L’obiettivo che ci poniamo in questo secondo appuntamento del Corso di Formazione Politica dei Circoli Dossetti di Milano 2013-2014, Capire il Mondo, è quello di andare alla ricerca di proposte o di modelli economici nuovi all’interno del nostro paese, che possano rappresentare un punto di riferimento per l’azione degli attori economici nazionali in modo tale che essi possano trovare una direzione per agire in modo efficace contro la crisi economica e una via per definire un percorso di medio e lungo periodo verso la crescita.
1. leggi il testo dell’introduzione di Vincenzo Sabatino
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Per un problema tecnico la registrazione della presentazione di Giovanni Bianchi, l’introduzione di Vincenzo Sabatino e i primi minuti della relazione di Giuseppe Guzzetti non sono disponibili – 1. relazione di Giuseppe Guzzetti 1h 03’06” – 2. prima serie di domande 09’19” – 3. risposte di Giuseppe Guzzetti 26’34” – 4. seconda serie di domande 10’05” – 5. risposta di Giuseppe Guzzetti 01’42” – 6. domanda 02’51” – 7. risposta di Giuseppe Guzzetti e chiusura 18’52”
Testo dell’introduzione di Vincenzo Sabatino a Giuseppe Guzzetti
Introduzione
L’obiettivo che ci poniamo in questo secondo appuntamento del Corso di Formazione Politica dei Circoli Dossetti di Milano 2013-2014, Capire il Mondo, è quello di andare alla ricerca di proposte o di modelli economici nuovi all’interno del nostro paese, che possano rappresentare un punto di riferimento per l’azione degli attori economici nazionali in modo tale che essi possano trovare una direzione per agire in modo efficace contro la crisi economica e una via per definire un percorso di medio e lungo periodo verso la crescita. Ci è sembrato che l’analisi del testo “Distretti Culturali: dalla teoria alla pratica” rappresenti un’idea estremamente valida per identificare un progetto in tal senso in quanto definendo quella che può essere una evoluzione del Distretto Industriale lombardo, indirettamente ci suggerisce delle linee guida per la costruzione di una nuova politica economica per il nostro paese, spiegando come il patrimonio culturale – tangibile e intangibile – può inserirsi nel contesto dello sviluppo futuro della nostra industria. Dal mix Distretto Industriale e Cultura nasce la proposta relativa al modello dei Distretti Culturali
Keywords
Distretto industriale
Il Distretto Industriale si forma quando un numero consistente di imprese, appartenenti generalmente alla stessa filiera produttiva o a filiere economiche collegate, si concentra nello stesso luogo utilizzando la contiguità territoriale come mezzo di relazione e di scambio. Il distretto, con la sua minuziosa specializzazione e il suo dinamico sistema di relazioni fa sì che le singole aziende che lo compongono possano crescere di scala dimensionale. Importante è il valore del “territorio” quale luogo in cui si intrecciano le intelligenze che danno luogo ad un comportamento aggregato, organizzato e quindi competitivo. Il distretto industriale è stato quindi il risultato di una straordinaria invenzione di Cooperazione Involontaria, non già di un progetto intenzionale.
Globalizzazione
Il fenomeno della globalizzazione può essere visto come un “insieme” che contiene: libertà del commercio, investimenti diretti all’estero, contenimento dei deficit e dei sussidi pubblici, riduzione delle imposte, deregulation, liberalizzazioni, privatizzazioni, difesa del diritto di proprietà. Contenuti che singolarmente o congiuntamente sono associati al processo di globalizzazione. Essa non va solo intesa come un fenomeno economico, ma come un processo ampio e complesso che vede correlati tra loro anche profilli di ordine diverso: politico, culturale e ambientale. Basti pensare ai numerosi e ricorrenti disastri naturali, l’atto terroristico dell’11 Settembre 2001 e l’offensiva bellica che ne è seguita, ecc. Sono tutti aspetti che rientrano nell’insieme globalizzazione.
Obiettivo della globalizzazione
L’obiettivo della globalizzazione è di promuovere l’economia di mercato come strumento per generare ricchezza ed equità distributiva tra i diversi paesi. Dal 1989, dal crollo del sistema sovietico, il processo di globalizzazione ha ricevuto una forte accelerazione. L’economia di mercato o capitalistica, propria dell’Occidente, si è vista aprire enormi spazi che prima le erano preclusi.
Dimensione creativa della filiera produttiva
Essa si colloca sia a monte della catena del valore di una filiera produttiva: ricerca, ideazione, progettazione, valorizzazione del pensiero originale, ecc., che a valle della stessa: comunicazione, marketing, logistica, distribuzione, ecc. La cultura e la creatività entrano quindi a far parte a pieno titolo e con pari dignità della catena del valore, fornendo un ulteriore motore propulsivo in grado di generare innovazione all’interno del processo produttivo.
Distretto culturale
Sono sistemi economici territorialmente delimitati che integrano il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali – sia tangibili che intangibili – con altri settori produttivi che a quel processo sono connessi. Pertanto, la cultura viene vista come un fattore per poter consolidare la filiera produttiva di un distretto industriale, permettendo la nascita di nuove imprese e lo sviluppo economico del territorio. Gli aspetti qualificanti di un distretto culturale sono: il network, l’insieme degli attori e delle interdipendenze fra essi; l’assetto del network, l’aspetto strutturale e organizzativo (la forma) del network.
Tipi di assetto del network
Sono tre le tipologie di assetto del network: strategic network, industrial network e policy network.
Strategic network
E’ definito da una popolazione di aziende che appaiono omogenee dal punto di vista delle tecnologie impiegate e/o dei bisogni soddisfatti e/o dei mercati serviti, generalmente legate le une alle altre da interdipendenze orizzontali di tipo cooperativo.
Industrial network
E’ questo un modello di relazioni tra imprese tra loro eterogenee finalizzato alla realizzazione di un prodotto o servizio più o meno complesso. Tra le sotto- tipologie si distinguono: a) la filiera, se le interdipendenze tra imprese sono di scambio e naturali; b) il distretto, se esistono anche interdipendenze da complementarietà di risorse e/o interdipendenze orizzontali di tipo naturale o volontario; c)il business network, se le interdipendenze di scambio e associative sono individuate da un singolo soggetto ma comunque volontarie.
Policy network
Sono network organizzati intorno a specifici programmi e politiche pubbliche. In questi casi, tra attori pubblici e privati si definiscono, in maniera volontaria o artificiale, forme di relazione stabili, ricercando una soluzione collettiva per una soluzione comune di policy. Richiede dunque una scontata attivazione di comportamenti collaborativi tra gli attori coinvolti.
Distretti attivati dalla Fondazione Cariplo in Lombardia
I distretti culturali attivati dalla Fondazione Cariplo sono sei:
- – Distretto culturale della provincia di Cremona o Distretto Musicale;
- – Distretto culturale della provincia di Monza e Brianza;
- – Distretto culturale della Valle Camonica;
- – Distretto culturale dell’Oltrepò Mantovano;
- – Distretto culturale Regge dei Gonzaga (prov. Mantova) o Distretto Turistico-Culturale;
- – Distretto culturale della Valtellina o Distretto della Valorizzazione dei Sentieri Storici verso il Nord Europa.
Trascrizione della relazione di Giuseppe Guzzetti
Le Fondazioni Bancarie così come le conosciamo oggi nascono con la Legge n. 218 del 1991 o Legge Amato. Tale normativa riforma le Casse di Risparmio italiane e istituisce la nascita delle Fondazioni Bancarie che tuttavia ancora non vengono chiamate come tali. Sarà la legge Ciampi del 1999 a introdurre questa terminologia; la legge 218 le definisce, per ora, come Enti Conferenti. Vedremo tra breve di che cosa si tratta.
Di fatto viene introdotto un modello italiano di filantropia del tutto originale in quanto di origine bancaria. Le Fondazioni non nascono da iniziative di beneficenza individuale o personale come negli Stati Uniti: le cosiddette private foundations, il cui caso più noto è quello della Fondazione Bill e Melinda Gates, ma vengono istituite per legge delega.
Pertanto, la legge 218/1991 ha avviato la trasformazione delle Casse di Risparmio italiane, un gruppo di banche con natura, storia e finalità assai peculiari. Dal punto di vista giuridico infatti si trattava di istituzioni bancarie costituite come associazioni senza scopo di lucro, una forma societaria inusuale nel contesto bancario odierno ma, al contrario, piuttosto comune nel momento della loro creazione nel XIX secolo. Le Casse di Risparmio erano nate soprattutto per dare risposta alle esigenze di erogazione di credito e di accumulazione del risparmio del nascente capitalismo italiano, con particolare attenzione alle necessità delle classi medie e popolari. In quel periodo, la scarsissima regolamentazione pubblica del sistema creditizio rendeva particolarmente rischioso affidare risparmi individuali a istituzioni bancarie con finalità di lucro; al contrario, proprio l’assenza di finalità di lucro rappresentava una garanzia di affidabilità e dunque costituiva la condizione per raccogliere quel risparmio che doveva poi servire a generare credito. Oltre a ciò, la finalità non lucrativa consentiva anche la redistribuzione per finalità sociali sotto forma di beneficenza di una parte dei profitti realizzati grazie all’attività bancaria.
Agli inizi degli anni Novanta sia la forma giuridica con cui erano state costituite che l’attività di beneficienza svolta dalle Casse di Risparmio apparivano completamente fuori luogo e ne riducevano la capacità competitiva sul mercato del credito. Proprio per risollevare i destini dell’industria bancaria, la legge 218/1991 stabilì che le Casse di Risparmio dovessero conferire l’attività di credito a una Società per Azioni di nuova costituzione, conservando ed esercitando il controllo su di loro e continuando a svolgere quel ruolo benefico che costituiva una delle loro funzioni originarie.
Le Casse di Risparmio, separate dall’attività bancaria, sono progressivamente diventate delle Fondazioni di origine bancaria che oggi costituiscono il nucleo più ricco del patrimonio del settore delle fondazioni di erogazione italiane.
La nascita delle fondazioni di origine bancaria rappresenta una peculiarità nel contesto filantropico internazionale. L’origine peculiare, in quanto nate per decreto legge, quindi pubblico, e la natura ibrida della loro mission, amministratori di banche ed ente di beneficenza, ha influenzato non poco le strategie operative delle fondazioni bancarie, generando anche qualche incertezza.
Entrando più nel dettaglio, la Legge Amato stabilisce, inventa, trasforma le Casse di Risparmio, che non avevano azionisti, in una Società per Azioni, in una SpA, e riparte il patrimonio per un certo numero di azioni e, contemporaneamente, inventa un ente che non esisteva prima, che non chiama mai “fondazione”, ma chiama “ente conferente”, perché quelle azioni nelle quali era stato ripartito il patrimonio della Cassa di Risparmio (parliamo della Cariplo), patrimonio della Cariplo ripartito per un certo numero di azioni, attribuisce queste azioni a un unico azionista che è questo ente che si inventa con questa legge. E quindi compaiono sullo scenario del nostro paese questi enti che prima non esistevano.
Poi noi le chiamiamo “Fondazioni” per capirci un po’ meglio. Perché “ente conferente”? Perché conferivano, la società conferitaria che era la Banca, Società per Azioni. La banca si mette a fare la banca e la fondazione cosa fa? In realtà, devo dire, questa legge, questo modello, ancorché la legge va sotto il nome del ministro del Tesoro dell’epoca Amato, perché le nostre leggi, anche perché la vigilanza su di noi è fatta del Tesoro, oggi è del ministero delle Finanze, le nostre leggi portano il nome dei ministri dell’epoca, la legge Amato, la legge Dini, la legge Ciampi, come dirò fra un istante. Ma l’inventore, chi ha pensato a questa soluzione, si chiama Nino Andreatta.
Io ho avuto occasione un giorno presso l’Arel, dove si parlava appunto delle Fondazioni, di parlare con lui e lui mi confessò candidamente: noi avevamo un solo problema in quel momento, nel 1990, dovevamo trovare un contenitore dove collocare queste azioni che corrispondevano al patrimonio della banca, ma non avevamo minimamente intuito cosa avrebbero potuto fare queste Fondazioni, anche perché le fondazioni fino allora non esistevano e non potevamo conoscere quale sarebbe stato il loro futuro. Il nostro obiettivo era avere un contenitore dove mettere le azioni. Poi avremmo pensato a che cosa sarebbe successo di questo ente e di queste azioni.
Perché allora ci fu subito un dibattito molto vivace. Chi sosteneva che queste azioni bisognava darle allo Stato e non se ne parlava più, chi diceva saniamo i debiti della sanità, chi diceva… e invece, devo dire, la componente democristiana, la componente cattolica, anche per ricordarsi un po’ tutta questa memoria che è stata persa, no, dice, questo è un patrimonio che si è costituito per generazioni di donne e di uomini che hanno lavorato nelle Casse di Risparmio, il patrimonio della Cariplo è dato dal lavoro di queste generazioni, se vogliamo dai clienti che avvalendosi delle attività della banca, progressivamente hanno consentito alla banca di costituirsi un certo patrimonio. No! Questo è un patrimonio di queste comunità locali e noi dobbiamo salvaguardarlo.
È un patrimonio che si è costituito, ho detto siamo 88 Fondazioni nei vari territori: noi in Lombardia siamo solo 2 fondazioni, noi e la Fondazione Banca del Monte, come si chiama la BRE, corrispondente alla Banca regionale Europea che sta a Pavia, ma per esempio in Piemonte ci sono due Fondazioni, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, la CRT. Ci sono Fondazioni che hanno dimensione provinciale, o all’interno della stessa provincia. Se voi prendete la provincia di Cuneo, ci sono cinque Fondazioni: c’è la Fondazione di Cuneo, quella più importante, di Fossano, di Bra, e via compagnia e quant’altro, ognuna secondo la sua storia e la sua tradizione.
Allora si dice: no, questo patrimonio va lasciato alle Fondazioni che devono gestirlo opportunamente e poi vedremo che cosa succede. Succede che nel frattempo le Fondazioni… Parliamo della Cariplo. La Cariplo ha fatto un’operazione semplicissima: ha preso la sezione, la direzione, il comparto beneficienza e l’ha attribuito alla fondazione con il relativo personale. Ricordo, significativamente, che l’organo di amministrazione della Cariplo, non si chiamava Consiglio di Amministrazione come avviene normalmente in una società o in una banca, ma si chiamava Commissione Centrale di Beneficienza, a rilevare che era più importante, quando la banca faceva tutti e due i mestieri, l’attività di beneficienza, io l’ho chiamata filantropica, che non l’attività di fare banca. Questo nome lo abbiamo ereditato noi, oggi l’organo cosiddetto di indirizzo è chiamato, è, la Commissione Centrale di Beneficienza.
Le Fondazioni si trovano questo patrimonio, la banca quando approva i bilanci e attribuisce alla Fondazione gli utili prodotti e le Fondazioni, la Fondazione Cariplo, si trova queste risorse, cosa ne fa? Riprende, o continua meglio, la storia della componente, diciamo, di carattere sociale, di carattere filantropico della vecchia Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, quando era un unico soggetto che faceva banca e faceva anche il sociale.
E incomincia a svolgere questa attività; inizialmente in un modo, come dire, un po’ particolare, chiamiamolo così: nelle filiali della banca si raccolgono le domande di quelli, che so, la Croce Rossa, la Croce Bianca che devono comperare l’autolettiga: “Ho fatto la pesca, ho fatto la festa campestre, ho fatto la lotteria, ma mi mancano un po’ di soldi se no questa autolettiga non la compro”. Raccoglierò le domande e a Milano la Fondazione, con la sua Commissione Centrale di Beneficienza e il suo Consiglio di Amministrazione esaminava queste domande ed erogava questi soldi nel settore dei servizi ad personam, nel settore della formazione professionale, della cultura.
E ci fermiamo lì. Perché le Casse di Risparmio non avevano che due settori: quello della ricerca scientifica e quello dell’ambiente e dell’ecologia (allora l’ambiente non era un tema prioritario, parlo di allora e quindi avevano solo due settori: i servizi alla persona e la cultura, arte e cultura). Il patrimonio storico, culturale, archeologico è stato salvato dalle Casse di Risparmio e dalle Fondazioni che hanno proseguito questa attività.
Le Fondazioni incominciano a diventare un soggetto interessante svolgendo questa attività, aggiungono ai loro settori ambiente e ricerca, e siccome l’attività delle Fondazioni comincia a svolgersi nel momento in cui va in crisi lo stato sociale (questo va tenuto molto presente), cominciano a venire meno i soldi, lo stato ne ha meno, gli enti locali dicono che non ce la fanno più, eccetera, le Fondazioni diventano il soggetto che, assieme al cosiddetto Terzo Settore, al privato sociale, al no profit, alle cooperative sociali, alle imprese sociali, e ad altre fondazioni e associazioni, diventano il soggetto naturalmente di supporto al Terzo Settore, per cercare non di sostituirsi alla parte pubblica, ma almeno di attutire le grandi difficoltà che venivano avanti, a dare risposte ai bisogni sociali, per gli anziani, la disabilità, il disagio giovanile, la droga, l’immigrazione, l’infanzia negata, l’elenco è un elenco infinito.
Allora ci si rende conto di due cose. Che queste fondazioni se gestiscono bene il loro patrimonio, che in quel caso era solo di utili dati dalla Cassa di Risparmio di riferimento, e svolgono questa attività con grande intelligenza, possono svolgere una funzione importante nella nostra società. Ma ci si rende conto, secondo punto, che quella legge, la cosiddetta legge Amato, io direi la legge Andreatta, diventa insufficiente perché quella è una legge di pochi articoli che aveva solo come obiettivo, come mi raccontò lui, di avere un contenitore dove mettere le azioni e basta. Non aveva, come dire, correttamente, in modo significativo, definito che cosa era sto ente conferente che avevano inventato.
Nel 1998-1999 arriva la legge Ciampi, sempre ministro del Tesoro dell’epoca. La legge Ciampi, che noi diciamo essere una legge quadro, una legge di principi, si occupa delle Fondazioni, cercando di eliminare alcune situazioni di difficoltà e definendo meglio in una cornice, non una legge, diciamo, minuta perché se no avrebbe tradito quella caratteristica di autonomia delle singole fondazioni che stava nell’autonomia delle Casse.
La legge Ciampi, devo correre rapidamente, è una legge che noi delle Fondazioni abbiamo sempre giudicato positivamente. Perché, cosa fa questa legge Ciampi? Intanto, risolve la famosa questione della natura delle fondazioni. Queste fondazioni sono enti privati o sono enti pubblici? Perché voi capite immediatamente che se sono enti privati sono enti con una autonomia importante all’interno di una cornice definita dalla legge, rispettando principi che la legge può fissare, ma la parte pubblica non può mettere le mani addosso e interferire o rendere le fondazioni serventi allo stato, alla parte pubblica. Se la fondazione è un ente privato capite bene che ha una sua autonomia, una sua capacità operativa nel rispetto della legge e dei propri statuti. La Ciampi risolve questo che è un tema fondamentale perché dalla definizione della natura sarebbe derivata la storia futura delle nostre fondazioni.
La Ciampi taglia di netto questa diatriba che era in corso tra gli statalisti e i non statalisti e dice che le Fondazioni sono enti privati, senza scopo di lucro, con piena autonomia statutaria e, aggiunge, gestionale nel rispetto della legge e dei loro statuti. Questo è fondamentale perché, voi capite bene che se io rispetto la legge e lo statuto della fondazione, per il resto nessuno ci deve mettere le mani sopra. Siccome siamo gestori di patrimoni pubblici è giusto che ci sia una autorità di vigilanza ma che deve vigilare, come dire, rispetto alla legge e allo statuto. Deve essere un controllo di legittimità, non di merito. Tu non puoi entrare nel merito di scelte che fa la fondazione perché ha la piena autonomia gestionale: gestire il patrimonio, gestire il settore erogativi e quant’altro. E questo è fondamentale.
È talmente fondamentale questa scelta della Ciampi che pochi anni dopo, tre anni dopo, il governo Berlusconi e il ministro del Tesoro dell’epoca, nostro vigilante Tremonti, dicono: dobbiamo pubblicizzare le Fondazioni, dobbiamo metterci le mani addosso e mettere le serventi allo stato e agli enti locali pubblici. E allora, nella finanziaria del 2002, inserisce un articolo che per noi delle fondazioni è famoso, l’articolo 11, dove, come sempre non è che è esplicito; dice: le fondazioni non sono enti pubblici ma, dice, gli organi che amministrano le fondazioni devono essere a grande maggioranza espressione degli enti pubblici. È la pubblicizzazione. Poi c’era un comma che toglieva l’autonomia gestionale e statutaria, ma hanno detto che aveva sbagliato la dattilografa a battere l’emendamento e si sono affrettati a togliere da subito questa parte che era macroscopicamente contraddittoria rispetto alla legge Ciampi.
Allora, questa vicenda, con varie vicissitudini che non vi sto a raccontare se no di cultura questa mattina non vi parlo, siamo riusciti, perché le Fondazioni non hanno accesso diretto alla Corte Costituzionale, siamo riusciti, avendo il ministro emanato un regolamento di applicazione di questo articolo ed era un atto amministrativo che noi abbiamo impugnato, il TAR ha ritenuto che ci fossero elementi di incostituzionalità in questo articolo, siamo finiti alla Corte Costituzionale che con due sentenze, la sentenza 300 e la sentenza 301 del 2003, ha detto due cose fondamentali: primo, le Fondazioni sono enti privati, la Ciampi va rispettata, non potete introdurre questi meccanismi per pubblicizzarli perché in quell’articolo c’era anche che il ministro ogni anno faceva l’inventario presso la fondazione di quanti soldi noi avremmo potuto dare per ridurre il debito pubblico, quindi non fondazioni sul territorio, i problemi del territorio, ma da un lato usiamo, utilizziamo le Fondazioni per ridurre il debito pubblico, dall’altro gli enti locali vanno lì e si prendono il malloppo, soprattutto le erogazioni che le Fondazioni elargiscono.
La sentenza, le due sentenze, e la 300 dice un’altra cosa (relatore era il professor Zagrebelsky): le Fondazioni non sono solo private ma fanno parte delle organizzazioni delle libertà sociali, cioè stanno nel mondo del Terzo Settore del no profit, e hanno come funzione di attuare il principio di sussidiarietà che nel frattempo era stato costituzionalizzato (ultimo comma dell’articolo 118). Cioè le Fondazioni e il vasto mondo, per nostra fortuna, del Terzo Settore, del no profit, del volontariato, devono dare attuazione al principio di sussidiarietà.
Chiusa la partita della natura che chiaramente è fondamentale perché se avessero vinto gli altri è chiaro che questa mattina io non sarei qui a raccontarvela, perché qui o non c’era nessuno o voi non sareste venuti ad ascoltarmi perché le Fondazioni avrebbero immediatamente cessato la loro ragione d’essere… Ma io sono anche rispettoso perché nella polemica che allora si fece, se volete pubblicizzare, benissimo, pubblicizzate, ma ditelo chiaramente.
Purtroppo, in quel momento, devo dire, ma ancora oggi, le Fondazioni non sono molto conosciute e supportate. Ci furono solo due persone che quando Tremonti tentò questa operazione (poi lui al nostro congresso di Bolzano disse che non era lui, ma erano Berlusconi e Bossi che volevano questa roba qui e l’obiettivo era la Cariplo, ma adesso non facciamo folklore) due persone che furono Anna Maria Crespi e Giorgio Vittadini, che in due articoli, uno sul Corriere della Sera e uno su Il Sole 24 Ore, scrissero che stavano commettendo un errore colossale perché privavano il nostro paese di soggetti che, per esempio nel mondo anglosassone, cioè quando Tocqueville tornò dagli Stati Uniti d’America, una delle cose che scrisse come un fatto assolutamente clamoroso, era la presenza di queste Foundations (là lo stato svolge poche essenziali funzioni) e invece questi enti svolgevano una funzione sociale. E disse un’altra cosa importante che dobbiamo tener presente, che i corpi sociali intermedi, il cosiddetto privato sociale, non sono solo un fattore di risposta a dei bisogni, ma sono fattore di rafforzamento della democrazia, perché una democrazia pluralista ha bisogno, accanto ai partiti, ai sindacati, agli enti locali, ha bisogno di corpi intermedi liberi e autonomi perché il pluralismo è un fattore di rafforzamento della democrazia. Questo va tenuto presente accanto al fatto che oggi le Fondazioni si valutano perché stiamo nelle banche o per le erogazioni che facciamo.
La Ciampi, rapidamente, ha definito anche altri aspetti importanti, oltre a questa fondamentale natura. Per esempio, nella gestione del patrimonio ha stabilito che le Fondazioni non devono fare investimenti speculativi, le Fondazioni devono diversificare i loro investimenti per non correre rischi di quello che purtroppo non ha fatto Siena e per non correre il rischio di perdere il patrimonio se le cose vanno male in quell’unico investimento, devono prevedere rendimenti che nel medio e nel lungo periodo consentano alle fondazioni di svolgere la loro attività. Chi ha rispettato questi criteri come la fondazione Cariplo ha il suo patrimonio integro e le ben pensanti di Medio Banca che stanno a Londra hanno fatto uno studio, alcuni anni fa, che viene citato, naturalmente in polemica con le Fondazioni, dove hanno detto che la fondazione Cariplo nel 2054 non ci sarebbe stata più perché noi avremmo dilapidato il patrimonio, eccetera. Vi tranquillizzo, siccome siete comproprietari pro quota, quelli che stanno in Lombardia, se c’è qualche veneto no, non è partecipe, o qualche piemontese, ma i lombardi che stanno in Lombardia o i piemontesi che abitano in provincia di Novara, o nel Verbano Cusio Ossola che fan parte della nostra fondazione, sappiate che noi abbiamo integro il patrimonio di 7 miliardi e 200 milioni lordi, poi bisogna fare le deduzioni, ma fate conto di 6 miliardi e 600-700 milioni, quindi era il patrimonio che, grosso modo, avevamo quando abbiamo venduto la Cariplo nel 1997 e ci siamo trovati questo patrimonio molto, molto importante.
La terza cosa che la Ciampi ha fatto è che ha meglio definito il settore di intervento; quindi, posto che noi possiamo operare solo nel sociale, quindi non possiamo fare erogazioni a privati cittadini o a enti profit, a una industria, a una SpA, o a una Srl non possiamo dare soldi, però ha stabilito questi grandi settori che io riassumo e che sono i servizi alla persona, arte e cultura, ecco che qui che arriva l’ambiente, e arriva la ricerca scientifica.
Quindi, le Fondazioni, vinte le due cause davanti alla Corte Costituzionale, si sono messe a svolgere la loro attività con due funzioni perché se noi vogliamo guardare in modo proprio essenziale: che cos’è una fondazione? La fondazione è un patrimonio, un patrimonio che è derivato dal valore della Cariplo veramente importante, 7 miliardi e 200 milioni, ci collochiamo tra le prime fondazioni europee, non americane, inglesi, eccetera che hanno una storia diversa, ma siamo tra le più importanti per patrimonio tra le fondazioni europee. Un patrimonio che gestito consente con gli utili che si ricavano dagli investimenti di ottenere dei soldi per svolgere le attività erogative che sono le attività fondamentali. Cioè noi esistiamo perché dobbiamo svolgere questa attività di carattere erogativo.
In questi anni la Fondazione Cariplo ha difeso il proprio patrimonio e nel 2054 chi verrà dopo di noi troverà un patrimonio integro; abbiamo cercato, questo mi pare stava nell’accenno che è stato fatto nella presentazione di questo nostro incontro, abbiamo cercato, come ho ricordato all’inizio di cambiare radicalmente l’attività della Fondazione. Prima ci avvalevamo degli sportelli della banca per accogliere le domande, le studiavamo e facevamo tutto a Milano e questa era chiaramente un’azione passiva, cioè noi raccoglievamo domande, le istruiamo e diamo soldi, ma non è mica questa la funzione di una fondazione. La fondazione deve essere una fondazione, come dire, attiva, una fondazione che si guarda intorno, quattro settori che ho citato: servizi alla persona, c’è la crisi dello stato sociale, che cosa facciamo? Andiamo avanti a dare soldi alle associazioni di volontariato, funzione importante, ci mancherebbe altro, o ragioniamo per dire come possiamo rispondere alla crisi dello stato sociale con delle proposte, come dire, innovative. Con delle proposte che non si fermano a subire passivamente la situazione, a cercare di mettere dei tamponi qui e là.
Proprio per quanto riguarda i servizi alla persona e lo stato sociale noi stiamo in questo momento, una delle tre linee che sta nei documenti (noi abbiamo rinnovato gli organi nel maggio di quest’anno, la Commissione Centrale dura sei anni), abbiamo approvato questi documenti per i prossimi sei anni, ma assumono tutto per i primi tre anni e per il 2014: Lì dentro c’è un primo punto che io reputo fondamentale che è quello del welfare in comunità con la partecipazione attiva dei cittadini. Cioè, noi pensiamo, si sono fatti degli studi, delle ricerche in giro per la Lombardia e ci sono già alcuni esempi non completi di quello che adesso vi dirò, noi pensiamo che allo stato sociale con i soldi dello stato e i soldi degli enti locali, così come nel dopoguerra quando c’erano tanti soldi ci siamo inventati, quella roba lì non c’è più, non tornerà più, ma i bisogni sociali aumentano e quindi non possiamo lasciare scoperti questi bisogni sociali. Né le Fondazioni e il Terzo Settore sono in grado di fare attività, non sussidiaria, ma sostitutiva. Questo dobbiamo mettercelo in testa bene: se il volontariato, anche con tutti i nostri soldi, non supplisce all’apparato pubblico, allora noi pensiamo a questo stato sociale di comunità.
Pensiamo che la comunità è una dimensione nella quale la persona, il cittadino appartiene, si sente che fa parte: è una provincia, è una dimensione più ridotta di una provincia; la comunità è la comunità: uno, come dire, io sono comasco e ci sono qui anche alcuni amici di Como, naturalmente uno è anche europeo, adesso siamo un po’ tutti in crisi, è europeo, italiano, lombardo, comasco, ma io sono appianese perché la mia comunità dove abito da molti anni è Appiano e mi sento appianese. E attorno vi sono altri comuni, che per storia, per realtà sociale ed economica fanno delle cose assieme, già si mettono assieme. A Crema, sapete che la provincia di Cremona se c’è qualche cremonese, sono tre realtà: Crema, Cremona e Casarasco; a Crema, i comuni del cremasco da anni hanno cominciato a mettere assieme i servizi e a fare questo lavoro.
Ecco noi pensiamo che bisogna realizzare un progetto molto più completo, molto più organico che noi chiamiamo “Welfare di comunità” o di “prossimità” dove in queste comunità ci vogliono soldi pubblici, questo bisogna dirlo chiaro e forte. Il professor Ranci Ortigosa al quale abbiamo finanziato una ricerca è andato a spulciare i bilanci dello stato e ci sono tanti soldi pubblici per le famiglie povere, per i disabili, per tante cose. Dove vanno questi soldi non si sa, li spendono a Roma, lui addirittura ha scoperto che invece di darli alle famiglie povere si danno a famiglie che sono uscite dalla povertà e non si danno alle famiglie che oggi sono entrate nella povertà che è dilagante, come voi leggete quotidianamente sul giornale.
Soldi pubblici, volontariato, Terzo Settore, Fondazioni, questo welfare, o anche aziendale, pur leggendo tutti i giorni che grandi imprese, la Luxottica, la Ferrero, non so, ma anche medie imprese, si mettono assieme per dire integriamo i bisogni dei nostri dipendenti, i figli dei nostri dipendenti, paghiamo la scuola, integriamo la sanità: questo è già un pezzo di welfare che viene soddisfatto.
E poi la cosa nella quale noi crediamo, non so se siamo così visionari, i cittadini perché io mi rifiuto di credere che i lombardi, gli italiani in genere, adesso è successo questo dramma sconvolgente della Sardegna, lanciano appelli e tutti danno soldi per aiutare la Sardegna, ma danno soldi per aiutare Haiti, per aiutare lo tsunami, per aiutare le Filippine. Perché i cittadini di quella comunità di cui ho detto prima se tu gli presenti un progetto, un piano per dare risposte a questi bisogni sociali, gli anziani, i disabili, la droga, l’infanzia negata, gli immigrati che arrivano, le persone di esclusione sociale, perché non dovrebbero aiutare, dare una mano, integrare queste risorse per dare un risposta a tutto questo. Io sono convinto di questa roba, anche perché abbiano un ritorno… Noi abbiamo inventato quindici fondazioni comunitarie in ogni provincia, a Milano ce ne sono due, Nord Milano e Ticino Olona, abbiamo 15 fondazioni comunitarie dove siamo andati a dire: concorrete a patrimonializzare la fondazione e i cittadini di quelle province e tra le 15 fondazioni, 12 hanno già raccolto la sfida, 5 milioni, noi ne abbiamo dati altri 10 e hanno i loro patrimoni i cui utili vengono destinati in quei territori in più dei soldi che noi prendiamo.
Se le fondazioni comunitarie hanno visto questa solidarietà, perché non dovrebbero concorrere a dare una mano a quello che sta sul pianerottolo accanto, nella casa accanto, che ha problemi? La solidarietà proverà che il cittadino deve avere il controllo su quello che tu proponi e il controllo su quello che tu fai. Il successo delle fondazioni comunitarie è perché l’attività di queste fondazioni, la TV locale, i giornali locali, cioè i cittadini di quella provincia e di quel territorio, vedono dove sono andati a finire i loro soldi, che è quello che invece non vedono quando fanno questa solidarietà dove si dice che metà se la mangiano prima che parta dall’Italia, e l’altra metà non si sa dove si è fermata. Non voglio fare polemiche.
Questo è uno dei punti sui quali la nostra fondazione è impegnata; sono tre i punti. Questo è il welfare di comunità. Secondo, i giovani perché è inutile continuare a fare chiacchiere. Voi sapete, noi siamo lombardi. Gente molto concreta, bisogna avere le coordinate dal punto vista culturale, scientifico, tecnico, perché bisogna stare coi piedi molto per terra, ma bisogna dare risposte al problema della disoccupazione giovanile. Perché c’è da meravigliarsi tutti i giorni che ci alziamo, che ci svegliamo, se questo paese sta ancora in piedi con una disoccupazione che è al 40% di media, ma è al Sud dove abbiamo inventato le fondazioni assieme al volontariato, una fondazione importante che lavora nel sociale, col 40 laggiù la disoccupazione è ancora più alta. Come si fa a tenere insieme, a tenere coeso questo paese con i nostri giovani che non hanno più speranza, futuro e hanno l’occhio spento?
Ecco noi abbiamo messo questo dei giovani: l’educazione, la formazione del capitale umano, ma soprattutto l’occupazione. E qui ci sono due cose che stiamo tentando di approfondire: intanto, che non è più accettabile lo scandalo quotidiano che non è vero che nelle aziende del manifatturiero non ci sono posti di lavoro, perché noi leggiamo che posti di lavoro ci sono, ma non vengono occupati perché abbiamo perso le competenze per occupare quei posti. Quali erano le competenze? Le competenze professionali, i periti, i tecnici, i fresatori, non so adesso questi nomi. Questo lo leggiamo tutti i giorni sì o no? E allora bisogna recuperare. La fondazione è disponibile a dare una mano, non con corsi o corsetti regionali che ogni tanto scoppiano come un bubbone. Pensiamo a istituti tecnici professionali, agli istituti tecnici industriali che in Lombardia hanno fatto la storia dell’economia e dell’occupazione. Poi i più bravi sono andati all’università, i più bravi sono diventati padroni di aziende. Tutto questo in questi anni, tutti all’università. Aziende coi posti e non ci sono i lavoratori e i giovani. E quindi ci sono grossi problemi, le famiglie, la formazione, l’azienda; come si usa dire: scuola e lavoro, questo è un settore.
Nell’agricoltura noi stiamo approfondendo un tema per vedere se ci sono in giro aree pubbliche e private che si possono acquisire e costituire, altrove hanno già fatto esperienze positive, la possibilità che i giovani vi si occupino. Oggi c’è un ritorno dei giovani all’agricoltura. Ma tu devi offrire la possibilità perché se sono episodi di singoli giovani che affrontano questa cosa qui è molto limitato; noi vorremmo fare un progetto vero e proprio.
La cultura, come possibilità di occupazione dei nostri giovani: vi cito tre esempi. Uno, ormai completato e finito, quello delle residenze teatrali.
Volevo dirvi, noi abbiamo una fondazione e sono circa 60 le persone che ci lavorano e per la nostra erogazione quest’anno saranno circa 147 milioni, capite bene come questi sono impegnati, vi sono altre fondazioni che hanno il doppio; noi abbiamo 60 giovani che ci lavorano, media dell’età è 38 anni, tante donne, noi da anni non assumiamo ma le selezioni e la raccomandazione, e lo dico chiaro e forte senza tema di smentita, la raccomandazione in fondazione Cariplo non esiste. Ci avvaliamo di una società, ne chiamiamo i requisiti quando ne abbiamo bisogno di coprire un certo posto, ci danno 5-6 curricula, li esaminiamo, facciamo i colloqui. Quindi, abbiamo trentottenni, meno di 40 anni, grintosissimi, donne e giovani, e naturalmente, siccome loro vivono la loro realtà, qual è, come dire, la cosa che la fondazione recupera per avere questi giovani preparati professionalmente e competenti in 4 settori; ne abbiamo 4 che poi hanno sotto dei collaboratori: servizi alla persona è Invernizzi, arte e cultura è la Chiavarino, ambiente è la Iapia e la ricerca è Carlo Mango. Sono 4 in giro ogni tanto per l’Europa e per il mondo perché vengono chiamati a spiegare, all’estero vedono sul nostro sito le cose che facciamo (poi magari vi farò un paio di esempi, ma fuori dall’intervento) e li chiamano per farsi dire questo è il distretto culturale. ll distretto culturale è una roba che hanno inventato questa gente qui (poi vi dirò dove siamo arrivati), che hanno inventato questi giovani, la Chiavarino, il Revaglio, assieme al Politecnico, assieme alla Bocconi, però essendo giovani, questo è il segreto, i giovani ti portano i loro problemi, la loro esigenza, la loro dimensione umana e culturale.
Un giorno arriva Revaglio che è uno di questi, è il numero 2 dopo la Chiavarino del settore arte e cultura, e dice: sa, presidente, noi abbiamo in Lombardia 20 compagnie teatrali di giovani, in condizioni di disagio. Io sono un appassionato di teatro da sempre, ho anche fatto teatro nella filodrammatica del mio paese, di Turate, e tra me e me dico: mamma mia questo qui mi fa buttar via i soldi, però io non fermo mai un’idea. Va bene, elabora il progetto. È venuto fuori che ci sono 20 compagnie teatrali di gente giovane che avevano problemi di dove svolgere la loro attività, stavano in un posto, poi magari non pagavano, li sfrattavano e avevano problemi di sopravvivenza, proprio di avere i mezzi. Bene, noi abbiamo fatto un piano triennale, abbiamo finanziato queste residenze teatrali, le abbiamo stabilizzate nelle loro sedi, queste fanno le loro stagioni, vanno anche all’estero. Quando abbiamo finito il triennio, questo è l’importante, non è che il lavoro è finito, vengono meno i soldi della fondazione Cariplo e non lavorano più. No. Si sono fatti una loro associazione in modo che quegli elementi di consolidamento economico, finanziario, fiscale, ecc., è diventato normale e queste 20 compagnie funzionano tranquillamente e quei giovani lì non sono più alla disperazione o al rischio che la residenza salti per aria e ritornino disoccupati.
Secondo. Questo è il progetto degli under 35. Abbiamo lanciato un bando per piccole imprese giovanili al di sotto dei 35 anni che fossero già operative ma in difficoltà; che avessero problemi finanziari, problemi economici, di struttura, perché uno magari è bravo a fare certe cose, ma non è bravo a far funzionare l’azienda, anche la microimpresa. Altre 9 fondazioni quando hanno visto questo programma hanno detto: ci stiamo anche noi. Si dà il caso che noi abbiamo messo un milione e mezzo e le altre hanno messo 50 mila euro, ma io sono per la collaborazione e quindi va bene. Abbiamo fatto un bando: 15 di queste imprese sono state finanziate, abbiamo replicato quest’anno, lo replicheremo per ancora molti anni per consentire a questi giovani di andare avanti, naturalmente nel settore della cultura, quindi c’è gente che assiste e va nei musei, nei teatri, che assiste, fanno tutte queste cose, o all’interno dei beni culturali svolgono un certa attività.
Sempre per i giovani, la cosiddetta ricerca di frontiera. Voi sapete che c’è una ricerca soprattutto nel settore della salute che non viene finanziata dalle grandi multinazionali, dalle società farmaceutiche, dalle imprese che producono macchinari, perché è una ricerca che nei loro programmi non avrebbe un ritorno dal punto di vista commerciale e finanziario da giustificare l’investimento, perché sono medicine per malattie rare e quindi non hanno una utenza estesa, oppure stanno in paesi in via di sviluppo, in Africa, ecc. Noi siamo venuti a conoscenza, lo sapevamo, il Mango è uno che se ne intende, e abbiamo fatto un bando per finanziare questa ricerca, cioè una ricerca che sta nelle nostre università, nei nostri centri di ricerca. Normalmente c’è, come dire, un professore più anziano, poi lì ci vanno quelli che ci credono perché è una ricerca e le altre invece che hanno degli sviluppi industriali si beccano anche tanti soldi, questo per capire poi la filosofia spiccia… Lì invece il vecchio professore ha attorno 4-5 giovani ricercatori bravissimi e ricercano sperando che un giorno da qualche parte arrivi la provvidenza. La provvidenza non arriva. Noi abbiamo finanziato questo bando. Quando li abbiamo riuniti, questa decina, io ho visto questo spettacolo: c’era il professore e questi giovani a cui brillavano gli occhi perché finalmente quella ricerca, che sarebbe rimasta in un cassetto, poteva avere uno sbocco con un duplice risultato, quello di consentire a loro di realizzare le loro competenze, la loro professionalità, la loro scienza, ma anche di dare una risposta a quei malati che non avrebbero avuto quel medicinale perché nessuno non lo avrebbe mai prodotto.
Vi ho portato alcuni esempi di condizione giovanile.
Il terzo punto, la terza linea è il benessere alla persona nel senso che, parlo per esempio degli anziani, lì è una realtà molto complicata perché li spingiamo tutti ad andare nelle case di riposo, e come li curiamo nelle case di riposo, si realizza veramente il benessere della persona o si realizzano altre cose? Quindi vogliamo dedicarci a questo benessere delle persone nelle tre dimensioni: benessere alla salute, allo star bene, benessere sociale, cercare di mantenere gli anziani nel loro ambiente, nella loro comunità dove sono vissuti. Io sono nato in una cascina, la cascina Piatti di Turate, mio papà non faceva il contadino quindi non devo venir qui a cacciar balle al vostro incontro, era un commerciante, un piccolo commerciante, però allora da noi l’anziano, io sono vissuto fino a 5 anni coi miei nonni materni e c’era questo vecchio nonno lì col bastone, in famiglia eravamo nove perché mia mamma si era già sposata, avevamo un camino enorme, però lo rispettavano perché aveva la saggezza della sua vita e da noi l’anziano si chiamava “ul regiur” cioè il reggitore. Oggi l’anziano bisogna portarlo fuori dai piedi il più rapidamente possibile.
Allora detto questo sulle tre linee, giovani, welfare di comunità, benessere per quelli che non stanno bene nelle nostre comunità, spendo una parola sui distretti culturali, anche perché è già stato detto tutto nella presentazione.
Come nascono questi distretti culturali? Perché questo è importante. La nostra fondazione, e ancora prima le Casse di Risparmio, hanno sempre avuto il settore dell’arte e cultura come uno dei settori. Le vecchie Casse, vecchie intendendo prima della riforma, ho già fatto un cenno prima, il patrimonio storico, artistico, culturale, archeologico delle nostre regioni, dei nostri paesi lo han salvato le Casse di Risparmio, perché i privati a un certo punto soldi non ne mettevano più, il pubblico soldi sempre meno che più e invece le Casse… e noi abbiamo continuato questa tradizione. E per alcuni anni avevamo all’interno del settore arte e cultura dei bandi per recuperare questo patrimonio, ma era un modo di ricuperarlo, sempre valido perché non è che si fan cose disdicevoli o non utili, però probabilmente bisognava migliorare come abbiamo cercato di fare. Ricuperavamo una abbazia, bene, ma l’abbazia restava lì, dopo vent’anni chi veniva dopo di noi si trovava a recuperarla un’altra volta: Oppure il castello, oppure il palazzo storico.
Abbiamo cominciato a modificare questa modalità di erogazione dicendo: perché non pensiamo non a recuperare il singolo monumento, il singolo episodio culturale, ma mettiamo assieme questa realtà, vediamo che ci siano più esempi, o più monumenti in una certa area, in un certo territorio e diamo i soldi per recuperare questo complesso di monumenti, ma poi ci deve essere la possibilità di accedere. Quindi, se tu in mezzo alla campagna, in mezzo alla montagna recuperi una roba dove non ci va nessuno, per chi l’hai recuperata? Si, hai salvaguardato quel patrimonio, ma resta lì inutilizzato, fermo, pronto per ammalorarsi e per richiedere un nuovo intervento a distanza di anni.
Da lì abbiamo cominciato a non finanziare più i singoli interventi ma chiedevamo che ci fossero zone che avessero questa realtà. Poi è venuto fuori questa idea dei distretti culturali, cioè a dire siccome anche in Lombardia siamo una regione che ha un patrimonio, a partire da quello archeologico (pensate alla Val Camonica, ai Camuni, le incisioni rupestri per venire poi alla parte romana, poi cristiana e via via fino ai tempi nostri), l’idea è stata studiata assieme al Politecnico per la parte tecnica e alla Bocconi per la parte economica. Anzi per la verità il primo esperimento che non è un distretto culturale è avvenuto in provincia di Como quando in quell’anno la provincia di Como è stata destinataria di una certa erogazione e la più parte di questa somma importante è stata destinata al cosiddetto progetto “magistri comacini”, il recupero del patrimonio storico artistico culturale archeologico dell’Isola Comacina con i suoi reperti e il recupero di tutto quel territorio. Lì abbiamo sperimentato che la cosa stava in piedi.
Allora è nato il progetto dei distretti culturali e abbiamo detto: dividiamo la Lombardia per distretti in rapporto all’appartenenza di queste aree che hanno una loro identità e una loro appartenenza che è territoriale, comunitaria. Una volta che abbiamo distrettualizzato la Lombardia facciamo un bando perché chi all’interno di questi distretti si mette assieme, perchè qui c’è il pubblico e il privato, noi promuoviamo ma vogliamo i Comuni di questi distretti, le Comunità Montane, le Camere di Commercio e i privati, perché se il privato vuol partecipare a una iniziativa di questo genere c’è spazio anche per lui, la Regione. All’inizio ricordo che io ero ben favorevole ma dicevo: perché devo farlo io fondazione questa roba di distrettualità, io che titolo ho di convocare i comuni, le province, è la regione che lo può fare, ma loro ci hanno detto: noi collaboriamo e voi fate questa iniziativa perché ci mettete i soldi.
Allora abbiamo distrettualizzato la Lombardia, poi abbiamo fatto un bando e abbiamo detto: se vi mettete tutti assieme, gli enti pubblici e i privati, il privato sociale (qui c’è tanto privato sociale in questi distretti), se vi mettete assieme e dichiarate l’intenzione di fare un progetto di distretto, noi vi finanziamo la predisposizione del piano di distretto. Dopo aver fatto questo secondo passaggio abbiamo esaminato, diciamo, una ventina di progetti di distretti e ne abbiamo scelti sei. Abbiamo visto che i distretti che rispondevano ai nostri obiettivi, che adesso vi illustro, erano sei: la valle Camonica, la provincia di Cremona che ha risposto benissimo perché lì c’è un museo che dovete andare a vedere perché è una cosa tecnologicamente avanzatissima (se avete una mezza giornata andate a Cremona a vedere questo museo, è una cosa veramente eccezionale), a Mantova due distretti culturali il sud e anche il nord della provincia di Mantova, la provincia di Monza e la provincia di Sondrio. Quindi, questi sono i sei distretti culturali che in questo momento sono in attività.
Noi abbiamo destinato ai distretti culturali 20 milioni di euro ma ne abbiamo mobilitati 45 perché noi abbiamo detto: noi per ogni distretto 8 milioni, 6 milioni, 4 milioni, noi mettiamo questi soldi in base al piano finanziario che voi avete elaborato però voi dovete mettere la vostra parte, la regione, i comuni che stanno all’interno di ogni distretto a seconda del piano di distretto che era stato da noi approvato, ma con una metodologia anche qui fortemente innovativa. Perché all’inizio, come hanno cercato di partire? Benissimo, voi i soldi li avete, cominciate ad anticipare voi i soldi e realizziamo un pezzo di distretto, poi dopo arriviamo noi. Siccome all’interno del piano finanziario c’è quanto deve mettere il comune bianco, il comune nero, il comune giallo, la regione, il progetto di distretto si realizza ognuno mettendo il suo pezzo e tutti marciando assieme. E ogni sei mesi si riunisce, dove ci sono anche i nostri uomini della fondazione, si riunisce questo comitato per vedere lo stato di avanzamento. Se uno degli enti che è dentro nella partita non ha messo i suoi soldi o è in ritardo, fermi tutti, perché quello deve recuperare la sua parte perché il distretto deve proseguire.
La cosa sta funzionando, dicevo, molto bene anche perché (faccio una digressione) se tu hai le regole e le rispetti le cose funzionano; questo paese va alla malora perché non ci sono più regole e non le rispetta più nessuno, chiusa la parentesi.
Ora i distretti stanno funzionando. Qual è l’impatto? È che qui vengono fuori delle cose curiosissime. Primo, c’è intanto il recupero del patrimonio storico artistico se no va alla malora, perché in quel posto dove c’è l’abbazia che da anni nessuno guarda, vien dentro l’acqua, le intemperie ecc., intanto questo è il patrimonio che noi abbiamo il dovere di salvaguardare e di consegnare integro a quelli che verranno dopo di noi. Se tu fai queste cose, siccome è un intero territorio, un’intera provincia come Cremona, o un pezzo importante della provincia di Brescia, o a Sondrio dove hanno recuperato i sentieri in mezzo dove hanno le dighe o in mezzo ai terrazzamenti, recuperano i castelli e le abbazie, dai un’incentivazione, attraverso il recupero, a delle attività che erano scomparse e quindi devi riformare, formare della gente, dei giovani che vanno lì a fare questo mestiere. Quindi c’è formazione e occupazione che viene fuori, perché nel momento in cui tu fai questi lavori ci devono essere quelli che sono in grado di farlo.
Lo sviluppo economico, perché se c’è un singolo monumento va beh, ma se c’è un distretto tu puoi queste cose metterle nei circuiti turistici. Dici: guardate che se venite in Lombardia per passare le vacanze, c’è anche la possibilità di esercitare in qualche modo, di soddisfare esigenze di carattere culturale e quindi c’è anche una possibilità di incentivazione del turismo.
E poi abbiamo fatto un’altra cosa, sempre per dimostrarvi. Siccome è venuto fuori che i metodi di recupero di questo patrimonio e i materiali che vengono usati sono metodi e materiali che non tengono molto tempo, ma noi dobbiamo fare in modo che questi recuperi, non dico che durino per sempre, ma invece di durare dieci anni durino 60-70 anni perché sono soldi che noi dobbiamo rimettere dentro, abbiamo mobilitato le università scientifiche e tecniche che hanno fatto delle ricerche per trovare dei materiali e dei metodi di recupero del patrimonio storico, artistico e culturale che siamo all’avanguardia a livello addirittura mondiale. Hanno fatto un grosso convegno un paio di anni fa, mi pare a Como, e sono venuti anche dalla Corea a discutere questi temi e hanno detto: questa è la cosa da fare. Dobbiamo avere materiali e metodi di recupero di questo patrimonio che durino il più possibile per evitare di continuare a mettere soldi.
E quindi i distretti culturali sono una risposta al modo sbagliato, a nostro avviso, con il quale si trattava questo patrimonio. Non si conservava il patrimonio, c’era una frammentazione di soggetti, nessuno se ne occupava, non c’era una visione strategica di sviluppo economico e sociale di quelle comunità e praticamente restava nelle realtà locali, consegnati a questo isolamento, un patrimonio che noi invece vogliamo fare in modo che venga fruito, utilizzato quanto più possibile da quanti più cittadini e, popolazione. Adeso c’è l’Expo e quindi questi distretti si stanno inserendo in modo tale che possono dare un contributo anche a questa iniziativa. Naturalmente, ho detto prima, l’occupazione, le imprese che ci lavorano…
Spero, su questa cosa dei distretti culturali, di avervi dato qualche elemento che vi serva per avere l’idea che quello che noi facciamo nel settore della cultura, lo facciamo anche negli altri settori: la ricerca, l’ambiente… Adesso l’ho già fatta un po’ lunga e quindi devo chiudere il mio intervento. Noi in questi anni, se vi parlassi di quello che abbiamo fatto nel settore della ricerca, sono cose veramente importanti che vengono valutate a livello internazionale. Questo ve lo voglio dire: abbiamo messo assieme 13 fondazioni, abbiamo raccolto 27 milioni di euro e abbiamo lanciato un piano triennale chiamato AGER, un acronimo che vuol dire agricoltura e ricerca, per il genoma del pero, del melo, della vite, cioè una ricerca scientifica di base tendente ad avere migliore qualità dei nostri prodotti agricoli, dei prodotti frutticoli, dei prodotti che andate a comperare nei supermercati, una migliore qualità, una migliore sicurezza dal punto di vista sanitario e una maggiore produttività, perché attraverso queste ricerche si scopre come si possono eliminare i parassiti non con questi diserbanti, non con questi materiali che inquinano e poi questi prodotti arrivano nell’uomo, e quindi tante altre cose.
Volevo concludere dicendo questo: in questi anni noi abbiamo cercato, commettendo anche degli errori perché stanno nei comportamenti umani, solo il Padreterno non sbaglia mai, abbiamo cercato però di dare questa caratteristica alla nostra fondazione: non una fondazione passiva che raccoglie domande e dà via soldi; noi non siamo un posto dove diamo via soldi, siamo un posto dove cerchiamo con questi giovani che lavorano con noi, con un forte rapporto con quello che sta fuori di noi. Non è che noi siamo chiusi nel palazzo di via Melzi D’Eril, in via Manin 23 e ci lavoriamo le nostre teorie, bisogna avere un rapporto strettissimo con la realtà che sta fuori di noi e dare risposte a questa realtà e a questi bisogni. Questo è il grande sforzo che la fondazione sta facendo.
Però, ed è la conclusione veramente, abbiamo bisogno che le nostre fondazioni siano, come dire, vissute dai cittadini, da voi, come una cosa vostra perché quando Tremonti ci stava ammazzando hanno parlato solo Vittadini e la Crespi, gli altri non hanno aperto bocca eppure stavano portando via una roba loro, una roba che se non ci fosse tutte le cose di cui abbiamo parlato questa mattina, e tante cose di cui non abbiamo parlato, non avremmo potuto farle, non potremmo svolgere queste attività. E quindi, il mio appello è: andate sul sito della fondazione dove c’è tutto, appena sforniamo una delibera il tempo di inserirla e c’è. C’è il portale, adesso siamo anche noi in questi giri, abbiamo un giovane lì, addetto alla comunicazione che si chiama Dario Polis, ogni tanto si inventa su una diavolata, ma va benissimo, siamo dentro in questa roba dei circuiti, dei network e quant’altro, dei cinguettii, però andate sui nostri siti, guardate che cosa facciamo, non abbiamo bisogno che diciate: ma come sono bravi. No. Abbiamo bisogno che se avete delle cose, oppure delle segnalazioni da fare… Questa è una fondazione viva, è una fondazione che ha un rapporto con la sua comunità, col suo territorio, con le sue popolazioni.
Se tutta questa lunga chiacchierata ottenesse questo risultato di aver conosciuto meglio la fondazione Cariplo, ma avervi fatto capire che voi siete i padroni della fondazione Cariplo se domani qualcuno volesse mettergli le mani addosso, non la Crespi o Vittadini, ma tutti i lombardi insorgerebbero a dire: è la nostra fondazione, non ce la portate via. Grazie.