiaro, di un diritto certo. Quindi, la legislazione attuale va in direzione assolutamente opposta rispetto alla certezza del diritto, ormai siamo tutti consci di questo, e non se ne può veramente più. Ma che la crisi della legislazione significhi crisi quantitativa della legislazione, questo no. La legislazione ha continuato a piovere tranquilla da tutte le fonti possibili, in particolare quella europea anche nel corso di questo periodo.
Comunque, in questo periodo si tratta di cittadinanza universale, di cittadinanza conquistabile, di un contratto fra cittadini, governi e aspiranti cittadini. E qui si innesta anche il caso europeo, su cui varrebbe la pena di fare una discussione, come dire, a parte, perché è il caso di una complessità notevole. Tutti sappiamo, sono convinto, e i teorici del diritto ancora oggi non sanno come definire l’Unione Europea, anche se non è più un’unità, ma un’unione nel senso che non è una confederazione, non è una federazione, non è uno Stato unitario, non si sa che cos’è, è un quid e il fatto che ci sia, potrei dire aristotelicamente, è un’entità, inventiamole un nome, ma c’è. C’è e si presenta in grande misura come uno Stato che ha assorbito una serie di prerogative che sono prerogative tipicamente statali. Il fatto della moneta unica è assolutamente, da questo punto di vista, significativo. Certo, non ha una politica estera comune, certamente esiste una enorme gabbia burocratica che rischia di soffocare questa entità attraverso una serie di norme che sfiorano talvolta l’assurdo, esiste un centro politico, però esiste un centro politico che a seconda dei momenti storici ha avuto maggiore o minor potere rispetto ai governi dei paesi centrali.
L’Europa, si sa, ha sempre oscillato tra i momenti centripeti e i momenti centrifughi: quando andavo io in Inghilterra a intervistare Dahrendorf nel ’79, soprattutto durante il periodo della grande e meritoria presidenza di Jacques Delors, come presidente della Commissione, era un periodo centripeto e ne potremmo parlare a lungo, caratterizzato, per esempio, da un’attività straordinaria della Corte di giustizia della Comunità Europea che ha inventato un diritto comunitario che ha risalito nel sistema delle fonti fino a collocarsi a un certo momento a una dimensione costituzionale, o qualcuno diceva sovra-costituzionale. E lì è cominciata la reazione. Ha cominciato la Corte federale costituzionale tedesca a dire: ah, no, un momento con la famosa sentenza Grimm, sovra-costituzionale no, ognuno di noi fa a un certo livello dell’ordinamento quello che vuole.
C’è un principio tecnico che è il principio di sussidiarietà che dice molto. Il principio di sussidiarietà significa che le finalità della Comunità possono essere perseguite e realizzate da ciascuno a suo modo purché, naturalmente, si rispettino le medesime finalità. Ma le finalità sono definite in maniera talmente vaga perché, diciamo, nascono dalle quattro libertà di movimento di merci, capitali, servizi e persone, che ognuno se le interpreta nella maniera che meglio crede. Quindi, ci sono dei momenti in cui il principio di sussidiarietà viene lasciato da parte. Ricordo il mio caro e vecchio amico Federico Mancini, giudice della Corte di giustizia, morto ormai purtroppo da molti anni, che era assolutamente contrario al principio di sussidiarietà. In altri momenti, invece, il principio di sussidiarietà diventa la bandiera di tutti i nazionalismi perché si dice: un momento, sì, noi rispettiamo le libertà fondamentali, però, per dire, il diritto di famiglia ce lo regoliamo come vogliamo noi, il diritto del lavoro soprattutto ce lo regoliamo come vogliamo noi, perché è uno dei problemi più delicati e troppe le diversificazioni nel trattamento dei lavoratori nei vari paesi dell’Unione. Di questo potremmo parlare separatamente perché è un caso straordinario, assolutamente straordinario.
Nella storia europea non c’era mai stato un fenomeno di costruzione dall’alto in grande misura di un’entità politica che ha svolto in certo modo la funzione fondamentale che è stata tipica dello Stato moderno, cioè di garantire la pace all’interno del proprio territorio. Non ce lo dimentichiamo mai quando diventiamo giustamente critici dell’assetto dell’Unione Europea: siamo vissuti settant’anni di pace in Europa, e non è capitato spesso nella storia. Ci sono state guerre che sono durate cento anni.
Allora, questo è avvenuto. Lì c’è un punto nevralgico. Lo ricordo sempre. Io stavo qui, ero preside della Facoltà, Prodi era venuto, presidente della Commissione, a consegnare i diplomi del nostro corso di Diritto comunitario, mi pare che parlasse il mio collega Bruno Nascimbene e io ho detto a Prodi, che conoscevo casualmente perché entrambi eravamo stati a Bologna, lui per tutta la vita, io per qualche breve tratto, e nell’orecchio, lo ricordo sempre, gli ho detto: ma non vi tremano le vene, i polsi, per l’allargamento? Parlo del 2006, l’allargamento c’era appena stato, era di due anni prima, e lui: ma certo, figuriamoci se non ci tremano. Il problema era che disse: il movimento è stato inarrestabile. Vorrei che ci fosse qualche collega di ispirazione marxista per poter discutere con lui o con lei, perché tutti sappiamo che secondo il marxismo prevale la variabile economica. E lì era prevalsa una variabile politica, assolutamente preponderante, costoro erano fuggiti dall’orbita sovietica, o russa che non fa molta differenza, non è che tra Breznev e Putin, in quanto a centralità del mondo russo e a interessi specifici di quella parte del mondo ci sia una gran differenza. Questi paesi si sono trovati nel momento di maggior debolezza della Russia quale che fosse (ormai c’era la Russia da qualche anno, l’Unione Sovietica era finita nel breve volgere di qualche ora, starei per dire) e si sono aggrappati dall’altra parte, nella NATO prima di tutto, e naturalmente nell’Unione Europea, portando con sé uno squilibrio colossale, che perdura, perché, effettivamente, oggi, la manodopera in Polonia, in Romania, soprattutto in Romania, è assolutamente più a buon mercato della manodopera dei paesi occidentali che, certamente, succedono i casi come è successo in Francia recentemente: i lavoratori della Whirpool hanno paura che il loro stabilimento finisca in Polonia e loro rimangano senza lavoro.
Questo fenomeno della delocalizzazione delle imprese verso paesi dalla manodopera a buon mercato l’abbiamo vissuto anche noi in Italia; sappiamo bene che le grandissime industrie sono state dislocate e per fortuna reggono quelle medie e piccole. Questo ha portato in Europa un fenomeno di disgregazione, di disequilibrio, che è andato a convergere con… (parentesi: la dislocazione delle imprese ci sarebbe stato lo stesso, vale a dire, in Romania e in Albania: l’Albania non fa parte dell’Unione Europea, ma le imprese si sono dislocate lì in un quadro generale di globalizzazione, però ora, certamente è più facile dislocare in Polonia, in Bulgaria o in Romania).
Detto questo, il fenomeno dell’allargamento dell’Unione Europea, paesi completamente diversi come grado di sviluppo economico e anche con diversa cultura è andato di pari passo, praticamente coevo, con due fenomeni enormi che sono stati la crisi economica degli anni Duemila, la crisi economica dei paesi occidentali soprattutto, la crisi bancaria, e le grandi migrazioni inarrestabili degli ultimi anni, che hanno caratteristiche molto diverse rispetto alle migrazioni degli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta eccetera. Qui lo squilibrio è oggettivo.
Questi fenomeni hanno portato alla luce la complessità del concetto di identità cui si riferiva all’inizio Paolo Masciocchi. Questo concetto è fonte di grandi equivoci, sempre, che ognuno dovrebbe misurare su se stesso. Ai miei studenti dico sempre: ditemi qual è la vostra identità, o meglio, ovvero non ditela a me, scopritela per conto vostro. Io non so, però credo di parlare l’italiano meglio delle altre lingue, di quelle poche che conosco, ma cosa sono io, parlerei un buon italiano anche se fossi nato come italiano nell’Impero austroungarico. Non c’è dubbio: la famiglia Pocar, i buoni amici Pocar, l’ultimo dei quali Valerio è come se fosse mio fratello, sono i figli del più grande traduttore dal tedesco all’italiano, Ervino Pocar, e loro erano italiani, italianissimi anche durante l’Impero austroungarico. Tant’è che Ervino fu mandato al confino, non appena scoppiata la prima guerra mondiale, e, pensate cosa era l’Impero austroungarico, scoprirono che a Graz tra questi confinati c’era una bella, forte presenza di italiani, e hanno detto: no, secondo le leggi qui abbiamo diritto alle scuole italiane, e le hanno ottenute in piena guerra. L’impero austroungarico aveva le sue pluralità, poi sbeffeggiava il povero Cesare Battisti quando l’hanno impiccato in quanto traditore. Insomma, la storia è complessa.
L’identità è una cosa che a me fa spavento. Io sono d’accordo con quel libro di Francesco Remotti degli anni Novanta, che si intitolava significativamente Contro l’identità, perché in nome dell’identità si giustifica di tutto. I diritti identitari sono stati tematizzati come la quarta generazione dei diritti e hanno una caratteristica assolutamente transnazionale perché l’identità è un fattore di differenziazione rispetto alla generalità dei cittadini. Io sono islamico e ho diritto inalienabile, imperscrittibile, me lo dice il Corano, come faccio a mettere in discussione il Corano. Ho diritto ad avere quattro mogli e non ci sono santi. E, per favore, anche se vivo qui, siccome vivo in una situazione globale, transnazionale, questo diritto è inalienabile, imperscrittibile, innegoziabile. Perché uno dei paradossi dei diritti intesi in senso umano, quindi pre-politico, è che sono ritenuti innegoziabili perché hanno una fonte che ha radici nella nostra stessa individualità umana. Un momento: io ho un diritto assoluto di libertà di espressione. Come mi si può impedire di esprimere liberamente parole infamanti nei confronti di un mio avversario politico? Cosa di cui, in questo periodo, stiamo godendo una antologia quotidiana. Non parliamo poi dei temi fondamentali, per dire nel campo del diritto di famiglia l’aborto eccetera. Tutto questo viene tematizzato in modo innegoziabile. E l’identità in modoparticolare.
Quale sia la mia, io non lo so. Certamente mi considero italiano, mi considero europeo, mi sento a casa mia più o meno dovunque in Europa, malgrado le differenze fra Atene e Helsinki, però, al di là di questo, in un paese come quello italiano, dove c’è una tradizione campanilistica straordinaria, per cui – io sono cresciuto a Noli, in Liguria, ma già i nostri vicini di Spotorno che avevano fatto parte anche loro della Repubblica nolese, erano diversi da noi – in un paese come questo la rincorsa alla singola identità può essere giustificabile, l’identità femminile nei confronti dell’identità maschile, benissimo. Però la corsa alla differenziazione delle posizioni, quindi la rivendicazione di diritti diversi in nome della diversità, come aveva detto Bobbio una ventina, trentina anzi ormai di anni fa, questo porta con sé la base per una polverizzazione che può portare lontano, è un po’ la base di una lotta di tutti contro tutti.
Questo va detto anche da parte di chi riconosce, io riconosco, sono assolutamente un assertore dei diritti fondamentali, però mi rendo conto di un punto che tante volte viene dimenticato, che più si espande l’area dei diritti fondamentali ritenuti innegoziabili, più ovviamente si moltiplicano le occasioni di conflitti fra diritti.
E quindi, alla terza fase, e spenderò pochissime parole per non abusare anche della vostra pazienza, io vedo in questo decennio un ritorno allo statalismo. L’ho detto, ho continuato a dirlo, anche nei confronti di chi, per due decenni ha cantato e tematizzato e teorizzato la pluralità e la concatenazione fra gli ordinamenti, la concatenazione fra i sistemi giuridici, la pluralità delle fonti, il diritto giurisdizionale di origine giudiziaria o il diritto negoziale di origine dottrinale, che prevalgono sul diritto legislativo, sì, è vero, in alcuni casi nel diritto commerciale è vero che è così, nel diritto di famiglia non è vero che è così, nel diritto del lavoro è altrettanto non vero perché conviene alla grande economia internazionale che ci sia questa diversificazione; però io credo che vi sia in questo periodo un ritorno a uno statalismo. Non probabilmente lo statalismo rigido che si trincera dietro il principio della sovranità assoluta, però credo che in questo momento si vada verso quella posizione seppure temperata.
Io posso anche condividere le critiche che si possono muovere a Macron che è un personaggio sconosciuto. Vi confesso che domenica sera ho tirato un gran sospiro di sollievo perché, se l’alternativa era Macron o Le Pen, beh, allora… Macron ha vinto perché la destra francese ha continuato ad appoggiare Fillon che ha continuato a pensare bene di mantenere la propria candidatura in maniera veramente stolida pur essendo nel centro di uno scandalo. Adesso, c’è un limite a tutto. Chirac, malgrado uno scandalo enorme, fu rieletto Presidente della Repubblica in quanto c’era il papà della signora Marine Le Pen la volta scorsa. Questa volta, ovviamente, il pericolo era molto maggiore perché Marine ha preso il doppio dei voti del suo papà, e beh, lo credo che tutti gli altri sono andati a votare Macron; solamente l’estrema sinistra, che ha la caratteristica di distinguersi sempre e in ogni caso presenta sette-otto-dieci candidati alla Presidenza della Repubblica e naturalmente si frantuma. La tendenza autolesionistica della sinistra è nota a tutti. Però tutto il resto ha detto: beh, votiamo Macron, non sappiamo chi è ma non è Marine Le Pen, come mi hanno detto gli islamici francesi: tutti, ma non Marine Le Pen. E si poteva ben immaginare. E quindi per Marine Le Pen hanno votato sia gli ebrei, ovviamente, perché la radice antisemita del Front National è piuttosto evidente, sia gli islamici, per uno di quei paradossi che vediamo spesso.
Vediamo peraltro erigere muri, ci sono muri e muri: il muro di Berlino serviva per non far uscire, il muro che c’è in Palestina, in Israele, serve per non far entrare. Adesso, Trump parla di muro per non far entrare i poveri messicani, impoverendo ovviamente l’economia della zona meridionale degli Stati Uniti, che da secoli si basa sul lavoro nero dei messicani che vanno e che vengono e che venivano chiamati schiene bagnate, wet back, proprio perché andavano e tornavano attraversando a nuoto il Rio Grande.
Però io vedo un sostanziale riconoscimento della pluralità delle culture, perché ognuno dei nostri Stati è diventato uno Stato pluri-nazionale, cioè il revival etnico degli anni Ottanta è rimasto, ovviamente ha lasciato delle tracce visibili dovunque, però in questo momento si ricorre di nuovo a una autorità visibile che potrà essere anche quella europea, probabilmente, ma un’autorità visibile che faccia ordine e garantisca un certo grado di protezione nei confronti di una, come dire, moltiplicazione di pretese ritenute innegoziabili.
Ecco: questo mi sembra che sia una cosa che il presente ci sta insegnando, anche per quello che riguarda la legislazione. Ricordo la bella introduzione di un mio collega e amico di Facoltà, Alberto Santamaria, dieci anni fa che ha aperto un congresso di diritto internazionale dicendo: guardate, è in piena discussione sulla crisi dello Stato. Ricordo che ha detto: non fatevi illusioni, la crisi dello Stato c’è, eccome, e non è soltanto l’entità, il nucleo dell’organizzazione delle Nazioni Unite ma anche del Fondo Monetario Internazionale, ma anche della Banca Centrale, della Banca Mondiale, ogni grande decisione passa attraverso i governi. Quello che dobbiamo fare è cercare di democratizzare la vita dello Stato e di renderla – questo è l’altro problema, ma non è tema, non è il momento di parlarne – meno incivile di quello che stiamo vedendo in questo momento, perché devo dire, se io paragono alla mia ormai tarda età il modo di far politica oggi a quello dei miei primi anni è veramente desolante, c’è da far cadere le braccia.
Scusate il tempo che vi ho portato via e grazie.