Due analisi disincantate
Due, dall’interno, sono le analisi più critiche sulla crisi del Partito Democratico. Quella di Gianfranco Brunelli sul “Regno” e quella di Franco Monaco su “Appunti”.
Per Brunelli, notista politico della rivista dei Dehoniani e tra i più lucidi interpreti del Romano Prodi pensiero, le improvvise dimissioni di Walter Veltroni, dopo la sconfitta campale nelle regionali della Sardegna, pongono in sostanza un interrogativo retorico: “La modalità e il momento delle sue dimissioni fanno sorgere il dubbio, a ritroso, che i 15 mesi della sua segreteria siano stati vissuti politicamente all’insegna del velleitarismo e dell’inadeguatezza.”[1] Inadeguato rispetto a che? Brunelli ovviamente guarda dall’ottica privilegiata della rivista per la quale scrive, e il PD gli appare inadeguato perchè “al centro non sfonda. Perde piuttosto voto cattolico e voto moderato verso l’UDC, la quale a sua volta cede voti in misura più consistente a Berlusconi.”[2]
Del resto “Veltroni aveva scelto: dal bipolarismo al bipartitismo, dall’Ulivo a un partito similsocialista europeo, aperto a tutti, in virtù del suo basso profilo identitario .”[3]
Osserva Brunelli che già il processo di transizione sistemica aveva visto un atteggiamento singolare e una scelta spericolata da parte di Veltroni, dal momento che “pensò di aprire una fase del tutto inedita e compì come suo primo, e di fatto unico, atto politico quello di andare in soccorso a Berlusconi, individuandolo come il solo interlocutore.”[4]
E se da un lato l’abbandono di Veltroni (17 febbraio 2009) ha effettivamente sorpreso le correnti, ridisegnando in faccia agli oligarchi tutte le vecchie rughe, dall’altro si tratta di prendere malinconicamente atto della circostanza che i cattolici democratici risultano meno interessanti “rispetto al quinquennio precedente, per le gerarchie ecclesiastiche, sia perché sono ritenuti progressivamente sempre meno rappresentativi dell’area cattolica, sia perché quel che interessava davvero era la speranza-verifica circa la possibilità di un rinnovamento della sinistra, soprattutto di quella ex comunista, ritenuta culturalmente meno radicale.”[5] Per Brunelli, conseguentemente, rimane semplicemente “vivo lo schema delle intese che le gerarchie ecclesiastiche in genere cercano di realizzare col diverso da sé: nel campo del centrosinistra, ritenuto ormai ostile, sarà con le componenti non cattoliche che contano.”[6]
Più interna, se si può dire così, l’analisi di Franco Monaco su “Appunti”. Un’analisi che si muove lungo il filo e nel segno “dell’assunto, espressamente formulato da Veltroni, dei ‘15 anni buttati’.”[7]
Tutta l’analisi di Monaco parte da un confronto con l’orzzonte e la nostalgia dell’Ulivo. Un Ulivo che si proponeva: “1. passare da una democrazia bloccata a una democrazia competitiva e dell’alternanza; 2. da una democrazia della mera rappresentanza a una democrazia governante, cioè da un sistema nel quale i cittadini si limitano a eleggere i propri rappresentanti in Parlamento a un sistema nel quale essi scelgono i governi, sottraendoli alla morsa e agli interessi angusti delle oligarchie di partito, così da conferire loro più forza e più stabilità; 3. da una democrazia tutta e solo dei partiti a una democrazia restituita ai cittadini al servizio dei quali gli stessi partiti dovrebbero porsi. Si rammenteranno, al riguardo, due fortunate metafore rispettivamente coniate da Gianfranco Pasquino e Roberto Ruffilli: si trattava di restituire lo scettro al principe, al cittadino sovrano e di fare di esso l’arbitro-decisore del sistema democratico.”[8]
Punto di snodo di tutto il ragionamento di Franco Monaco è il governo, il secondo, di Romano Prodi. “Prodi, come ama dire lui stesso, ha vinto due volte e due volte è stato buttato giù dai “suoi”. (?).”[9] Si aggiunga la “sciagurata “separazione consensuale” consumata con allegria e leggerezza tra Veltroni e Bertinotti.”[10] Si aggiunga altresì un deragliamento dalle regole interne, siano esse scritte o non scritte. Osserva Monaco: “I loquaci consiglieri giuridici di Veltroni, in passato, avevano teorizzato in ogni sede sia il principio di responsabilità per cui il leader sconfitto passa serenamente la mano, sia il principio di contendibilità per il quale le primarie o sono competitive o non sono primarie.”[11] Aggiunge ancora Monaco una osservazione davvero pertinente: “Qualcuno dovrà pur ricordare, per la storia, che il governo Prodi non avrebbe avuto i problemi che ha avuto a motivo di una risicatissima maggioranza al Senato se solo, per quel ramo del parlamento, ci fossimo presentati con una lista unitaria dell’Ulivo che invece fu affossata da una sciagurata decisione di Margherita in una drammatica assemblea del 2005 nella quale Rutelli e Marini, Franceschini e Fioroni fecero la spunta nominativa dei loro seguaci.”[12]
Inevitabile, come sempre, a questo punto il problema del che fare. La ricetta di Monaco è condivisibile: primo, “mettere a punto un programma audacemente riformatore nitidamente alternativo al sistema di valori della destra berlusconiana.” Secondo, “tessere una politica delle alleanze su più fronti a partire dal programma riformatore cui si è fatto cenno.” Terzo infine, “la priorità delle priorità: la democrazia interna di partito.”[13]
Poco, anzi nulla da obiettare alle direttrici del programma annunciato. Ma credo si tratti di fare i conti con ben altra profondità per quel che riguarda la radice della crisi del partito democratico. Fare i conti cioè con quello che mi pare l’autentico buco nero dell’ipotesi politica fin qui realizzata, o meglio, non realizzata, che ha dato luogo non a caso a una falsa partenza che Franco Monaco bene enuncia così: “Partito Democratico, un partito… mai partito”.
L’assenza di un’organizzazione simbolica
Credo di poter additare in un difetto di elaborazione culturale il vero peccato originale del partito, ed anche la sua falsa partenza. Perché anche un partito “plurale” e postmoderno non può fare a meno di un comune punto di vista, in costruzione, in progress… A questo vuoto letale, a questo “buco nero” ben si coniuga – una coppia ferale – la demolizione della democrazia interna di partito, che trova un supporto sistemico in quel porcellum calderoliano, tanto esecrato a parole quanto rispettato e applicato alla lettera (e anche secondo lo spirito) da una nomenklatura residuata da vecchie, e gloriose, dorsali organizzative. Triste epifania in tal senso la compilazione delle liste per le elezioni d’aprile. L’autoreferenzialità delle correnti personali non ha posto argini alla propria avidità narcisistica. Non rappresentatività e ricerca del consenso, non competenze: una feudale sindrome della “fedeltà” è riuscita a far premio su tutto il resto. Ho sempre apprezzato Rabelais: “Amo l’ortolano, perché ha un piede per terra e l’altro non molto lontano”… Neppure l’antica saggezza contadina che sa mantenere il vecchio albero in salute con gli innesti opportuni ci è venuta in soccorso. Veltroni ha perso lì, non prendendo le distanze da una nomenklatura di amici e compagni che, riconoscendolo interno alla propria storia, non ha poi smesso di stringerlo d’assedio.
Ma si tratta del partner più debole ed anche meno interessante di quella che ho definito la coppia ferale. La sconfitta (di un progetto, non quella elettorale) passa dall’altro lato: quello di una assente organizzazione simbolica, a suo modo“classica”, della realtà: questo è infatti il primo compito di ogni organizzazione politica. Quel che gli operaisti italiani chiamavano la costruzione di un “punto di vista”. Meglio ancora, si tratta di fornire una risposta all’esigenza di organizzazione simbolica della realtà, perché è anche in presenza della caduta delle grandi narrazioni ideologiche, dei loro tecnicismi di massa, che questo compito si è fatto per questa politica imprescindibile. Soprattutto se si considera il postmodernismo, sparso a piene mani, come la verità negativa della modernità, uno smascheramento delle sue pretese mitiche, e cioè “l’ideologia di una specifica epoca storica dell’Occidente, in cui gruppi umiliati e offesi cominciano a recuperare qualcosa della loro storia e del loro modo di essere”.[14]
Tutti i giochi linguistici e mediatici possibili non possono prescindere da questa costruzione. Sia per chi attraversa il postmodernismo con un’intenzione in avanti di riforma, sia per chi elabora reazione spicciola volendo tornare all’indietro, evocando quindi i miti delle piccole patrie, in una sorta di nazismo fai-da-te, legato al sangue e alla terra. Le piccole solidarietà, i piccoli egoismi. Questa infatti la melanconica, e pericolosa, narrazione delle piccole patrie.
Se non si procedesse nella direzione di una operazione culturale che comporta una ricostruzione simbolica per l’interpretazione della realtà, la storia diverrebbe “una raccolta incoerente di infinite micronarrazioni prive di ogni legame e impossibili da raccontare, e gli studiosi si troverebbero nella condizione del famoso neonato descritto da William James, che, per mancanza di facoltà concettuali e discriminatorie, percepiva il mondo come ‘una grande, inesauribile e animata confusione’.”[15]
Non solo si tratta di tentare di pensare in grande, ma di non dimenticare addirittura quali interessi materiali siano in gioco nella stessa pratica storiografica. Per la sinistra e il suo centro si tratta di procedere alla individuazione di uno scenario nel quale sia possibile la costruzione “di un mondo in cui libertà ed eguaglianza siano una prospettiva concreta per tutti e non un privilegio di pochi.”[16]
Per questo non bastano i nazionalismi riverniciati, perché è come cantava Paolo Conte in “India” : “e il mondo coloniale si crede intellettuale… e il mondo coloniale si crede spirituale…”.[17] Pensare in grande non è dunque un optional ma una necessità. Siamo costretti infatti i a scomodare un’altra volta il Max Weber di L’Etica protestante lo spirito del capitalismo: “I problemi della storia universale saranno inevitabilmente e legittimamente trattati da chi è figlio del moderno mondo culturale europeo con questa impostazione problematica: quale concatenamento di circostanze ha fatto sì che proprio sul terreno dell’Occidente, e soltanto qui, si siano manifestati fenomeni culturali che pure – almeno secondo quanto amiamo immaginarci – stavano in una linea di sviluppo di significato e validità universale?”.[18]
Le dinamiche
A ben guardare è qui che si colgono le dinamiche, virtuose o perverse, del rapporto del Partito Democratico con Berlusconi, e soprattutto con il berlusconismo. Il Cavaliere di Arcore non ha bisogno di elaborare un progetto. Gli basta mettere in scena la fotocopia di quel che c’è. O almeno lì può trovare e trova tutti gli ingredienti necessari. I suoi atteggiamenti talvolta macchiettistici (le corna durante le foto ufficiali, il cucù alla Merkel, il chiasso per invocare Obama nella reggia dell’indispettita Elisabetta) dicono soltanto una rappresentazione esagerata ed iperbolica, ma anche il senso di questa rappresentazione. Berlusconi non ha bisogno di inventarsi una cultura né degli intellettuali organici. Gli stereotipi correnti, in particolare quelli del video, costituiscono i suoi materiali da costruzione. Non è vero che il berlusconismo non abbia una cultura e per questo appaia di plastica: esso mette in scena la plastica che c’è (uno dei materiali più diffusi e durevoli) e lo spirito del tempo (senza troppo scomodare il grande Hegel).
Berlusconi sa benissimo che i comunisti non sono sopravvissuti alla fine del PCI e al crollo dell’URSS, ma l’anticomunismo continua a funzionare per la capacità che mantiene di aggancio ai moderati, perché il Berlusca “non ignora che il cuore del Paese, alla fin fine, batte molto di più dalla parte dell’anticomunismo che dell’antifascismo.”[19]
Berlusconi è cosciente di dover comunque rimettere insieme, con i materiali esistenti,una nuova narrazione. Non bastano i carri armati a legittimare un potere, figuriamoci un successo mediatico. Neppure il successo elettorale è sufficiente, perché non è vero che soltanto esso serva e basti a ungere l’unto del Signore. E nella scatola degli arnesi la patacca dell’anticomunismo continua ancora a funzionare egregiamente… L’anticomunismo berlusconiano riemerge in questo modo, con il costo di qualche ben visibile contraddizione. Berlusconi dunque sa benissimo che con la fine del partito comunista sono finiti comunisti. Sa che perfino i residui sono innocui, tantopiù dopo la caduta del Muro di Berlino. Non a caso alleva nella propria corte personaggi “convertiti” e affidabili come Sandro Bondi. Semplicemente nei confronti del comunismo non nutre necessariamente una fobia, se non apparente e molto esibita: quelli sono i materiali residuali che l’archeologia gli appresta per costruire la sua narrazione. Una narrazione che prenda le distanze dalla cosiddetta Prima Repubblica, e soprattutto dalla lettera e dallo spirito della Costituzione del 1948.
Nessuno meglio di Galli Della Loggia ha descritto la contraddizione insita nella fondazione del Popolo delle Libertà, perché la ricerca di una narrazione ideologica che ne legittimi il potere cozza con l’esigenza e con l’ambizione di presentarsi come il pacificatore della Nuova Italia. Perché “tutto ciò pone Berlusconi in contraddizione con quello che pure – l’ha detto lui stesso ed è da credergli – costituirebbe un suo effettivo desiderio: essere l’uomo della pacificazione nazionale; soprattutto, rappresentare un vero elemento di novità e di rottura rispetto alla vicenda italiana. Infatti l’antagonismo, la contrapposizione frontale, insiti nel proclama anticomunista mal si conciliano, anzi, diciamolo pure, rendono impossibile ogni proposta di pacificazione.”[20]
Su tutt’altro versante dovrebbero ovviamente collocarsi la sinistra e il suo centro. Proporre riforme significa criticare anzitutto la realtà esistente. Tornare in qualche modo alla Undicesima Tesi di Marx su Feuerbach. Anche se poi descrivere e mettere in scena non basta. È in mancanza di questa costruzione critica che il centrosinistra si trova di fatto risucchiato all’interno del berlusconismo. Populismo, apologia del capo, la spettacolarizzazione della politica e le sue liturgie musicali oramai purtroppo gli appartengono. In questo senso il centrosinistra è all’inseguimento e appare non di rado ai suoi stessi elettori come la fotocopia, spostata a sinistra, del populismo al governo.
Anche le sinistre, anche il partito democratico e tutte le sue culture di provenienza sono premute dal medesimo stato di necessità. Farlo criticamente è indubbiamente più difficile e costoso. Implica i tempi lunghi. Per questo il centrosinistra, che quando si guarda allo specchio si vede schiacciato sugli stilemi berlusconiani, è costretto a demonizzare Berlusconi, per recuperare una distanza e una credibilità, anzitutto ai propri occhi. Essere berlusconiani “puliti” è un modo per non apparire berlusconiani tout court.
È questo il caput mortuum, la fossa delle Filippine, l’inciampo vero nella costruzione del Partito Democratico. Gli intellettuali organici sono spariti perché non hanno chiaro per quale organicità lavorare. Il lavoro culturale (non quello accademico) è comunque al primo posto, anche nella proposta di un partito mediatico. O meglio, di un partito che fa i conti con una lunga stagione mediatica. Penso a tutte le discussioni iniziali intorno al partito delle tessere o al partito volatile, al partito pesante o al partito leggero, al partito degli eletti o quant’altro… In effetti riunioni di organismi organizzate nel primo pomeriggio di un giorno feriale dicono una cosa evidente: il partito è fatto di fatto da professionisti della politica e da eletti e da pensionati di buona volontà e nostalgici. Chi mangia di politica, di mezza età o giovane, e chi alla politica è rimasto attaccato con un qualche romanticismo.
Senza un punto di vista, senza un’organizzazione simbolica della realtà ogni sforzo di proporre e fare politica è destinato a vanificarsi. Così declinano anche le grandi tradizioni. Massimo D’Alema, più che un erede del grande togliattismo, rischia di apparire una riduzione tattica del togliattismo. Walter Veltroni, nonostante una travolgente (e magistrale) campagna elettorale, ha finito per incarnare agli occhi dei suoi e del grande pubblico una sorta di romanticismo hollywoodiano: da Torna a casa Lassie al Lingotto…
Si potranno mettere in lista imprenditori di successo politicamente improvvisati, magari anche sontuose veline, ma l’organizzazione simbolica della realtà resta un fatto politicamente imprescindibile. La conditio sine qua non. Non a caso, da reazionario, anche Umberto Bossi si è avventurato in questa sorta di bricolage. Il suo è anzitutto un approccio pedagogico, anche tra i gazebo e i tavoli delle osterie padane. Si è inventato i Celti e un intero Pantheon, ovviamente pagano, anche quando dichiara di difendere la famiglia cristiana. Il dio Po, il pratone di Pontida, i giochi e perfino il matrimonio celtico, le liturgie delle ampolle che annualmente viaggiano dal Monviso alla laguna veneta… Hollywood strapaesana e idee politiche avvolte nella carta rosa della “Gazzetta dello Sport”: il tutto custodito con gran cura e con ansia didascalica. Sa perfettamente che un partito non dura e non convince senza un punto di vista e i suoi luoghi deputati.
Si tratta insomma di riproporre narrazioni, aggiornate, in grado di offrire e inseguire saperi (rigorosamente plurali) disponibili al futuro. Senza questo sforzo non ci può essere né l’evocazione della passione dei post-militanti, né la fidelizzazione degli scritti e neppure il consenso dei votanti verso un partito nato all’interno e per i ceti medi italiani, per la middle class dei nuovi lavori creativi. Perché comunque un partito non può fare a meno dello zoccolo culturale e della sua esibizione.
Una divisione del lavoro
Questo il “buco nero” del Partito Democratico. Un buco che va rapidamente riempito. Con una prospettiva che i critici di parte prodiana tendono a misconoscere o sottovalutare. Credo sia necessario tenere in conto una divisione del lavoro che distingua nettamente la vocazione partitica da quella governativa. Credo che l’esperienza ci interroghi intorno all’impossibilità di procedere au rebours rispetto al percorso seguito con successo sia da Mitterrand come da Tony Blair: prima la riforma del partito, ristrutturato e risvoltato come un calzino, e poi la conquista del governo. Le circostanze italiane, così come le attitudini del Premier vincente hanno portato il centrosinistra lungo un percorso diverso, suggerendo la sensazione che un buon partito potesse seguire a un buon governo. Sono tempi da ripensare, così come Franco Monaco invita a ripensare i luoghi, ossia l’area dell’Ulivo, più vasta e diversa da quella del partito “maggioritario” che va da solo, condannando all’insignificanza le forze alla sua sinistra e se stesso alla sconfitta.
La crisi in atto e che, fin qui, ha incredibilmente premiato la destra, è in grado di sconvolgere il gioco e le sue carte. Jean-Paul Fitoussi coglie la nota dominante quando, muovendo controcorrente, dichiara: “Contrariamente a quello che si pensa, il vero ostacolo per una ripresa è l’ultimo aspetto: quello intellettuale. La crisi proviene da una grande menzogna. Non soltanto dei finanzieri, ma anche di politici, forse in buona fede, diventati prigionieri di una dottrina assolutista e che ha prodotto efetti catastrofici.”[21] E di fronte a una sorta di bugia assoluta ecco emergere la rivolta della popolazione. E la politica? Replica Fitoussi: “Quello che è successo in passato è che la politica si è volontariamente eclissata. Ora c’è da sperare che si vada verso un modello che cammini su due gambe, quella della politica e quella economica.”[22]
Ritorno della politica, dunque, e ritorno della cultura politica, non più così fiduciosa nelle doti del pilota automatico della finanza. E’ da questo versante che può ripartire una rigenerazione della democrazia, messa in crisi fin dalle fondamenta. E pensare che pareva una vecchia giaculatoria visionaria e cattolica quella di Livio Labor, indimenticato presidente delle Acli, che chiedeva a gran voce “democrazia anche economica”… Uno di quei cattolici in politica installati al centro dei problemi del Paese, e non di rado invidiati o malsopportati da chi, spingendosi verso il centro elettorale, pensa con ciò stesso di apparire moderato se non cattolico… Ma si tratta soltanto di etichette di tipo geometrico, destinate ad essere spazzate via non appena le culture politiche avranno recuperato, sul campo, quella dignità che loro compete e della quale l’Italia ha impellente necessità.
[1] Gianfranco Brunelli, Dopo il PD. Dal fallimento di Veltroni alla ridefinizione del centrosinistra, in “il Regno” Attualità, 15. 2. 2009, n. 4 (1051), p. 73.
[2] Ibidem, p. 74.
[3] Ibidem, p. 73.
[4] Ibidem, p. 73.
[5] Ibidem, p. 75.
[6] Ibidem, p. 75.
[7] Franco Monaco, PD, un partito… mai partito, in “Appunti”, gennaio-febbraio, 2009, p. 1.
[8] Ibidem, p. 2.
[9] Ibidem, p. 4.
[10] Ibidem, p. 5.
[11] Ibidem, p. 5.
[12] Ibidem, p. 7.
[13] Ibidem, p. 7.
[14] Citato in Mauro Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale, Asterios, Trieste, 21008, p. 14.
[15] Ibidem, p. 15.
[16] Ibidem, p. 15.
[17] Citato in ibidem, p. 17.
[18] Citato in ibidem, p. 18.
[19] Ernesto Galli Della Loggia, Le ombre del passato, in “Corriere della Sera”, domenica, 29 marzo 2009, p. 1.
[20] Ibidem, p. 1.
[21] Intervista a Jean-Paul Fitoussi, “Questa è una rivolta popolare, la gente si è sentita presa in giro, in “la Repubblica”, giovedì 2 aprile 2009, p. 4.
[22] Ibidem, p. 4.