La riflessione sul testo inedito “SVILUPPO E FORME DEL CAPITALISMO MODERNO – Capitalismo, liberalismo e democrazia”, nasce dall’occasione del 150° anniversario della nascita di Max Weber, un autore complesso su cui si possono più facilmente ricavare delle citazioni piuttosto che un’analisi sistematica del suo pensiero.
È una riflessione che va oltre le analisi di Max Weber, nel senso che analizza gli sviluppi del capitalismo moderno come sono andati dopo la sua scomparsa nel 1920. Weber praticamente non ha modo di vedere la grande crisi, non ha modo di vedere l’affermarsi delle dittature tra le due guerre. C’era stata già la rivoluzione sovietica, ma né Mussolini né tantomeno Hitler erano ancora andati al potere e forse nel 1920 non c’era nulla che indicasse questo processo.
Il capitalismo non ha cessato di evolvere e mutar forma dopo la morte di Weber, lo studio del capitalismo non ha cessato di progredire e di questi progressi Weber non ha potuto tener conto. Il nostro compito è soprattutto quello di rileggere il lascito teorico di Weber alla luce di un grande problema: la compatibilità tra capitalismo e democrazia.
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1. premessa di Giovanni Bianchi 06’54” – 2. introduzione di Lorenzo Gaiani 28’48” – 3. relazione di Michele Salvati 1h22’22” – 4. domande 20’03” – 5. risposte di Michele Salvati e chiusura 28’25”
Buongiorno a tutti. Sono sempre molto contento di venire qui al Dossetti e a queste iniziative a molte delle quali ho partecipato in passato e, tra l’altro a una, relativamente recente, ricordo la presentazione di un mio libro non antico, anche se non più recentissimo che è Capitalismo, mercato e democrazia, che è una raccolta di saggi importanti su questi argomenti e sugli argomenti di cui ha parlato brevemente Gaiani adesso e che rappresentano una documentazione importante per chi ci vuol capire qualcosa della situazione in cui siamo. Come questa democrazia, in realtà, necessariamente delude le aspettative egualitarie e democratiche che a lei si rivolgono e come bisogna resistere a questa delusione. Siccome questa delusione è inevitabile, la democrazia come la sogniamo, che poi è il potere decisionale affidato a tutto il popolo, intendo dire ai 60 milioni di italiani e anche ai 7 miliardi, se ci proiettiamo in una dimensione mondiale, di cittadini di questo mondo e che, da subito, è un risultato non credibile.
Il potere è, per natura sua, diciamo indivisibile, esercitato da una singola persona o da un gruppo ristretto di persone animate da una volontà politica; e questo è stato all’origine della reazione contro la democrazia alla fine diciamo di due secoli fa, voglio dire, tra la fine del Novecento e l’inizio del Duemila, una particolare teoria politica che è quella degli elitisti, i teorici delle élite. Da che mondo è mondo, la democrazia è stata un sistema come gli altri, come la monarchia, come l’aristocrazia, per selezionare delle élite che comandano effettivamente, perché per definizione il popolo nella sua numerosità, eterogeneità e incapacità di organizzarsi, non è in grado di prendere delle decisioni politiche, delle decisioni vincolanti per tutti. Lui ha citato Mosca, possiamo citare ovviamente Pareto, Michels, ha citato anche Michels, e in realtà molti di questi erano italiani. Questo andò a discredito ovviamente della democrazia e fu una base anche di movimenti totalitari; si formarono sulla base di questo i pensatori totalitari di quell’epoca, Karl Smith voglio dire, e poi i regimi totalitari di quell’epoca.
Da questa osservazione che è perfettamente ragionevole, e di cui bisogna tener conto, e di cui si è scritto in maniera enorme, in realtà bisogna partire per maturare un tipo di atteggiamento che invece è molto diverso, più disincantato, un atteggiamento diciamo più limitato nelle sue aspirazioni, che so, decidere le cose importanti di un grande paese, di una grande comunità, di un collettivo di individui mediante partecipazione eguale di tutti i cittadini, dove tutti hanno, grosso modo, ognuno pro quota il potere di dire qualcosa. Questo non è possibile: c’è qualcuno che riassume queste volontà, le esprime in sé, esercita dei poteri di mandarli in atto, ed è questa la democrazia possibile, salvo poi essere, tendenzialmente in un regime democratico e con successive elezioni, essere mandato a casa se le sue decisioni non hanno soddisfatto. Bisogna accontentarsi di una definizione di democrazia rappresentativa molto più moderata e molto più cauta, abbastanza scettica e accontentarsi di questa, fondamentalmente sapendo che la democrazia contiene in se stessa una base egualitaria, il mito della democrazia è la democrazia di tutte, è la democrazia delle assemblee greche, è la democrazia dell’agorà, eccetera, ma questa era già difficile, difficilissimo nell’Attica di Pericle, tanto per intenderci 2.500 anni fa, nel senso che già allora c’erano dei personaggi chiamati in greco demagoghi, e questi demagoghi erano coloro i quali avevano più peso nell’assemblea di tutti gli altri. Semplicemente, per la loro maggiore abilità, per la loro maggiore ricchezza, per il maggior tempo disponibile a esercitare la cosa pubblica rispetto alla gente che doveva spingere l’aratro, o imbracciare lo scudo dell’oplite per la difesa della comunità. Questi personaggi già guidavano e orientavano le decisioni, però le decisioni erano prese veramente da tutti, per alzata di mano: in una meravigliosa assemblea, in un meraviglioso stadio tutti prendevano questa decisione. Addirittura, in un paese enorme, un paese grande come questo, anche questa cosa in cui tutti, quantomeno all’atto formale della presa di decisioni, partecipavano, oggi ovviamente questo è impossibile, viene delegato ai rappresentanti e l’introduzione di rappresentanti introduce un elemento necessariamente aristocratico e selettivo all’interno della democrazia. Insomma, diciamo, questo elemento è insuperabile e bisogna rassegnarsi all’idea che è quella espressa da una famosa battuta di Winston Churchill: la democrazia è il peggiore dei sistemi decisionali possibili, salvo tutti gli altri.
Ecco, se uno medita le due frasi di questa endiadi, di questa doppia battuta: è il peggiore dei sistemi eccetera, e va a vedere perché è un sistema cattivo, perché è vero anche questo, e però pensa: è meglio degli altri, se uno riflette su questo a un certo punto può anche non dico accontentarsi del meno peggio, è buffo, è triste dover accontentarsi del meno peggio, valla a dire a un giovane una cosa di questo genere. Però può, evidentemente, capire molte cose e come ci si può adattare alla situazione in cui siamo e dico subito che non sono in grado di dimostrarlo adesso, perché il mio tema è diverso, ma volevo riallacciarmi alla bellissima introduzione di Gaiani perché questa è la cosa, e assieme a questo se va a vedere in profondità perché è così impossibile, uno si rende conto alla fine che la qualità di una democrazia, la qualità della partecipazione popolare dipende fondamentalmente da una cosa: dalla qualità delle popolazioni, delle comunità nella quale si esprime.
La democrazia dei norvegesi, o degli olandesi, o dei nordici, nonostante abbia tutti questi limiti, nonostante non siano tutti i norvegesi, tutti gli olandesi, tutti gli svedesi a partecipare attivamente alle decisioni, ma siano i loro leader, fondamentalmente, nonostante questo, il grado di controllo che ogni singolo norvegese, olandese o svedese esercita su questi leader, il grado di comprensione che questi hanno del perché i leader hanno preso quelle decisioni e non altre, e la qualità del dibattito che le ha accompagnate è così alto che in realtà, parlare di una democrazia migliore di questa non possiamo. Ma se la democrazia è fatta, diciamo, nello Zaire come si chiamava una volta la Repubblica Democratica Congolese, al suono dei machete e delle armi, o se viene fatta in paesi la cui cultura politica è violenta e altamente ideologica nel senso tradizionale del termine, eccetera, in cui non ci si capisce e nessuno esprime bene le proprie ragioni, ma c’è urlo, strepito, e c’è violenza eccetera, questa sarà una cattiva democrazia.
Quindi, noi avremo, nonostante i vincoli della democrazia, nonostante che il potere democratico affidato a tutti non è possibile perché deve essere uno o un ristretto gruppo a prendere decisioni che molto spesso devono essere prese in condizioni di fretta, di incertezza, di rapidità, di natura profondamente tecnica e quindi di competenza molto elevata di coloro che la devono prendere o devono farsi assistere, voglio dire, le decisioni vanno prese così, però se c’è dietro una popolazione consapevole, colta, educata, intimamente civile e democratica… La qualità della democrazia dipende dalla qualità delle popolazioni che tale democrazia esprimono.
E il tempo necessario per esprimere, per creare comunità di questo genere, è un tempo inevitabilmente lungo: alcuni paesi, pochissimi, ci sono riusciti in condizioni particolari, voglio dire in momenti particolari in Europa, eccetera, altri sono molto lontani da questo punto. E il cooptare la democrazia in paesi di questo genere, in paesi che non hanno avuto la lunga esperienza del liberalismo, nei paesi mussulmani, per esempio (si sta parlando di questo, ovviamente), importare lì la democrazia e pretendere che funzioni in maniera civile, che rispetti le due cose fondamentali che una democrazia anche con questi limiti deve rispettare, e cioè da un lato una ragionevole partecipazione di tutti, seppure in modo subordinato, alla presa delle decisioni, e dall’altro lato, l’altra cosa a cui deve rispondere una forma di governo, cioè che siano decisioni di buon governo. Cioè, fondamentalmente, che siano decisioni tali da esser prese in vista del benessere dei nostri figli e nipoti, di essere tali per cui il benessere materiale e morale delle popolazioni che si succederanno nello stesso territorio sia elevato, eccetera.
Quindi, buon governo e partecipazione attenta e critica, questi sono i due caratteri fondamentali di una democrazia, non decisioni da parte di tutti, questo è impossibile, ma neanche, il grande sbaglio degli elitisti, la tragedia degli elitisti dell’inizio del Novecento e della fine dell’Ottocento, dei Pareto, dei Mosca e dei Michels e di tanti altri, non parliamo naturalmente di Karl Smith eccetera, ma di coloro che fuggono dalla comprensione che una democrazia nel senso di partecipazione attenta, popolare e continua alla presa di decisioni non poteva esserci, saltare rapidamente al fatto: “e allora ci sia la dittatura”. Questo è l’errore tragico, cioè il fatto che la democrazia così come veniva vantata è una stupida falsità.
E guardate, la retorica alle volte fa sì che vengano dichiarate delle stupide falsità e in politica spesso avviene che le cose sono palesemente false, sperando che la gente sia scema e ci creda. Ma è un grandissimo pericolo non per il fatto stesso che queste cose sono false, ma perché la delusione che poi subentra ti può indurre ad abbracciare tesi ancora più pericolose. Cioè, dalla delusione subentrata dall’analisi dura e scientifica dei Mosca, Pareto, eccetera, che la democrazia come veniva vantata anche dai socialisti, dai socialdemocratici eccetera, non esiste e non può esistere quel tipo di democrazia lì, ha poi indotto gran parte della popolazione ad affidarsi a un dittatore, ha indotto sostanzialmente a fare il salto e non a forme ragionevoli ed equilibrate, rappresentative non della volontà politica di tutti, mediante istituzioni partitiche ragionevoli e base di dibattito.
Va bene, ma questo porta da un’altra parte e le cose le ho scritte e le ho già presentate quattro anni fa, quando è uscito il libro Capitalismo, mercato e democrazia, un libro del Mulino, a mia firma, fatto, grossomodo, da una lunga prima parte in cui espongo tutti i concetti fondamentali, e una seconda parte in cui ci sono dei testi di riferimento che sono molto importanti, che io ho trovato quanto meno molto importanti. E a questi mi affido per le considerazioni che stava facendo adesso Lorenzo Gaiani.
Lasciatemi dire due cose sulle parole troppo gentili usate nei miei confronti da Giovanni Bianchi, so che ci crede e so che sono guidate da ragionevolezza e affetto e per questo gli sono grato. Mi ha definito come una persona che non aspira al potere, questo vuol dire semplicemente che io non sono un politico, è molto semplice; cioè un politico deve aspirare al potere, deve, è il suo dovere, e non c’è libro più bello, più commovente che io consiglio a tutti per introdurre Max Weber, questo straordinario, meraviglioso pensatore, che è difficile, e proprio per questo non ha avuto la fama facile di tanti altri, Marx per primo. Ma, secondo me, è il più grande studioso di questi fenomeni e tanti altri. Tra l’altro, il fenomeno della religione. È un grandissimo pensatore delle religioni e in lui è chiarissimo che il termine carisma, il potere carismatico su cui si basa la vocazione, è tratto dalle religioni. E sulla sua analisi delle grandi religioni monoteistiche e di altre grandi religioni in Economia e società, questo librone di scritti, in parte editi e in parte inediti, che è stato fatto dopo la sua morte, ma è una cosa da leggere, è difficile, non vi prometto cose facili, però sono comprensibili da persone mediamente colte, libri di una bellezza sublime.
Ma il libro che tutte le volte che lo leggo, lo dico sinceramente, mi fa piangere per la commozione e la bellezza è questo libretto, è una conferenza che lui fece dopo l’enorme sconfitta, tragica sconfitta della Germania, che è Politik als Beruf, La politica come professione, come professione-vocazione perché le due cose sono insieme. De La politica come professione di Max Weber ci sono edizioni di tutte le case editrici. Cercate di prendere un’edizione che non abbia prefazione di nessun tipo. (Io ho letto quella con la prefazione di Cacciari che mi ha un pochino confuso le idee.) Cacciari è una persona molto intelligente ma segue un suo filone un po’ difficile. No, questo va letto come si legge un Vangelo, cioè come i protestanti leggono il Vangelo, non ha bisogno di prefazioni o di ispirazioni.
È un libro di una tale potenza, alla fine lo troverete molto commovente, ma all’inizio è praticissimo, spiega come è fatta la politica, spiega che chi non aspira al potere non può fare politica; però tra coloro che aspirano al potere ci sono due tipi, quelli che aspirano al potere di per se stesso e sono la grande quantità dei politici normali, e quelli che aspirano al potere perché hanno una grande idea, che sono alimentati da una vocazione, professano una fede. E poi nelle righe c’è scritto che anche tra coloro che professano una fede ci possono essere quelli che professano fedi giuste o fedi sbagliate. È questa la cosa. Però leggetelo, se soltanto vi do l’idea leggetelo, non leggete altre cose: e a leggere questo testo potrete capire la dimensione di Max Weber. Io di Max Weber sono totalmente innamorato, innamorato perso.
Quando ero giovane, grazie a un mio carissimo amico che è morto di recente che si chiama Vittorio Rieser, un grande compagno e amico di straordinaria capacità, che era abilissimo anche a fare dei calembour, delle battute. Nell’ultimo suo stadio politico era di Avanguardia Operaia, poi ha lavorato sempre per il sindacato, la CGIL, e faceva dei calembour delle battute bellissime, ed era un titolista straordinario nel giornale di Avanguardia Operaia. Per esempio, una volta che, sorprendendo tutti, la sinistra vinse le elezioni a Cinisello Balsamo, lui diede questo titolo, fidando sulla conoscenza e sulla cultura dei suoi lettori: “Il socialismo in un paese solo: il caso di Cinisello Balsamo”. Questa idea del socialismo in un paese solo era la difesa con cui l’Unione Sovietica si difendeva rispetto alle accuse di… perché siamo stati costretti a fare il socialismo, noi pensavamo al socialismo e al comunismo come movimento mondiale e ci siamo invece ridotti a un paese, per di più sottosviluppato, e non era certo la cosa che prevedevamo. Un’altra sua battuta, questa riguarda me, la diceva nei miei confronti, per dirvi quanto lui era un marxista naturalmente, poi è diventato più weberiano che marxista, e la battuta era: “Credete in Marx e sarete Salvati, con la S maiuscola”. Questo per dirvi che sono stato un marxista duro, anche perché allora sapevo il tedesco e quindi andavo in giro con i Grundgrisse che allora non erano ancora stati tradotti, a spiegarli al popolo, mettiamola così.
Di Max Weber, vi prego, prendete questo libretto, è piccolo, è una conferenza che lui fece ai cadetti militari a Monaco di Baviera, nel Venti, anzi all’inizio del Diciannove, insieme a un’altra grande conferenza (anch’essa pubblicata) su “La scienza come professione”: separa nettamente i due campi, la scienza è una cosa e se uno fa scienza praticamente si deve spogliare delle passioni; invece, chi fa politica deve avere una passione, una grande passione di affrontarla con la serietà di un grande religioso.
Va bene, questa era un po’ la cosa, di questo ne parlava lui. Io vi parlo, nella modesta conferenza che sto facendo che è questa. Allora, questo è un testo che è già uscito, io pensavo che fosse stato distribuito, invece non ce l’avete. In ogni caso, io non vi consiglio di leggerlo, no, intendo dire, uscirà in una rivista accessibile, uscirà su Stato e mercato che è una rivista del Mulino, diciamo in settembre, nel numero 2 di quest’anno, con tutte le sue note, eccetera. È un testo accademico e a modo suo, a differenza degli altri miei libri che ho presentato qui, quello sul Partito Democratico, questo qua su capitalismo e democrazia, e non è pensato per un pubblico colto, per il mitico pubblico colto, informato ma non specialistico. È pensato per specialisti di filosofia politica, scienza politica, economia; cioè si gode, se si gode ovviamente, soltanto se uno sa un bel po’ di cose di queste materie. Spero che sia leggibile anche senza. Lui è più che colto, è quasi specialista e, comunque, si riesce a leggere?
È stato scritto appunto per una grossa conferenza dei Lincei, fatta per festeggiare e onorare il cinquantesimo o il centenario della nascita di Max Weber e qui c’erano i maggiori specialisti tedeschi di Weber e io mi tediavo un poco perché affrontavano un tema sul quale io ho delle riserve critiche nei confronti di Max Weber. Ho delle riserve critiche sulla sua visione del capitalismo; tenete presente che lui visse il capitalismo nella sua fase di egemonia inglese, britannica, e quindi un capitalismo del Gold Standard, il capitalismo associato al colonialismo, l’imperialismo inglese fondamentalmente, poi la lotta fra i paesi, diciamo potenzialmente imperialistici, cioè la lotta tra l’Inghilterra, fondamentalmente la Gran Bretagna, da un lato, gli Stati Uniti alleati dell’Inghilterra ma in realtà in competizione con essa, la Germania, il Giappone, per dire dei paesi seri, e per i paesi meno seri la Russia di allora e il Giappone, meno seri, profondamente seri, ma meno potenti, ecco.
Questa lotta che poi sfociò nelle prima guerra mondiale e lui visse la prima guerra mondiale come partigiano, fanatico dell’impero tedesco, nonostante lui avesse moltissime crisi da liberale, seppur liberale di centro-destra, nei confronti dell’imperatore, del sistema. E questo va messo in piedi: lui visse lealmente e da partigiano, arrivando anche a frasi che non mi sarei aspettato e che ho letto; da parte di Max Weber scarsa obiettività. Poi la delusione bellica e poi questo periodo straordinario di risveglio intellettuale, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra in cui scrisse la famosa Costituzione, cui partecipò, non la scrisse lui, a tentativi di influire sulla Costituzione della Repubblica Democratica tedesca di Weimar e poi morì per una specie di spagnola, per una polmonite legata a questa epidemia postbellica. Morire a 54 anni, per noi è morire giovane, relativamente giovane, avendo prodotto una cosa sterminata.
Il mio problema è se tra le varie cose che lui scrisse e produsse ci sono delle riflessioni serie sul potenziale conflitto tra capitalismo e democrazia. Per lui il capitalismo è un effetto della modernità, sostanzialmente, e dei processi di razionalizzazione, che andavano avanti nel mondo e che avevano creato, diciamo, lo stato moderno, e con lo stato moderno la burocrazia moderna. Fondamentalmente, un sistema in cui un insieme che lui descrisse nella loro origine storica e che lui vide nella sua origine storica, voglio dire, che lui riporta al mondo protestante fondamentalmente, ma insomma l’origine storica. Cioè lui vede grossomodo che la modernità va avanti diciamo come modernità economica, e allora diventa capitalismo, è necessariamente capitalismo perché è il sistema che è massimamente in grado di organizzare in modo efficiente le risorse del paese in cui opera e ha dentro un molla motivazionale, la molla del profitto individuale, molto forte che lo porta a spingere avanti in tutti i modi l’innovazione scientifica che è un pezzo della modernità molto importante: Quindi, per lui il capitalismo, ma questo non diversamente da Marx, è la forma superiore che la divisione del lavoro e l’organizzazione dell’economia hanno assunto in fase moderna.
Questo è il capitalismo per lui con questa poderosa molla motivazionale e con quelle istituzioni che sono quelle che Marx aveva delineato in modo perfetto, e cioè il lavoro formalmente libero, in realtà salariato, e totalmente dipendente dall’assunzione da parte dell’impresa capitalistica la quale agisce, diciamo, in maniera cieca allo scopo di massimizzare i profitti. E fa questo, naturalmente, massimizza i profitti se inventa un insieme di prodotti che sono apprezzabili da una grande massa di persone, cioè se riesce a vendere questi prodotti a queste imprese che producono beni apprezzati sul mercato, apprezzati dalle persone, e quei beni che servono a fare i beni che vengono vendute alle persone, ma alla fine ha dentro questa carica molto importante rivolta al mercato e rivolta al benessere individuale e materiale delle singole persone.
I capitalisti sono quelli che organizzano in maniera più razionale possibile, sotto la spinta del profitto, l’organizzazione della produzione. Questo è il modo più razionale, vedete, poi l’esposizione è lunga, in cui si possa organizzare questo perché implica in se stesso la concorrenza. Cioè i capitalisti deficienti vengono spazzati via dal mercato e rimangono soltanto i più capaci. Quindi c’è questa molla poderosa, la spinta del profitto e l’eliminazione dell’inefficienza da parte della concorrenza. Tutte cose che naturalmente anche Marx aveva visto e che anche gli economisti di allora; e c’è un’enorme ricerca economica ancora in corso.
Questo è il primo pezzo fondamentale della razionalizzazione del mondo moderno. Il secondo pezzo fondamentale è la razionalizzazione dello stato, cioè di chi è in grado di esercitare violenza legittima, diciamo, nell’ambito di un territorio circoscritto. Lui spiega naturalmente che cos’è la violenza legittima, che cos’è la violenza arbitraria e che cos’è lo stato. Lo stato si basa poi sulla burocrazia. Sostanzialmente, la società ha elaborato un altro strumento poderoso: noi quando parliamo di burocratico lo usiamo come una brutta parola, ma la burocrazia in realtà è una delle manifestazioni più alte e più perfette della razionalità organizzativa moderna; la burocrazia ce l’ha l’impresa e la burocrazia, organizzata in modo solo lievemente diverso, ce l’ha lo stato e significa che il singolo burocrate è una persona che agisce secondo un insieme di prescrizioni e non transige rispetto a queste.
Purtroppo, in Germania non hanno esitato neanche quando le indicazioni burocratiche erano quelle di sterminare gli ebrei. Ma comunque, l’ideale dell’organizzazione burocratica è questa ed è una forma elevata di razionalità. Lui non se la prende sul fatto che non è razionale, se la prende col fatto che non ha anima. E non è richiesto, né al capitalista, né al burocrate avere anima; l’anima la deve avere il politico. E il politico idealizzato come lo vede lui: è una grande disgrazia quando il politico non ha anima, cioè quando non emergono, in una collettività politica, persone dotate di carisma. Per esempio, io non ho nessun dubbio che lui, rispetto alla rivoluzione di Renzi, qui parlo di una cosa… non rivoltatevi troppo, lui sarebbe d’accordo. Cioè sostanzialmente, grossomodo, dubiterebbe naturalmente, cosa che purtroppo dubito anch’io, che Renzi abbia dietro una vocazione che sia qualcosa di più del potere di per se stesso, che abbia dietro una visione che sia di più del potere di per se stesso. Perché per lui non ha vocazione chi vuole il potere a scopi soltanto di profitto, eccetera, il potere di per se stesso, ha vocazione colui che per la sua comunità politica ha un disegno.
Un disegno, per esempio, che aveva Weber per la sua comunità politica non era certo un disegno democratico, era un disegno di potenza, era un disegno di Deutschland über alles, questo era il disegno di Weber. Weber era un personaggio di questo genere, non era un democratico spontaneamente; accettò la democrazia come forma inevitabile di modernità e questo solo verso la fine della sua vita, solo quando vide che l’impero tedesco crollò sotto il peso delle sue contraddizioni e sotto il peso della sua irrazionalità. E trovava la democrazia un sistema altamente razionale purché venisse intesa come un sistema di selezione di élite adeguate. Questa è un po’ l’idea: nelle repubbliche democratiche ci devono essere élite adeguate.
In realtà, più che non lui, più che Max Weber, aveva ragione l’altro che sostenne la stessa idea trent’anni più tardi e che è ancora alle basi della scienza politica moderna, Joseph Alois Schumpeter, un grandissimo economista, che scrisse un saggio di scienza politica in cui fondamentalmente fece un paragone tra, grossomodo, politica e mercato, tra democrazia e mercato. La democrazia è come il mercato, cioè l’unico suo scopo è di presentare le sue mercanzie, i possibili leader, al popolo e il mercato li sceglie, grosso modo. Poi seguono regole ferree, diciamo di tipo democratico rappresentativo: se poi il popolo non è scontento li rielegge, se no li cassa.
La democrazia è questo e solo questo, la democrazia è un mercato politico che è una visione molto più modesta di quella di Weber, perché Weber voleva che le persone scelte dal popolo e capaci di farsi votare dal popolo, quindi usando tutti i trucchi possibili di natura demagogica, non aveva esitazione sui mezzi, fossero anche degli eroi e dei santi, lui pretendeva così. Molto scetticamente Schumpeter gli dice: ma queste sono persone capaci di guidare delle grosse macchine mediatiche e farsi votare lo stesso anche se sono dei mascalzoni. Questa è l’obiezione implicita che muove Schumpeter. La cosa pura e semplice è che la democrazia è comunque un mercato, la gente va davanti al popolo e, diciamo, offre la sua mercanzia, se stesso come leader, e il popolo può essere tranquillamente truffato da un imbroglione, e spesso è stato truffato dagli imbroglioni. È per quello che prima menzionavo l’Olanda o la Svezia, eccetera, perché quel popolo così colto, dotto e moderato è difficile farlo truffare da un mascalzone, non è un popolo come l’italiano… Non è il peggio, guardate, neanche in Europa non è il peggio, è quello che penso. Pensate a tutte le nuove democrazie dell’Est, voglio dire, pensate alla Grecia, eccetera. Io sono terrorizzato per quello che può succedere in Grecia, ve lo dico subito.
Quindi, la breve sintesi che vi ho dato su questo grande che vedeva la razionalizzazione che avanza, che avanza nell’impresa col capitalismo, che avanza nella politica e che avanza tramite lo strumento burocratico, tutti strumenti senz’anima, tutti grossomodo fenomeni che richiudono la civiltà in quella che lui chiamava la gabbia d’acciaio. C’è una famosa espressione di Schumpeter, “nella gabbia d’acciaio della razionalizzazione”. A lui non piaceva per niente la razionalizzazione, gli piacevano gli eroi, gli piacevano le vocazioni religiose. Gli scritti sulle religioni di Max Weber sono illuminanti, andrebbero letti, ma sono più difficili e che quando era così giovane abbia scritto cose così importanti lo trovo commovente, ma quel librettino credo che basti.
Allora, sono fenomeni che vanno avanti quasi indipendentemente dalla volontà delle persone che vi partecipano, diciamo l’impresa spinta dal profitto, la burocrazia spinta dalle regole che deve seguire, e guai se non segue queste regole, anche quando ordinano di sterminare gli ebrei, sto scherzando adesso, sto toccando l’estremo, I pezzi senza anima di una burocratizzazione che avanza, di un mondo che diventa sempre più anonimo, impersonale, burocratizzato e individualizzato, centrato su interessi individuali, eccetera, cose che lui odiava. E quindi chi poteva buttare l’anima lì dentro era il grande politico. Questa è un poco la sua visione, la visione di Schumpeter.
Ma sul tema che a me interessa fondamentalmente, che è quello del contrasto, diciamo tra due pezzi potenzialmente senz’anima che sono il capitalismo che va avanti, si espande; e sulla base del capitalismo lui è molto simile a Marx, cioè Marx l’ha preceduto in questo. In questo saggio io non faccio altro che grossomodo prendere i tre più grandi studiosi del capitalismo, che sono Marx, Karl Polanyi (poi dirò qualcosa di Polanyi) e Weber e confrontarli nelle loro analisi del capitalismo. Può essere utile questo mio pezzo, è comprensibile, ma un po’ faticoso, è un pezzo tendenzialmente fatto per un consesso di accademici, a quelli mi rivolgo, ma si legge e poi ci sono le indicazioni bibliografiche. E lì potete, se la cosa vi interessa e vi appassiona per vedere quanto è complicato il mondo, quanto è maledettamente complicato il mondo, trovare le indicazioni più semplici che sono riuscito a trovare di grandi libri che vi aiutano alla comprensione di questi grandi personaggi.
Ecco, veniamo al problema della democrazia, in questo mondo senz’anima, lui pensa che solo grandi politici democratici, singoli politici democratici, possano entrare. Ma la domanda che mi pongo io è una domanda che si sono posti un sacco di politici democratici, diciamo persone simili a noi che ancora hanno della democrazia qualche ambizione in più di eguaglianza, perché la democrazia parte, fondamentalmente, da una premessa di eguaglianza, cioè tutti eguali nelle decisioni che competono alle scelte politiche della propria città, del proprio paese, voglio dire. Se qualcuno ha ancora delle ambizioni, vuole legare alla politica qualcosa di bello, qualcosa che abbia a che fare con l’eguaglianza dei singoli cittadini, beh, non possiamo rassegnarci soltanto alla politica come mercato, in cui arriva un imbroglione o comunque arriva una persona che dice: votate me, votate me! Ricordate il pezzo di Totò: vota Antonio, vota Antonio! E i cittadini beceri votano Antonio.
Vorrei invece che ci fosse discussione, partecipazione democratica, voglio questo dalla politica. Ma se le cose stanno così, e il capitalismo che si sta espandendo su scala mondiale, come già diceva Lorenzo Gaiani, è qualcosa che rende possibile nella democrazia un qualcosa di democratico e in questo senso egualitario? E quali sono in una democrazia che sta nel capitalismo e il capitalismo che si sta mondializzando, sta diventando un sistema capitalistico mondiale? Non è che a un certo punto il capitalismo è diventato sistema mondiale, dà degli ordini di efficienza a cui l’Unione Europea obbedisce tecnocraticamente e senza democrazia, a sua volta l’Unione Europea dà degli ordini a cui i singoli stati, che pure sono democratici, almeno nel senso schumpeteriano del termine, nel senso che in essi si svolgono dei processi politici rappresentativi, in essi si svolgono elezioni, mentre in Europa non si svolgono perché sono una burla le elezioni per il Parlamento europeo perché il Parlamento non ha potere, mentre invece il Parlamento deve avere potere.
Quindi, guardate: il capitalismo internazionale dà ordini ai vari capitalismi nazionali, con il passaggio o meno di una Unione Europea tecnocratica, eccetera, che dà ordini ai singoli paesi, dovete fare questo, dovete fare quello. A questo punto i singoli paesi hanno una via stretta, l’ambito della loro discrezionalità su cui i cittadini possono interferire con le loro decisioni, con i loro voti, è molto ristretto. E in realtà le cose più importanti, quelle che più interessano i cittadini, le loro condizioni di vita, in realtà sono state predecise dal capitalismo internazionale e ritradotte in forme minuziose pesantissime dall’Unione Europea, dal fiscal compact tanto per dire una delle più impressionanti bestialità che si stanno compiendo adesso. Poi se volete ne parleremo.
Questa roba, questa gerarchia funziona non democraticamente. A questo punto si arriva all’ultimo stadio, che è quello quanto meno democratico in modo schumpeteriano, non democratico nel nostro modo idealistico, ma democratico nel senso che i cittadini sono chiamati una volta ogni 5 anni, o 4 anni, a dire la loro, a dire questa élite mi va bene, questa élite non mi va bene, questa è la cosa che dicono. Non è poco. E se i cittadini fossero informati e fossero persone con quelle caratteristiche che prima ascrivevo ai paesi colti e nordici, avrebbero già una loro influenza, ma a questo punto devono decidere su un qualcosa che è rimasto. Che cosa? Il 30-40%. Questo a livello nazionale per poi diventare il 5% a livello comunale. Va bene? Questa è la cosa che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Ma bisogna sapere che è così ed è molto difficile che così non avvenga e allora esistono speranze per una democrazia che sia qualcosa di diverso, di un po’ più egualitario, di un po’ più democratico in senso non schumpeteriano ma nel senso che porta avanti dei contenuti politici favorevoli alle popolazioni. Esiste la possibilità che la democrazia divenga una cosa del genere, oggi nelle condizioni di capitalismo internazionale, eccetera? Questo è il tipo di domanda che gran parte degli studiosi politici e gran parte dei ceti colti, voglio dire, nei paesi avanzati si pongono oggi.
E c’è un’enorme letteratura su capitalismo e democrazia, su come, diciamo, il capitalismo possa ingannare la democrazia; su come grossomodo il potere delle imprese possa, comprando i giornali, influire sul giudizio dei cittadini e quindi indurli a prendere decisioni sbagliate, su come più direttamente, ma senza influire sul giudizio dei cittadini quell’una volta ogni 5 anni che hanno il potere di esprimerlo, ma addirittura direttamente giorno per giorno, tramite condivisione di ambiente tra i potenti, tra i potenti dell’economia – sto parlando di un singolo paese – e i potenti della politica; col fatto che i potenti della politica vengono spesso a contatto con quelli dell’economia e sono influenzati direttamente da quelli dell’economia; dal fatto che, o in modo regolato tramite la regolazione delle lobby, come avviene negli Stati Uniti, o in modo meno regolato tramite i Cirino Pomicino, tramite i rapporti diretti che esistono tra i potenti dell’economia e i potenti della politica, continui. E questi, tramite il clima culturale generale che viene generato, tranne il fatto che alcune opzioni vengono escluse a priori, attraverso questi rapporti diretti, insomma c’è un modo di evitare cose di questo genere qua.
Allora, c’è una grande letteratura che dice: sì, c’è un modo di evitare cose di questo genere, è un modo difficile, soprattutto adesso che entriamo in un mondo totalmente globalizzato in cui la parte democratica è riservata agli stati. Alcuni stati funzionano, ma una buona parte di questi stati sono stati che non funzionano. Vedete, di recente un istituto internazionale benemerito che si chiama Freedom House, il quale istituto benemerito semplicemente cerca di fare il calcolo di quanti sono gli stati nl mondo a cui si possa ragionevolmente attribuire il titolo di stati democratici. E naturalmente c’è una serie di caratteristiche che questi stati democratici devono avere, alcune di queste caratteristiche non hanno a che fare con la democrazia in senso proprio, con l’espressione del voto, ma hanno a che fare con tratti liberali, grossomodo stati in cui ci sia un giudiziario, gli antichi tratti liberali di Montesquieu, ovviamente, ci sia una giurisprudenza che venga fatta da un corpo specializzato e non influenzato direttamente dalla politica, la divisione dei poteri quindi, l’esecutivo con la sua burocrazia che esegue ordini, sia separato dal legislativo, che invece ha compiti direttamente politici, eccetera. Cioè queste distinzioni sono rispettate in quegli stati in cui il grado di benessere o il grado di cultura, di diffusione della cultura, l’alfabetizzazione sia sufficientemente diffusa, in cui la stampa sia libera, voglio dire. Freedom House guarda a queste caratteristiche e dice quali stati sono democratici e ne fa una scala ovviamente, perché son tutte caratteristiche che non hanno a che fare con un sì o un no, democratico o non democratico, ma uno stato il più possibile vicino al rispetto di questi vari caratteri o decisamente lontano da questi. D’accordo?
Per esempio, per molti aspetti l’efficienza, il grado di alfabetismo, eccetera, Singapore è uno stato che rispetta questi caratteri, benessere popolare eccetera, rispetta questi caratteri, ma c’è il piccolo difettino, come dicono a Modena, che le elezioni danno sempre lo stesso risultato, gestito dal Partito d’Azione Popolare figlio dopo essere stato diretto per 40 anni dal PAP padre. Però è uno stato dove non c’è corruzione; sono piccoli particolari, la corruzione è un grande ostacolo per la democrazia, ma lì non c’è corruzione. Allora, per non avere corruzione siamo costretti ad avere il PAP?
C’è uno che va per la maggiore adesso, uno studioso ebreo laico, che scrive sulla corruzione sul Corriere della Sera, contro la corruzione, per l’efficienza, eccetera: è Roger Abravanel, un personaggio, a mio modo di vedere nefasto, ma scrive bene e ha fatto di recente un peana, ma poi ha detto alla fine che c’è un piccolo difettino, che non è democratico, un peana su Singapore: effettivamente, colpisce il fatto che questo era lo stato più corrotto del mondo nell’immediato dopoguerra e che è diventato un paese che dal punto di vista della corruzione è subito dietro, fate conto, alla Finlandia, all’Olanda, cioè è il quinto paese in cui la percezione della corruzione, non esattamente il non essere corrotto, è tra le più basse del mondo. È anche uno stato di dimensioni ridotte, ma anche la Svezia e la Finlandia hanno 5/6 milioni di persone, voglio dire.
Insomma, tutte queste caratteristiche hanno questi paesi, e la cosa curiosa è che dal punto di vista del successo della democrazia tutti amano fregiarsi del nome democrazia e guai se dici a Mobutu di non essere democratico, si offende. E il numero degli stati che passano questi test di democrazia, questi caratteri che sono un insieme, vi dicevo, di democrazia, di espressione di volontà popolare, e di liberalismo, di costituzionalismo, sono diventati molto numerosi: se fate conto, su 180 stati, 120 passano col 6 meno, no, gli ultimi passano col sei meno, e alcuni arrivano all’8 più, rispetto a questi test fatti da Freedom House.
Proprio in questo momento qua noi ci lamentiamo, e giustamente, della democrazia che noi abbiamo: siamo profondamente insoddisfatti e che esiste un contrasto molto forte tra l’efficienza capitalistica e la democrazia. Guardate che questo contrasto tra ricchezza e democrazia, può essere vista dai più, non dico cinici, ma dai più realisti tra questi studiosi, a cominciare da Aristotele, e la cosa che dicono: guardate, la democrazia è quando al potere ci sono i poveri o i loro rappresentanti e bastonano i ricchi e l’aristocrazia è l’altra cosa, poi la monarchia è quando ce n’è uno solo, fondamentalmente.
E allora queste sono le caratteristiche dei singoli stati, ma una cosa di fondo, e che preoccupa di più, è che la democrazia come scelta popolare, con tutti i limiti che ha nei paesi più forti e negli altri meno forti, può venire solo all’interno di stati autonomi, mentre invece il grande problema è che il capitalismo è una forza sovranazionale che induce gli stati ad attenersi a certe regole altrimenti non hanno successo economico. E siccome il successo economico è a sua volta una base per il successo popolare perché se tu hai successo economico ovviamente puoi distribuire beni ai tuoi cittadini e quindi puoi vincere facilmente le elezioni, praticamente il regime capitalistico ti impone una cosa di questo genere. E questo moto è indotto, questo moto, diciamo, internazionale che limita o circoscrive, mette delle barriere ai poteri degli stati nazionali, mette delle barriere ai poteri della democrazia, è veramente un moto poderoso che si è realizzato in maniera straordinaria a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso.
Allora, di questi problemi era sensibile Weber? Cioè Weber si poneva il problema di potenziale conflitto tra capitalismo e democrazia? O sul fatto che possono non andare nelle stesse direzioni? La mia risposta (io non conoscevo in realtà gli scritti politici di Weber, li ho letti, studiati e poi mi sono fatto anche aiutare quando ho scritto questo saggio che mi è costato una gran fatica) è: tendenzialmente no! Era un liberale, era un democratico nel senso limitato di questo termine, eccetera, ma nel conflitto vedeva democrazia, la democrazia schumpeteriana, capitalismo e burocrazia come parti di un moto dell’intero mondo verso la modernizzazione. Ne era preoccupato e pensava che soltanto il carisma di alcuni individui eccezionali in singoli paesi dove c’era la democrazia potesse salvarla.
Ma di questo conflitto non era consapevole e cerco di dimostrare questa tesi nella quale, appunto, non entro dentro; è una cosa che faccio, fondamentalmente, in due passi fondamentali. I due passi sono i seguenti: uno è l’analisi, diciamo breve, l’analisi storica delle due grandi fasi che il capitalismo ha attraversato in questo secondo dopoguerra, la fase diciamo democratica, la fase benefica, i trent’anni gloriosi, per intenderci, a guida e a egemonia americana naturalmente, ma a egemonia dei liberal americani che avevano appreso molto di come era andato il mondo tra le due guerre, sul fatto che la democrazia era stata battuta ed erano arrivati degli stati dittatoriali. Avendo appreso questa lezione, e qui vediamo delle cose che vi ha già anticipato Gaiani, avendo appreso questa lezione gli egemoni americani del periodo liberal, che va da Truman, Eisenhower eccetera fino a Jimmy Carter, l’ultimo di questi, si può valutare in un certo modo: cercavano di tenere insieme, se non la democrazia, quanto meno lo sviluppo economico e le istituzioni liberali, quindi fondamentalmente che dessero garanzia di dignità all’individuo e garanzia di mantenimento delle tipiche istituzioni del liberalismo costituzionale, cioè quelle di Montesquieu: magistratura indipendente, divisione dei poteri, cose di questo genere, insomma istituzioni liberali, dello stato liberale nella sua grande tradizione costituzionale, sviluppo capitalistico, cioè crescita del benessere attraverso lo sviluppo delle imprese, e benessere popolare. Questo il punto di fondo, benessere popolare, e quindi anche favori per le istituzioni dello stato di benessere.
Cosa che fecero tutti gli stati americani ed europei, in modi molto diversi; ma guardate sia partiti politici, sia correnti politiche, in questi lunghi trent’anni, in questi trent’anni gloriosi, sia partiti politici che si ispiravano al socialismo, ma sia anche altri che si ispiravano ad altre correnti culturali: la Democrazia Cristiana non fu solo un partito politico, in Germania e in Italia si ispirava agli stessi valori, a tenere insieme queste tre cose, a tenere queste tre palle sospese insieme: stato liberale e istituzioni liberali, capitalismo, benessere popolare tramite lo stato di benessere; e ci riuscirono. Cioè questi furono i trent’anni più benefici per la gente comune, per i poveri, che siano mai esistiti sulla faccia della terra, ma proprio a livelli imparagonabili con altre fasi storiche, e ci riuscirono.
Uno potrebbe maliziosamente dire che ci riuscirono perché dall’altra parte c’erano i comunisti nei quali, al momento, non si vedevano i guasti della non democrazia, delle non elezioni, poi si videro sempre più spesso. All’inizio, diciamo, l’impulso della pianificazione sovietica fu fortissimo e quando andò lo Sputnik nel cielo fu una tragedia per gli Stati Uniti, e poi Gagarin, la cagnetta Leika, eccetera. Cioè la potenza dell’Unione Sovietica non era un’economia efficiente ma sul lato militare, e poi, tranne la nomenclatura molto, molto ristretta e comunque non a livelli di benessere incredibili, fondamentalmente il grado di eguaglianza nella distribuzione della povertà era molto simile; e comunque di un decente livello di vita e di un alto livello di istruzione, tecnica soprattutto, non certo un’istruzione critica voglio dire, l’Unione Sovietica fu straordinaria.
Quando tu hai come competitore dall’altra parte un paese che, pur povero, però dal punto di vita militare è diventato così potente che ha sconfitto i nazisti, Stalingrado, l’idea di cos’è stato Stalingrado, solo i più vecchi tra di voi sanno, ma neanche loro, voglio dire, hanno in mente: i nazisti vennero in realtà sconfitti con costi umani inenarrabili dall’Unione Sovietica, Stalingrado! Questo è un libro che dovete vedere tutti quanti su quella battaglia.
Dall’altro lato i filo-capitalisti, gli americani, dovevano darsi una bella regolata: ebbero la fortuna di trovare degli straordinari intellettuali, di cui il primo, di gran lunga superiore a tutti, fu Keynes, che criticarono l’economia neo-classica di allora e diedero gli strumenti per poter creare benessere diffuso, per rendere compatibile liberalismo, ostacoli all’istituzione dello stato liberale, benessere (non sto parlando di democrazia adesso), sviluppo capitalistico e democrazia nel senso di benessere popolare. Questa è la cosa, tenere insieme queste tre palle, sono tre palle difficili da tenere insieme. Questo semplicemente perché ebbero la straordinaria idea di organizzare il mondo a Breton Woods, ancora prima che la guerra finisse, in maniera tale da porre equilibri molto forti allo scatenamento delle forze capitalistiche a livello mondiale, sostanzialmente bloccarono l’esportazione internazionale libera dei capitali. Questo fecero; era regolata, alcuni capitali potevano essere esportati, altri no, questa era un po’ la cosa che venne fatta. Fin quando non ci fu una reazione da parte dei capitalisti rispetto a questo arrangiamento e non ci furono, grossomodo, le prime crepe di questo straordinario edificio di questi trent’anni.
Qui praticamente illustro quali sono queste prime crepe e come si manifestarono, di come in realtà ebbe ragione un grande economista che si chiamava Michał Kalecki quando diceva: signori miei, se il capitalismo riuscirà a evitare l’inflazione, a evitare, diciamo, pretese popolari sempre superiori alle risorse disponibili e quindi pretese che generano inflazione, e si accontenterà di una ragionevole e anche equa distribuzione di ciò che effettivamente il capitalismo produce, quante volte sentite dire questa roba qui: non ci sono i soldi, non ci sono i soldi e voglio dire se tu fai una cosa anche se non ci sono i soldi o vai a debito, cosa che, grossomodo, socialisti e democristiani nel loro infausto connubio nella seconda fase del centro-sinistra fecero, o vai a debito e gravi sui figli e sui nipoti, ed è la situazione in cui ci troviamo ora, o crei inflazione, cioè prima dai i soldi poi questi vanno per spenderli e i prezzi dei beni aumentano. E quindi i soldi li togli in termini reali. Cioè, se tu non distribuisci quanto puoi distribuire, cioè se tu non distribuisci quanto hai prodotto effettivamente, se tu non dai in proporzione della tua efficienza come produttore e della tua competitività come produttore, allora il debito pubblico, il disavanzo pubblico e l’inflazione sono conseguenze necessarie.
E noi, data la scarsa lungimiranza, la scarsa capacità dei nostri reggitori della prima repubblica, io, questo vanto della prima repubblica, questo osanna alla prima repubblica, è vero che dopo è venuto Berlusconi e siamo stati peggio, però questo osanna alla prima repubblica, guardate, io lo trovo demenziale. La prima repubblica ha lasciato il debito pubblico a quel livello perché era un sistema di governo nel quale il controllo dell’efficienza e della distribuzione dei benefici a seconda di quello che effettivamente era prodotto, questo non c’era. Ed è fondamentale che i guai in cui siamo ora adesso, dover tirare la cinghia, eccetera, è dovuto tutto ai guai della prima repubblica a cui la seconda repubblica non ha rimediato, ovviamente perché Berlusconi ha continuato con lo stesso andazzo. Diciamo che aveva carisma ma non il carisma del leader, del grande leader, aveva leadership ma non aveva carisma. Questa è un poco la cosa.
Questa è un poco la situazione. Io descrivo perché si rompe quel meraviglioso equilibrio che aveva consentito di tenere le tre palle della democrazia, dello stato liberale e dello sviluppo capitalistico sospesi in aria insieme, si rompe questa roba qui e a questo punto entra la vendetta del capitalismo. Reagan e Thatcher. Guardate, è una svolta politica importantissima che avviene prima in Inghilterra, ma l’Inghilterra non conta nulla perché non è più un’egemone mondiale, ma poi a seguito avviene nei paesi anglosassoni, avviene negli Stati Uniti ed è pilotata dalla élite statunitense che non è più l’élite consapevole dei guasti tra le due guerre mondiali, non è più l’élite liberal, non è più l’élite keynesiana; guardate, è un attacco che viene fatto dagli economisti teorici contro gli economisti keynesiani e viene fatto invece a livello popolare.
Friedman è noto perché è un grande economista teorico anti-keynesiano, ma il libro che fece più impressione negli Stati Uniti e fu un pezzo della campagna elettorale, fu un libro fatto da lui e da sua moglie che si chiamava Rose, il libro si chiamava, con un titolo famoso, Free to choose, Liberi di scegliere, ed è un’apoteosi del liberalismo duro e puro, poi dopo il benessere viene automaticamente, un’apoteosi di un’idea falsissima che tu devi scatenare l’energia dei singoli imprenditori, togliere tutti i possibili controlli e il benessere, anche per le masse popolari, arriva autonomamente. Il benessere delle masse popolari non deve essere un esercizio democratico e di controllo da parte del potere politico, ma viene spontaneamente erogato se lasci libero il mercato.
Questa idea, che è un’idea che ha vinto, e continua tendenzialmente a vincere, e mi dispiace cui gran parte dei miei colleghi, e alcuni dei miei colleghi tecnicamente più bravi, danno credito, fondamentalmente Alesina e Giavazzi, tanto per intenderci, avete presente l’infausta coppia Alesina e Giavazzi, Giavazzi con più attenzione e Alesina invece con maggiore fiducia in se stesso, eccetera, che io ritengo sbagliata come idea. No, il benessere delle masse popolari lo devi volere e ci deve entrare di mezzo lo stato, il che porta con sé una serie di altri problemi: se si mette di mezzo lo stato, si mettono di mezzo i partiti politici i quali possono andare nella direzione di un grande carisma in accordo a una grande visione, o andare nella direzione di Berlusconi, o andare in qualsiasi direzione perché se si mette dentro lo stato, perché non sei sicuro che il mercato riesca a distribuire in maniera equa le risorse, vai incontro a potenziali guai. Insomma, il mondo è complicato.
Detto questo, vinsero loro, hanno vinto questi altri e nella seconda parte empirica di questo paper racconto quali sono state le caratteristiche della vittoria. Allora, vi descrivo semplicemente il quadro e semmai ci torniamo in un secondo momento. Questa è la prima parte, la prima parte empirica, dove racconto una storia, la storia del grande trentennio benefico e del secondo trentennio neo-liberale, aggiungendo un piccolo particolare. Guardate, noi ce lo abbiamo il secondo trentennio, quello che comincia, grossomodo, negli anni Ottanta e non è stato certo gentile e benefico per noi e specialmente per quelli di noi che erano stati mal condotti e mal guidati e quindi erano in condizioni di debito, di inflazione quando parte il secondo trentennio. La colpa è nostra per molti aspetti nei singoli paesi. Per darvi un’idea, semplicemente, mentre noi abbiamo esperienza di minor benessere e di minor crescita del reddito rispetto al primo trentennio post-bellico, trentennio a basso sviluppo, guardate che questa non è l’idea a livello mondiale; se voi andate a vedere la crescita del reddito, la crescita del benessere, o del non malessere, complessivo a livello mondiale, se ci mettete dentro Cina, India e altri paesi, guardate che i secondi trent’anni sono stati anche di maggior crescita economica dei primi trent’anni, e che ha coinvolto migliaia di persone, con grandi diseguaglianze interne, eccetera, però questo è quello che è avvenuto. Quindi quando noi parliamo male del secondo trentennio tenete conto di questo piccolo particolare, se non siamo egoisti e non ci interessa soltanto il benessere dei paesi già ricchi, ma ci interessa invece il benessere di tutta l’umanità. Quindi, mettiamoci sempre un punto interrogativo, esclamativo.
Detto questo è indubbio che il secondo trentennio è stato un trentennio nel quale alcune delle conquiste che erano state fatte nel primo trentennio vengono, quanto meno, limate, non eliminate del tutto, lo stato di benessere non è stato eliminato del tutto, l’istruzione pubblica non è stata eliminata del tutto, la sanità, viviamo ancora in condizioni in Europa quanto meno, dove avevamo ottenuto condizioni di sanità pubblica buone. Non solo: persino negli Stati Uniti, che è un paese estremamente ostile alla sanità pubblica, è ancora avanzato, e di fatto non c’è ancora una sanità pubblica, è avanzata un’idea di welfare sanitario decente, eccetera. Quindi direi che le conquiste dei paesi capitalistici avanzati sono state temperate, limate, lievemente ridotte in alcuni casi, eccetera.
Ma soprattutto quello che è successo è che la piena occupazione se n’è andata, se n’è andata perché in molti di questi paesi, non in tutti, il grado di concorrenza che noi affrontiamo, sia rispetto a paesi straordinariamente avanzati a livello, diciamo, scientifico, di innovazione tecnologica come gli Statti Uniti, sia rispetto a paesi che hanno livelli salariali molto più bassi dei nostri, e però hanno anche insieme capacità competitive e di innovazione e capacità organizzative, capacità capitalistiche molto elevate, come la Cina… La Cina è una doppia disgrazia per noi: è da un lato un paese a bassi salari e dall’altro lato è un paese che sforna milioni di ingegneri all’anno, questa è la Cina e che è in grado di innovazione tecnologica straordinaria, e quindi parallelamente a questo aumentano i salari, ma non aumentano con la stessa velocità con cui aumenta il loro grado di… mi spiace ma ci sono delle robe per cui devo dare delle volte ragione persino a Tremonti. Ma quando Tremonti se la prendeva col fatto che la Cina fosse stata inclusa nel WTO non aveva tutti i torti, un rallentamento dell’ingresso della Cina ci avrebbe fatto molto bene. Ma il nostro problema adesso, dal punto di vista del nostro benessere, è rallentare, non eliminare, cioè fare in modo, grossomodo, che lo sviluppo capitalistico nostro possa avvenire senza grandi disgrazie, senza che la Whirpool, notizia di oggi, sbaracchi 600 posti di lavoro, cose di questo genere. Questa è un poco la cosa, è proprio un problema di… se esistesse una pianificazione mondiale che regolasse l’avanzamento degli uni e, diciamo, un ritiro graduale degli altri, ma questo non c’è. Non è possibile
Detto questo, questo è il problema, questo per dirvi che il mondo è in una fase di tumultuosa crescita con rischi poderosi, di nuove crisi finanziarie, eccetera. Allora descrivevo nella seconda parte empirica questa roba qui e poi affrontavo i tre più grandi studiosi dello sviluppo capitalistico, che sono Marx, Polanyi e Weber, dicendo che Weber non è riuscito a risolvere i problemi, Polanyi è quello che ha centrato di più e che Marx per alcuni aspetti, su alcune robuste acquisizioni, è ancora uno studioso da studiare, da studiare profondamente. Polanyi è quello che mi è più vicino come visione del mondo perché è un riformista, un riformista che centra perfettamente il problema del possibile conflitto tra capitalismo e democrazia, e quindi vede dove è possibile riformare.
Questa è più o meno per intero la cosa del mio scritto. Volevo adesso semplicemente leggere l’ultimo pezzetto del mio saggio, un pezzetto che riguarda il futuro. Va sotto un’ultima nota che si intitola: “È un allarme”.
….“Assolto il compito che mi ero proposto non credo che sia il caso di riassumere argomenti che sono già stati espressi in modo conciso in precedenza. È piuttosto il caso di annodare un filo che avevo lasciato pendente nell’introduzione; qui avevo affermato che il motivo per il quale gli attuali critici del fondamentalismo di mercato non si rivolgono a Weber, poteva anche non risiedere in alcuni ostacoli rintracciabili nella sua opera, bensì in orientamenti politico-ideologici o categorie di cui fanno uso gli stessi critici. Ovviamente, non si tratta di un’alternativa, possono essere veri entrambi i motivi e a mio avviso lo sono. Che esistono seri ostacoli ad arruolare Weber come critico del fondamentalismo di mercato è quanto ho appena sostenuto. Non è un critico del fondamentalismo di mercato e delle conseguenze che può avere sulla democrazia. Ho anche suggerito, accennando a Strech a proposito di Marx, e a Block e Somas a proposito di Polanyi, che i riferimenti potrebbero essere moltiplicati, che le loro analisi teoriche e i loro riferimenti storici non sono esenti da critiche serie. Cioè coloro che ce l’hanno con il fondamentalismo di mercato dovrebbero stare attenti perché, diciamo, anche loro sbagliano. I problemi del conflitto tra capitalismo e democrazia e tra democrazia, complessità e internazionalizzazione restano drammaticamente aperti e lo dimostra una letteratura sulla crisi, enorme. Se si desidera, e se si ritiene possibile, si tratta di un insieme di una scelta di valori e di una valutazione di possibilità, restare nell’ambito della civiltà moderna, quelli che siamo noi, a partire dalla Rivoluzione Francese, il problema è quello di rendere compatibili tra loro le istituzioni che definiscono la modernità stessa, lo stato liberale, la democrazia rappresentativa e l’economia capitalistica: sono le tre grandi istituzioni della modernità.”
Io avevo presentato anche un libro che avevo scritto con Salvatore Veca e Alberto Martinelli, Progetto 89, ed è lì che è descritta la modernità.
….“Sono le istituzioni (le cose che diceva lui, e giustamente è andato a centrare il punto cruciale) che lasciate le loro logiche interne tendono a entrare in conflitto e ciò vale sopratutto, ma non soltanto, per capitalismo e democrazia. Rendere compatibili vuol dire definire configurazioni storiche concrete che limitano il conflitto tra di esse ma senza snaturare la logica interna di ognuna, essendo consapevoli che rispetto a qualsiasi configurazione concreta, a qualsiasi proposta di conciliazione tra queste tre palle, ci saranno sempre legittime obiezioni. Ci sarà sempre chi sostiene che il capitalismo, passato attraverso il letto di proposte della sua compatibilità con la democrazia e del benessere delle grandi masse, perde il suo potere di innovazione; e che la democrazia, le sue straordinarie capacità di innovazione e di allocazione, passata al vaglio del capitalismo perde il suo afflato egualitario; e che le stesse istituzioni politiche liberali sarebbero compromesse da una forzatura in senso democratico (il potere veramente al popolo, tanto per intenderci, una roba alla Grillo, cliccate, cliccate).
“Chi scrive è di avviso diverso, l’avviso riformista, è vero che gli adattamenti da apportare alle nostre istituzioni, al fine di farle convivere senza eccessivi attriti, sono significativi e che ne contrastano l’evoluzione incontrollata, ma non credo che ne altererebbero in modo radicale la ragion d’essere, lo spirito, il contributo alla modernità. Il problema è piuttosto un altro: che le forze a sostegno di un disegno riformistico sono deboli, in un mondo in cui nessuna potenza è in grado di esercitare per interesse proprio quel ruolo di dittatore benevolo che dopo l’ultima guerra mondiale esercitarono gli Stati Uniti, spaventati dall’Unione Sovietica e questa debolezza, in un’analisi realistica, rende possibile questa debolezza, questo mancato comando benefico a livello mondiale (ormai si ragiona in un villaggiomondiale e comandato dagli Stati Uniti, ci sono libri straordinari su questo) rende possibili esiti drammatici. È vero, le istituzioni della modernità hanno resistito per oltre due secoli fra periodi di pace e di guerra, tra progressi e regressi, ma hanno resistito nel contesto dell’Occidente. Ora si tratta del mondo intero nel quale alcune delle maggiori potenze, specie le potenza del futuro, non sono state protagoniste della lunga storia della modernità, dalla Rivoluzione Francese in poi e alle quali il progetto del moderno, l’idea liberale fondamentalmente, dice poco.”
È uno scenario drammatico, in condizioni di scarsità di risorse e di conflitti per accaparrarseli, il behemoth dell’anarchia e il leviatan sono i due mostri simbolici (il leviatan è quello di Hobbes, il behemoth è meno noto perché è il mostro dell’anarchia fondamentalmente, sono poi due figure bibliche). Il behemoth dell’anarchia e il leviatan dell’autorità assoluta potrebbero facilmente avere ragione delle istituzioni della modernità che sono molto delicate, lo stato liberale, eccetera. Come direbbero gli economisti libertà, uguaglianza e democrazia sono beni di lusso, di cui si può fare a meno in una situazione di emergenza. Si è fatto a meno, pensate in una situazione anarchica, in una situazione bellica: chi pensa alla democrazia quando c’è la guerra?
Va bene. Grazie