Il guadagno del reducismo

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Giovanni BianchiQuel che ci unisce

Non c’è bisogno di disturbare il Qoèlet per stabilire che anche in politica ogni cosa e ogni condizione hanno il loro guadagno. E quindi nella fase della politica senza fondamenti è pensabile che anche il reducismo sia in grado di portare il suo contributo e il suo dono. Non solo perché ai cigni neri possono succedere i cigni bianchi, ma soprattutto perché noi gente sull’età siamo tutti a qualche titolo sopravvissuti nel tempo della rottamazione e soprattutto perché qualcosa di importante delle culture politiche pregresse ci è rimasto addosso.

Basta sfogliare il saggio introduttivo di Mario Tronti al volumone su L’operaismo degli anni Sessanta a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana per rendersi conto del radicamento di una tra le tante tradizioni politiche del Belpaese e del livello alto che la memoria può attingere anche quando si pone il problema di essere produttiva per l’oggi (e forse anche per il domani). Tuttavia – è risaputo – anche le posizioni più pensate e più praticate prima o poi defungono… Il problema per la politica e per le nuove generazioni è: cosa resta?

Qui entra in campo il reducismo, che nel caso nostro è consistente, vivace, variegato per la compresenza di una serie di posizioni pluralistiche.

Vantaggio del reducismo è che col tempo – salvo le inevitabili eccezioni ideologiche ed ostinate – si stemperano le contrapposizioni e perfino le idiosincrasie e si esaltano e si avvicinano le affinità riconosciute. Così, per essere rapido, i berlingueriani di ritorno trovano del tutto naturale andare a braccetto con i morotei inconsolabili.

Perché è proprio delle parzialità al tramonto saper cogliere la totalità. Perché appartiene all’ascetica politica (tutta la grande politica ha alle spalle una teologia politica) il mantra weberiano: “Malgrado tutto, continuiamo”! Perché non esiste né politica né democrazia senza amicizia (anche Tocqueville se n’era accorto).

E il trascorrere degli anni, anche in campi contrapposti, e l’uscita dalle cariche di potere rende più consona la familiarità, soprattutto se si è confluiti, a partire da radici diverse, nel medesimo partito.

Insomma papa Giovanni XXIII diroccò gli steccati di allora privilegiando quel che unisce rispetto a quel che divide e ci dispone all’amalgama oggi.

Per concludere rapidamente questo estemporaneo elogio del reducismo dirò anche che le nostre culture di appartenenza sono obsolete e defunte. Disponibili nei casi migliori a qualche trapianto d’organi in una cultura nuova, comune e futuribile. Della quale si avverte la necessità perché ancora non consiste, e ciò comporta il grave rischio che al vecchio succeda non il nuovo, ma piuttosto il vuoto.

Le nostre culture possedevano nella loro ostinazione saldi fondamenti. Quelle odierne hanno la leggerezza volatile e accattivante della pubblicità, che non mette in discussione le ragioni del suo guadagno e che è in grado di creare una vasta domanda a partire dall’offerta. Così le leadership, carismatiche e osannate, sono costrette a inseguire il proprio elettorato recitando la parte di chi si pone alla testa.

La militanza senza ritorno

Orbene le culture in armi novecentesche di noi reduci plurali hanno faticosamente ma saldamente camminato sulle gambe dei militanti politici. Ma credo proprio non sia all’ordine del giorno l’eterno ritorno della militanza. Grande e a suo modo eroica figura quella del “militante”. Claudio Magris ne ha scritto come si conviene in chi continua a respirare il grande clima mitteleuropeo.

“Quei testimoni ed accusatori del “dio che è fallito”, che negli anni tra le due guerre percorrevano spesso le strade e i caffè di Vienna come un territorio dell’esilio, hanno vissuto la milizia rivoluzionaria come una visione globale del mondo nella quale le scelte politiche coinvolgevano le domande sulle cose ultime. Quei transfughi del comunismo staliniano hanno lasciato una grande lezione, perché del marxismo essi hanno conservato l’immagine unitaria e classica dell’uomo, una fede universale/umana che talvolta si è espressa, con ingenuità, nelle forme narrative del passato. Ma quella loro umanità, che dalle temporanee sconfitte dei propri sogni non trae l’autorizzazione a irresponsabili licenze intellettuali, è ben diversa dalla civetteria degli orfani odierni del marxismo, i quali, delusi perché quest’ultimo non si è dimostrato l’apriti Sesamo della storia, si abbandonano a striduli lazzi su ciò che fino a ieri sembrava loro sacro e infallibile”…

Di essi si è detto che sbagliavano da professionisti. Di quanti, sotto differenti bandiere, differivano il soddisfacimento di bisogni presenti in nome dei fini e del destino di una società futura. In nome della società senza classi, dell’uomo integrale, delle diverse variazioni sul tema del sole nascente dell’avvenire… Una antropologia sulla quale ha di fatto camminato la democrazia italiana in tutto il secondo dopoguerra.

Si tratta ovviamente di militanti marxisti, anzi, stalinisti, ma l’idealtipo e l’antropologia sono più che allusivi per altre forme di militanza che si sono esercitate sotto diverse bandiere, ivi compresa la bianca. Razza estinta comunque quella del militante da qualche decennio.

Il linguaggio corrente, che mantiene comunque una sua verità, sul finire degli anni Ottanta, in epoca improvvidamente thatcheriana, storpiò addirittura la parola “militante” nel termine “militonto”: chi cioè non aveva capito che i tempi erano irrimediabilmente cambiati.

Andiamo alle strette e alla plebea: vedo in giro ancora molti richiami della foresta, ma non ci sono più le foreste, per nessuno. Quando Matteo Renzi sceglie in un pomeriggio l’entrata nel Pse europeo, non taglia alcun nodo gordiano: semplicemente vede e constata che il nodo non c’è più.

Il miracolo delle primarie

Anche Matteo Renzi è un fenomeno sociale. Anche il leaderismo d’epoca che caratterizza lo spirito del tempo è un fenomeno sociale da valutare come tale. E Matteo Renzi non ci sarebbe se in Italia i democratici non avessero importato le primarie.

Le primarie ci hanno salvati, hanno sostituito un mito originario assente, ci hanno consentito di trovare un legame con la gente, anche quella critica e sfiduciata. Le primarie hanno scelto Renzi, che non ha mai nascosto di essere interessato a governare più che a ristrutturare il partito. In questo il percorso di Matteo Renzi e quello di Tony Blair differiscono. La sua leadership continua ad avanzare veloce e incontrastata e quindi abbiamo tempo e modo di porci una domanda ineludibile: si può governare senza partiti?

Anche a me – che sono vecchio, anche se non stanco – pare di no. Quindi, dal basso e dalle periferie, tutti entusiasticamente attenti al rude invito di papa Francesco, dobbiamo metterci a costruire il partito e i partiti. Perché per le logiche e i contrappesi della democrazia non ne basta uno solo. (Sarà bene per gli equilibri della democrazia mettere nel conto anche una rinascita della destra.) Va bene che il partito sia aperto, giovane e al femminile. Va bene anche spalancato e attento ai diritti dei gay. Ma va costruito.

Che cosa significa “autonomia”

Propongo in proposito una riflessione sul concetto, polivalente, di autonomia. E mi pare che si debba riconoscere che il partito (si sarà capito che sto pensando dall’interno del partito democratico) a questo punto è già autonomo dalle culture politiche che l’hanno messo al mondo. La mia e quella degli altri. C’è ancora in giro il richiamo della foresta, ma non ci sono più le foreste, per nessuno. E d’altra parte un partito che non lavora alla sua nuova cultura rischia grosso per il presente e più ancora per il futuro.

Un partito ha bisogno di una cultura dei territori e cresciuta sui territori. Un partito capace di fare continuamente squadra. Un partito cioè che deve farsi senza retorica “laboratorio”.

Questo è il partito al quale vorrei lavorare. Non a caso tutte le forze politiche (tranne la Lega) sono in disarmo. Non a caso il Parlamento – che riesce comunque ad essere lo specchio del Paese – sembra uno scalo ferroviario a Ferragosto. Vengono al PD elettori e parlamentari, i sindaci e i consiglieri comunali, perché, tuttora in faticosa formazione, siamo molto più partito degli altri che lo sono meno di noi.

Questo è il realistico relativismo della politica, e non va dimenticato.

Un nuovo personale politico

Mi sono deciso a questo elogio del reducismo perché mi è parso meritevole di una considerazione che ne misuri, insieme alle opportunità, i limiti necessari.

Senza la disponibilità di questi reduci, buona parte al femminile, non sarebbe stato possibile l’allestimento e la conduzione di una sola elezione primaria. Circoli e sezioni sarebbero deserti. La costruzione del partito del futuro più complessa e improbabile.

Ho detto ancora una volta partito, ma mi sento anche di dire il soggetto o lo strumento politico che vengono dopo il partito di massa. E se il termine partito fa problema, appare vintage e demodé, chiamiamolo pure “motociclismo”, ma mettiamoci all’opera.

Ai cari fratelli reduci – amici e compagni – un’ultima avvertenza e un avviso ai naviganti. Prima dell’organizzazione possibile va capita e messa nel conto l’antropologia di queste giovani generazioni che pur fanno politica.

Perché prima viene il personale politico. Con esso i conti vanno fatti. Sulla misura dei loro sogni va pensato il nuovo partito. Perché perfino La Scrittura dice che gli anziani devono continuare a sognare. E nulla vieta di pensare che il sogno diventi comune: ossia che il sogno dei giovani contagi l’immaginazione dei vecchi.

We can… Insieme si può. Cioè provarci insieme: la generazione di Telemaco e quella di Enea, di chi viene da una città distrutta e vorrebbe contribuire a costruirne un’altra.

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