Che la rappresentanza espressa attraverso la forma costituzionale dei partiti sia in uno stato di grave crisi di credibilità presso un elettorato sempre più sfiduciato è cosa lapalissiana, nonostante i numeri comunque consistenti della partecipazione alle consultazioni elettorali, non ancora defluiti verso la crescente fascia dell’astensione.
I risultati delle elezioni nazionali dell’insolito scorso febbraio 2013 ne sono stati una prova: essi hanno consegnato un’Italia tripartita tra una compagine di forze essenzialmente conservatrici, un’altra costituita da partiti a “vocazione” progressista, ed un imprevisto raggruppamento “anti-sistema”, fruttificato dalle spinte protestatarie di una vasta platea di cittadini insoddisfatti. E’ forse stato questo l’effetto della cosiddetta antipolitica? Tuttavia è in primis il contenuto del sostantivo “antipolitica” a difettare: esso non dovrebbe essere inteso come la cieca, irresponsabile, risentita condizione di insofferenza di tantissime persone verso la politica, i partiti e le istituzioni.
1. leggi il testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo
2. leggi la trascrizione della relazione di Giuseppe Cotturri
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1. premessa di Giovanni Bianchi 8’14” – 2. introduzione di Andrea Rinaldo 24’18” – 3. relazione di Giuseppe Cotturri 54’50” – 4. domande 15’38” – 5. risposte Giuseppe Cotturri 25’50” – 6. domande 22’34” – risposte Cotturri 34’38”
Testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo a Giuseppe Cotturri
Nel vuoto generato dal declino dei partiti si affaccia una nuova stagione dell’associazionismo e del volontariato?
Uno. Un approccio critico alla materia
Che la rappresentanza espressa attraverso la forma costituzionale dei partiti sia in uno stato di grave crisi di credibilità presso un elettorato sempre più sfiduciato è cosa lapalissiana, nonostante i numeri comunque consistenti della partecipazione alle consultazioni elettorali, non ancora defluiti verso la crescente fascia dell’astensione. I risultati delle elezioni nazionali dell’insolito scorso febbraio 2013 ne sono stati una prova: essi hanno consegnato un’Italia tripartita tra una compagine di forze essenzialmente conservatrici, un’altra costituita da partiti a “vocazione” progressista, ed un imprevisto raggruppamento “anti-sistema”, fruttificato dalle spinte protestatarie di una vasta platea di cittadini insoddisfatti. E’ forse stato questo l’effetto della cosiddetta antipolitica? Tuttavia è in primis il contenuto del sostantivo “antipolitica” a difettare: esso non dovrebbe essere inteso come la cieca, irresponsabile, risentita condizione di insofferenza di tantissime persone verso la politica, i partiti e le istituzioni. La transitabilità nei due sensi tra politica ed antipolitica è probabilmente il tratto distintivo di questa fase, con mutamenti repentini di campo, mentre le evoluzioni del contesto appaiono più determinate dallo “tsunami incontrollabile degli eventi”, piuttosto che dalla forza intrinseca dei partiti.
Partiti che nella stragrande maggioranza scontano anche il limite di essere troppo di tipo “personale”, legati cioè indissolubilmente alla fortuna del loro leader di riferimento, o al mantenimento ab eaterno degli apparati, e molto, molto meno ancorati ai contenuti politici nonché alle necessità pratiche dei cittadini. La politica non può essere ridotta a mera amministrazione perché essa deve dare forma non a quello che c’è ma a quello che ci sarà. Deve avere una visione. Deve costruire una visione. Perché laddove essa si riduce a professione genera nel suo seno i germi insidiosi dell’antipolitica. Certamente non soccorrono in questa direzione neanche le nuove forme di trasformismo ammantate dalle incessanti “cause di forza maggiore”, che sono alla base della costruzione di un sempre reviviscente blocco di potere moderato-conservatore.
In questo degradare del sistema dei partiti ed in questa temperie culturale si inserisce l’accurata analisi di Giuseppe Cotturri, docente universitario, membro del comitato scientifico del sito www.labsus.org, laboratorio sulla sussidiarietà, che nel suo ultimo saggio “La forza riformatrice della cittadinanza attiva”, delinea un nuovo protagonismo delle compagini dell’associazionismo e del volontariato, che a pieno titolo si incuneano nel baratro generato da una partitocrazia forse al tramonto. Protagonismo peraltro promosso costituzionalmente anche dalla recente riformulazione dell’ultimo comma dell’art. 118, il quale oggi prevede che: “…Stato, Regioni, Città metropolitane, Provincie e Comuni favoriscono l’autonomia dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà…”. Quindi, prossimità delle istituzioni alle esigenze generali dei cittadini nella convinzione, come recita l’orizzonte programmatico del citato laboratorio sulla sussidiarietà, che “…le persone sono portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità e che è possibile che queste capacità siano messe a disposizione della comunità…”[2] Non si tratta pertanto soltanto del fatto di “cacciare” quelle persone ritenute indegne dalle istituzioni rappresentative, ma anche del tema più vasto e certamente più importante di una riforma complessiva del sistema politico-istituzionale tout court.
Due. Riformare il sistema dal basso
La tesi di fondo del testo è che le basi di una riforma complessiva degli equilibri del sistema si siano ormai ampiamente delineate. Tuttavia a questo proposito sarebbe necessaria una maggiore consapevolezza diffusa sia sulla crisi della rappresentanza politica (e questa forse c’è!), ma anche sulla progressiva nuova centralità assunta dalle pratiche di cittadinanza attiva, e quest’ultima invece probabilmente manca. E poi sulla prorompente fase di dismissione del welfare state, cioè del pilastro su cui ha poggiato per molto tempo la tenuta dello Stato liberale europeo, che è invece la connotazione forse più caratteristica della “società liquida” attuale. In questo contesto il cittadino è in balìa di eventi incontrollati e si trova spaesato, solo. Servirebbero più spazi pubblici di incontro dentro i quali si possano socializzare le paure, si possa magari discutere di “bene pubblico”: ebbene queste agorà non ci sono, mentre la politica appare orizzontalmente distante e profondamente autocentrica. Se il sistema della rappresentanza partitica ha costituito dal dopo guerra in poi, il binario quasi assoluto sul quale transitavano le decisioni pubbliche, da un quarto di secolo a questa parte, altre forme di coinvolgimento come quelle referendarie o quelle sussunte nella definizione della cosiddetta “democrazia partecipativa”, sembrano avere preso il sopravvento.
Si tratta non tanto di mobilitazioni che avvengono dentro/fuori dai partiti, ma del che cosa fare nella contingenza come “azioni positive”, e così – afferma il professor Cotturri – “…sulla base di pratiche sociali “positive” e autonome, è intervenuta una profonda trasformazione della democrazia…”[3]. Infatti tutta una serie di bisogni dei cittadini sono oggi soddisfatti attraverso il volontariato, il privato sociale, le forme di cooperazione, in una parola dagli attori del “Terzo Settore”, i quali hanno marcato anche la fase evolutiva di una modalità nuova del far politica, attraverso meccanismi di auto-attivazione finalizzati alla conquista di diritti denegati. “Sussidiarietà orizzontale” ne è la formulazione di rango costituzionale dal 2001 di questo processo, il quale trae forza dalle volontà espresse “dal basso” dall’estesa platea della “cittadinanza attiva”.
Detta così sembrerebbe la Caporetto dei partiti, in quanto quelle evoluzioni del sistema che dovevano essere dagli stessi promosse, sono state invece stimolate dalla mobilitazione delle numerose articolazioni della “società civile”. Infatti la realtà è spesso quella della rincorsa della politica su questi temi, a volte per finalità assimilative, altre volte con intenzioni manipolatorie. Ma vi è anche il problema del conflitto tra il sistema socio-economico del “consumismo infinito” versus la disponibilità non infinita di risorse naturali del pianeta; in definitiva sulla tenuta complessiva di tale ordine mondiale, oltre alla costante verifica delle modalità supposte a priori come democratiche mediante le quali vengono distribuiti i beni prodotti.
Se per Giorgio Gaber la libertà era partecipazione, per il docente qui con noi stamattina, partecipare è anche apprendere e comunicare, e la democrazia si può definire come un “regime dell’apprendimento collettivo” continuo, nella convinzione che non vi sia un “uomo solidale per natura”, ma che l’ homo, homini lupus prevalente si possa trasformare attraverso la formazione in un uomo solidale. E quando talune pratiche di solidarietà diffusa gestite nell’autonomia si accumulano, le stesse possono diventare il motore di un cambiamento sociale credibile: è così che si può passare dall’indignazione alla speranza; è questo il circuito virtuoso di un riformismo dal basso che assevera che un altro mondo è possibile.
Tre. Il “caso italiano”
La vicenda del Belpaese è stata ab origine quella di una “democrazia difficile”, di una perenne rincorsa verso riforme normalmente mancate, tanto che il professor Cotturri nella sua corposa introduzione contenuta nel testo che oggi analizziamo, si interroga su “… come può sopravvivere la Costituzione di una Repubblica tanto a lungo attaccata e alfine svuotata degli stessi soggetti che ne furono parti costituenti…”[4]. Forse la sua sopravvivenza è da ricercare proprio nell’azione di quei cittadini che con continuità hanno surrogato alle manchevolezze politico-istituzionali ed anche di recente agli effetti devastanti di una perdurante crisi economica. A rimuovere una riflessione in tal senso sono state poi quelle concettualizzazioni ideologiche figlie della “Guerra Fredda”, riassumibili nell’ambigua formula del “caso italiano”. Cioè in quella specificità tutta italica di una democrazia certamente sotto tutela, tuttavia in preoccupante ritardo nell’omologazione dentro la sfera di influenza occidentale e magari alla ricerca di improbabili (ed inaccettabili) “terze vie”.
La riduzione politica del dissenso entro un arco parlamentare bloccato da governi marcatamente anti-comunisti, attiva per oltre un decennio dopo l’omicidio di Aldo Moro, ha impedito anche una serena valutazione delle istanze provenienti dai soggetti reali della società, accentuando la progressiva insoddisfazione di ampi segmenti sociali. Il fallimento della commissione bicamerale istituita intorno alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, la quale pur coinvolgendo in un primo tempo le forze sociali territoriali, in realtà ne ha poi sancito l’impermeabilità da parte del potere politico ed invece la capacità di pesante condizionamento esercitata contemporaneamente da persone molto ricche, rientra in quella dimensione di tormentosa applicazione dei principi costituzionali che ha caratterizzato l’Italia dal dopo guerra in poi.
Italia che è sempre stata in bilico tra la difesa di quei principi, per esempio anche recentemente attraverso i Comitati per la Costituzione ispirati dall’ultimo Dossetti, e del loro “picconamento”, per fortuna spesso mancato come nel caso del referendum intorno alla metà del primo decennio degli anni duemila, che ha respinto la proposta di modificazione targata Bossi-Berlusconi. Il contenuto fondamentale del saggio di Cotturri ruota ciclicamente sulla “scoperta” che la Costituzione abbia miracolosamente trovato forza di attuazione proprio in quel patrimonio nazionale rappresentato da soggetti sociali molecolari diffusi, i quali agendo autonomamente e originalmente nel tempo, hanno così contribuito alla realizzazione del disegno repubblicano. E’ un libro sì sulla riflessione intorno alle virtù civiche, ma soprattutto sulla Costituzione come fonte primaria del patto sociale, come Magna Charta concreta e attuale “manifesto del nostro bene comune”.
Quattro. Le vie solidali alla partecipazione
Il gap tra democrazia costituzionale formale e quella sostanziale è dipeso (e dipende ancora) in larga misura dal grado di condivisione del patto sociale di convivenza, da quel senso civico di solidarietà che ne dovrebbe essere il motore principale che la norma giuridica può solo indicare, ma che è compito di ogni singola persona/cittadino riempire poi di significato. Infatti il disegno costituzionale – afferma nel suo testo il professor Cotturri – soprattutto con riferimento ai principi fondamentali, si può attuare soltanto nella continua circolarità tra diritto e pratiche sociali.
Tuttavia la dimensione solidaristica è rimasta per molto tempo un “inderogabile obbligo” relegato però soltanto sulla Carta, mentre come si è già detto, è appena stato introdotto dalla recente revisione dell’inizio degli anni duemila il fatto che vengano assegnati ai cittadini poteri per realizzare iniziative autonome di interesse generale. Con un distinguo però “… se l’economia quindi ha sostanzialmente rifiutato per sé ogni contaminazione “solidaristica”, la solidarietà pubblica attraverso apparati di intervento statale nel sociale è stata una conquista reale…”[5], dice il professor Cotturri. Così la fratellanza, il terzo dei valori fondamentali della rivoluzione francese (forse il meno sperimentato), in un certo senso suscitata anche da taluni contenuti della nostra Carta Costituzionale, non si può inculcare ma ad essa semmai si può solo essere educati.
“Promuovere”, “favorire”, “rimuovere”, sono verbi che rimandano ad un work in progress formativo e ad una attuazione della Costituzione proiettata verso il futuro. Il riconoscimento giuridico del Terzo Settore, cioè di quella compagine di attori che non sono né Stato né Privato, avvenne con la legge quadro del ’91, lo stesso anno del provvedimento normativo sulle cooperative sociali; l’anno anche del referendum sulla preferenza unica e della vigilia di “Tangentopoli”. Il mondo del privato sociale godeva in quella temperie di una grande fiducia da parte dei cittadini, così come aumentava progressivamente la forza di advocacy, mentre di converso le spinte anti-partitocratiche si accentuavano esponenzialmente. Il collateralismo con i partiti da parte delle grandi associazioni venne in un certo senso superato in seguito con l’istituzione del Forum del Terzo Settore, mentre la politica vecchio stampo cercava ancora di imporre il proprio protettorato; infine la legge del duemila sulle associazioni di promozione sociale a completare (finora) il quadro giuridico riguardante i principali componenti della galassia variegata del Terzo Settore. Ci sono voluti più di cinquant’anni per inverare un percorso di empowerment di iniziative civiche “dal basso”, per passare insomma dall’ “obbedienza” rispetto all’obbligo di solidarietà, ad apprenderne invece il contenuto declinato però in un contesto di responsabilità ed autonomia personale.
Cinque. Una democrazia a venire e prospettive della sussidiarietà
La contrapposizione tra “democrazia partecipativa” e “democrazia rappresentativa” è tutt’oggi oggetto del dibattito politico, e in questo senso la tesi di Cotturri è che stiamo assistendo alla costruzione di una “democrazia duale”, in pratica ad un sistema misto dove l’intervento dei cittadini concorre con quello dei poteri delegati. “Anticorpi tocquevilliani” si potrebbero definire, cioè contrappesi sussidiari alle possibili derive maggioritarie delle democrazie moderne, ed anche meccanismo attraverso il quale si possono attenuare le disparità tra governante e governato. Di formazione più recente è il termine “democrazia deliberativa” che tende a porre maggiore attenzione sulla fase della discussione pubblica, rispetto a quella della decisione.
L’escalation numerica del nuovo lessico sul motore di ricerca Internet più famoso Google, indica una netta caduta di interesse per le forme di democrazia rappresentativa, mentre di converso l’utilizzazione odierna della rete come forma di democrazia diretta, risente forse in qualche caso di una eccessiva mitizzazione del web. Tuttavia è il concetto stesso di democrazia a vacillare, soprattutto dopo l’implosione dell’altro modello alternativo quello del socialismo reale, tant’è che vi sono oggi taluni studiosi che stanno elaborando teorie non solo al di là della concezione statuale ma anche di quella democratica così come l’abbiamo finora intesa.
Le incipienti forme partecipative vanno lette anche come azioni “reattive” al pensiero unico neoliberista,proprio perché “…E’ la globalizzazione che sottopone a torsioni tremende vecchi sistemi di gestione dei conflitti sociali…”[6], afferma Cotturri. Bisogna dire inoltre che le forme di cittadinanza attiva si muovono di regola tra delega e sussidiarietà, ma risentono profondamente dell’influenza non sempre disinteressata delle autorità, le quali spesso fissano percorsi preordinati indicati magari con la scusa di interpretarne il livello di rappresentatività, mentre di sovente rasentano l’eterodirezione. Quali orizzonti allora per la sussidiarietà? Se si considera l’arco temporale rappresentato dal primo decennio del 2000, e in particolare la legge istitutiva del servizio civile nazionale (dopo l’abolizione della leva maschile obbligatoria), la costituzione del sistema integrato di assistenza socio-sanitaria, la normativa sul 5×1000, si potrebbe essere fiduciosi in ordine alle politiche messe in campo per la sussidiarietà. Tuttavia delle riforme citate nessuna gode oggi di buona attuazione. Il busillis è allo stato attuale quello di “fare di più con meno”. Comunque l’indirizzo costituzionalmente implicito invoca certamente una politica di sussidiarietà che si traduca poi in una governance, cioè in una sorta di “governo allargato” dove i soggetti auto-attivati sono favoriti dalle pubbliche autorità nel perseguimento di finalità di carattere generale. Nei tempi di crisi poi, le forme sussidiarie di azione possono essere simili ad una “foresta che cammina”, ed una seria politica della sussidiarietà può creare certamente un “capitale sociale”, così prezioso per il buon funzionamento delle istituzioni e per il benessere dei cittadini.
Sei. Le questioni aperte
La concezione personalistica della Costituzione indica sicuramente che lo Stato deve essere una funzione della società civile, in quanto in quest’ultima albergano quei diritti che sono connaturati all’inalienabilità della persona: la dimensione già inscritta implicitamente dai padri costituenti è stata quella della “sussidiarità”, mentre il metodo esecutivo era ed è quello della “solidarietà”, che però non può mai essere pura e semplice filantropia.
Tuttavia è necessario recuperare una virtuosa dialettica tra la dimensione del civile e l’apparato istituzionale, anzi una circolarità (non definita a priori) tra civile-istituzioni e viceversa, sono questi i possibili approdi di una “democrazia deliberativa” che consentono di passare dall’individualismo di mercato al personalismo comunitario, e magari dalla solidarietà alla fratellanza. Va detto che la rappresentanza politica non è riuscita in più di mezzo secolo di travagliata vita repubblicana a creare sufficienti condizioni generali di giustizia sociale. Se è vero che la caduta di credibilità della stessa è uno degli elementi che hanno cagionato la crisi della militanza nei partiti in favore della cittadinanza attiva, è anche vero che in tempi di ristrettezze delle risorse non si può ricorrere al volontariato soltanto come una comoda risposta a costo zero alle sacrosante istanze che provengono dalla società civile.
Certo il volontariato può rappresentare una riserva anche etica dalla quale attingere per rigenerare magari una politica consunta, ma non può sostituirsi ai presidi e alle tutele che spettano principalmente alle istituzioni; indubbiamente rappresenta poi un efficace moltiplicatore di risorse, ma non è succedaneo di quei servizi che dovrebbero essere erogati in primis dalla pubblica amministrazione. Può certamente contribuire alla costruzione di quella democrazia “duale” che si regge sulle due gambe della rappresentatività e dell’azione individuale diretta: due facce della stessa medaglia costituita dall’architettura repubblicana, cioè della res publica che appartiene a tutti i cittadini. Stesso discorso per quanto concerne l’interpretazione riduttiva della sussidiarietà come modalità operativa per esternalizzare servizi e ridurne il carico sui bilanci pubblici.
Infine, il testo del professor Cotturri, non è il “manifesto” delle “magnifiche sorti e progressive” del Terzo Settore. Semmai esso è l’analisi messa in campo con l’acribia dello studioso e la partecipazione emotiva di chi ha sperimentato personalmente la cittadinanza attiva, di un fenomeno del quale tutti noi dobbiamo acquisire maggiore coscienza. Fenomeno che è in grado di ri-attualizzare lo spirito più profondo della Carta Costituzionale in una prospettiva di maggiore democrazia ed equità.
[1] Giuseppe Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carrocci Editore, Roma, 2013
[2] http://www.labsus.org/index.php?option=com_content&task=view&id=37&Itemid=36
[3] Giuseppe Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carrocci Editore, Roma, 2013, p. 12
[4] Giuseppe Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carrocci Editore, Roma, 2013, p. 24
[5] Giuseppe Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carrocci Editore, Roma, 2013, p. 56
[6] Giuseppe Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carrocci Editore, Roma, 2013, p. 96
Trascrizione della relazione di Giuseppe Cotturri
Io vi ringrazio moltissimo. Ho fatto diverse presentazioni, discussioni su questo libro a partire da marzo, il mese in cui è uscito. Devo dire che prima ancora che ci fosse attenzione sui media, qualche recensione, qualche scheda e qualche presentazione, nel giro di due mesi, evidentemente per la forza suggestiva del titolo e la sensibilità e l’attenzione alla lettura di tante persone, il libro è andato esaurito e a giugno già ne ho fatto una ristampa, ma a giugno cominciavano le presentazioni.
Quindi per me, la prima versione è: che cosa ha suscitato tanto interesse considerando che i lettori sono in riduzione, che nessuna promozione più fanno gli editori, anzi si fanno pagare per stampare qualcosa… E quindi era proprio un rapporto classico tra le forze della società civile – continuiamo a usare questa espressione – e una tematica di critica ma non rinuncia alla politica. Il libro nasce da questo.
Io ho un’esperienza personale, è stato anche detto, tutta all’interno della sinistra, anzi del Partito comunista e dalla sua fine ho moltiplicato l’impegno civile: sono stato per 15 anni presidente e primo organizzatore di quella forma di impegno che poi si è chiamato Movimento di Cittadinanza Attiva. Nasceva su un’organizzazione promossa da un gruppo di cattolici del dissenso negli anni Settanta, febbraio 1974. Uno dei promotori era Giovanni Moro, il figlio di Aldo Moro, mio amico, e dagli anni Novanta, dai primi anni Novanta, con lui ho lavorato, sono stato presidente di quel movimento e abbiamo provato a rifondarlo con un nuovo statuto e forme di presenza nell territorio molto diffuse.
Per esempio, a Milano, nel giugno scorso, o a fine maggio, facemmo già una prima presentazione promossa da Cittadinanza Attiva, movimento che è noto forse e soprattutto per l’impegno nel campo della tutela dei diritti del malato, questa è la sua principale attività. Diceva Andrea Rinaldo: una esperienza personale. Sì. Il libro non vuole essere una lode, una costruzione di una sorta di figura mitica, il volontariato liberatore, la democrazia che rinasce, no. Io ne conosco profondamente i limiti. So anche la consistenza e le divisioni che il terzo settore vive nel territorio. In parte sono divisioni da riportare a diverse identità, a diversi percorsi, in parte a opportunità di accesso al sostegno pubblico, a contributi, a progetti finanziati che quindi sono un po’ indotti e gestiti dalla pubblica amministrazione che si serve ormai di questo schema della legislazione promozionale di sostegno per incanalare queste spinte e anche ripartirsele nelle aree di influenza e di contatto sociale.
Quindi, non parlo di un nuovo grande soggetto della politica, parlo di un effetto indotto, questa presenza, il fatto che moltissimi cittadini apprendano a essere cittadini attivi (dirò qualcosa poi su queste definizioni) rende necessario per la politica stessa ripensare, reinterpretare il proprio ruolo.
C’è stato un lungo periodo di conflitto, di tensione. Nel momento di crisi maggiore dopo gli anni Settanta della politica si sono aperti, con il consueto schema della politica: cercare di allentare per un poco i cordoni della borsa sperando di sopire lo scontento e catturare nuovo consenso, e si sono così aperte delle strade di sostegno, ma veramente poca cosa. Se pensate a quello che è il 5 per mille, tranne alcune organizzazioni assai note che si occupano del cancro e di alcune malattie particolarmente presenti all’opinione pubblica, il resto è una dispersione continua di risorse che i cittadini indirizzano in certi settori che più gli interessano e più conoscono, ma che, se andate a vedere sull’Agenzia delle Entrate la tabella dei 40.000 enti beneficati, tranne pochissimi che raggiungono cifre idonee a sorreggere un programma significativo, percepiscono cifre… Opera Nazionale Ciechi: 150 Euro l’anno, Associazione tal dei tali, 40 Euro. Costa più tutta l’attività amministrativa di ordinare, di raccogliere le domande, di certificare e verificare che ciò che poi è il risultato che sapete.
Anche lì sarebbe necessario intervenire innanzitutto come fosse il terzo settore per aggregare, accorpare attorno a progetti comuni e quindi dare un peso e un indirizzo, servirsi delle indicazioni dei cittadini per capire in quali settori di spesa sociale, di intervento è più urgente e necessario intervenire perché questa è la domanda diffusa. Ma anche questo è un qualcosa da fare.
Torno al punto di partenza: non è una lode del terzo settore, anzi in qualche rigo del libro non ho voluto andare molto a fondo, ma nei dibattiti questo è venuto fuori e ne ho parlato in modo esplicito con gli amici responsabili, rappresentanti di queste organizzazioni del Forum. Ma il Forum è diviso. Per lungo tempo è stato appannaggio, diciamo la rappresentanza e le cariche di portavoce, di alcune delle più grosse organizzazioni, mentre quelle che rappresentavano e portano maggiori esperienze innovative e più sensibilità in settori nuovi e nuovi bisogni erano appunto organizzazioni piccole e medie, poco ascoltate e poco incisive sul piano dell’indirizzo del Forum.
Il Forum all’inizio aveva la volontà, la pretesa, di rappresentare nei rapporti con il governo e le amministrazioni questi soggetti, ma non credo che l’abbia fatto molto bene. Quindi, anche questo per dire l’esperienza dall’interno di questo processo di costruzione che comincia dai primissimi anni ’90, per quel che riguarda queste forme, il Forum nasce nel ’94, ma i partiti costituzionali sono già tutti scomparsi nel ’92: per alcune di queste associazioni una sorta di salvataggio o di obbligo di trovare un’altra modalità di presenza perché i partiti di cui erano espressione collaterale non ci sono più.
Quindi è un rivolgimento molto profondo del rapporto con la politica, i partiti e le istituzioni che all’inizio degli anni Novanta mette a frutto l’esperienza associativa e organizzativa degli anni Settanta-Ottanta. Il volontariato contemporaneo nasce, come sapete, nel ’75 per iniziativa di un gruppo soprattutto di dirigenti di associazioni e uomini della Chiesa; è morto da poco don Giovanni Nervo, considerato il padre del volontariato. Lui raccontava (io ho avuto molti rapporti con questo mondo e queste persone) che al gennaio ’75 a Napoli si riunirono 8 persone, 15 persone, e alla fine di quell’anno già erano 800 e partiva l’esperienza del volontariato.
Ma nell’esperienza nata in quel modo negli anni Settanta confluirono anche tante forze che avevano invece una formazione diversa, non cattoliche, non legate a una religione, ma una pratica civile militante, il solidarismo, l’egualitarismo, il bisogno di giustizia sociale di tanti militanti della sinistra che poi con l’esaurimento e la fine delle forme politiche espressive di una sinistra marxista hanno poi trovato, molti di loro, nel volontariato proprio un modo di proseguire un’attività socialmente rilevante, anche se non organizzata in modo tradizionale, non forte, non collegata a una immediata influenza sulla politica.
Il libro è nato da questa esperienza: la riflessione sul fatto che questi che sono stati processi adattivi, indotti da una sorte di capacità adattiva, spontanea, diffusa di forze che hanno cercato di continuare ad agire sul terreno democratico e in qualche modo influire sulla politica pur sapendo che aumentava la distanza, hanno tuttavia prodotto, al di là della consapevolezza delle intenzioni, quindi fuori da un progetto, da una costruzione, in qualche modo un’azione riformatrice, cioè conseguenze di adattamento delle istituzioni, degli indirizzi legislativi a queste presenze, creando nuovi equilibri. E alla fine, mi pare che si possa ben dire oggi, ma sono passati trent’anni di questo percorso, che probabilmente queste presenze sono una sorta di contrappeso alle derive, e uso questa parola ormai presente negli studi di storia politica e delle istituzioni, il sistema dei partiti italiani è alla deriva e cioè ha perso ogni ancoraggio, e non si sa da quale parte la corrente lo possa spingere, per difetti suoi e probabilmente per difetti connaturati al sistema della rappresentanza.
Crepe o difficoltà sono visibili in tutti i paesi avanzati: la rappresentanza non esaurisce la capacità espressiva del sociale e le rappresentanze, quanto più aumenta il loro esser fragili ed esposte ai grandi poteri economici-finanziari, tanto più si chiudono in un’autotutela di tipo corporativo per salvare privilegio, status, posizioni e via via questo diventa il principale fine della maggior parte di coloro che si dedicano alla politica e con questa deriva la fiducia nella politica e i rapporti, il radicamento con le forze civili si riduce progressivamente.
Quindi siamo in una spirale di crisi molto forte; tuttavia io credo che dobbiamo uscire per un attimo dalle parole che tutti conosciamo per andare un po’ più al fondo. Le cose che vi dico sono anche frutto dei dibattiti che ho condotto e delle osservazioni che mi sono state fatte. Nel libro c’è un cenno, qualche passaggio sulla natura della crisi, non c’è un approfondimento, così come c’è l’enunciazione di questa idea che si stia formando un sistema bilanciato dall’alto e dal basso che io chiamo “democrazia duale”, ma non c’è una teoria della democrazia complessa. Così come non c’è una teoria, se non semplici accenni, al fatto che comunque il cittadino apprende dalla sua esperienza, dal suo fare e questo, in qualche modo, suggerisce comportamenti innovativi; non c’è una teoria dell’apprendimento che legittimi il privilegiare queste forze, il fare riferimento principale adesso per andare avanti sulla via della fuoriuscita dalla crisi.
Tuttavia, questi sono i punti che mi sono stati fatti osservare. Mi hanno detto: “Dici delle cose suggestive, alcune metafore sono molto belle, la forza riformatrice, il potere sussidiario, ma su cosa si fonda? Sulla fiducia, sulla partecipazione in sé come fatto sociale di apprendimento? Di acculturazione diffusa? Di influenza politica?”. Ecco, per rispondere a queste obiezioni io ho ragionato ancora e posso dire e dirò questo in questa chiacchierata con voi questa mattina.
Primo: la natura di questa crisi, neanche quelli che parlano sistematicamente di crisi ce la illustrano e la definiscono. Si disse 1929, grande crisi nera, ma quelli furono un paio di anni di difficoltà nel mercato americano da sovrapproduzione di merci. Noi siamo da più di 5 anni in una crisi finanziaria di tutti i sistemi avanzati e attraverso il mantenimento dei paesi più avanzati in uno stato di galleggiamento e di dipendenza da decisioni ormai fuggite nelle sedi dei poteri finanziari, si sta determinando un riequilibrio dei rapporti di forza, di forze economiche, di forze politiche, di forze e capacità produttive, tra i paesi del mondo. Nessuna crisi di quelle di cui si è studiato nel Novecento o nel secolo precedente hanno avuto la dimensione e la dilatazione nel tempo e nello spazio di questa. Per lo meno dobbiamo assumere che si tratta non tanto di una crisi del vecchio sistema, di un percorso di cambiamento e di trasformazione dei sistemi esistenti. La crisi poi, la parola questo significa in genere.
Quindi, stanno nascendo forme nuove, sistemi nuovi, equilibri nuovi, relazioni nuove in tutto il mondo. La centralità dell’Occidente non è messa in discussione soltanto dal fondamentalismo islamico, ma da rapporti reali di capacità produttiva e di influenze sulle politiche industriali e internazionali estese nei vari paesi che danno sviluppo produttivo in Estremo Oriente, in Cina, in India, poi in Brasile, eccetera.
Un’analisi di questa crisi in termini, come dire, globali (si usa la parola globalizzazione) ma che ci spieghi bene dalla migliore pubblicistica. Rampini spiega tante cose meglio di tanti economisti, ma io non conosco uno studio economico che abbia assunto questo scenario per dire quello che sta succedendo. Allora, mi tengo sul terreno più prudente: non c’è alcun riferimento utile e non c’è nessuna precedente esperienza che ci possa spiegare la natura di questa crisi. Prendiamo i fenomeni, anche questi più diffusi, molecolari, come indizio di qualcosa.
Seconda domanda. Ma è possibile che la politica stia diventando questa cosa aberrante, rifiutata, di cui si diffida, nei cui confronti c’è un rancore crescente e diffuso, per la cattiveria degli uomini? Certamente, ci sono genti poco per bene che approfittano della situazione, ma hanno fatto politica e continuano a fare politica tante persone per bene, credono di fare cosa utile, ci provano. Perché in questa stagione, che poi non è una stagione breve, anche qui stiamo parlando di un percorso di delegittimazione e di critica della rappresentanza, i cui primi scricchiolii erano appunto negli anni ’70 con i nuovi movimenti e l’incapacità dei movimenti rappresentativi di accoglierli. E poi nel percorso ultratrentennale, la questione dell’intollerabilità dei privilegi della rappresentanza istituzionale è diventata una questione sociale preminente, un crinale nel rapporto con la democrazia.
Beh, io penso che se usciamo dal risentimento che ci porta anche a personalizzare, a coltivare rancori o invidie, e proviamo a dare una risposta che riguarda un difetto di sistema, non possiamo accontentarci soltanto delle spiegazioni di tipo funzionalista, la rappresentanza non serve più a raccogliere la domanda diffusa, fanno prima i media. Una trasmissione in televisione dice una cosa e la dice in tempo reale, sufficiente a che tutti ne parlano e finché la rappresentanza formula, elabora e tematizza quel problema ci vogliono, se va bene, mesi. Non è solo la debolezza del sistema della comunicazione politica rispetto alla comunicazione mediatica quella che spiega l’indebolimento, non penso che sia sufficiente questa spiegazione.
Penso che si debba andare all’esito, alla prestazione, al risultato utile della forma della rappresentanza e alla sua regola di funzionamento. Questo non è nel libro: provo a dirlo nel modo in cui mi è venuto di pensarlo in queste presentazioni. Io credo che ci sia un limite strutturale della politica delle rappresentanze, limite ad adeguarsi alla domanda, limite a governare un cambiamento, limite a introdurre innovazioni e sperimentazioni, che è dovuto dalla regola democratica del consenso. Dopo la tragedia tutti sono pronti ad adeguarsi e per lungo tempo risentono dell’impatto; ma dentro a una quotidianità non segnata da drammi, da tragedie, ma da forte senso di pericolo, da emergenze, ecco, tutto è ridotto alla categoria delle emergenze, la politica fa quello che può ma non vuole fare più di quanto non sia già presente nell’indirizzo diffuso, rischia il consenso.
Un tempo, che si usciva da una guerra, i grandi governanti potevano dire, come disse De Gasperi nel ’47-’48: “Andate all’estero, andate a lavorare, lasciate le famiglie e mandateci le rimesse, il paese deve ricostruirsi, abbiamo bisogno di voi”. Ora nessun politico avrebbe ascolto e comunque non avrebbe l’autorità morale per dire: “Fate sacrifici e aspettate quindici anni prima che ci riprendiamo”. Nessuno lo può fare, hanno un ciclo di 2-3 anni perché ora anche la durata parlamentare è questa e quindi rischia il rischiabile, cioè lo 0,02 se c’è, di margine, di possibilità di piccoli adeguamenti.
Per questa ragione strutturale, la capacità innovativa della politica è pressoché zero, fa quello che è nelle possibilità implicite, che sono poche, e tenendo conto dei vincoli e della spinta all’immobilismo degli equilibri già dati. Questa è la mia opinione.
E la società non è che sia fatta da un corpo omogeneo, esistono percezioni diverse, condizioni sociali diverse, bisogni soddisfatti o comunque protezioni di cui non vogliamo liberarci, e posizioni più forti e crescenti per cui si è sospinti verso quelle che si chiamano le nuove povertà. Tra vent’anni quelli che oggi sono lavori precari, sono stati lavori precari, condizioni di instabilità di lavoro e assenza di protezioni, diventeranno assenza di pensione; quelli che oggi sono nella precarietà, secondo gli studi degli amici sociologi, negli anni a venire entro 15-20 anni arriveranno in età pensionabile senza pensione, o senza pensione adeguata ai bisogni della vita, al di sotto dei livelli della povertà
Quindi, si sta preparando, è in incubazione un’altra stagione di tragedie sociali che ora si manifesta con le forme tragiche (suicidi ecc.) e tra 20 saranno condizioni diffuse in tutta questa generazione che è stata saltata nella crescita umana, nell’inserimento nel lavoro, nel rispetto della sua dignità, che si ritroverà agli anni ‘60-‘65 senza nulla. Ecco questo sta accadendo, ma nessuno lavora su questo. Stiamo sempre con gli occhi all’indietro a risanare un meccanismo di ripartizione, l’INPS non basta più, c’è la gobba, non c’è la gobba, anticipiamo, saltiamo un anno… il dramma esploderà tra 10-15 anni e sarà di altra natura rispetto ai problemi di pensione di cui già discutiamo oggi.
Socialmente, come si apprende e si impara a cambiare? Rispetto a questo mi sono fatto una convinzione e la uso; ho letto che alcuni importanti studiosi, Umberto Cerroni, tradizione marxista, Carlo Donolo, sociologo di formazione più Habermas che Italia, usano l’espressione: “La democrazia è il regime dell’apprendimento”. Ma lo intendono nel senso che essendo un paese democratico, quello che la maggioranza, le maggioranze riescono a capire delle grandi lezioni della storia, lo fissano come limite di non ripetibilità. È successo questo, mai più succeda questo. Siamo usciti dal fascismo, noi abbiamo scritto nella Costituzione: “Mai più il fascismo” e “Mai più forme di personalizzazione e concentrazione del potere”. L’apprendimento, cioè, delle generazioni è un apprendimento per negazione degli errori, ma il cambiamento viene da prova ed errore: provo, imparo, apprendo e magari sceglierò un’altra strada.
Se si esclude che la politica diriga, abbia progetti di sperimentazione innovativa, e io tengo a non escluderlo in via di principio, ma constatare che non c’è nessuna politica innovativa da nessuna parte. Se volete ne parliamo, ma insomma, da Cameron alle esperienze americane, alla signora Merkel, nessuno fa esperienze innovative, ognuno tende a consolidare o correggere nelle zone marginali il sistema che ha, e quindi quando un sistema ha preso un indirizzo non più sufficiente alle necessità, è ineluttabilmente in un declino che porterà poi a crisi, e forse a tragedie.
Chi sperimenta il nuovo? Come si apprende? Ognuno di noi apprende in quel modo che ho detto: dalle grandi lezioni, dai grandi dolori. Nella mia pratica di dirigente, presidente del Movimento Federativo e poi di Cittadinanza Attiva, uno delle motivazioni individuali più ricorrente e più significativa è la persona che avendo avuto un episodio tragico di mala sanità, aderisce al movimento e dice: “Affinché nessun altro abbia a soffrire quello che ho sofferto io”. Ecco, che non si ripeta più. Non sa cosa si deve fare per cambiare la sanità, sa quali sono i mali della sanità contro cui combattere: l’incuria, l’arroganza e irresponsabilità di tanti primari d’ospedale e del sistema, sanno contro cosa combattere, sanno il no. E la motivazione, che è una motivazione generosa: affinché altri non abbiano questo. È questo che si apprende. Poi nella pratica quotidiana si sperimenta, si vede che quella strada è percorribile, oppure si torna indietro e si cercano altre soluzioni.
Io ho constatato, e mi fermo qui in questa seconda argomentazione, che la pratica sociale delle forze che non si muovono avendo come obiettivo primario il profitto, ma non per generosità soltanto (c’è una dose di generosità certo, c’è una motivazione che per alcuni è religiosa, etica, politica), ma sostanzialmente parte dal convincimento che se voglio salvarmi devo fare qualcosa insieme con altri e che con quegli altri forse ce la posso fare. Quindi, anche qui vorrei che fosse superato uno schema, una figura astratta di volontario come persona di grande dono: certo c’è una componente. Però c’è anche una filosofia che io condivido: non si può essere liberi da soli, non ci si salva da soli. L’unico apprendimento primario è che con l’aiuto degli altri, e con gli altri, posso perseguire anche il mio interesse che non sia quello dell’arricchimento a danno degli altri, ma lo star meglio, il benessere, conquistar tutele in un’azione che coinvolge altri e dagli altri riceve il sostegno necessario a diventare una pratica condivisa.
Quindi, l’azione di questo tipo, azione solidale, si esercita in forme che chiamiamo sussidiarie, di aiuto a ciò che fa l’amministrazione e di aiuto dell’amministrazione a ciò che fanno i cittadini agita secondo uno schema solidale. Vale per me e vale per tutti.
Nell’ambiente nasce l’idea e anche la nozione di “beni comuni”. Sono quelli che non possono escludere nessuno, sono beni inclusivi, sono beni che dobbiamo preservare per le generazioni a venire se salviamo alcune risorse non rinnovabili, se lasciamo un pianeta inabitabile perché inquinato, evidentemente abbiamo distrutto dei beni comuni naturali a danno delle generazioni future, dei nostri stessi figli.
Ritorna questa tematica dei beni comuni e viene vissuta, interpretata attraverso l’azione molecolare diffusa di tante persone come un ritorno della necessità di avere un’idea di società fondata su principi di equità e di giustizia sociale, di limite alle prevaricazioni e agli sfruttamenti fuori controllo. Anche qui c’è molto dibattito e c’è un’ideologia, un’ideologia che rifiuta la tematica: hanno i beni comuni un modo nuovo di essere comunisti oggi, i beni comunisti sono i vecchi comunisti rigenerati… Questa è polemica giornalistica che non coglie innanzitutto neanche il senso del percorso, perché la tematica dei commons, lanciata negli anni ’80-’90 negli Stati Uniti è la tematica di ricerca sul come si possano tutelate beni collettivi con azioni fatte da forze civiche, non dalle amministrazioni, con migliori risultati. Elinor Ostrom è un’economista che ha preso il premio Nobel per studi, lei e il suo gruppo, su questi temi, non era né di sinistra, né certamente desiderosa di ripensare forme di governo socialista.
Però, al di là della polemica, oggi tutti capiscono che la tematica dei beni comuni introduce il tema di come limitare lo sfruttamento, l’impoverimento collettivo, l’irresponsabilità verso l’ambiente e la riduzione delle risorse dell’ambiente. Ma anche la valorizzazione di risorse non ristrette, perché beni comuni non è solo il tema dei pochi (l’acqua, l’aria, l’ambiente, dei beni deteriorabili e insufficienti alla domanda), è anche il tema dei beni affluenti, delle risorse innovative: l’intelligenza e la conoscenza del sistema della comunicazione, è il mondo del futuro, sono i giovani, i beni comuni dell’umanità, sono le intelligenze giovani che ovunque producono e comunicano e interagiscono.
Questa idea che sia in formazione anche un sistema secondario ma planetario di circolazione di idee e sperimentazione sorregge la forza di quella osservazione: si stanno sperimentando in modo molecolare e diffuso vie nuove e neanche lo sappiamo. Se hanno successo le vedremo, se non hanno successo la libertà e la responsabilità di chi le promuove sarà stata utile per capire che lì non c’è futuro e iniziano da un’altra parte. In una circolarità positiva la politica, se è attenta a questi percorsi, capirà o raccoglierà suggestioni e indicazioni positive. E qui c’è qualche riferimento alle ricerche ma anche alla insufficienza delle ricerche.
Il terzo settore, e in particolare il volontariato, stanno cambiando. Sono appena stati pubblicati i primi dati sul censimento 2011 e quella che era un’ipotesi risulta suffragata: il numero di coloro, e delle organizzazioni di questo settore è in crescita. Siccome si pensava che erano forme dipendenti dal sostegno della politica, dopo anni di tagli e di riduzioni, si poteva immaginare che una gran parte di queste forze avesse rinunciato a non essere più presenza e azione rilevante. Invece, dai 235.000 gruppi censiti nel 2001 si è ormai a 301.000 in Italia censiti nel 2011, quindi un’enorme crescita numerica.
Se si va poi a vedere l’elenco dei settori di attività in cui si stanno occupando, si scopre che il settore tradizionale dell’assistenza sanitaria, diciamo della presenza accanto ai soggetti malati, deboli, ecc., resta costante e rilevante ma non è più il solo e neanche quello dominante nell’ambito di queste attività. Si sono sviluppate (e c’è una tabella che io riprendo da uno studio di Renato Frisanco, ripresa poi da una pubblicazione nazionale di censimento di queste presenze) in una serie di attività che attengono alla protezione dell’ambiente, alla educazione e formazione, alla tutela dei diritti. Stiamo parlando precipuamente di quella che chiamiamo Cittadinanza Attiva.
Sono in crescita le forze giovani che vi si dedicano; dico giovani, non hanno contatto spesso con le organizzazioni storicamente presenti che sono, ahimè, tu sei il ragazzino qua dentro, ma siamo tutti ben portanti, direbbe mia nonna, abbiamo una età, ecco. Nelle organizzazioni di volontariato si constata spesso che c’è un invecchiamento e non ci sono ricambi, però le organizzazioni di volontariato e le cooperative sociali che nascono separatamente anche perché è difficile la comunicazione (i giovani cercano sempre spazi loro) sono tanti i piccoli gruppi di 4 o 5 ragazzi che iniziano attività in quei campi di Cittadinanza Attiva che ho detto. Sperimentano, provano, ora hanno reti di sostegno, centri di servizio per il volontariato che gli fanno sponda e nell’insieme, essendo rete, creano una rilevanza che altrimenti non avrebbero. In passato questo non c’era e senza questa rete si finiva con avere una dipendenza assoluta dalle istituzioni, dalle amministrazioni del territorio. Ora esistono pratiche di questo tipo.
Ecco, è il farsi un modo diverso di collegarsi e sperimentare. Io credo che qui ci sia qualcosa di importante da seguire, da capire. Uso una metafora che è stata citata. La foresta che cammina, è di un poeta montanaro ed, effettivamente, noi pensiamo le foreste come un dato immobile e invece le foreste scavalcano i crinali e vanno a colonizzare i versanti dove più vivibile è la vita, dove c’è meno esposizione. Le foreste vivono e si muovono. Se seguiamo con questa metafora lo spostamento e la linea di ricerca in basso e nell’autonomia delle piccole frazioni sociali riscopriamo tanti campi nuovi.
Questa è la cosa di cui sono convinto e per quel che riguarda l’intento del libro di dire: “Badate, sono molecolari ma non sono irrilevanti, sono forme non immediatamente organizzate in funzione della rappresentanza della politica, ma sono forme che agiscono politiche attive e sociali che determinano conseguenze sul piano… C’è dell’indirizzo politico, sia degli equilibri che del sistema, quindi sono forze riformatrici che hanno una rilevanza.
È entrato nel nostro vocabolario, e anche nel nostro sistema, l’idea, la logica, la regola di movimento di tutto questo: è stato detto sussidiarietà che è presente ormai nell’art. 118, quarto comma, di una revisione che fu fatta nel 2001 della Costituzione ed è l’espressione di questo universo quando, ho richiamato prima, negli anni ’97 a confrontarsi con la bicamerale allora presieduta da D’Alema, fece questa proposta: inserire nella revisione costituzionale il principio. Non fu la bicamerale (come ricordate non produsse nulla, ci fu un ribaltamento in parlamento a opera di Berlusconi) però quella proposta era rimasta tra le carte e nel 2001 quando il centro-sinistra fece, facendo molto male, un colpo di mano con soli quattro voti e fece la riforma del Titolo Quinto, prese quella formula scritta dalle associazioni e la inserì in quel quarto comma.
Due brevi parentesi. Quella formula è stata scritta da una delegazione del terzo settore che pensava di interloquire con la bicamerale che io ho coordinato e io ho scritto quella formula. I miei amici dicono: “Sei il padre della sussidiarietà”. No. Lì dentro poi dei deputati nel 2001 incaricati da Ardigò ripresero le cartucce e l’hanno trascritto. Mi fa piacere ma la responsabilità è di chi ha fatto questa scelta che ho apprezzato.
Secondo. Era un corpo estraneo nella revisione del Titolo Quinto. Qui riprendo la domanda che mi è stata fatta. Ma quel Titolo Quinto è stata una cosa sbagliata in sé, forzare la mano, a mio giudizio, forzare la mano a colpi di maggioranza su un intero capitolo della Costituzione con l’intento (allora avevano questa idea le forze del centro-sinistra) di qualificare una loro modalità di intervenire sul tema del federalismo e della crescita dei poteri territoriali. Era una sorta di sfida con il federalismo bossiano. Il testo che è venuto fuori è pessimo, non ha nulla della scrittura costituzionale: la Costituzione è scritta per principi, per disegni limpidi, è un testo che sembra un regolamento di condominio su: le scale le lavi tu, quest’angolo lo diamo al sottoscala, lì poi dividiamo… È stato fatto da amministratori locali, territoriali in lotta tra loro senza una soluzione e hanno finito col condividere responsabilità e poteri in maniera così astratta e poco incisiva che nulla ha prodotto nella pratica se non oltre 400 ricorsi alla Corte Costituzionale: metà delle regioni contro il governo e metà del governo contro le regioni. Questo Titolo Quinto non ha avuto nessuna pratica e nessun esito.
La sola norma non richiamata dagli attori sociali ma di fatto praticata, della sussidiarietà orizzontale, il 118, è entrata malgré le convinzioni prevalenti, direi che è entrata perché nessuno se la sentiv di dire no a una cosa che corrispondeva a un agire sociale così apprezzato, così accolto anche dalle istituzioni.
Le regioni si sono appropriate del principio formale, hanno interpretato la sussidiarietà come principio che le autorizzava a dismettere i servizi sociali a cui sono tenute per la Costituzione che dice di garantire i diritti sociali con servizi pubblici organizzati e attivati dalla responsabilità politica, ed esternalizzare i servizi. Hanno chiamato sussidiarietà, qui in Lombardia è in modo particolare evidente questa manipolazione del principio di sussidiarietà e dopo 10 anni si è visto: 1) che non porta da nessuna parte il tipo di tagli crescenti che impediscono pure di dare senso concreto a questa scelta: a chi dai e chi sostieni se non hai risorse per sostenere il terzo settore? E come controlli, il che è molto evidente in Lombardia, se non organizzi un rapporto nuovo tra amministrazione pubblica e società, che i servizi non siano una nuova modalità di gestione di lavoro in nero da una parte e di sfruttamento dall’altra?
I problemi sono esplosi e l’interpretazione data quindi, devo dire in modo concorrente, in accordo totale, cioè i dirigenti politici delle regioni di ogni indirizzo, sussidiarietà come esternalizzazione dei servizi sociali, è stata introdotta negli statuti regionali, nelle pratiche, nelle leggi e altro. Non ha prodotto e, ora, questa è una linea di polemica che non ho mai cessato di tenere aperta, e che ora si ripropone, forse la natura di questa crisi ci obbliga a ripensare quello che è scritto nella costituzione perché lì non c’è nessun riferimento alla esternalizzazione dei servizi, alla deresponsabilizzazione dello stato, anzi semmai c’è un compito nuovo per lo stato perché deve sostenerli e quindi deve andargli incontro, riconoscerli, valutarli, accompagnarli, prolungarne gli effetti, fare politiche di completamento di quelle che sono iniziative utili all’interesse generale agite da singoli e da minoranze.
Questa linea, la sussidiarietà orizzontale di cui parla l’art. 118, quarto comma, è proprio legata alla diversa formulazione. Negli anni in cui si discuteva nella commissione bicamerale, un deputato, Claudio Bressa, prodiano, fece una proposta di scrittura della sussidiarietà, riprendendo le formule della Quadragesimum Annum (1931), formule tradizionali della cultura cattolica: “Non faccia lo stato quello che le persone e le famiglie possono fare con le loro forze”. Tutto questo ha aperto un dibattito e delle divisioni a mio giudizio infondate, ingiustificate e ingenerose. Nel libro provo a dire qualcosa.
Primo: si dice che questo era un principio che andava scritto in Costituzione. Dossetti, che io ho avuto la fortuna di conoscere personalmente in quegli anni Novanta in cui è tornato sulla scena pubblica per questi temi, Dossetti aveva presentato un ordine del giorno sulla sussidiarietà poi, siccome Lelio Basso e Togliatti facevano bizze, lo ha ritirato. Troppo debole. Ora questo è un inizio sbagliato, sbagliato alla luce degli atti della Costituente, che esprime piuttosto uno spirito di composizione di un mondo cattolico che voleva ritrovare una bandiera e in qualche modo diceva: “I cattolici alla Costituente non ce l’hanno fatta, ma noi ora che si fa la revisione lo scriviamo”. Era ingeneroso perché Dossetti ritirò quell’ordine del giorno. quando furono formulati gli articoli 2 e 3 della Costituzione. Il 2 formula il principio personalistico e la priorità della persona rispetto allo stato e il sostegno alle formazioni sociali prioritario e l’articolo 3, l’uguaglianza con l’impegno della Repubblica di sostenere la partecipazione rimuovendo gli ostacoli, opera soprattutto di Lelio Basso e del pensiero socialista, che nella combinazione dei due principi articolava e strumentava il principio di sussidiarietà: la persona prima e lo stato che la aiuta a partecipare rimuovendo gli ostacoli. Era lì.
Per cui, se la parola nella cultura del tempo non era condivisa, il principio fu condiviso, fu un successo e anche un’abilità, a mio giudizio di Dossetti. Ho sempre fatto questa difesa contro i cattolici revisionisti, però quello che voglio dire è che solo per il fatto che già c’era nella Costituzione (art. 2 e 3), quando fu fatta la revisione nel 2001 della seconda parte, è stato possibile scrivere quella formula lì che ne è la conseguente applicazione. Se non c’era nella prima parte, non entrava nel 2001, non si poteva nel 2001 riformare o introdurre principi nuovi perché il limite della revisione era appunto che non fossero toccati i principi della prima parte.
Detto questo, la revisione del 2001 ha avuto capacità di applicarsi, introdurre sperimentazioni a essa richiamate? Per mia conoscenza pochissimi i soggetti che si sono mossi in questi anni hanno richiamato quel fondamento, e però vi sono importanti sentenze sia della Cassazione che della Corte Costituzionale, ma più importanti quelle della Cassazione, che finiscono col riconoscere che il principio generale dell’autonomia della cittadinanza sta trasformando e dando un indirizzo democratico a molte scelte di ordinamento e che gli interessi generali possono essere perseguiti dai cittadini allo stesso modo che essere dovere delle istituzioni.
Questa è una rottura col pensiero politico e col pensiero giuridico precedente che è entrata, io dico inavvertitamente ma necessariamente perché era nelle cose, in quell’articolo 118 e da allora si sta sviluppando un pensiero che cerca di rendere evidenza che anche soggetti che non lo sanno, e non lo richiamano, sono in realtà sul binario, nel solco di questa linea di trasformazione che è la Costituzione che l’ha indicato.
E quindi qui comincia quel ragionamento sul come una Costituzione, tradita dalle classi dirigenti, le quali subito, appena approvata, dice la Mola, (?): congeliamo e per 10 anni non fu applicata, come sapete, e poi riforme, e poi cambiamo, e poi le riforme e poi cancelliamo, sono decenni di storia in cui le classi dirigenti hanno via via rinnegato quei fondamenti della nostra Costituzione, e tuttavia è ancora lì ed è il solo baluardo che abbiamo per proseguire in un principio, in una missione di società.
I partiti costituenti non ci sono più e a partire da questo ventennio di assenza dei padri e delle forze costituenti chi è che si è fatto carico? Ricordiamo il referendum contro la revisione di tutta la seconda parte della Costituzione nel 2006, Bossi-Berlusconi. I partiti non fecero molto per mobilitare la gente… Ci sono andate spontaneamente, ne avevano consapevolezza, e a stragrande maggioranza siamo stati salvati da un travolgimento, ha vinto il no a quella roba.
Ecco, questo è un ennesimo esempio del fatto che una forza reale c’è e opera. Sono ottimista. Chiudo con una battuta. Molti di coloro con cui ho discusso mi hanno chi contestato un eccesso di ottimismo, chi leggendo nel fondo delle riflessioni e delle valutazioni anche più personali sullo stato della democrazia, della politica e delle istituzioni, dicono no, ma tu sei proprio un pessimista totale.
Ora lascio a voi di valutare: io sono di quelli che pensano che anche se stai per affogare non hai altro che nuotare per cercare di salvarti. Non sono pessimista, ma neanche ottimista, si fa quel che si può. Sono convinto che questa è una storia di chi ha fatto quello che poteva, aiutandosi e aiutando altri, e ha segnato una via possibile. Non è detto che sia in espansione,
Ma c’è altro? Ecco, qui ritorna il pessimismo. Se mi chiedete se c’è altro nel panorama della politica, io a novembre-dicembre scorso dicevo: “Ma sta succedendo qualcosa, le primarie, tre milioni, certe cose si stanno cambiando”. Nel giro di due mesi ho visto che quello stesso partito rinnovato dalle primarie rinchiudersi in incomprensibili giochi interni e distruttivi.
Tu dici: l’opinione pubblica, dicono i media, tripartito. No, in quattro partiti, il quarto è l’astensionismo, è il soggetto di pietra, assente e silenzioso, la statua di pietra…
L’Italia è divisa in quattro, un quarto non crede e non vota più, un altro quarto vota per protestare ma non prende responsabilità sul che fare del voto e gli altri due,opposti, stanno cercano di barcamenarsi ma anche con eccessivi adeguamenti a questa possibilità, come se il loro compito fosse comunque galleggiare dentro questa cosa e non ragionare su come cambiano quegli altri soggetti, come cambiano il ritiro dalla politica degli astensionisti, come cambiano l’irresponsabilità dei soggetti del grillismo.
Ecco, questa fase della politica non è migliorata e non ha aumentate le speranze. Io penso che la politica debba riprendere, non credo che la Cittadinanza Attiva possa interamente caricare su di sé compiti di governo esautorando la rappresentanza, penso però che intervenendo in questo modo e con questa sua forza e radicamento, possa condizionare molto; molto abbiamo già fatto. Già dirlo aiuta sia i soggetti sociali, sia i soggetti politici più responsabili a capire una prospettiva e una strada possibile.