(Dentro il cuore e fuori dai denti)
Credo che non solo tra il popolo della Lega Nord, dal momento che non nutro dubbi sulla fede cristiana e la sincera ricerca di non pochi tra loro, si sia aperta una riflessione su come sia doveroso meditare il tragico mistero del Crocifisso, anziché servirsene come una clava. Perché si è visto che “quella” clava si trasforma rapidamente in boomerang e torna in fronte, proprio in mezzo agli occhi, di chi l’ha incautamente adoperata.
È così che l’arcivescovo di Milano, il cardinal Dionigi Tettamanzi, è stato accusato dall’organo ufficiale della Lega di fare l’imam islamico al posto del vescovo cattolico. Insomma, caro Arcivescovo da Renate Brianza, la smetta di dare scandalo e fare l’apostata. L’identità cristiana non contro la solidarietà e l’accoglienza, ma contro il Vangelo. La paura al posto del prossimo. Non è ovviamente in gioco la correttezza nell’interpretazione delle Scritture, ma il fastidio che Tettamanzi (quando un personaggio è sulla bocca di tutti saltano i titoli di presentazione professionale) suscita in una parte non residuale dell’opinione pubblica. Soprattutto perché agli occhi dei suoi detrattori l’Arcivescovo di Milano appare ostinatamente recidivo. Interviene senza perifrasi ogni vigilia di Sant’Ambrogio sui mali della città. Ha inventato il fondo di solidarietà famiglia-lavoro per chi ha perso l’occupazione e ha distribuito danaro a quelli in difficoltà mentre sindacati e partiti facevano convegni. Dice chiaro e forte che non gli piacciono i modi a dir poco bruschi con cui vengono sgomberati i campi dei rom (anche se questi non sono islamici), e insomma interviene nei drammi di ogni giorno invece che guidare canti liturgici e pie novene. Per questo il Cardinale è diventato “un caso” e, vedi un po’, un caso politico.
A tutto farebbe pensare il suo aspetto cordiale e dimesso, da buon parroco di campagna (Renate Brianza, appunto), tranne che a un leader. E’ però pensabile che sulla cattedra di Ambrogio non sia consentito il silenzio. E infatti il suo predecessore, cardinale Carlo Maria Martini, pur abbondantemente in età pensionabile e afflitto dal Parkinson, si guarda bene dallo stare zitto e continua il magistero intervenendo sempre sui temi più spinosi. Non a caso i milanesi, non solo i cattolici, l’aspettavano per così dire al varco. Tettamanzi non si pose il problema. La sua oratoria piana e documentata. L’affabilità spontanea. Gli interminabili saluti ai fedeli, uno ad uno, una parola a ciascuno, alla fine delle visite pastorali. A Renate Brianza non era ancora arrivato il motto competition is competition. Da subito, all’ingresso in diocesi il 29 settembre del 2002, rientrando da Genova dove era riuscito a comunicare ai giovani una parola saggia sul senso del G8 passato alle cronache per la caserma di Bolzaneto, pronunciò una frase che mi parve degna di un profeta biblico: “I diritti dei deboli non sono diritti deboli”. Dalla parte dell’Altissimo e del Magnificat. Tutto il senso della maestà della Legge. Mi venne in mente tra i profeti dell’antico testamento Osea, il profeta mandriano. E incominciai, inconsapevolmente, una sorta di gioco dei paragoni. Se non a Martini, a chi paragonare Tettamanzi. Per il Nuovo Testamento il suggerimento fu scontato: lo paragonerò a Zaccheo, che pur di vedere il Messia s’arrampica sul sicomoro. Non ci sono sicomori a Renate Brianza, eppure. Eppure stiano attenti i critici incauti, questo Tettamanzi sul sicomoro è pronto ad arrampicarsi, nonostante l’età non più verde, perché il suo popolo ne veda chiaramente i segnali.
Ma la figura che mi è venuta in mente in queste giornate di polemica è quella di dom Helder Càmara, arcivescovo di Recife. Ancora più esile di monsignor Dionigi, il vescovo di Recife è passato alla storia come uno dei giganti dell’episcopato brasiliano, defensor pauperume punto di riferimento degli oppressi di tutto il continente latino americano. Ricordo il fascino dell’incontro. Scontando qualche critica nel gruppo dirigente delle Acli nazionali, avevo deciso di presenziare alla cerimonia in piazza San Pietro con la quale il Papa Polacco avviava agli altari Josemarìa Escrivà De Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, e del quale torno spesso a meditare le pagine di Cammino eForgia. Ebbene ebbi la fortuna provvidenziale di passare quasi tutta la giornata accanto a Dom Helder. Del quale è rocambolesco perfino il nome di battesimo, perché il Vangelo e il Buondio ignorano qualsiasi griglia selettiva. Helder non sta in nessun martirologio, per la semplice ragione che quando venne alla luce tra quattro misere mura, la madre, richiesta del nome per il battesimo, non trovò di meglio che guardare per ispirarsi a una mensola sul muro dove si trovava un barattolo con l’etichetta Helder, appunto. Così il bambino ebbe il nome e un principe di Santa Romana Chiesa, come si usava dire un tempo, ha esercitato il suo profetico apostolato col nome di un barattolo… Perciò critici e detrattori si guardino dall’aria di coltissimo curato di campagna: Tettamanzi quando è in gioco il Vangelo sceglie la rotta e la mantiene. Così è diventato punto di riferimento per i confratelli italiani.
Tettamanzi è tutto dentro, è al centro, della tradizione della Chiesa ambrosiana. È da sempre al centro della dottrina sociale della Chiesa, e può apparire “di sinistra” solo a chi dimentica che a far data dal trionfo della Thatcher (la Lady di ferro amava ripetere: “Non ho mai incontrato la società, ma soltanto individui”), il mondo si è vertiginosamente spostato a destra. Quanto all’accusa di “catto comunismo” rivolta al Cardinale, credo che le ragioni non siano neppure ideologiche, ma imputabili al prodigio etilico di chi ha inavvertitamente alzato il gomito.
Sant’Ambrogio, che non è un lontano parente degli ambrogini che vengono distribuiti sotto Natale a Palazzo Marino, viene definito dal maggior esperto contemporaneo di storia della Chiesa, ovviamente tedesco, come un grande Kirchenpolitiker: che, tradotto con l’acume filologico di Van Der Sfroos, significa nient’altro che un “politico di chiesa”. Non perché fosse clericale e impiccione: semplicemente perché difendeva i fedeli dagli ariani eretici, i deboli nei confronti dei potenti, le vittime della ferocia dispotica dell’imperatore Teodosio, quelli che invece che ritirarsi nelle ville di campagna per non avere fastidi, restavano a fare la loro parte tra le insidie della città. Perché Milano, da bere o bevuta, è sempre stata nei secoli una città difficile. Il vescovo Ambrogio accoglieva e dava una mano alla conversione di un africano di inarrivabile genio quale era Sant’Agostino. E s’era perfino concesso il lusso di nascere a Treviri, la città di Carlo Marx.
Dovrebbero pensarci quelli che si aggirano nelle cronache con l’aria di Obelix. E forse incontrando l’inquilino della Casa Bianca si troverebbero in imbarazzo a salutarlo con un sonoro: “Welcome Mr. Bingo Bongo”. Quelli che confondono il Monviso col Calvario, il Po con il fiume Giordano, il pratone di Pontida con le nozze di Cana, e, tra un boccale e l’altro, non di rado sdottorano di teologia lanciando mirate scomuniche e rilasciando patenti a punti di cristianesimo autentico. Se accanto all’ingegnosa fantasia con la quale sono andati a caccia delle radici celtiche avessero messo nel conto lo studio di qualche pagina di storia della Chiesa ambrosiana, avrebbero avuto modo di capire che all’ombra della Madonnina è tradizione antica l’intervento in temporalibus, nelle cose cioè che riguardano la vita quotidiana della gente comune.
Eppure non sarebbe difficile capire: è mite Tettamanzi, ma non flessibile, in un mondo, non soltanto quello politico, dove la mitezza è scomparsa mentre la flessibilità è diventata esercizio quotidiano e obbligatorio.