Il lavoro è ancora emancipativo?

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incontri e seminariPubblichiamo le relazioni prodotte dal Circolo Dossetti di Milano in occasione del seminario dal titolo “Il lavoro è ancora emancipativo?” che si è svolto Sabato 08 Aprile 2017 presso la sede milanese delle ACLI in Via della Signora, 5, e promosso da Acli, Circoli Dossetti, Città dell’Uomo, Comunità e Lavoro, Rosa Bianca.

I contributi relativi alla tematica trattata hanno consentito di affrontare l’argomento in base a quattro prospettive fra loro perfettamente integrabili.

In particolare Luca Caputo, vice presidente, ha definito le linee generali di una proposta relativamente all’emancipazione del lavoro oggi. Andrea Rinaldo, componente del direttivo, si è occupato di un’analisi più puntuale dell’argomento. Stefano Guffanti, componente del direttivo, si è focalizzato sull’aspetto meramente tecnico della emancipazione del lavoro e Vincenzo Sabatino, componente del direttivo, si è occupato di attualizzare il tema discusso concentrandosi sulle cause della immobilità sociale nel mercato del lavoro”.

Al lavoro verso quale sviluppo

Luca Emilio Caputo

Ragionando in chiave storica sul lavoro, vediamo che le innovazioni tecniche, dei materiali, delle competenze, e il cambiamento delle possibilità di accesso ad esse, rappresentano un fatto tutto sommato normale nell’ evoluzione e nella sopravvivenza tanto della specie umana quanto delle società, di forma statale o privata, che gli uomini, volendo organizzarsi, costituiscono.

Ci pare quindi opportuno svolgere una breve riflessione su come il lavoro sia inserito nella nostra organizzazione statale, e su cosa vorremmo fare per ovviare ad alcune situazioni critiche.

Iniziando dalla organizzazione, partiamo inevitabilmente dalla sua Carta costitutiva:

l’ articolo 1 della Costituzione afferma che L’ Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.

Al lavoro è, dunque, attribuita rilevanza costituzionale.

C’è, però, di più: l’inserimento del lavoro nel primo articolo, quale specificazione del tratto fondativo della Repubblica Italiana (nè se ne citano altri) sembra suggerire l’esistenza di un elemento (il lavoro, appunto) dotato di una certa forza rispetto al resto.

E’ quindi ragionevole desumere che a questo elemento debbano essere necessariamente orientati sia le logiche generali che l’insieme delle scelte operande da parte dei poteri costituzionali.
Vale a dire: l’intero operato delle istituzioni democratiche, ivi incluse leggi, decreti e sentenze, pur nella concordanza con gli altri princìpi di rango costituzionale successivamente enunciati o dedotti, non può contraddire l’elemento fondativo della democrazia repubblicana, cioè il Lavoro.
Tutte le altre norme, anche costituzionali, sui rapporti economici (ad es. quelle sull’intervento dello Stato nell’ economia e sull’ iniziativa economica privata) devono essere intese come uno svolgimento di questo principio.
E’ il fenomeno c.d. del “valore informativo dell’ ordinamento” che al Lavoro è riconosciuto.

Urge a questo punto specificare che la definizione di lavoro di cui parliamo:

  1. comprende ogni genere di attività lavorativa a prescindere dal tipo e dal regime giuridico cui è sottoposta;
  2. più in generale, vale a definire l’apporto positivo del cittadino nello sviluppo della comunità di cui fa parte.Il secondo elemento che ci sembra entrare in gioco a questo proposito è il concetto di persona, legata attraverso il Lavoro alla società e allo Stato.

Leggendo in maniera combinata i successivi articolo 4 e articolo 3 comma 2, si scorge una intenzione del Costituente di precisare meglio il ruolo fondativo, della Repubblica e della democrazia, che il Lavoro svolge:

elevandolo al rango di dovere costituzionale, ai cittadini lo Stato chiede di svolgere una attività o una funzione, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Prima però di chiamare le persone, a cui è riconosciuta la cittadinanza, a questo dovere, la Repubblica riconosce il proprio compito, cioè la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.

Modestamente, ci pare sia tutto qui: la nostra carta fondamentale riconosce come proprio tratto fondante e costitutivo quel rapporto di cittadinanza che lega le persone alla Repubblica assegnando alle une e all’altra compiti ben precisi, funzionali al soddisfacimento dell’ enunciato di cui all’art.1, ossia al mantenimento di quel pilastro centrale della costruzione democratico-repubblicana.

Cosa dire, a questo punto, a proposito del come l’interazione tra lo Stato e i cittadini debba produrre un simile risultato: cosa, cioè, debbono fare gli uni e cosa deve fare l’altro.

O cosa, piuttosto, debba essere fatto insieme.

L’idea di insieme, di partecipazione attiva di entrambi gli elementi in gioco, pare condurci da sola sulla strada più corretta: una strada, peraltro, che ci pare obbligata, vista la stretta coerenza tra l’enunciazione del Lavoro come elemento fondante e il ruolo storico di mantenimento delle organizzazioni che proprio al lavoro abbiamo riconosciuto all’ inizio della nostra riflessione.

A fronte di un quadro che vede una rivoluzione, consistente nella digitalizzazione e nella globalizzazione insieme, mettere i lavoratori di fronte ad una sfida epocale, bisogna però registrare la crescente difficoltà delle singole persone a fronteggiare questo mutamento e le conseguenze sulla propria vita, lavorativa e non.

Ci pare che i più recenti modelli organizzativi del lavoro e della produzione, sia in campo industriale che del commercio, non abbiano alcun tipo di considerazione rispetto alla preservazione e alla crescita della persona umana, intesa sia in senso morale che fisico. Il motivo, molto banalmente, è la possibilità che da questo deriva di produrre un enorme profitto per pochi, del tutto sproporzionato rispetto al lavoro fornito dai più.

Al di là di qualunque considerazione di carattere legale, sindacale, o economico, la rottura, costante e legalizzata, delle consuetudini lavorative che, nel corso dei secoli, hanno comunque generalmente rispettato i tempi naturali del lavoro e della vita, quali l’alternanza tra giorno e notte e il riposo al settimo giorno, se protratta ed estesa nel tempo ci pare destinata a produrre degli shock tali da poter modificare, oltre alla personalità, la stessa struttura fisica interna degli esseri umani.

Lo stesso dicasi per il complesso di interazioni tra il corpo umano e le nuove macchine, o per meglio dire tra il nostro cervello e l’intelligenza che le fa funzionare, per il mezzo dei nostri corpi e degli strumenti.

Pare destinato, nel lungo periodo, a perdersi qualunque rapporto di immediata strumentalità delle macchine rispetto al corpo umano, fino ad un possibile capovolgimento di una logica fatta non più di controllo ed uso, ma di interazioni tra macchine e uomini via via meno consapevoli.

L’insieme degli elementi sui quali il lavoratore non è più in grado di esercitare un controllo, perdendo insieme ad esso anche qualunque forza contrattuale rispetto alle varie controparti, è tale da generare una serie di quegli ostacoli alla realizzazione e allo sviluppo della persona umana che la Repubblica dovrebbe invece rimuovere.

E, per diretta conseguenza, rende impossibile raggiungere un ordine sociale, economico, persino politico, coerente con la democrazia repubblicana così come descritta nei primi articoli della Costituzione.

Quando il lavoratore, dipendente o autonomo, è sottoposto alla necessità di svolgere senza previsione temporale mansioni lavorative, sulle quali non può:

  • esercitare un controllo sufficiente;
  • conoscere l’insieme del processo produttivo;
  • detenere, nel peggiore dei casi, neanche il possesso dei mezzi di produzione;
  • ottenere, spesso, nemmeno la proprietà del prodotto finale,

risultano completamente negati non solo tutti quei riconoscimenti e le gratificazioni che alla persona derivano dallo svolgere con piena partecipazione la propria attività lavorativa, magari contribuendo a migliorarla nei processi e negli esiti; ma anche la piena disponibilità e proprietà del proprio tempo libero.

Che risulta invece permanentemente infeudato al servizio lavorativo da forme di impiego, garantite da organizzazioni d’azienda e contratti idonei allo scopo, che in nessun modo permettono lo sviluppo della persona umana, figurarsi il concorso al progresso materiale o spirituale della società nazionale.

In effetti appare oggi molto difficile per molti, a causa della deprivazione finale del proprio tempo e delle proprie energie fisiche e mentali, persino concorrere al mantenimento della propria piccola società familiare.

A conclusione della nostra riflessione ci pare quindi di dover dire che le future azioni legislative e di governo, anche e soprattutto le riforme (e non ci riferiamo esclusivamente a quelle specifiche, ma a tutte), debbano assumere come compito quello di realizzare quella società descritta all’ inizio della nostra Costituzione.
Prevedendo così tutti quegli strumenti, di promozione, di azione, di controllo e di sanzione, atti ad eliminare ciò che oggi incide negativamente sulla vita dei lavoratori.

Negando, invece, cittadinanza e dignità, incentivi e vantaggi di sorta, a quanto vada in senso contrario.

Ci vengono quindi in mente diversi elementi che possono aiutare le persone a superare l’ obsolescenza umana nei confronti della tecnica digitale e delle sue conseguenze, dirette e indirette, sulle nostre vite:

  • la certezza degli orari e dei turni di lavoro;
  • il controllo sulla natura e la finalità della mansione svolta;
  • la piena conoscenza del processo produttivo;
  • la promozione delle forme di lavoro che consentono il possesso e/o la proprietà dei mezzi di produzione e del prodotto finale a prescindere dalla sua natura (materiale o immateriale);
  • la partecipazione anche dei lavoratori subordinati all’ organizzazione e agli utili dell’ impresa per cui lavorano;
  • la possibilità di scelta sulla quantità di tempo da dedicare al lavoro in modo tale da permettere la ricerca e il perseguimento di una crescita professionale più profonda o diversa, o il soddisfacimento di altri bisogni o necessità della persona.

Ci sembrano, questi, campi di azione possibile per realizzare quel tipo di sviluppo che più è bisognoso e meritevole di tutela: quello cioè, della persona umana, elemento fondamentale per lo sviluppo anche di tutte le società che le persone costituiscono.


SE IL LAVORO RENDE SCHIAVI
Lavoro, sfruttamento e schiavitù nella democrazia 2.0

Andrea Rinaldo

La riflessione muove dall’assunto che all’attualità il lavoro non emancipa più, non libera da una condizione d’inferiorità e a volte neanche dal bisogno come nel caso dei poor workers, insomma dei lavoratori poveri. D’altro canto con una disoccupazione giovanile al 40% ed una quota generale pressoché stabile al 12%, il lavoro non è più in grado di liberare ampie fasce sociali dall’oppressione o dalla soggezione, ottenendo contemporaneamente il riconoscimento dei propri diritti.

Se vogliamo fare un esempio un po’ forte la beffarda iscrizione all’entrata del campo di concentramento di Auschwitz “Arbeit macht frei”, al di là ed oltre la retorica del lavoro che “libera” utilizzata dai tedeschi come substrato ideologico per una pianificata forma di genocidio, sta lì ad indicare forse, cosa sarebbe successo se il nazi-fascismo avesse prevalso: l’Europa disseminata da un complesso sistema di isole di annientamento di certe immeritevoli compagini umane. Probabilmente c’è un vulnus anche nella radice filosofica di quel aberrante ragionamento: non è il lavoro a rendere liberi. In buona sostanza non può essere stabilito un connubio indissolubile tra la condizione di chi può agire senza essere soggetto all’autorità o al dominio altrui, e quella del lavoratore che per definizione è invece in una condizione di minorità rispetto a coloro che detengono i mezzi di produzione. Tanto meno possono essere invocate a supporto di questa visione, tesi quali quelle di un certo diciamo così “neo-capitalismo compassionevole”, generato cioè da quei “sensibili padroni delle ferriere” che asseriscono fordianamente di dare lavoro a tanti operai ed impiegati, in modo che poi spendano la loro retribuzione comprando i prodotti che essi stessi hanno fabbricato, od anche quelli che i desideri indotti spingono ad acquistare, attivando così i benefici effetti generalizzati dell’economia di mercato. Non c’è nessuna volontà di comporre l’esprit economico con la coesione sociale, che già in nuce sono comunque due ragionamenti essenzialmente antitetici; vuoi perché le retribuzioni sono talmente risicate che non consentono reali margini di manovra, ed anche poiché la condizione del lavoratore piegata a quella di consumatore, tutto può fare ma certamente non rende per nulla più liberi. E nemmeno felici.

Il lavoro nella sua formulazione costituzionale italiana è a fondamento non già della libertà individuale, ma della cosa pubblica, mentre l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Peraltro il dettato costituzionale indica il lavoro come un dovere per il cittadino, il quale secondo le proprie possibilità e la propria scelta, deve intraprendere una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. E’ un mondo sideralmente lontano da certe “narrazioni” di comodo, o evocanti condizioni sociali immaginifiche ancorché inesistenti. Ci sarebbe da interrogarsi invece nel contesto definitorio un po’ di tipo giornalistico della “democrazia 2.0”, cioè delle forme di partecipazione diretta dei cittadini utilizzando le opportunità concesse dalle nuove tecnologie dell’informazione (senza per questo mandare in soffitta le pur logore forme della democrazia della rappresentanza), se il lavoro non sia veramente “una merce”[1], come ammoniva alcuni anni fa il sociologo Luciano Gallino. Gli italiani che avevano un lavoro instabile – diceva Gallino – erano già nel 2007 parecchi milioni, poi si dovevano sommare i tanti lavoratori del sommerso, della cosiddetta “economia informale”. Gallino giungeva alla conclusione che non solo non era giusto che il precariato fosse una merce di scambio dell’economia globalizzata, ma che non era nemmeno una ipotesi intelligente per una società che volesse coniugare lo sviluppo economico che genera progresso con quello umano.

Ma ammettiamo che il contesto della presunta “democrazia 2.0” sia realistico, la condizione invece descritta da Leonardo Palmisano nel suo libro “Ghetto Italia”[2], è di autentica nuova schiavitù e di arretramento nei diritti. Quel testo racconta, attraverso le testimonianze in prima persona di braccianti agricoli provenienti da diversi paesi africani ed europei, la situazione del lavoro nelle coltivazioni della Puglia, della Calabria, della Sicilia, della Campania, del Lazio, ed infine anche in alcune zone della Lombardia (Franciacorta) e del Piemonte (astigiano e cuneese), per nulla immuni dallo sfruttamento più bieco. Palmisano descrive la filiera di tale sfruttamento: “…la catena funziona così: il bracciante percepisce in base all’imponderabile volontà del caporale; il caporale sottrae in base al suo soggettivo desiderio di rapina; il proprietario della terra versa al caporale una cifra secondo le convenienze fissate dai compratori del prodotto; i compratori rivendono e/o trasformano il prodotto a una cifra nettamente superiore a quella pagata…”[3] Si tratta di un’economia di larga scala dove, scrive Palmisano: “…il peso del lavoro è pari a zero … Il lavoro non è più il mitico e fruttuoso intervento sulla natura, sulla materia viva, ma sempre più un’attività obbligatoria, coatta, dovuta…”[4]. E’ la nuova geografia di un Paese che sfrutta, lo stesso che spinge i suoi giovani spesso i più preparati ad emigrare all’estero, dove secondo qualche alta figura statuale ci possono ben stare, mentre gli altri sono invitati a “giocare a calcetto” in quanto il mondo del lavoro è rappresentato come essenzialmente un mondo di relazioni. Siamo un Paese immobile, dove i ricchi (pochi) sono sempre più ricchi e i poveri (tanti) sempre più poveri. Dove i laureati sono in gran parte figli di laureati, mentre il lavoro, se lo si trova, si associa spesso al network di relazioni della famiglia d’origine. Non è questa soltanto una opinione, ma la stessa è suffragata da dati scientifici inoppugnabili, l’invito è quello di scaricare le slides della lezione tenuta a tal proposito da Maurizio Franzini, docente universitario, al circolo Dossetti di Milano[5]

Contemporaneamente si piega appunto, come abbiamo visto, l’agricoltura intensiva ai desiderata delle grandi industrie, e delle enormi catene di distribuzione alimentare, scaricando però i costi di queste scelte sugli strati sociali più indifesi e soccombenti.

Antonio de Curtis in arte “Totò” divideva l’umanità in “uomini” e “caporali”, e se gli “uomini” cioè coloro che vivono lavorando come bestie sono la maggioranza, gli sfruttatori, i “caporali” sono pochi, ma riescono sempre a stare sempre a galla, immancabilmente al loro posto; e soprattutto “caporali si nasce non si diventa”. Non sappiamo se le cose stiano effettivamente in questo modo, ma è altresì verosimile che un certo sistema politico possa favorire la costruzione di quel mondo di “caporali” così avvilente. E’ questa probabilmente una forma di quell’ “…economia iniqua che uccide…”[6], secondo le parole di Papa Francesco espresse in un video messaggio durante lo svolgimento di Expo 2015, evento quest’ultimo definito da un accattivante slogan, non si sa però con quanto ancoraggio con la realtà, “Nutrire il pianeta, energie per la vita”. Terminato Expo non è certo all’attualità la doppia piroetta politica all’indietro sulla questione dei voucher e sulla responsabilità solidale in tema di appalti di opere, cioè sul sacrosanto diritto del lavoratore ad ottenere la sua retribuzione, che si andrà a toccare le fondamenta dei pilastri di questa scientifica iniquità. Beninteso quest’ultimo è comunque un risultato importante poiché dimostra che non è impossibile liberarsi dalla precarietà anche se in maniera parziale e magari soltanto a causa di una “fortunata” contingenza politica. Eppure una via d’uscita la si potrebbe trovare, senza cedere a soluzioni semplicistiche ma potenziando sotto l’impulso pubblico, i settori che riguardano la messa in sicurezza dal punto di vista idrogeologico del territorio, i servizi intorno ai beni culturali e ambientali, l’innovazione industriale e il rilancio della ricerca, e tanto altro ancora.   La situazione, al di là appunto di narrazioni di comodo, è talmente grave che anche Papa Francesco ha affrontato il tema del nell’ultima omelia del 2016, affermando che una società che da un lato “…idolatra la giovinezza cercando di renderla eterna…”, dall’altro condanna “…i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento…”[7], quella stessa società ha un debito verso le giovani generazioni che lentamente sta emarginando.   Ed anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pressoché in contemporanea, nel messaggio di fine anno 2016 ha toccato lo stesso argomento, asserendo che il lavoro è il problema numero uno per l’Italia, “…So bene – dice Mattarella in riferimento ai giovani – che la vostra dignità è legata anche al lavoro…”, e se “…per gli adulti il lavoro è insufficiente, sovente precario, talvolta sottopagato, lo è ancor più per voi…”, ha affermato. “…Avete conoscenze e potenzialità molto grandi. Deve esservi assicurata la possibilità di essere protagonisti della vita sociale…”. Lavorare all’estero deve essere “una libera scelta”. “…Se si è costretti a lasciare l’Italia per mancanza di occasioni, si è di fronte a una patologia…” a cui “…porre rimedio…”[8].  Bisogna appunto porre rimedio perché altrimenti sul tema in generale del “sistema”, come asseriva don Lorenzo Milani in “Lettera ad una professoressa”, “…è come sostenere che tante rotelle si son messe insieme per caso. N’è venuto fuori un carro armato che fa la guerra senza manovratore…”[9]. In conclusione, con un po’ d’ironia, è chiaro che noi non vogliamo certo credere a quest’ultima fantasiosa “deriva romanzesca”…

[1]            Luciano Gallino, “Il lavoro non è una merce”, ed. Laterza, Bari, 2008.

[2]            Leonardo Palmisano, “Ghetto Italia”, ed. Fandango libri, Roma, 2015.

[3]            Fonte: https://www.circolidossetti.it/leonardo-palmisano-ghetto-italia-braccianti-stranieri-caporalato-sfruttamento/#more-3625

[4]            Fonte: https://www.circolidossetti.it/leonardo-palmisano-ghetto-italia-braccianti-stranieri-caporalato-sfruttamento/#more-3625

[5]            Fonte: https://www.circolidossetti.it/le-radici-economiche-della-disuguaglianza-maurizio-franzini/

[6]            Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-02-07/papa-francesco-l-economia-iniqua-uccide-165719.shtml?uuid=ABc67ArC

[7]            http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/31/papa-francesco-abbiamo-un-debito-con-i-giovani-li-obblighiamo-a-emigrare-e-mendicare-lavori-che-non-esistono/3290433/

[8]                  http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/ContentItem-a725d20a-4423-4541-899e-65a772d5e39a.html

[9]            Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, “Lettera ad una professoressa”, LEF, Firenze, 1992, p. 71.

 


Parlando del tema del lavoro come emancipazione mi piace ricordare alcuni concetti emersi durante la recente presentazione del libro di Luigino Bruni: “Fondati sul lavoro”, edizioni Vita e Pensiero.

Stefano Guffanti

Il “lavoro” è uno dei temi più sentiti nella società dei nostri giorni, un tema di cui sentiamo discutere principalmente con riferimento alla crisi economica, alle scelte politiche che dovranno sanare le emergenze in termini di disoccupazione, soprattutto giovanile ma non solo vista la presenza nel nostro paese di un numero di lavoratori (i più citati i cosiddetti “esodati” ) troppo giovani per andare in pensione ma troppo vecchi per il mercato del lavoro.

Viviamo in un mondo in cui sentiamo continuamente invocare il lavoro, in cui si fanno politiche per il lavoro, si eliminano vincoli (e a volte tutele) nella speranza di favorire il lavoro, o meglio, l’offerta di lavoro, i “datori” di lavoro.

I numeri della disoccupazione sono sempre più impressionanti, leggiamo di disoccupazione al 12,5% ma poi sappiamo bene che il concetto è più complesso, che dobbiamo distinguere tra disoccupati e inoccupati e che può essere che aumenti la disoccupazione ma, contemporaneamente aumenti il numero degli occupati semplicemente perché tra gli inoccupati un numero crescente di persone che in precedenza non provavano nemmeno a cercare lavoro iniziano a cercarlo e vanno così a ingrossare le fila dei disoccupati.

Sono di questi giorni i dibattiti sul Job Act con commenti che riguardano i sui effetti in termini di nuova occupazione e maggiori (o minori a seconda dei punti di vista) tutele dei lavoratori.

E però, pensandoci bene, qualcosa non torna… non torna ad esempio il fatto che a fronte di una massa crescente di disoccupati aumentano, tra gli occupati, fenomeni legati al crescente stress lavorativo: straordinari non pagati per il fenomeno diffuso di trattamenti economici omnicomprensivi, mobbing, utilizzo delle nuove tecnologie informatiche (basti pensare agli smart-phone o ai PC che obbligano molti lavoratori a essere “connessi” anche durante le festività).

Aumenta, anziché diminuire, la mole di lavoro degli occupati e si verifica il fenomeno, citato da Bruni in un articolo su Avvenire, dei manager imbevuti di falsi valori che sacrificano la loro vita a culture costruite da multinazionali e società di consulenza simili a divinità pagane, bruciati e sostituiti come ingranaggi di una macchina infernale.

Leggevo di recente in un libro di Noam Chomsky la seguente frase: “ una cosa che viene data per scontata dalle più diverse posizioni politiche è che la popolazione deve essere sottomessa ai governanti; in una democrazia i governati hanno il diritto di esprimere il proprio consenso e nulla più. Nella terminologia del pensiero progressista moderno potremmo dire che i cittadini devono essere “spettatori” e non “attori” della scena politica, con la sola eccezione delle poche occasioni in cui sono chiamati a scegliere tra i leader che si candidano a rappresentare il potere effettivo.

Se abbandoniamo il terreno politico per addentrarci in quello economico la situazione cambia : qui, dove si determina in larga misura la sorte della società , la popolazione subisce un’esclusione totale; secondo la teoria democratica prevalente, su questo terreno il popolo non deve rivestire alcun ruolo.”

Che ne è quindi del lavoro ? Perché il dibattito democratico è così scarso quando si parla di economia e di lavoro ?

Sicuramente il lavoro non riguarda solo la produzione di ricchezza e il benessere materiale: l’articolo 1 della nostra Costituzione, nonostante il paese fosse appena uscito da una dittatura che aveva praticato una “retorica del lavoro” utilizzata a fini propagandistici, decide di metterlo al primo posto del nuovo patto sociale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Questo comporta che anche noi cittadini che ne facciamo parte siamo veramente cittadini perché lavoriamo, lavoreremo, abbiamo lavorato (o perché non possiamo lavorare pur volendolo fare).

“I padri e le madri costituenti hanno creato la più bella equazione della nostra storia repubblicana, quella tra democrazia e lavoro”, in questa sede mi piace ricordare due concetti che mi hanno particolarmente colpito e che trovo diano il senso della scelta dei nostri costituenti: il primo dice che: le comunità umane che non si fondano sul lavoro non possono che fondarsi su rendite e privilegi e quindi non sono democratiche. Il lavoro, quando vissuto nella libertà, è una delle espressioni più alte di amore nella sfera sociale di cui gli esseri umani possono essere capaci; per questa ragione al lavoro non occorrono aggettivi che lo rendano degno e buono; lo è da subito.

È importante però il riferimento al lavoro vissuto nella libertà !

Bruni infatti dimostra attraverso un excursus storico, che ci sono voluti secoli per dare dignità alla parola lavoro, per anni i lavoratori dovevano sopportare, oltre alla fatica della loro condizione, il malcelato disprezzo delle classi dominanti che consideravano poco “degno” chi non possedeva altro che le proprie braccia.

La valutazione culturale sul lavoro come attività infima e ignobile è sicuramente dovuta anche al dato storico che presso gli antichi erano gli schiavi e i servi a svolgere il lavoro materiale “impuro”.

Bruni cita l’etimologia della parola latina lavoro (labor) che potrebbe risalire a “rab”, (con la trasmutazione poi di r in l : lab), che in lingua slava antica indicava lo schiavo (rabu).

Per i greci e i latini il lavoro materiale è cosa ignobile, l’uomo antico apprezzava l’otium e disprezzava il negotium e l’attività delle mani (a questo proposito Bruni cita un eloquente brano dalle Georgiche di Virgilio che attribuisce a Giove l’introduzione del lavoro e della fatica nella vita umana).

Dalla lettura della Bibbia, che descrive la cultura del lavoro presente nel popolo ebraico, continua ad emergere una concezione del lavoro materiale come attività inferiore in dignità rispetto al lavoro intellettuale e spirituale anche se, rispetto al mondo greco e mediorientale, il lavoro materiale è maggiormente valorizzato e rispettato.

Con l’avvento del cristianesimo abbiamo un’operazione di “nobilitazione” del lavoro che culmina durante il Medioevo con l’ora et labora del monachesimo, il lavoro assimilato alle orazioni.

Da una parte monaci che trascrivono i grandi classici di Aristotele, Seneca, Platone, Isaia, Paolo, e dall’altra sviluppano le tecniche commerciali, di costruzione, di bonifica, di conio delle monete.

Nei monasteri vi erano giuristi, giudici, economisti, si crearono le prime forme di divisione del lavoro e di organizzazione razionale del tempo e dei luoghi. Scrive Bruni: “le Abbazie e i Monasteri salvarono, creativamente, la civiltà, poiché furono luoghi anche di grandi innovazioni, laboratori vivi dai quali presero vita forme di democrazia (gli abati venivano eletti all’interno di governance complesse e articolate) e di relativa autonomia politica sia dall’imperatore sia dal papato e dai vescovi”.

Ecco allora la ripresa in questa prospettiva della lunga storia del lavorare degli uomini e delle donne, fino al rapido tramonto delle forme del lavoro contadino e poi di quello della fabbrica, dove si erano condensati secoli, se non millenni, di storia di arti e mestieri, di professioni e abilità

Un tramonto dopo il quale non si intravede ancora con chiarezza quale sarà il futuro delle nuove forme di produzione di beni e servizi: se una modalità più umana e umanizzante o invece il ritorno di una dipendenza quasi servile, una sorta di neo-feudalesimo.

E’ importante tuttavia ragionare sul significato semantico del lavoro, spesso ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi – precario, dipendente, autonomo, nero… – mentre viene elusa la domanda decisiva: che cosa è il lavoro?

Sicuramente è una dimensione che dice agli altri chi siamo, se incontriamo una persona o un collega non inizieremmo mai il dialogo chiedendo quali sono i suoi hobbies o la sua fede religiosa, la prima e naturale domanda è: “che lavoro fai ? E tuo padre, tua moglie, tuo marito ?”

Il rischio è che l’identità di una persona rischi di “finire” con il lavoro, non tenendo conto che vi sono interessi e passioni al di fuori di esso. A partire dalla fine del XX secolo all’era del lavoro, che aveva dominato nell’800 e nel ‘900, è subentrata quella del consumo e della finanza, così oggi “il lavoro viene asservito al consumo”. Poiché è il lavoro che dice agli altri “chi siamo”, la sua perdita comporta una crisi dell’identità personale. Quindi il lavoro è necessario ma deve essere un lavoro “libero”. Ecco quindi che “non tutto il lavoro fonda la Repubblica, non tutto il lavoro è degno, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi, di ieri e di oggi.

Ma oggi assomigliamo più alla civiltà greca o a quella cristiana ? Cosa è oggi il lavoro ? Qualcosa da elemosinare ? Per cui chi lavora deve ringraziare ? O un contratto tra persone che hanno pari dignità e diritti quale dovrebbe essere ?

Nel libro viene esaminato il lavoro in rapporto con la rendita. Bruni cita economisti come Ricardo, Loria, Piketty e pone l’accento sul conflitto tra profitti e rendite che ha comportato un aumento esponenziale delle rendite accompagnato da aumento delle imposte indirette, tagli al welfare e riduzioni dei salari dei lavoratori.

A questo si accompagna un crescente aumento delle retribuzioni e del potere dei manager giustificato da Università e Master in cui si insegnano le stesse cose, si utilizzano gli stessi testi e si ragiona secondo un “pensiero unico”. I capitali devono rappresentare strumenti che potranno generare flussi di reddito e creare sviluppo. Un’impresa, un sistema economico, una civiltà iniziano la loro decadenza quando i flussi sono visti in funzione dei capitali, i salari e i profitti in funzione delle rendite, come dice con efficace metafora Bruni “alla speranza subentra la paura, il senso del grano diventa il granaio e ci dimentichiamo di chi di quel grano ha bisogno per vivere e lavorare”.

Una critica che, provenendo da studi economici, mi ha molto colpito e che ho avuto modo di constatare occupandomi di lavoro nella pubblica amministrazione è quella che Bruni muove alla teoria economica, che “da decenni ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per concentrarsi unicamente sul lavoratore inteso come “risorsa umana” o come “capitale umano” che risponde razionalmente a incentivi e sanzioni.

In un appassionante carteggio che recentemente ho avuto modo di leggere tra Elio Borgonovi, per diversi anni Direttore della SDA Bocconi e Luigino Bruni emerge una condivisione del fatto che si sta imponendo una concezione di management come «tecnica libera da valori», favorita da una distorta applicazione dei princìpi di divisione e specializzazione del lavoro, delle funzioni economiche, del mercato inteso soprattutto in termini di competizione win-lose (qualcuno migliora e qualcuno peggiora) e non in termini di win-win (tutti possono migliorare se sono disposti anche a collaborare).

Una cultura manageriale che si fonda su una antropologia del talento individuale che si collega a concezioni antiche di homo faber fortunae suae e di “ascensore sociale” consentito dalla mano invisibile del mercato.

Nel libro un’attenzione specifica viene poi dedicata ai giovani che sono i più penalizzati dalla recessione economica. Si evidenzia in particolare un forte scollamento tra scuola, università e lavoro.

Oggi il tasso di disoccupazione, soprattutto di quella giovanile, è molto elevata l’assenza di lavoro ha ripercussioni negative sul mondo della produzione in generale, che perde in creatività, energia, entusiasmo, e non riesce perciò a rinnovarsi. I giovani devono poter coltivare la loro vocazione lavorativa e imparare un mestiere da cui dipende la loro felicità, spesso invece vengono costretti a un lavoro sbagliato, sfruttati come schiavi.

Il discorso sui giovani porta l’autore a riflettere sul sistema scolastico, in particolare quello universitario, ormai obsoleto per la mancanza di rapporto con il mondo del lavoro, e sul pregiudizio ancora radicato della superiorità dell’attività intellettuale su quella manuale.
Un aspetto evidenziato da Bruni è il fatto che un tempo i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, luoghi abitati dai popoli che potevano “viverli”, oggi la ricchezza che nasce dalla finanza finisce invece spesso nei paradisi fiscali o in residenze e luoghi inaccessibili al popolo.

Le scuole, secondo Bruni, dovrebbero essere costruite nei luoghi più belli della città in maniera da permettere ai nostri figli di unire scuola e bellezza con una formazione che, anziché concentrarsi in alcuni anni full-time, si sviluppi attraverso corsi flessibili che affianchino i periodi di lavoro a quelli di studio e che durino molti anni.

E’ importante poi sottolineare il rapporto tra il lavoro ben fatto ed il merito. Il merito è diventato un dogma! Guai a chi osa metterlo in discussione, guai a chi osa far notare che, come osserva Bruni, è un tema molto antico complesso e discusso nella vita civile, militare ed economica.

Guai a far notare che è stato, insieme all’onore, la parola delle comunità umane non egualitarie (esercito, scienza, religioni, scuola, famiglia…) e che la modernità ha cercato di coniugare alcune dimensioni del merito con la democrazia e il mercato.

Se penso al campo in cui opero, la pubblica amministrazione, i concetti che Bruni esprime con riferimento all’utilizzo strumentale del concetto di merito mi fanno immediatamente pensare al dibattito sui dipendenti pubblici “fannulloni”.

Se è vero che in alcuni casi la responsabilità e quindi il demerito è dei singoli lavoratori e altrettanto evidente, a chi esamini il fenomeno oltre la demagogia e la superficialità imperante sui media, che vi sono dipendenti pubblici che non sono messi in condizione di lavorare da dirigenti inetti o invidiosi che “nascondono il lavoro”, così come vi sono persone costrette a svolgere, non certo per colpa loro ma a causa di una organizzazione del lavoro irrazionale, compiti assolutamente inutili.

La crisi economica è il risultato non solo del demerito, scrive Bruni, ma anche e soprattutto di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD che non garantiscono che chi li ha superati sia “meritevole” in termini di relazioni, etica, umanità.

Anche un lavoro che non corrisponde alla propria vocazione può essere utile agli altri e, se svolto bene, può contribuire al bene personale e a quello comuneIl lavoro è un’attività relazionale e sociale, ognuno con il proprio lavoro contribuisce al benessere di tutta la società. Oggi si diffonde la cultura dell’incentivo: il denaro è diventato la principale se non addirittura l’unica motivazione del lavoro, anche in ambiti come la sanità e la scuola.

Secondo Bruni va sostenuta invece la cultura del “premio” se il lavoro è tendenzialmente dono anche la remunerazione deve essere intesa come un dono nella reciprocità: il salario e lo stipendio non devono misurare il valore di un lavoratore, ma essere intesi come un premio, un contro dono, non il prezzo di una merce.

Un ulteriore tema toccato da Bruni riguarda Il ruolo degli imprenditori. Come si spiega, sosteneva Einaudi, che ci siano imprenditori che investono i loro capitali e tutte le loro energie per ottenere utili molto più modesti di quelli che potrebbero ottenere più facilmente attraverso la rendita e la finanza speculativa ?

Si spiega, ricorda Bruni, con il fatto che l’imprenditore non è sempre e necessariamente in conflitto con il lavoratore dipendente, in molti casi i due lavorano fianco a fianco e dividono fatiche e rischi.

In una fase storica in cui la creazione di lavoro è così scarsa occorre “risemantizzare” la parola imprenditore distinguendo (contrariamente a quanto fanno spesso i media) i veri imprenditori dagli speculatori, dai faccendieri che preferiscono, anziché investire nella propria impresa, in lavoro e in tecnologia, investire nella “carta”.

L’alto livello di evasione che caratterizza tristemente la realtà del paese è assimilato invece da Bruni al fenomeno sportivo del doping.

L’atleta onesto che opera in un contesto dominato dal doping si trova nella situazione del “dilemma del prigioniero”, modello economico della teoria dei giochi (la cui nascita può essere fatta coincidere con l’uscita del libro “Theory of Games and Economic Behavior” di von Neumann e Morgenstern nel 1944 anche se tutti ricorderanno John Nash interpretato da Russel Crowe nel film di Ron Howard “A beautiful mind” ) con la quale si tenta di descrivere matematicamente il comportamento umano in quei casi in cui l’interazione fra uomini comporta la vincita, o lo spartirsi, di qualche tipo di risorsa.

Molti sportivi sceglierebbero di non doparsi in un contesto in cui regnasse la fiducia e l’onestà, viceversa in un contesto nel quale dominano la slealtà e il sospetto reciproco molti atleti finiscono nella spirale del doping per timore di essere ingiustamente penalizzati

Lo stesso avviene con l’evasione, l’imprenditore onesto finisce per evadere se percepisce intorno a se l’idea che: “chi non evade è un fesso”. Evade per vincere o evade anche spesso per non chiudere. Anche qui emerge l’influenza del contesto sociale e relazionale sulla natura e sul ruolo del lavoro e come sia utopistico pretendere di risolvere il problema con una pura logica economica.

Bruni sviluppa poi la rilettura sotto una nuova luce delle ‘parole’ del lavoro: a cominciare da charis, ‘gratuità’, passando poi a felicità, dono, ferita, relazionalità, cura, nell’attuale scenario di crisi e di ricerca di nuove idee ed esperienze.

Il mercato funziona per le merci, ma mostra i suoi limiti se subentrano relazioni umane più complesse o beni come i beni comuni. Occorrono la famiglia, la comunità e quel modello di stato sociale europeo che un certo neoliberismo da per morto ma che, in una situazione in cui la società invecchia e l’economia è in crisi, dimostra la sua utilità e la capacità di garantire un senso di appartenenza. Viene  ribadito il valore intrinseco di ogni lavoro se esso contiene ed esprime dimensioni di gratuità, motivazione e relazionalità: un lavoro che può esprimere la complementarietà e la reciproca interdipendenza tra l’istituto del mercato con quello della famiglia e della comunità sociale. 

Ricordando il pensiero di John Stuart Mill che, ritenendo la famiglia e l’impresa i due luoghi in cui dominava una logica illiberale e gerarchica, scriveva: “La formazione morale dell’umanità non avrà ancora sviluppato tutto il suo potenziale, finchè non sarà capace di vivere nella famiglia con le stesse regole morali che governano la comunità politica”, Bruni constata come la situazione nella maggior parte del mondo veda oggi, a fronte di un miglioramento nella relazione uomo e donna all’interno della famiglia una asimmetria persistente, a sfavore della donna, in ambito economico e lavorativo.

Interessante è poi l’analisi del rapporto tra famiglia, lavoro e momenti di festa e l’invito di Bruni a ritrovare tra i tempi della festa e quelli del lavoro all’interno della famiglia. E’ infatti nell’ambito della famiglia che si apprende “l’arte della gratuità”. L’attuale economia capitalistica non concepisce più il rapporto tra il lavoro e la festa. Senza il lavoro la parola festa perde di significato, rischia di diventare un concetto autoreferenziale, quando la festa viene associata all’assenza di lavoro invece che alla sua presenza.

Concludendo siamo di fronte a un testo che recupera il valore centrale ma non assoluto del lavoro nella vita e nella fioritura di ogni persona così come nella crescita e nello sviluppo di una società armoniosa e giusta.

Lavorare bene significa quindi esercitare al meglio il proprio ruolo professionale, con amore appunto, a prescindere dalle condizioni, anche negative, in cui ci si ritrova. Chi non lavora si priva di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della vita: del resto, la perdita del lavoro comporta non solo una perdita di stipendio ma anche una perdita di umanità. E’ importante e necessario per la società che ogni persona possa esprimersi lavorando, possibilmente secondo il suo daimon, la sua vocazione.

Per usare le parole di Bruni in una recente intervista un lavoro è davvero umano quando si svolge “con e per qualcun altro”. Lavorare “per”, con gratuità, può essere visto come la condizione per poter parlare di lavoro dalla prospettiva adottata nel libro. Se l’attività lavorativa è un’attività umana e se l’umano è davvero tale quando è relazione, allora lavoriamo davvero quando il destinatario della nostra attività è qualcun altro. Detto in modo ancora più esplicito, lavoriamo veramente quando la nostra attività è espressione di gratuità. Potremmo dire che si lavora veramente quando si lavora per amore.


I fattori della disuguaglianza e i redditi da lavoro
L’immobilità economica in Italia

Vincenzo Sabatino

Introduzione

L’obiettivo che ci poniamo in questa breve relazione è quello di indagare sulla dipendenza tra due variabili economiche: disuguaglianza e reddito, inteso come reddito da lavoro, nonché sui meccanismi di trasmissione che dalle diseguaglianze si trasferiscono sui redditi. Per brevità dell’intervento richiesto tali processi di trasferimento delle disuguaglianze saranno analizzati solamente sotto il profilo qualitativo.

Affronteremo il tema delle disuguaglianze sociali per capire che cosa sono, come si generano e come si riversano sulla variabile reddito in economia (disuguaglianza economica). Un’analisi la cui utilità può essere quella di fornire una prospettiva diversa per impostare delle efficaci azioni di politica economica per attenuare le disuguaglianze che hanno delle ricadute dirette in termini di reddito da lavoro in modo tale da renderle più accettabili e quindi diminuirle, cercando di intervenire sempre di più sul fronte della efficienza produttiva (ex ante) attraverso delle leve che incidono su variabili quali: mobilità intergenerazionale e intragenerazionale, disuguaglianze correnti, giustizia sociale, mercati, opportunità, tipologie di contratti di lavoro (no atipici), asimmetrie informative, ecc., e sempre meno sul versante dell’efficienza distributiva (ex post) attraverso il solito meccanismo delle tasse e dei trasferimenti sempre più difficile da gestire in quanto influenzato dal fenomeno del free riding: evasione ed elusione fiscale e contributiva (lavoro in nero), o da consistenti interventi di politica economica (bilancio), miliardi di Euro, per tagliare il cuneo fiscale che ancora ci divide dagli altri paesi europei: mediamente attorno al 10%.

Pertanto agire solo sul fronte delle politiche fiscali non è sufficiente in quanto incidono poco sulla entità dei redditi, ma occorre intervenire a monte, andando a correggere per quanto è possibile le disuguaglianze che determinano l’ammontare dei redditi. A tal proposito classificheremo le disuguaglianze in accettabili, quelle che danno origine a differenze di redditi accettabili, e inaccettabili, quelle che all’opposto generano differenze inaccettabili nella composizione dei redditi da lavoro.

Lo scopo principale di questa relazione è quello di realizzare una classificazione delle disuguaglianze, distinguendole in accettabili o limitate (eguaglianze di opportunità) e non accettabili (trasmesse attraverso meccanismi intergenerazionali o di immobilità sociale), e di fornirci degli strumenti per muoverci nella direzione di una moderata disuguaglianza accettabile e di conseguenza di minori disuguaglianze in termini di reddito all’interno del nostro paese. Una metodologia che permetterebbe di far cambiare nel lungo periodo e in modo strutturale la concentrazione del reddito attualmente nelle mani di pochi, non solo nel nostro paese, facendo decrescere la nostra appartenenza al c.d. “99%”.

Glossario

Asimmetria informativa

Condizione che si verifica nel mercato quando uno o più operatori dispongono di informazioni più precise di altri. In generale, interferisce con il buon funzionamento dei mercati (efficienza economica), portando a situazioni di sotto utilizzazione delle risorse disponibili. L’asimmetria informativa, infatti, può indurre l’operatore meglio informato a comportamenti opportunistici (azzardo morale). Questi comportamenti portano, per esempio, al razionamento del credito da parte delle banche, all’impossibilità di ottenere copertura assicurativa completa a prezzi equi e a una minore occupazione oltre che a maggiori disuguaglianze correnti.

Capitale umano

Il capitale umano oggi riveste un ruolo centrale nello sviluppo del sistema economico di ogni paese. Con il termine capitale umano si intende l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, acquisite durante la vita da un individuo e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi. La formazione e crescita del capitale umano avviene tramite i processi educativi di un individuo che interessano:

  • l’ambiente familiare;
  • l’ambiente sociale;
  • la scolarità;
  • le esperienze di lavoro.

Per formare il capitale umano gli individui o le comunità sostengono dei costi – detti anche in economia costi di allevamento – di natura monetaria, come ad esempio la costruzione di scuole, o non monetaria, come il tempo che i genitori dedicano ai propri figli (altruismo sociale). Questi costi costituiscono degli investimenti che una comunità o un paese realizza per il proprio futuro ai fini del miglioramento delle condizioni di vita in una logica che dovrebbe essere di economia sostenibile. Fenomeni come l’emigrazione e conseguente fuga dei cervelli, la non valorizzazione dei talenti o l’insufficiente spesa pubblica per la scuola, costituiscono alcuni esempi di impoverimento del capitale umano con conseguenze sullo sviluppo economico di un territorio. Il capitale umano è alla base del sistema delle relazioni interpersonali, formali ed informali, che generano il capitale sociale di una comunità, di un territorio, di un paese. Il capitale umano è stato paragonato ad un investimento in un bene, che produce un certo rendimento. A tale proposito si è parlato di Rendimento Implicito o di Tasso Interno di Rendimento, indicatore che viene utilizzato dagli economisti per indicare in quale misura un anno di istruzione in più aumenta i benefici netti individuali. Si tratta di un parametro che rappresenta il risultato di un investimento e che ad esempio, in questo contesto del capitale umano, può valutare il differenziale salariale tra persone che hanno un diverso livello di istruzione o la diversa probabilità di occupazione, derivante sempre da titoli di studio differenti.

Coefficiente ß

Esprime la correlazione tra i redditi dei genitori e quelli dei figli. E’ un coefficiente che varia tra 0 e 1. Un valore pari a 0 indica completa indipendenza delle condizioni economiche dei figli da quelle dei padri, mentre un valore pari a 1 implica assoluta dipendenza, una condizione nella quale le famiglie ricche rimangono ricche e quelle povere rimangono povere.

Disuguaglianze accettabili e inaccettabili

Le disuguaglianze accettabili sono disuguaglianze economiche che nascono da un diverso impegno individuale. Si distinguono dalle inaccettabili che dipendono dalla condizioni di origine e quindi, di fatto, sono ereditarie.

Disuguaglianza economica

La disuguaglianza economica (nota anche come divario tra ricchi e poveri, disuguaglianza dei redditi, disparità di ricchezza, o differenze in ricchezza e reddito) comprende le disparità nella distribuzione del patrimonio economico (ricchezza) e del reddito tra gli individui di una popolazione. Il termine, di solito, si riferisce alla disuguaglianza tra individui e gruppi all’interno di una società, ma può anche denotare disuguaglianza tra paesi. La questione della disuguaglianza economica è collegata alle idee di equità, uguaglianza di risultato, e uguaglianza di opportunità. Esistono pareri discordanti sull’accettabilità morale e sull’utilità della disuguaglianza, e su quanta disuguaglianza sia necessaria o tollerabile in una società, e su come ci si debba comportare. Sostanzialmente, le opinioni di valore sulla disuguaglianza possono assumere una triplice veste. Da un lato, vi è chi elogia la disuguaglianza come necessaria e utile poiché fornisce uno stimolo proficuo alla crescita economica, in quanto innesca una benefica competizione, individuale e collettiva, tra soggetti diseguali: questo processo, però, può esprimersi solo a condizione che gli operatori si muovano in una situazione di libero mercato, priva di significativi condizionamenti e interventi pubblici. D’altro canto, vi è chi, pur auspicandone il superamento, considera la disuguaglianza come un elemento congenito alla stessa natura del sistema capitalistico, necessario al suo funzionamento: sarà lo stesso sistema capitalistico a determinare il superamento quando si producano laceranti disparità economiche e sociali. Vi è, infine, chi la considera invece come un problema sociale ed economico, soprattutto quando raggiunge particolari intensità: secondo questa visione, politiche di contrasto alla disuguaglianza si ripercuotono positivamente sull’intero sistema economico e sociale e non solo su coloro i quali sono gli immediati beneficiari di quelle politiche. Quest’ultima opinione, da un punto di vista economico, può essere ricondotta a un pensiero di matrice keynesiana; dal versante politico, è ricollegabile a una politica di tipo socialdemocratico. La disuguaglianza economica varia tra le società e nei diversi periodi storici: tra strutture o sistemi economici (come capitalismo e socialismo), guerre passate e future, differenze nella capacità degli individui di creare ricchezza, sono tutti fattori in grado di generare disuguaglianza economica. Esistono diversi indici numerici per misurare la disuguaglianza economica. Il coefficiente di Gini è un indice molto usato, ma ci sono anche molti altri metodi.

Disuguaglianza sociale

La disuguaglianza sociale è una differenza (nei privilegi, nelle risorse e nei compensi) considerata da un gruppo sociale come ingiusta e pregiudizievole per le potenzialità degli individui della collettività. È una differenza oggettivamente misurabile e soggettivamente percepita. Gli elementi che la compongono sono le differenze oggettive esistenti, ossia il possesso minore o maggiore di risorse socialmente rilevanti. Le differenze sono conseguenza dell’azione di meccanismi di selezione sociale più che del merito e sono interpretate dai soggetti e dai gruppi sfavoriti (o da coloro che li rappresentano) come ingiuste; il ritenersi vittima di ingiusta discriminazione è una componente soggettiva.

Indice di Gini

Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.

Meritocrazia

La meritocrazia (neologismo coniato dal sociologo britannico Michael Young negli anni 1950) è un concetto usato in origine per indicare una forma di governo distopica nella quale la posizione sociale di un individuo viene determinata dal suo quoziente intellettivo e dalla sua attitudine al lavoro. A questo uso del termine in senso dispregiativo si è affiancata col passare del tempo un’accezione più positiva, specialmente in Italia, tesa a indicare una forma di governo dove le cariche pubbliche, amministrative, e qualsiasi ruolo o professione che richieda responsabilità nei confronti di altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza a lobby, o altri tipi di conoscenze familiari (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica (oligarchia).

Mobilità

Per mobilità sociale si intende il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno status sociale ad un altro, e il livello di flessibilità nella stratificazione di una società, il grado di difficoltà (o di facilità) con cui è possibile passare da uno strato ad un altro all’interno della stratificazione sociale ossia la pluralità dei gruppi sociali presenti all’interno della società con ruoli diversi e diverso accesso alle risorse. Sono stati alcuni grandi del pensiero liberale (Tocqueville, Stuart Mill e Pareto) a richiamare l’attenzione sull’importanza della mobilità economica e sociale, cioè sull’indipendenza del futuro di ciascuno dalle condizioni alla nascita e nei primi anni di vita. Quell’indipendenza rappresentava il segno del definitivo superamento dell’Ancien Régime, una garanzia di democrazia e di equità. La stessa efficienza economica ne avrebbe tratto beneficio perché, finalmente, chiunque fosse stato dotato di qualità avrebbe potuto dare alla società e all’economia un contributo appropriato a quelle qualità, anche se per sventura la sorte avesse scelto di assegnarlo a una famiglia svantaggiata. Il capitalismo e il mercato sono stati considerati come gli strumenti attraverso i quali questo progetto di mobilità sociale ed economica, giusta ed efficiente, potesse essere correttamente realizzato.

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