“Sinistra. Una parola, molti problemi”, così recita in modo inequivocabilmente assertivo l’incipit posto ad esergo dell’introduzione all’agile testo “Sinistra” del professor Carlo Galli, già docente di Storia delle dottrine politiche presso l’università di Bologna, il quale nel suo saggio reca anche il sottotitolo dirimente “per il lavoro, per la democrazia”. Così è posto immediatamente sul piatto del lettore il problema storico della sinistra italiana: e cioè quello dell’antinomia che la caratterizza e che la colloca pertanto tra una indiscutibile vocazione progressista ed invece una altrettanto evidente tendenza alla conservazione, tra la ricerca di un mondo diverso (forse migliore) e la resistenza passiva o peggio l’adeguamento acritico verso ogni forma di innovazione.
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1. premessa di Giovanni Bianchi 08’32” – 2. introduzione di Andrea Rinaldo 20’07” – 3. relazione di Carlo Galli 1h23’20” – 4. domande 15’27” – 5. risposte di Carlo Galli 28’04” – 6. domande 8’04” – 7. risposte di Carlo Galli 37’36”
Testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo a Carlo Galli
SI PUO’ ANCORA CONSAPEVOLMENTE DICHIARARSI DI ” SINISTRA”?
Uno. Non solo una questione di termini
“Sinistra. Una parola, molti problemi”[1], così recita in modo inequivocabilmente assertivo l’incipit posto ad esergo dell’introduzione all’agile testo “Sinistra”[2] del professor Carlo Galli, già docente di Storia delle dottrine politiche presso l’università di Bologna, il quale nel suo saggio reca anche il sottotitolo dirimente “per il lavoro, per la democrazia”. Così è posto immediatamente sul piatto del lettore il problema storico della sinistra italiana: e cioè quello dell’antinomia che la caratterizza e che la colloca pertanto tra una indiscutibile vocazione progressista ed invece una altrettanto evidente tendenza alla conservazione, tra la ricerca di un mondo diverso (forse migliore) e la resistenza passiva o peggio l’adeguamento acritico verso ogni forma di innovazione. Scorrendo le pagine vergate dal docente modenese si comprende immediatamente come il problema principale sia quello della “crisi di identità della sinistra”, la quale ha radici ben profonde e probabilmente da mettere in stretta correlazione anche con le difficoltà generate dalle sue diverse “anime” (spesso contrastanti) che hanno caratterizzato da sempre quest’area politica. Nella temperie attuale poi della “speranza” post ideologica sembrerebbe che nessuno abbia più alcuna convenienza a definirsi “comunista”, e neanche con riferimento a quel genere politico relativamente più prossimo e meno impegnativo chiamato semplicemente “sinistra”. Si potrebbe dire tutta roba da “gufi rosiconi”. Cascami di obsolete ideologie novecentesche che mal si attagliano ai tempi nuovi della politica 2.0. Un tweet vi sommergerà! Tuttavia – dice Galli – “...non c’è più nemmeno l’ombra di un’egemonia culturale di sinistra…”[3], con buona pace dell’assunto gramsciano, anzi a conferma del gran “cambio di passo” è relativamente recente la notizia della chiusura della testata cartacea de “l’Unità”, fondata circa novant’anni fa proprio dal politico sardo. Ma torniamo all’esegesi del testo. Due “sinistre” si sono storicamente confrontate: una sinistra borghese ed una sinistra sociale di classe, rappresentate per la gran parte in quella solida forma organizzativa che per svariati anni è stato il Partito Comunista Italiano. Volutamente l’autore tralascia invece il tema della c.d. “sinistra cattolica”, la quale ha avuto una sua evoluzione particolare. Con i suoi miti e i suoi riti, con le sue coerenze e le sue profonde contraddizioni la sinistra vive attualmente una stentata stagione nei luoghi politici ed associativi dei “post” (e probabilmente dei non ancora “oltre”). Essa è all’attualità un “mammut ibernato” o un “mostro” evocato ad arte dalla destra capace ancora di suscitare paure ataviche nei ceti medi borghesi? Una delle tesi del testo che stiamo oggi analizzando è che il “dualismo” interno alla sinistra sia costitutivo della sua storia, un’altra tesi strettamente collegata alla precedente è che in questo dualismo la sinistra debba ancora oggi collocarsi, conservando le feconde tensioni politiche che lo hanno generato, un’ultima pista di riflessione è il nesso sussistente tra “soggettività, lavoro, libertà, politica”.
Due. Se la filosofia può aiutare
Il presente ha radici lunghe e il lavorar per “mappe” di Galli, intrecciando matrici storico-filosofiche con la politica è terribilmente serio, poiché si tratta della ricerca in maniera non banale all’interno del complesso delle relazioni umane del nesso tra le stesse e con il potere, in sostanza della costruzione di quell’ “orientamento” ottenuto per discernimento che permette successivamente di andare un po’ più lontano. Una riflessione disincantata però, “realista”, nel senso di saper considerare oggettivamente la realtà del contesto e da questa muovere per costruire nuovi possibili contenuti politici. In questo senso la filosofia moderna diventa utile per comprendere la storia e la politica: infatti poiché la sinistra è la denominazione di una “Parte” rispetto al “Tutto”, le sue caratteristiche intrinseche, le sue relazioni con il contesto, le sue capacità di azione politico-istituzionale, si possono cogliere attingendo dalle principali tradizioni filosofiche moderne. L’attraversamento del pensiero razionalistico-liberale, di quello dialettico particolarmente nel marxismo e di quello negativo diventano pertanto indispensabili alla sinistra attuale per comprendere ed agire dentro una cornice neoliberista. Così nello Stato liberale prende forma l’interesse privato del soggetto ma questa dinamica è possibile perché l’agire economico dell’ homo faber è sorretto e guidato dalla politica ed è sotto il raziocinio della legge; altri liberali pensavano invece che lo Stato dovesse fare un passo indietro e che la politica del lassez faire fosse di per sé sufficiente a determinare un ordine sociale “naturale”. Ma mentre il razionalismo liberale postulava l’esistenza dello Stato in quanto necessario per lo sviluppo armonico della società, nella visione dialettica marxista vi sarà invece la soppressione dello Stato stesso divenuto dopo la conquista del socialismo reale irrilevante; infine nel pensiero negativo le due parti “destra” e “sinistra” si equivalgono, e la politica non rappresenta certo un progresso tangibile in grado di modificare il Nulla dell’esistenza. Le tre visioni filosofiche del mondo citate conducono a interpretazioni differenti e a diversificate come conseguenze tra le Parti e il Tutto, cioè ad una molteplicità di risposte alle sfide dettate dalle contingenze storiche, ed anche ad una contaminazione dei pensieri filosofici che, secondo il punto di vista di Galli, dovrebbero essere prese in seria considerazione dalla sinistra moderna.
Tre. Il poker delle rivoluzioni
A differenza di Hobsbawm, Galli intravede nel “secolo lungo” (cioè nel novecento), quattro rivoluzioni, due di sinistra e due di destra: si tratta dell’avvento del comunismo, del fascismo, dello Stato sociale e del neoliberismo. Sono forme di organizzazione della società antagoniste, le quali mantengono alcuni nessi con le tradizioni filosofiche moderne, infatti “…queste quattro rivoluzioni, queste diverse forme di organizzazione delle cose umane, nascono da precise condizioni materiali, da rapporti di produzione, da livelli di tecnologia da posizioni e da proiezioni di potenza interne e internazionali; ma trovano spiegazione e comprensione (e in parte, autocomprensione ideologica) anche come momenti della concorrenza fra razionalismo, pensiero dialettico e pensiero negativo…”[4]. In sintesi si è trattato del tentativo di democratizzazione delle due forme più potenti di organizzazione che l’umanità abbia mai pensato: lo Stato e il capitalismo, le quali non nascono come sistemi alla radice di per sé democratici ma lo possono diventare includendo ed espandendo la propria influenza sempre di più sulle sorti del genere umano. Mentre il pensiero negativo si è insinuato nel fallimento o nelle ambivalenze dello Stato liberale borghese e del pensiero dialettico, producendo la rivoluzione fascista e in modo più soft (e meno consapevole) quella neoliberista. La ricostruzione storica del docente dell’ateneo felsineo indugia sulla rivoluzione fascista e soprattutto su quella neoliberista perché terreno privilegiato di analisi dell’odierna politica di sinistra, che dentro alle contraddizioni di questo modello dovrebbe ritrovare gli elementi di un possibile rinnovamento. La seconda guerra mondiale ci ha consegnato oltre che un cumulo enorme di macerie e di morti anche un nuovo assetto quello dello Stato Sociale, cioè del compromesso fra il capitale e il lavoro, in sostanza un programma di sicurezza sociale “dalla culla alla tomba” che ha caratterizzato successivamente l’organizzazione interna della quasi totalità degli stati europei. Tuttavia dopo i “trent’anni d’oro” del welfare la crisi di questo modello sociale ci ha traghettato invece nell’ultima vera “rivoluzione conservatrice” costituita dal neoliberismo, dapprima come reazione del capitale alla compressione determinata dall’espansione dello Stato sociale e in seguito come riduzione della politica ad ancella dell’economia. In questo senso la parola chiave, il tag è “governance”, “…cioè l’autoregolazione dinamica e fluida, pattizia e mutevole, fra diversi centri di potere che si pretende sia la nuova figura, labile e cangiante, dell’ordine politico…”[5], afferma Galli. Attraverso i martellanti mantra propalati dai think thank conservatori si sono così svuotate le categoria politiche di “destra” e di “sinistra” consentendo poi di erodere progressivamente gli statuti di welfare conquistati e in ultima analisi di distruggere il cosiddetto “ceto medio”, poiché dalla competizione totale i colletti bianchi e le tute blu ne escono quasi sempre con le ossa rotte. E’ una quarta rivoluzione “non fascista”, asserisce il professor Galli, in quanto non si affida alla disuguaglianza come gerarchia naturale, ma poggia più propriamente sul desiderio individuale: tuttavia è certamente totalitaria in quanto non ammette alternative ed è in grado di destrutturare il soggetto trasformandolo in un “uomo ad una dimensione” consumista. E’ il presente infinito costruito dalla new economy e dai processi di globalizzazione, dall’espansione planetaria del capitalismo insomma, e dalla conseguente caduta del comunismo; dell’ascesa dei poteri transnazionali sempre meno istituzionali e sempre più legati alle logiche del mercato. Questa rivoluzione, ancora in corso, attraversata dalla crisi mondiale propagatasi a partire dal 2008, ci consegna una società del rischio dove la disuguaglianza è diventata ormai una certezza. Conclude Galli “…dal punto di vista della sinistra le vicende del XX secolo sono così sintetizzabili. La sinistra socialista ha visto nell’Ottobre non solo una rivoluzione ma una rivelazione, cioè un prodigio e un modello. E ha visto nel fascismo una forma acutissima di ostilità. Mentre dalla terza rivoluzione, quella dello Stato sociale, è stata sfidata e non vi ha potuto aderire. Mentre dalla quarta è stata sconfitta…”[6].
Quattro. Il PCI e il partito “chiesa”
L’influenza della sinistra dopo il ’45 fu notevole, il “partito nuovo” gramsciano e togliattiano declinato nella particolare versione italica della “democrazia progressiva” si situò sì nell’alveo del riformismo tuttavia al di sotto della “dittatura del proletariato”, seguendo un orizzonte politico che sostanzialmente possiamo definire di tipo socialdemocratico. La “doppiezza” del PCI consisteva proprio nel fatto di essersi accasato (seppur temporaneamente) nella temperie della democrazia borghese ma con la prospettiva strategica progressiva costituita dalla “via italiana al socialismo”. Partito di “lotta e di governo” il PCI contribuì con la sua linea politica di inclusione dei ceti più subalterni a rafforzare i deboli presidi di democrazia usciti dal ventennio fascista, mentre la conventio ad escludendum dal governo consentì ad esso margini di manovra sia nella critica alla DC e al modello organizzativo borghese, ma anche per la costruzione di “modelli altri” (come quello emiliano) che potessero essere in grado di sfidare il capitalismo o quantomeno un certo tipo di capitalismo. Così nell’accezione proposta dalla regione “rossa” per antonomasia il partito comunista ebbe tratti fideistici, mentre in generale il PCI si auto-rappresentava come una Parte e certamente non in termini assolutistici come il Tutto. Tuttavia se “il sol dell’avvenire” tarda a sorgere perché bloccato in una dinamica storica dai contorni indefiniti, l’orizzonte ideale diventa mitico e la strategia da mezzo diventa fine ultimo dell’azione politica. Dice Galli che fu pertanto nel momento di maggiore consenso per il più grande partito comunista europeo e cioè attorno alla metà degli anni ’70, che si poterono intravedere le prime “crepe” nella capacità di attrarre consenso. Con il rapimento dell’onorevole Moro l’approdo del “compromesso storico” berlingueriano declinò nella più ristretta opzione della “solidarietà nazionale”, mentre le istanze avanzate dalle compagini del Sessantotto e del Settantasette corrodevano i consensi a sinistra. Le energie dirompenti dei movimenti studenteschi e quelle non trascurabili di un operaismo radicale non erano catturabili all’interno dell’impianto di un PCI che aveva scelto il compromesso della mediazione parlamentare. Tanto meno le farneticanti auto-narrazioni tipiche di certe organizzazioni terroristiche dell’epoca. Nelle complesse dinamiche di quegli anni Galli intravede riproduzioni del pensiero negativo e la generazione di contraddizioni all’interno del pensiero dialettico e del gramscismo che però non approdarono ad una sintesi politica, comunque “…col terrorismo – con la sua sconfitta morale e militare e con il suo indiretto successo politico (il sabotaggio della strategia di Moro e di Berlinguer) – finisce la fase espansiva della democrazia italiana…”[7]. A parte le differenti elaborazioni concettuali di quegli anni di Tronti e di Cacciari che tanto dovevano al pensiero negativo, il PCI dell’epoca apparve sempre più in stato confusionale, e di conseguenza anche la sinistra, la quale aveva ormai perduto i propri riferimenti proletari ed anche quelli dentro il ceto medio creato dallo Stato sociale. Il crollo del muro di Berlino, la “bolognina”, la confluenza di quello che restava del vecchio PCI (i DS) nel Partito Democratico fecero il resto, in quanto “…il punto è che la rivoluzione fa male a chi non la fa; e la quarta rivoluzione la sinistra l’ha subita…”[8].
Cinque. Sinistra tra movimenti, populismi ed antipolitica
Il busillis è oggi quello di verificare se la sinistra moderna possa esercitare una convincente critica al neoliberismo, magari costruendo su quest’ultima politiche pubbliche in grado di garantire al maggior numero di persone il godimento dei diritti disponibili. Nel ginepraio delle diversificate interpretazioni che le “molteplici sinistre” danno della contingenza, agli occhi di Galli, ne sopravvivono essenzialmente due declinazioni principali: una sinistra riformista ed una definita radicale. Vero è che queste due sinistre, peraltro la prima tacciata di superficialità mentre la seconda di infantilismo, sono comunque spesso lontane dalle varie espressioni di radicalismo frammentato presenti nella società quali quelle dei movimenti no global, occupy, no tav, indignati, ecc, e tuttavia sono comunque separate tra loro da un solco profondo. Il giudizio di Galli su di esse è tranchant: queste due sinistre rappresentano “…due debolezze, in realtà; due modi di assecondare, involontariamente, le dinamiche del neoliberismo, che lascia alla sinistra lo spazio della collaborazione oppure quello della testimonianza…”[9]. Che fare allora? La “sinistra nuova” deve uscire dal paradigma unico della ridistribuzione delle ricchezze prodotte, andando oltre sia all’orizzonte del comunismo che a quello della socialdemocrazia; deve essere capace di riprogettare un diverso compromesso tra mercato e Stato, con “duplicità” (e non più con “doppiezza”), cioè con il senso del reale e l’ immaginazione. I partiti (le parti reggenti) dovranno cercare di intercettare le traiettorie politiche espresse dai movimenti (le parti reagenti), tentando anche di ricucire sul terreno delle visioni politiche lo strappo esistente proprio tra le “due sinistre”. Questa fase forse, potrebbe diventare la “quinta rivoluzione”: ovvero la prima del XXI secolo, quella impostata su una Parte specifica che il professor Galli identifica precipuamente nel “lavoro”. La sinistra quindi come espressione della Parte concreta che si contrappone all’antipolitica, che nell’accezione moderna e neoliberista vuol dire trionfo del mercato e conseguente eutanasia appunto del potere politico, deve pertanto agire mediante proprio la politica, senza semplificazioni, cogliendo l’occasione per costruire la Parte attorno alla quale addensare una visione in grado di suscitare un vasto consenso.
Sei. La sinistra del lavoro e per la democrazia
Galli identifica la Parte concreta rispetto alla quale la sinistra dovrebbe porre attenzione con quegli attori del lavoro dipendente, ma anche i piccoli artigiani e imprenditori, nonché i disoccupati, gli inoccupati, i precari, i quali non avendo il controllo sul lavoro stesso non l’hanno neanche sulle loro vite, e sono quindi alla mercé delle volontà del capitale. Suonano vuoti gli appelli a diventare “imprenditori di se stessi” laddove il capitalismo mondiale risulta in mano ai cda di qualche centinaio di multinazionali e sempre più condizionato dalla finanza. Quando poi l’individuo è asservito e non gode di autonomia non vi è neppure democrazia, in questo senso il lavoro è sì un’attività personale ma non é privata: il lavoro quindi è implicitamente “politico”. Centralità costituzionale del lavoro significa poi che l’idolatria del mercato, del profitto, dell’individualismo si pongono fuori dal perimetro della nostra Carta fondamentale. Negli squilibri auto-distruttivi generati dal neoliberismo “…coniugare indignazione e organizzazione è politica di sinistra…”[10], afferma il professor Galli, ribadendo la pressante necessità di una politica democratica del lavoro che si possa tradurre in un nuovo ordine sociale. Cambiando però i rapporti di forza tra capitale e lavoro, cioè oggi tra biopolitica/biopotere e workers. Il ruolo della sinistra è poi quello di salvare l’euro, la Ue ed anche la democrazia a livello appunto del vecchio continente, promuovendo in questa dimensione la civiltà del lavoro. Insomma un “new New Deal” che si assume il rischio concreto della politica e per un “nuovo umanesimo”. L’analisi storico-filosofica-politica accurata e l’acribia dimostrata dal docente universitario nel suo testo, tracciano i contorni di questo nuovo compromesso tra capitale e lavoro, anche se gli stessi risultano ancora un po’ difficili da decifrare, e comunque sono in buona parte tutti da disegnare. Tuttavia democrazia e mercato non sono in assoluto termini sostanzialmente di per sé antitetici? Non si tratta comunque ancora alla lunga di una prospettiva di tipo socialdemocratico? Ma non é veramente possibile ipotizzare un superamento del sistema capitalistico senza per forza ripiombare in paradigmi neo-comunisti? Le “due sinistre” poi pare che si siano all’attualità ridotte ad una soltanto, almeno nel caso italiano. E’ comunque un’indicazione condivisibile quella di concentrare gli sforzi di elaborazione intellettuale della “sinistra nuova” attorno al baricentro del lavoro, poiché lo stesso é diventato oggi certamente una questione di democrazia, nonostante esso sia il pilastro costituzionale fondativo della nostra Repubblica; ed anche per costruire un milieu politico per quei partiti d’area che altrimenti corrono il serio rischio di essere soltanto concentrati sulla rappresentanza istituzionale oppure sul fronte protestatario. Comunque l’idea che “…il lavoro é il limite immanente del capitale, altrimenti illimitato…”[11] e che é “…dovere, per la sinistra, di essere consapevole che una società migliore per il lavoro è una società migliore per tutti…”[12], sono di conforto per tutti coloro che per convinzione ostinatamente continuano a riconoscersi in quest’ambito politico.
[1] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 3
[2] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013.
[3] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 4
[4] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 38
[5] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 53
[6] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 64
[7] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 88
[8] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 97
[9] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 113
[10] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 135
[11] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 160
[12] Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Mondadori, Milano, 2013, p. 160
Trascrizione della relazione di Carlo Galli
Bene, buon giorno. Grazie di avermi invitato a parlare in questo contesto che non conoscevo e che sono lieto, invece, di apprendere e conoscere. Penso di aver mancato una o due volte all’appuntamento prefissato in quanto trattenuto dalle vicende parlamentari; ora, che sono lieto di essere qui, provo a dire alcune cose in merito sia al mio libro, sia alla mia posizione politica, sia al testo che è stato ora espresso ed esposto.
Questo libro è stato scritto nell’estate del 2012, ed è stato pubblicato nel gennaio del 2013. È stato durante la scrittura di questo libro che sono stato raggiunto dalla richiesta di consentire al Partito Democratico di candidarmi. Questo libro è un libro in qualche modo orientato da un’idea… Questo libro nasce dal mio percorso intellettuale e nasce dalla mia riflessione come vi dirò, ma era orientato anche a un’idea che di lì a poco avremmo avuto le elezioni col PD guidato da Bersani che aveva sia pure un tenuissimo sentore di indirizzo socialdemocratico del partito, il quale partito non nasce socialdemocratico. Perché altrimenti si sarebbe chiamato Partito Socialdemocratico, invece si chiama Partito Democratico. E nasce così la segreteria di Veltroni con un’idea completamente diversa, che esclude la dimensione delle sinistra ed esclude la dimensione della socialdemocrazia dall’orizzonte teorico pratico del partito. La segreteria Bersani, sia pure in modo incompiuto e imperfetto, ha tentato di dare un indirizzo più socialdemocratico, più tradizionalmente socialdemocratico al partito, molto, molto moderatamente.
Questo libro voleva essere una riflessione che muoveva da problemi miei che adesso vi dico, ma che era ispirato a indicare la possibilità di quello che avete sentito essere la proposta politica di questo libro, il mio new deal.
Allora, le elezioni sono state sostanzialmente perdute perché la differenza fra vincere e perdere le elezioni è che chi vince fa quello che gli pare e noi non abbiamo potuto fare quello che ci pareva. Perché siamo stati costretti, non è stata una scelta, è stata una costrizione, siamo stati costretti ad allearci dapprima con la destra e poi con un pezzo di destra. Un’alleanza organica, non un’alleanza casuale. Questo è stato un qualche cosa che non si sottolineerà abbastanza: nonostante il successo numerico a livello di seggi conquistati alla Camera dei deputati, le elezioni sono state perdute; il che ha impedito a Bersani di svolgere il proprio programma. E prima ancora ha impedito a Bersani di diventare primo ministro.
Per cui questo libro è passato dal livello di proposta politica al livello di archeologia in una notte. Quello che è successo dopo, non che Bersani si richiamasse a questo libro, naturalmente, ma quello che è successo dopo non voleva avere nulla in comune non con questo libro, che non è mai stato un problema per nessuno, ma non voleva avere nulla in comune con una prospettiva socialdemocratica che non era presente come parola nemmeno nel programma di Bersani e meno che mai lo sarebbe stato nel programma di Letta e di Renzi. Per cui vi è una divaricazione profondissima tra questo libro e la politica pratica, dovuta al fatto che gli italiani non hanno creduto a Bersani. In democrazia le cose funzionano così, ma hanno creduto a Beppe Grillo. O mi sbaglio? E siccome i voti non si pesano, ma si contano, le cose sono andate così.
Bene. Qual era il percorso intellettuale che io ho portato con questo libro? In realtà questo libro è lo sviluppo di un libro precedente che si intitola Perché ancora destra e sinistra, un libro scritto due anni prima, in piena era berlusconiana, pubblicato da Laterza e poi ripubblicato da Laterza due anni fa. Piccolo e agile e forse un po’ più abboccabile di questo che invece ha una fortissima componente filosofica. Nel quale libro, destra e sinistra, io dicevo cose che riprendo qui perché altrimenti questo libro sarebbe incomprensibile, cioè la tesi fondamentale che avete sentito è che destra e sinistra non si differenziano per i contenuti, cioè non esiste un contenuto di destra e un contenuto di sinistra, le destre sono infinite, sono state infinite, le sinistre sono state infinite; ciascuna destra e ciascuna sinistra hanno avuto tutti i contenuti possibili. Destre e sinistre sono due modi necessari dell’esistenza del campo politico moderno.
A Roma antica non c’era destra e sinistra, c’era il conflitto politico, sì, fra Mario e Silla però era profondamente sbagliato definirli destra e sinistra, profondamente. Destra e sinistra nel campo politico moderno nasce nella pratica storica con la Rivoluzione francese e si sviluppa essenzialmente in Francia. È la Francia il paese europeo dove c’è più destra, forse c’è meno sinistra ed è più chiara la complessità della situazione. Destra e sinistra in ogni caso si differenziano perché è la struttura categoriale stessa della politica moderna a essere indeterminata e a rendere necessaria l’apertura del campo politico in due ali. E dire che la struttura categoriale della politica moderna è indeterminata vuol dire che la politica moderna è contrassegnata dall’idea che all’inizio c’è il disordine, mentre la politica pre-moderna è caratterizzata dall’idea che all’inizio c’è l’ordine e che se c’è il disordine è colpa degli uomini che sono peccatori, o ribelli, e vanno riportati sulla retta via. La politica moderna è caratterizzata invece, sotto il profilo storico, perché l’Europa moderna passa attraversi 150 anni di guerre civili e di religione, è caratterizzata un’idea opposta: all’inizio c’è il disordine e davanti a questa idea c’è la indeterminatezza.
Ci sono due strade; la strada di destra è: il disordine è buono, o il disordine è in ogni caso invincibile, destra. La sinistra dice sì, all’inizio c’è il disordine ma è possibile portare ordine nel disordine, un ordine aperto, un ordine relativo, però un ordine che ha un seme e una finalità. Il seme è l’individuo, la finalità è l’emancipazione dell’individuo. L’uomo nasce libero e ovunque è in catene (Rousseau). Ovunque in catene è l’inizio, è il disordine, mentre l’obiettivo della politica è ripristinare la originaria libertà, dove originaria vuol dire non che ci sia stata, ma che fa parte della dote categoriale, della dote, si dice più banalmente, naturale.
Gli uomini hanno diritti che sono ovunque calpestati, questo calpestio è il disordine, che dunque va assunto come un dato realisticamente oggettivo: c’è, non va tutto bene, ma va tutto male. Eppure, la politica è un tentativo di ridurre la complessità. E il tentativo di ridurre la complessità avendo come obiettivo la esaltazione della uguale dignità, neanche dell’uguaglianza, della uguale dignità delle persone.
La destra invece è il partito del disordine. Voi dite come? Sì, è il partito del disordine in due direzioni. In primo luogo è il partito dell’orrore davanti al disordine, la prima modalità della destra è quella controrivoluzionaria che si caratterizza, come tutte le destre, per il predominio dato all’elemento del disordine. Naturalmente, la destra controrivoluzionaria francese dà al disordine un predominio fondato sull’idea che il disordine è demoniaco, immanente e imminente, e che la politica non può essere altro che la crociata continua, esasperata, nevrotica, paranoica, contro le forze del male.
Di solito si pensa alla destra come partito dell’ordine. Non è vero. La destra non è il partito dell’ordine, è il partito dell’ordine contro il disordine; l’elemento primario è il disordine che viene considerato insuperabile, detto in altro modo, è il partito della guerra, non è il partito dell’ordine, è il partito della guerra, la guerra continua contro. Oppure è il partito, così parliamo di una destra che conoscete di più, è il partito della concorrenza. La concorrenza, l’individualismo concorrenziale, cioè la forma di disordine, di guerra compatibile con le attuali condizioni del mondo occidentale. In Occidente naturalmente, fuori è un’altra storia.
Il neo-liberismo è il trionfo del disordine, programmatico, voluto, teorizzato: non a caso io ho iscritto il neo-liberismo all’interno del pensiero negativo, cioè il pensiero nietzschiano, anche se gli autori del pensiero negativo non sanno nemmeno chi sia Nietzsche, il risultato è la visione della società come composta da un infinito numero di superuomini amorali in lotta fra di loro, destinati alcuni a vincere e gli altri a perdere, a essere sconfitti. Questo, state attenti, questo è il neo-liberismo. Se lo scrivessi oggi questo libro distinguerei molto meglio fra neo-liberismo e ordo-liberalismo.
Il neo-liberismo è una cosa che noi non abbiamo mai visto in Italia perché fa troppo male: l’Italia e l’Europa hanno un programma liberale di destra, sì certo, ma non è neo-liberista, cioè che non deriva dagli assunti del neo-marginalismo austriaco, cioè da Von Ayek, da Von Mise, e dalla immigrazione di questi negli Stati Uniti, Friedman eccetera. Ma ha un programma di destra cattolico-organicistico che si chiama ordo-liberalismo, progettato intorno alla metà degli anni Quaranta mentre era ancora in corso la seconda guerra mondiale, da alcuni di questi economisti moralisti: Walter Euken e Wilhelm Röpke sono i più noti sotto il profilo degli studi, ma il più famoso sotto il profilo politico è Ludwig Erhard, ministro dell’economia di Adenauer e secondo cancelliere della Bundes Republic. Il programma dell’ordo-liberalismo è quello di tenere alla larga tanto lo stato, che allora voleva dire o lo stato nazista o lo stato sovietico, cioè forme di dominio totalitario, e di tenere alla larga anche quello che loro chiamavano il pluralismo anarchico della concorrenza liberale nella sua forma assoluta, cioè il social-darwinismo, non so se è così, cioè vinca il migliore. Programma che si sviluppa attraverso l’istituzione di rapporti necessari fra le sfere della vita civile. Per cui non si dà a nessuna sfera, a nessun ambito, il valore strategico, per cui il programma è antinazista, non è che comanda l’economia, ma è anche un programma anticomunista: non è che comanda la politica sull’economia, ma si sostiene che la libertà è una e indivisibile e perché ci sia libertà politica, ci deve essere libertà economica, e viceversa, e che il programma necessario della politica è quello di costituzionalizzare quel bene comune che è il mercato.
Il mercato è originario: gli esseri umani sono naturalmente sociali, ma al tempo stesso naturalmente portatori di rapporti di socializzazione attraverso la moneta. Per evitare le distorsioni che sono potenzialmente implicite in questa socialità che non è in sé anarchica ma che lo può diventare, si ipotizza che sia altrettanto originario il bisogno di politica. E che la politica debba, rispetto all’economia, consistere nel porre in essere meccanismi di costituzionalizzazione dell’economia che sono essenzialmente meccanismi di apertura della concorrenza di equilibrio monetario.
Voi direte: perché ci racconti questa storia? Perché questa storia è la storia della Bundes Republic, cioè è la storia di un paese che ha voluto, e ha pagato, quella che potremmo definire la cattiva uscita dalla crisi del ’29, i tedeschi sono usciti dalla crisi del ’29 attraverso il nazismo. Dunque, diciamo, una cattiva uscita da una crisi del capitalismo. Questi hanno detto: d’ora in poi non ci devono più essere crisi del capitalismo, né tanto meno cattive uscite dalle crisi del capitalismo. Per evitare la crisi del capitalismo bisogna far sì che il capitalismo sia un capitalismo tendenzialmente organicistico, cioè coinvolgente, inclusivo, dove l’elemento della concorrenza c’è, perché non stiamo inventando lo stato delle corporazioni, l’elemento della concorrenza c’è, ma dentro un quadro ordinativo posto dallo stato che non è un quadro che blocca (?) l’economia, l’economia deve essere lasciata libera, ma un quadro che impedisce all’economia di deragliare.
Allora, vi ho detto, questa è la Germania, si, ma è anche l’Unione Europea nel cui trattato istitutivo sta scritto: l’obiettivo dell’Unione Europea è di sviluppare una economia sociale e di mercato altamente competitiva. Ci siamo arrivati, finalmente. Tutto quello che voi vedete all’opera oggi è il tentativo di adeguare l’Italia a queste esigenze. Ci siamo arrivati.
Quelle che vengono chiamate riforme, come se stessero parlando Bernstein e Kautsky, sono semplicemente la traduzione impropria del concetto di Wilhelm Röpke, posto da Röpke, fra soluzioni conformi e soluzioni non conformi. L’ordo-liberalismo funziona selezionando a priori un ventaglio di soluzioni politico-economiche conformi, all’interno delle quali di volta in volte si sceglie quella utilizzabile ed escludendo a priori una serie di ipotesi non conformi.
Escludere le ipotesi non conformi… Che cosa c’è di non conforme rispetto al progetto che vi ho detto? Lo dico io che cosa c’è di non conforme: il deficit di bilancio. Ed è così poco conforme che abbiamo costituzionalizzato l’equilibrio di bilancio. Quello che sto dicendo ha la pretesa di essere vero: abbiamo costituzionalizzato l’equilibrio di bilancio. Che cosa c’è di non conforme? Il fatto che questo insieme di organi, che è la vita associata, trovi nel proprio funzionamento degli ostacoli, delle difficoltà, delle viscosità o addirittura dei conflitti. La parola d’ordine è flessibilità, fluidità, non rigidità. Cioè l’idea che il bene supremo non è la protezione del lavoro nel lavoratore, neanche la protezione: il bene supremo non è il fiorire del cittadino lavoratore, come previsto dall’art. 3 della Costituzione, il bene supremo è invece il funzionamento armonioso del mercato, protetto e garantito dallo stato, senza che si debbano correre rischi. L’ordo-liberalismo non è una teoria della società del rischio, anzi è una teoria della riduzione della complessità e della rimozione dei rischi.
La società del rischio è la versione anglosassone del neo-liberismo, l’ordo-liberalismo è invece la versione europea, o meglio la versione tedesca estesa a tutta l’Europa. Qual è il punto fondamentale? Che l’elemento della politicità si sposta dall’individuo alla società, da una parte al tutto. Ve l’ho già detto, ma ve lo voglio ripetere perché è fondamentale, altrimenti non si capisce nulla di quello che sta succedendo. Qual è la tesi di oggi? Che la sinistra è roba vecchia, che non si può tutelare il posto di lavoro, ma che si devono tutelare i redditi.
Premesso che la tutela dei redditi è quasi impossibile, ma quand’anche fosse possibile, la tutela dei redditi vuol dire: tu perdi il posto di lavoro e non ne fai un dramma, per un po’ di tempo ti diamo abbastanza denaro perché tu possa campare e intanto ti riqualifichiamo, ti formiamo, ti riconciliamo così troverai un altro posto di lavoro. Non voglio minimamente entrare nel discorso se ciò è realistico o non è realistico, non mi interessa. Se anche funzionasse esattamente come prevedono le teorie, che cosa dobbiamo dedurre da ciò? Che il lavoro è una variabile, cioè che il cittadino lavoratore non ha il diritto di opporre resistenza rispetto all’esigenza del mercato. Rispetto a lui, cittadino lavoratore, e ai suoi diritti vi è un’entità che lo supera, il mercato, e uno stato che dice che è giusto che il mercato vinca su di te, però è anche giusto che io stato mi faccia carico del tutto. A voler essere maligni, lo stato è trasformato nella Croce Rossa del capitale.
L’idea che la cittadinanza si esprima attraverso il lavoro qui non c’è più. Il lavoro è un accidente, la sostanza è da un’altra parte, il bene è da un’altra parte. Se funziona alla perfezione, in ogni caso il lavoratore è un subalterno. Il lavoro è un fatto privato, non è un fatto pubblico collettivo.
Che cosa non fa vedere l’ordo-liberalismo? Per l’appunto, la frattura politica che c’è tra capitale e lavoro. Voi direte: ma come? È roba vecchia come il cucco, è classismo dire che c’è una frattura politica tra capitale e lavoro. Non è necessariamente detto che quella frattura politica tra capitale e lavoro debba essere superata prendendo il palazzo d’inverno.
Ma la socialdemocrazia, invece, per quanto possa avere tratti comuni con il modello ordo-liberale si fonda su un principio diverso: sul principio del compromesso fra due soggetti dei quali si ammette l’esistenza. Il soggetto capitale e il soggetto lavoro. Dei quali si ammettono i diversi interessi e dei quali si dice che è necessario che essi trovino un accordo, seppure temporaneo. Ecco.
Noi, io e quelli che hanno la mia età, siamo vissuti nell’epoca in cui si diceva bene o male così. Cioè si diceva: esiste il lavoro, che sono i sindacati, il partito coi sindacati, tutti anche quello cattolico, e il Partito Comunista e, forse, il Partito Socialista prima di un certo momento. Esiste il capitale, che sono i capitalisti, esiste un mucchio di gente in mezzo, ceto medio. La repubblica funziona quando queste entità sono coscienti di sé, e questo vuol dire che c’è un partito che le organizza, e quando trovano un punto di equilibrio dopo aver anche avuto punti di conflitto. All’equilibrio si arriva attraverso il conflitto. E sono punti di equilibrio che continuamente sono mobili in relazione ai rapporti di forza. Certo nel 1955 la FIAT stermina la CGIL, i sindacati già li stermina la CGIL che perde clamorosamente le elezioni di fabbrica, nel 1969 i sindacati sono più forti e costringono la FIAT a venire a patti.
Per una persona come me, tutto ciò è fisiologico, è normale: corsi e ricorsi, l’alterna onnipotenza delle umane sorti, non c’è niente di strano. Invece, tutto ciò è orrore per l’ordo-liberalismo. Orrore. Un’ora di sciopero è un’ora buttata. I sindacati non devono far sciopero, devono sedere nei consigli di amministrazione, cosa che in Germania appunto avviene. Mettere qualcuno disoccupato è male perché se i disoccupati sono troppi poi diventano nazisti. L’ordo-liberalismo ha sullo sfondo l’orrore del nazismo. La tesi di fondo implicita è: noi dobbiamo fare tutto purché, e perché, non riemerga quella catastrofe sociale che noi risolvemmo in quel modo e che ci ammazzò definitivamente. L’ostinazione tedesca nasce dalla potenza di chi è già potente, ma nasce anche dal terrore del conflitto, perché per loro il conflitto è un disfunzionamento gravissimo della società, nel quale si infilano elementi radicali che in Germania ci sono perché un tempo c’erano filosofi che radicalizzano le posizioni. E se l’economia si inceppa e va male rinasce la disoccupazione e con la disoccupazione i tedeschi impazziscono perché sono un popolo che ha bisogno di sicurezza, impazziscono di terrore e sono pronti a tutto e questo non deve mai più succedere.
Stiamo vivendo dentro qualcosa che ha delle radici lunghe e non è che ci sono dei banchieri impazziti che si mettono a fare i prepotenti in giro per l’Europa, l’ordo-liberalismo è la risposta tedesca alle crisi europee del ’29, del ’33 e del ’45. Imposta dalla Germania all’Europa. L’Europa è contenta perché il trattato di Maastricht è stato firmato da tutti quelli che lo hanno firmato, ma funziona solo su queste basi, per cui tirar fuori un protagonismo del lavoro da qui è assolutamente impossibile; il lavoro non deve essere protagonista. Protagonista è l’ordine, l’ordine che è tanto più stabile quanto più la persona è rispettata, certamente, quanto più la sicurezza è garantita, anche quella sociale, ma, attenzione, subordinate alla efficienza del capitale. Subordinate, che non è un’ipotesi di social-darwinismo, vinca il migliore. Anzi, il social-darwinismo è tenuto lontano come una tentazione di gravissimo disordine.
Noi siamo dentro a questa cosa qui. Ecco, secondo me, dentro a questa cosa qui non c’è posto per la sinistra. Ci siamo arrivati: non esiste una lettura di sinistra dell’ordo-liberalismo; l’ordo-liberalismo nasce di centro-destra. Non sto scherzando: nasce apertamente contro il marxismo, contro ipotesi rivoluzionarie, cioè contro l’ipotesi che la frattura fra capitale e lavoro sia carica di politicità inesauribile e incomprimibile. Questo è ciò che è escluso a priori e non compatibile; non esiste una frattura fra capitale e lavoro carica di politicità.
Ed è anche contro la socialdemocrazia che come minimo è definita un sistema arretrato di stabilizzazione sociale. Arretrato, andava bene quando l’economia funzionava in un altro modo, quando c’era la fabbrica fordista; in Germania c’erano ancora le fabbriche fordiste e c’è ancora un Partito Socialdemocratico che perde continuamente voti, che tuttavia è al governo e che tuttavia non è capace chiaramente di assumere alcuna iniziativa egemonica, alternativa rispetto a quella della Merkel.
Non c’è posto per la sinistra dentro il modello ordo-liberale. Ci possono essere, come dire, gestioni dell’ordo-liberalismo più o meno simpatetiche con i poveri. Ma voi capite che quando adoperiamo questo lessico usciamo dal concetto di sinistra. L’ordo-liberalismo è una bella invenzione che però ha dei limiti: esclude delle altre ipotesi. Ripeto: ipotesi rivoluzionaria mai, l’ipotesi della rivoluzione di destra, nel senso che l’hanno i tedeschi e in questo senso pensano al nazismo ed è il male assoluto dal quale bisogna guardarsi nel modo più totale, l’ipotesi del neo-liberismo selvaggio no, perché è troppo pericoloso, è troppo rischioso. La socialdemocrazia è roba vecchia, andava bene quarant’anni fa. Oggi l’equilibrio lo si trova così.
Il che vuol dire che quello che vuole la sinistra lo facciamo noi; volevate dei salari? Eccovi i salari, non alti perché l’ordo-liberalismo oggi è interpretato come il neo-mercantilismo, cioè come forma produttiva che tiene i salari relativamente bassi e orienta il sistema economico all’esportazione. Ho detto relativamente anche se i salari tedeschi sono più alti di quelli italiani, potrebbero essere molto più alti ma il mercato interno è relativamente sacrificato rispetto alle esigenze dell’esportazione. In ogni caso è proprio in Germania, con la riforma Hartz del 2005, che si inventa il mini job; con l’ordo-liberalismo è compatibile il concetto di salario sociale. Se ci sono i soldi è compatibile. Cioè, tenere il lavoratore, o il giovane, di riserva, per impiegarlo, come si dà da mangiare a un cavallo anche se in questo momento non lo stai facendo lavorare. È compatibile, se ci sono le compatibilità economiche, è compatibile teoricamente. Quello che non è compatibile è che il lavoro si immagini come una soggettività politica. Il lavoro sono affari tuoi, il lavoro è un problema individuale, lo stato ti aiuta, ma è un problema individuale; l’obiettivo è la distruzione del sindacato come soggetto politico, la trasformazione del sindacato in sindacato di fabbrica.
Come siamo arrivati a ciò? Quello che sta capitando oggi in Italia è, in perfetta continuità con Monti e con Letta, il tentativo di adeguare l’Italia a questo modello, le riforme sono il tentativo di adeguare l’Italia a questo modello: Con un’avvertenza che deve essere ben chiara, almeno da parte mia: cioè, l’Italia ha davvero problemi gravissimi che prescindono dalla Germania, problemi interni di strutturazione del sistema economico produttivo, di strutturazione del sistema creditizio, di funzionamento della pubblica amministrazione, di legame sociale, di senso civico, di legalità diffusa. Sono problemi gravissimi che non sono nati per colpa della Germania, sono nati per colpa dei partiti politici della prima repubblica, la quale ha funzionato fino a una data X e ha smesso di funzionare da quella data X in poi.
La data X ciascuno la mette dove vuole; secondo me è il ’68, secondo altri è il ’78. Forse nel ’68 c’era solo il seme della crisi, cioè nella mancata risposta al ’68 c’era il seme della crisi. Nel ’78, con la morte di Moro c’è anche il segnale, e poi nell’84, con la morte di Berlinguer, c’è anche la fine degli unici due che potevano, che si erano se non altro preoccupati con la prospettiva di lungo periodo, di quello che sarebbe divenuto il nostro paese. Diciamo così, ecco.
Però, io non sono uno di quelli che dà tutta la colpa alla Germania e dice se uscissimo dall’Euro e mandassimo all’inferno i tedeschi staremo meglio. Al di là dei costi di questa operazione, che nessuno riesce a quantificare, nessuno riesce a quantificare i costi di questa operazione, al di là di questo, se per assurdo non fosse mai esistito l’Euro, se vivessimo su un pianeta diverso, i problemi dell’Italia sono problemi italiani. Che la pubblica amministrazione non funzioni non ce l’hanno rovinata i tedeschi, anzi, i tedeschi ci ordinano di farla funzionare.
Il punto è che ci sono sempre due modi per fare le cose. L’ordo-liberalismo lo dice una volta sola all’inizio, dice ciò che è conforme e ciò che non è conforme, non parliamo mai più di quello che non è conforme, stiamo soltanto dentro alle ipotesi conformi. Il che è molto vicino alla tecnocrazia; non è tecnocrazia ma è molto vicino. Come dire, per risolvere i problemi: se ti perde il rubinetto non c’è un modo di destra o un modo di sinistra per aggiustarlo, c’è un solo modo e tu lo devi aggiustare. All’inizio, l’ordo-liberalismo lo dice nei libri, sì, ce ne sarebbero anche altre ma le reputiamo non compatibili.
Allora, adesso che siamo alla fine, cioè il rubinetto perde, di modi per aggiustarlo, ti dicono, ce ne è uno solo, datti da fare, aggiustalo. Le riforme sono queste. Ecco, per me sinistra oggi è dire quello che vi ho appena detto, cioè ricordare che, visto che non sono un ragazzo e non posso dire un altro mondo è possibile, ma è possibile perfino un altro capitalismo, è possibile un altro rapporto fra economia e politica, diciamo. Dirlo, perché non si perda nella notte dei tempi l’idea che c’è stato un mondo diverso e che questo mondo potrebbe essere diverso.
Questo è un problema intellettuale. Il problema politico è trovare il modo di raggruppare intorno a questo programma intellettuale un bel po’ di milioni di voti, togliendoli ai tre nemici che la sinistra ha. Non voglio parlare del PD di cui sono deputato; il PD essendo l’unico partito che esiste in Italia è necessariamente portato a costituire l’architrave del sistema politico. È difficile pensare che un partito architrave si metta a fare la rivoluzione. Se a fianco del PD ci fossero partiti di sinistra le cose cambierebbero, forse. Il fatto è che partiti di sinistra a sinistra del PD non nascono perché è il PD percepito come partito di sinistra, benché non lo sia palesemente, ma è percepito come partito di sinistra, almeno dalle mie parti, almeno da certe persone.
Il programma politico è sottrarre milioni di voti ai nemici della sinistra; non è neanche la destra; io auspico una destra forte in Italia. Metà dei problemi che abbiamo oggi nascono dallo spappolamento di Forza Italia che non è morta ma, come un serpente cui sia stata spezzata la spina dorsale; si agita scompostamente. E questo produce effetti di rimbalzo sul sistema politico che rende difficile anche la vita quotidiana del sistema. Auspico una destra forte, coesa, che faccia il suo mestiere di essere di destra:
E auspico che perdano molti voti i tre veri nemici che sono Salvini, Grillo e l’immenso partito degli astenuti. L’immenso partito degli astenuti che è un partito molto composito ma dentro il quale ci sarà pure un po’ di gente di sinistra. Dopo di che il PD si adatta alle circostanze. È chiaro che adesso come adesso, come dire, la Merkel vuole qualcuno a cui telefonare; a chi volete che telefoni se non al capo del PD, il quale come torto fondamentale ha solo quello di non dire quello che fa. Ma questa è un’altra storia, non cambierebbe moltissimo e poi perderebbe dei voti. Però quello che fa è tentare di rendere l’Italia conforme ai desiderata dell’ordo-liberalismo europeo. Il che è male perché ci fa male anche se, torno a dire, l’Italia ha comunque problemi: non sono problemi dovuti al fatto che stiamo con l’Euro, sono problemi che nascono dalla decomposizione clientelare dello stato sociale avvenuta dagli anni Settanta in avanti, sia ben chiaro. Certo, risolvere quei problemi avendo addosso i tedeschi che ci frustano è ancora più difficile e ci è costato la perdita, l’uscita dal mondo del lavoro di due generazioni, sostanzialmente, come Monti sosteneva tutto felice, e ci è costato e ci sta costando il deterioramento della qualità della democrazia. Cioè il fatto che gli italiani non credono più alla democrazia perché per loro la democrazia è uno stato che tutti i giorni ne inventa una per portargli via dei diritti acquisiti.
Questi sono i problemi che avremmo da risolvere e questa è la parte contemporanea del nodo politico. Se poi vogliamo rispondere alla domanda, giustissima: ma perché non hai parlato della sinistra cattolica? È una lunga storia. Diciamo così: perché sotto il profilo filosofico le correnti principali dell’età moderna non sono cattoliche. Dunque, la sinistra non si è definita in ambito cattolico, si è definita in ambito prima borghese, poi operaio. I cattolici a sinistra sono arrivati tardi a essere di sinistra. Sono arrivati tardi, con un tasso di originalità, certamente, ma sono arrivati quando i giochi erano già fatti, Il gioco nasce quando i borghesi dicono: bene, siamo nell’età moderna e abbiamo il problema che il mondo è disordinato e noi lo vogliamo ordinare a nostra immagine e somiglianza e la prima cosa che facciamo è tagliare la testa ai nobili e togliere più potere che possiamo alla chiesa. Contemporaneamente, la chiesa e i nobili dicevano: ma quale età moderna? Siamo come siamo sempre stati, l’ordine è uno ed eterno, siete voi che siete ribelli ed eretici e adesso proverò a sterminarvi tutti. Quello che diceva Francesco, siete ribelli ed eretici. Hanno vinto quelli che dicevano: questa è l’età moderna. Non è che avevano la garanzia di vincere, hanno di fatto vinto. C’era più potenza in quella posizione lì, anche potenza materiale.
Bene. La sinistra chi è? Sarà Robespierre, cioè un borghese che crede nell’uguaglianza e ci crede tanto che taglia le teste, per rendere tutti uguali, taglia le teste, non tocca la proprietà privata. Negli ultimi mesi della sua vita dice state attenti che la radice di tutti i mali è la proprietà privata. Appena gli scappa una frase così, arriva il Termidoro, cioè i borghesi che hanno fatto la Rivoluzione che si chiedono se per caso questo non sia pazzo: abbiamo fatto la rivoluzione per goderci la nostra proprietà privata, e tu vieni a tirar fuori che il problema è la proprietà privata, ma tu scherzi!
Bene, seconda ondata di sinistra quando i capitalisti mettono all’opera milioni di persone che prima se ne stavano nei campi abbruttiti nell’ignoranza e della miseria ad ascoltare le favole che gli raccontavano i preti, che bisogna obbedire eccetera eccetera. I capitalisti li chiamano in città a farli lavorare come bestie nell’ignoranza, ma non gli raccontano più le favole, la favola gliela raccontano i socialisti, cioè c’è una diversa narrazione che fa nascere, che dà voce a un interesse sociale diffuso, numerosissimo, di cambiare il mondo, quel mondo lì che è fatto di operai che lavorano molto e che guadagnano poco.
A quel punto si aprono le infinite strade della sinistra. Vincente è la sinistra non ascrivibile al pensiero razionalistico-liberal-radicale come potrebbe essere una linea Robespierre-Babeuf-Proudhon; vincente è un’altra linea molto più sofisticata, con pretese teoriche e pratiche molto più complesse, la linea marxista, cioè il pensiero dialettico, che è un pensiero di secondo grado, un pensiero sul razionalismo, non è il razionalismo, è un pensiero sul razionalismo che tira fuori le sue contraddizioni e le risolve, a sentire loro.
E dunque, una sinistra che individua, secondo la tipica modalità della logica dialettica, in una parte le ragioni del tutto. La tipica dialettica non ragiona come la logica aristotelica per cui la parte è minore del tutto, funziona al contrario con l’introiezione del tutto dentro la parte. Tutto ciò nella logica di Hegel, ma è nel Capitale di Marx, e la parte che contiene il tutto è il proletariato. Che contiene il tutto in due sensi: in primo luogo lo contiene perché nel proletariato, se sei capace di leggerlo, di decifrarlo, cioè se sei marxista, trovi l’intero processo economico-capitalistico vivente, concentrato. Se c’è un proletario, se tu sei bravo, dal proletario tu individui il capitalismo, l’esistenza del capitalismo. Attenzione, il proletario non è un povero, è un operaio di fabbrica che il suo padrone cerca di far rimanere povero dandogli un salario basso, ma non è un povero, non è un sottoproletario, un mendicante, uno straccione.
E c’è una parte in cui c’è il tutto in un altro senso. Nel proletariato, nella condivisione di assoluta alienazione, anzi, nel’’assoluta reificazione del proletario, c’è scritto in negativo la condizione di assoluta emancipazione dell’intera umanità: la liberazione del lavoro è la liberazione dell’intera umanità. Una sinistra di questo tipo è la sinistra alla quale, credo, siete abituati, cioè una sinistra di classe non corporativa, cioè che difende gli interessi della classe, una sinistra di classe che ha l’idea che dentro quella classe c’è la soluzione, c’è il risolto enigma della storia, tanto per citare Marx. Voi direte: ma quando mai? Lasciamo stare quando mai: è andata così per un bel po’ di decenni.
Allora, c’è l’esser parte e l’esser tutto. Il caso ha voluto che nel posto più improbabile, cioè in Russia, questa cosa qui, molto cambiata sotto il profilo teorico, anche se Lenin diceva di essere marxista, ha preso il potere. E questo è stato il grande shock che ha aperto il Novecento. Dentro la Prima guerra mondiale ciò è accaduto, ovviamente, senza la quale lo zar sarebbe ancora là a regnare. E Lenin era mezzo marxista e mezzo nietzschiano, cioè faceva la rivoluzione anche se non c’erano le condizioni per farla, ovvero era un decisionista molto più che un dialettico, ma guai a dirlo, finivi alla Lubianka subito. Glielo diceva la Rosa Luxemburg, sostanzialmente.
E questo è il primo shock. Su questo shock si innestano gli altri: il fascismo è palesemente un trito, sia di quello italiano che di quello tedesco, è palesemente un trito non tutto determinato dall’anticomunismo, ma insomma un trito anche del terrore bolscevico che peraltro circolava in tutto il mondo occidentale: il terrore bolscevico è presente in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia, ovunque, e certamente ha abbassato molto le difese davanti ai fascismi, diciamo così.
Nel frattempo, il capitalismo pensa bene di andare in crisi, oltretutto, per cui a quel punto la partita era: o diventi comunista o diventi questa cosa nuova che è il fascismo. La disgrazia ha voluto che in Germania ci fosse un politico assai abile, Hitler, mentre invece i comunisti avevano politici assai poco abili e i democristiani tedeschi pure. Per cui, come sempre, i poteri forti sono andati dietro a quello che prometteva di vincere, pensando di poterlo condizionare, ma condizionare Hitler non era facile. Sono andati al disastro e con loro 100 milioni di morti.
Ed ecco la nostra storia, cioè nel dopoguerra beh, ci vogliamo tenere il capitalismo come prima? Impossibile, le guerre sono sempre dei salti epocali, il fascismo è morto, il comunismo è diventato improvvisamente il nemico, prima eravamo alleati, ma era il nemico prima ed è tornato a esserlo. E allora che cosa ci inventiamo? Ci inventiamo in Europa la socialdemocrazia e, in Germania, l’ordo-liberalismo che per un bel po’ sono sembrati simili, però, occhio, l’ordo-liberalismo lo facevano i democristiani (Erhard era un democristiano) e la socialdemocrazia, ma anche l’ordo-liberalismo di quei tempi, sono andati a sbattere contro una crisi economica che è la crisi del modello keynesiano che è l’anima dello stato del compromesso socialdemocratico. In quegli anni anche l’ordo-liberalismo era, diciamo così, un filino più orientato alla spesa
Shock petrolifero del ’73, progressivo peggioramento del tasso di rendita del capitale e a un certo punto il capitalismo fa la sua vera rivoluzione. Metà anni Settanta, viene riabilitato Hayeck che fino a quel momento veniva considerato un pazzo, gli danno il premio Nobel; fine anni Settanta, Margaret Thatcher prende il potere sulla base di un programma ultraliberista che nega l’esistenza della società: la società non esiste, esistono solo i singoli e le famiglie e si pone poi l’obiettivo di distruggere il potere politico dei sindacati, e in Inghilterra il potere politico dei sindacati è il potere politico dei Labour, perché il lavoro non deve più essere un soggetto politico. Distrugge peraltro anche il sistema produttivo di fabbrica inglese, perché l’Inghilterra deve diventare la capitale mondiale della finanza, basta costruire brutte automobili.
Reagan fa la stessa operazione negli Stati Uniti dove peraltro i vincoli dello stato sociale erano infinitamente più deboli. Il capitalismo assume una capacità produttiva, espansiva, una ricchezza energetica che travolge il mondo comunista, fossilizzato e incapace, ma travolge anche il mondo socialdemocratico che era un mondo distrutto dalla crisi. Si fanno fuori contemporaneamente i limiti del capitalismo, la socialdemocrazia e dopo dieci anni di vana resistenza il comunismo organizzato. Che non è male come rivoluzione.
E poi parte la new economy con tutte le sue contraddizioni, la più importante delle quali è che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri. Anche perché i cinesi saltano dentro il capitalismo, piazza Tienanmen è la grande decisione, lo spartiacque: rimaniamo poveri comunisti e magari offriamo il fianco alla protesta di questi studenti che vogliono la libertà, il partito comunista perde il potere, il paese si sfascia e Dio sa che cosa succede… C’è sempre un’idea di disastro dietro alle rivoluzioni di destra e indubitabilmente la rivoluzione cinese di piazza Tienamen è una rivoluzione di destra, se mai ce n’è stata una. Oppure, facile, teniamo tutto il potere nel Partito comunista cinese e diamo spazio a intraprese economiche. Siccome i cinesi ce l’hanno nel sangue di fare affari, siccome allora campavano di salari miserabili, il primo effetto è stato che la classe operaia occidentale si è trovata improvvisamente la concorrenza di un miliardo di persone, poco brave, ma insomma a produrre certe merci assolutamente imbattibili.
Da cui la crisi del neo-liberismo in Occidente, che non riesce più a garantire ciò che era stato garantito dall’era socialdemocratica. Qual è il vero prodotto dell’era socialdemocratica? Il ceto medio e la prospettiva di vita sempre migliore che noi, quelli della mia età, abbiamo incorporato fin da bambini, andrà sempre meglio, senza esagerare, ma un pochino ogni generazione migliora.
Improvvisamente, ci siamo trovati in un contesto in cui il ceto medio diventa povero e il padre sa che al figlio toccherà una vita peggiore della sua e il padre deve adoperare i risparmi fatti durante la Prima repubblica per mantenere il figlio in vita ai tempi della Seconda e della Terza. Ho l’impressione di non dire cose molto nuove ma neanche molto imprecise. Cioè, vi è una contraddizione interna nel modello neo-liberista. A quella contraddizione corrisponde il modello ordo-liberista che dice: bene, lasciamo che siano gli americani, gli inglesi e i cinesi a giocare al grande gioco del liberismo sfrenato, che poi non è vero perché quando c’è stata la crisi gli americani hanno avuto lo status, la stato federale statunitense che ha buttato dentro 7 miliardi di dollari, cosa che noi semplicemente non abbiamo, e che comunque urta l’ortodossia ordo-liberista tedesca, lasciamo che gli altri non si curino del modello sociale, noi ce ne curiamo, costruiamo l’Europa, la fortezza Europa, ma non una fortezza economica, no, l’Europa deve esportare, costruiamo un’Europa in cui l’economia di mercato sia economia sociale di mercato altamente competitiva, rivolta all’esportazione cioè.
Per fare questo che è il nostro obiettivo vitale ed esistenziale si devono adeguare anche i disgraziati stati mediterranei che devono imparare a essere efficienti e laboriosi, si devono liberare dalle loro ubbie di conflitto sociale e devono entrare nel club degli estimatori della stabilità, attraverso però una fase di acutissima instabilità. Così è troppo facile: entrare nel club degli estimatori della stabilità può essere una cosa noiosa e mortificante, però uno dice: se non ho altro, c’entro. Il fatto è che per entrare devi destrutturare la tua società. Noi in Italia lo abbiamo visto perché la abbiamo destrutturata in modo inconsapevole e, come dire, non progettato grazie alla crisi economica alla quale abbiamo reagito semplicemente tagliando i conti degli investimenti pubblici. Nel momento della crisi abbiamo tagliato gli investimenti pubblici. C’è bisogno di soldi per l’università, no, ti taglio del 30% l’FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario per le Università), c’è bisogno di soldi per la sanità, no, ti taglio lo stanziamento statale per la sanità. Come dire, per pagare il biglietto di ingresso nel club della stabilità abbiamo subito una serie di contrazioni della nostra ricchezza dovute alla contingenza, alla crisi, e mentre gli altri l’hanno superata noi ci siamo ancora dentro, e oltre a quelle dovute alla contingenza anche quelle, come dire, progettate a freddo, programmate da qui a vent’anni, la legge Fornero.
E il job’s act che io non ho votato, non l’ho votato; non me ne vanto ma nonl’ ho votato: sono uno dei 29 che è uscito dall’aula piuttosto che votarlo. Non mi sto vantando di questo, me la sono cavata forse a buon mercato, non lo so, però non l’ho votato, come non ho votato pezzi della riforma della Costituzione e non so se li voterò alla fine quando ci sarà il voto finale. Però coloro che sono nemici della trasformazione, della riforma della Costituzione non si illudano sul referendum: l’abbiamo già perduto in partenza, sia ben chiaro, perché lì giocano altri fattori. Come? Vi ho fatto le riforme e voi volete dar retta ai vecchi gufi della sinistra. Questo è un discorso diverso, cioè dove sta il vero potere oggi in Italia? Nel sistema mediatico che è di proprietà di pochissime concentrazioni economiche e l’appoggio a una certa linea politica viene tanto da Marchionne, quanto, di fatto, da Berlusconi che è soltanto molto rammaricato di non esserci anche lui a gestirla. Sia ben chiaro: non è che in Italia c’è un gruppo… mentre Berlusconi aveva contro un pezzo di economia e un pezzo di sistema mediatico, cioè Repubblica, adesso c’è un’informazione assolutamente perfetta.
Ma per parlare di politica ad alto livello, significa, se la sinistra è l’esser parte per poter esser tutto, dunque per il lavoro e per la democrazia, il lavoro è una parte della democrazia, interessa tutti, senza una critica dell’ordo-liberalismo non si va da nessuna parte, io credo. Formalmente, è una posizione infinitamente discutibile che ha come prezzo quello di proporre una soluzione che può apparire vecchia, socialdemocratica, in un momento in cui questa soluzione è palesemente superata. O, se volete, ma non è la mia posizione, una sinistra fatta in modo nuovo, da gente nuova, anche da leader politici che non siano figli di 25 anni di sconfitte, e di capitolazioni, come capita in Grecia, come capita in Spagna. Una sinistra che palesemente non è di classe, non obbedisce, non crede di avere il senso della storia dalle proprie parti ed è una sinistra reazionaria nel senso di reattiva, è la reazione a uno stato di cose percepito come insopportabile. Una reazione i cui soggetti sono forse nemmeno dei lavoratori, sono delle persone che non sono nemmeno mai arrivate a lavorare, che hanno la sensata prospettiva di non arrivarci mai.
Allora, è una forma di ribellione, forse la sinistra nuova, cioè quella parte che si fa carico di far emergere le contraddizioni, perché le vive in prima persona, di un sistema economico politico e che pensa di avere anche la soluzione, oltre che la capacità di esprimere quelle contraddizioni.
Ora, voi avete visto la Grecia; nonostante l’eroismo e l’abilità veramente notevole della trattativa, con cui la trattativa è stata condotta da parte greca, come si dice, non c’è partita. Quando è parso che la Germania l’accettasse è arrivata la telefonata di Obama che ha detto: non sarete mica matti a creare un’altra turbolenza dalle vostre parti, già con quello cui devo pensare io, mi date un pensiero nuovo, mettetevi d’accordo istantaneamente. Mettersi d’accordo istantaneamente vuol dire che Schäuble vince su Tsipras, su Varoufakis, anche se quest’ultimo è più simpatico.
Tirando le somme, sono i rapporti di forza quelli che contano, però una cosa è dire: cedo davanti ai rapporti di forza però so, ho detto e dirò; sono un portatore di istanza critica che oggi non ha la forza di affermarsi, ma permane l’istanza critica. Altra cosa è dire che va tutto bene e che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili e che destra e sinistra non esistono più e che l’unico modo per essere di sinistra è di fare il job’s act. Sono due modi molto diversi di accettare i rapporti di forza dati.
Chiudo sulla sinistra cattolica. La sinistra cattolica diventa importantissima quando Lamennais, che era partito controrivoluzionario, diventa prima liberale negli anni ’30, e poi democratico negli anni ’40 dell’Ottocento. Però la sinistra cattolica, il cattolicesimo democratico, ha sempre il problema di rapportarsi con la gerarchia, con le istituzioni, e le istituzioni l’ha frenata. Ha dato la sua risposta cioè la Rerum Novarum prima e intanto sterminava il modernismo che pesa, e poi nel ’31 si inventa la sussidiarietà con la Quadragesimo anno, che è una delle fonti dell’ordo-liberalismo. L’ordo-liberalismo può anche essere definito come la teoria della sussidiarietà tra economia e politica: quello che non fa l’uno fa l’altro, nessuno dei due può predominare.
E il cattolicesimo democratico è una parte del mondo cattolico di vario peso e di varia importanza a seconda dei momenti e dei luoghi, che ha alle spalle elaborazioni intellettuali anche notevoli, soprattutto francesi, fino a Maritain, e che ha fatto parte del mondo complesso e variegato della Democrazia Cristiana, ma, come dire, non c’è mai stato un partito della sinistra cattolica in Italia. È sempre stato un pezzo di un fronte più ampio, dentro il quale fronte si trovava e agiva per spostare, nei limiti delle sue capacità, la direzione politica complessiva.
Tenete conto che dire sinistra cattolica non è la stessa cosa che dire cattolicesimo sociale. Perché esiste anche un cattolicesimo sociale non di sinistra. Fanfani, che io faccio fatica a definire di sinistra, era invece portatore di una spiccatissima sensibilità sociale che gli nasceva da padre Gemelli, gli nasceva dal corporativismo. Lo stesso Dossetti aveva, soprattutto durante la fase costituente, posizioni che non erano coincidenti con le posizioni di sinistra, Dossetti diventa molto più di sinistra soprattutto quando vede Berlusconi. Soprattutto quando vede Berlusconi diventa di una sinistra, come dire, estremamente sintonica rispetto alla sinistra borghese, una sinistra liberal diciamo. Ma i suoi giudizi sulla Costituzione, all’epoca, erano giudizi fortemente critici ed è difficile dire che erano da sinistra. Un tipo teorico di fondo di cui non c’è una trattazione, è che il cattolicesimo non ha mai avuto bisogno della modernità e delle diverse correnti della modernità per sviluppare un pensiero sociale.
Il pensiero sociale al cattolicesimo glielo dà tranquillamente il tomismo, non c’è alcun bisogno che si metta a flirtare con i liberali, con i democratici, con i comunisti, lo può fare. Alcuni cattolici l’hanno fatto, molti cattolici l’hanno fatto, ma il cattolicesimo deve fare i conti col papa, col Vaticano, con la gerarchia, con la dottrina sociale della chiesa, dottrina che viene elaborata ben prima che ci fosse qualcosa chiamato modernità e che ad un certo punto viene rispolverata, lucidata e messa a punto in opposizione alla modernità. C’è una pretesa, ecco, una pretesa di autosufficienza teorica; la stessa istituzione che nel ’91 fa la Rerum Novarum, trent’anni prima aveva fatto il Sillabo e non l’ha mai ritirato, non ha mai detto: scusate, mi sono sbagliato. Questo è il motivo per cui non si può trattare il cattolicesimo politico di sinistra come si tratta il liberalismo, il socialismo, perché lì si devono fare i conti con una fonte dell’autorità talmente prevalente e talmente risalente che dire, a un certo punto, c’è la sinistra cattolica fa ridere. Si, c’è, c’è un mucchio di gente impegnata, ricca di pensiero e di azione, ma agli occhi dello storico, dello storico del pensiero soprattutto, l’elemento mirabile in tutti i sensi è la continuità dell’autoritas della chiesa e la sua capacità di venire incontro ai tempi, nella misura in cui essa lo crede opportuno, con strumenti essenzialmente propri e prendendo di volta in volta dai tempi ciò che le viene utile senza aderire ai tempi. L’adesione perfetta ai tempi farebbe della chiesa un pezzo di mondo e la chiesa sta nel mondo senza essere del mondo.
Per cui in ogni momento, anche oggi, dentro la chiesa ci sono posizioni di estrema destra e di estrema sinistra, ma non sono qualificanti, né le une, né le altre. Lo studioso di caratura filosofica che cerca di mettere ordine a un certo punto si trova per le mani ciò che è conoscibile e storicizzabile, liberalismo, democrazia, socialismo, comunismo, fascismo, socialdemocrazia, neo-liberismo, ordo-liberalismo, e ciò che invece è un’altra storia, che si confronta con queste e che di volta in volta inventa le risposte, ma che non ha mai un’autonomia.
La storia del pensiero economico-sociale della sinistra cattolica, e anche delle destra cattolica, è molto più povera di una storia delle encicliche. Cioè, l’elemento affascinante lì è la storia delle encicliche dove vedi i cambiamenti, ma vedi anche le lacrime negli occhi, e vedi anche questa continuità che nessuna istituzione laica si è mai potuta permettere. Per cui ogni volta hai un adeguamento critico, ma mai una adesione intima. La chiesa è un’altra cosa, il cattolicesimo soprattutto. Mentre il protestantesimo a un certo punto si è sostanzialmente confuso col mondo, il cattolicesimo ha questa curiosissima natura di essere immerso nel mondo fino al collo e di non confondersi con esso. Finché c’è un’autoritas pontificia che è certa di sé, non verrà mai a patti con il mondo, starà nel mondo senza essere del mondo. La pregnanza del pensiero politico davanti a ciò viene meno.
Qui non devi più studiare la potestas, e le forme della potestas, devi studiare l’autoritas che è tutta un’altra cosa, che va capita con tutt’altre categorie. Parlo da laico, capace di capire la differenza fra Marx e papa Leone XIII che si occupano tutti e due di società. Vediamo qual è la soluzione dell’uno e la soluzione dell’altro. No, tu non capirai mai la soluzione di papa Leone se non capisci che quello lì è un papa quello che parla, non è un qualunque professore, o studioso di politica, o un agitatore politico. Quello parla investendo il problema sociale con l’autoritas, non con la potestas. E lo stesso fa papa Bergoglio con soluzioni contingenti un po’ diverse ma la fonte del pensiero è ai miei occhi palesemente diversa dalla fonte del pensiero dei filosofi moderni. Il motivo di fondo è questo.
Io penso di aver parlato fin troppo, vi ringrazio dell’attenzione.