Si sarebbe tentati di scrivere che siamo alla fine dell’epopea berlusconiana se non fosse che è stato detto tante altre volte e l’uomo di Arcore è sempre risorto all’ultimo momento.
E tuttavia, rispetto al 1994, anno della sua ufficiale “discesa in campo” in politica Berlusconi ha vent’anni in più (nel senso che sfiora l’ottantina) ed è gravato dal peso di una condanna definitiva per un reato alquanto grave –l’evasione fiscale nell’ordine di miliardi delle vecchie lire- , da un’altra condanna in primo grado per concussione nella nota vicenda Ruby e da un’inchiesta per la compravendita dei parlamentari finalizzata a far cadere il Governo Prodi nel 2007 che configura la fattispecie criminosa gravissima dell’attentato ai poteri costituzionali.
Si aggiungano le rivelazioni su alcuni aspetti sgradevoli della sua vita privata, il circondarsi di consiglieri poco presentabili e la cronica difficoltà ad uscire dalla logica del suo interesse personale per avere una benché minima attenzione a quello pubblico.
Certo, sorprende ancora che nel febbraio scorso vi sia stato un 21% di elettori che gli hanno dato ulteriormente credito, ma questo non può far passare sotto silenzio il fatto che fra il 2008 ed il 2013 il PDL ha perso circa 6 milioni di elettori: solo la mancata vittoria del PD ha occultato le dimensioni della disfatta della destra, e non è certo la riproposizione di un marchio del passato come Forza Italia che può tirare la destra italiana fuori dalle peste della mancanza di credibilità interna ed internazionale. Del resto, l’estromissione con disonore dal Senato a seguito di una condanna definitiva per reati – lo abbiamo già visto – di grave entità non è cosa che possa passare inosservata, e certo non lo è in Europa.
Probabilmente una democrazia come la nostra, che ha sofferto di troppe anomalie e condizionamenti nel corso del suo primo cinquantennio di vita, non poteva avviarsi ad una fase nuova in modo meccanico senza che alcune delle distorsioni del passato si manifestassero nuovamente, e costituisce certo una vistosa eccezione rispetto alle regole degli altri Paesi occidentali che sia durata vent’anni una carriera politica che altrove non sarebbe mai nata o sarebbe stata stroncata per la via da molto tempo.
Ovviamente qui si apre un problema anche per il PD, che sta per affrontare il suo secondo Congresso, a sei anni dalla fondazione, in una condizione paradossale di alleanza con un soggetto politico che, pur distinto ed in polemica con la nuova Forza Italia, è e rimane un suo rivale, e con esso deve tuttavia cercare di operare quel necessario percorso di riforme che renda più solida e meno aleatoria la democrazia dell’alternanza, giacché è fuori discussione che un Governo come quello presieduto da Enrico Letta – pur essendo forse l’unico possibile in questa fase- possa essere quello che realizza il tipo di politica che il PD ha in mente per il Paese.
Ma per far questo il PD deve soprattutto rimotivare la sua esistenza come partito: vista retrospettivamente, la fase segnata dalla guida di Pierluigi Bersani appare come una fase di ripiegamento del partito su di un modello politico ed organizzativo superato ed anacronistico, e le vittorie a livello locale sembrano più che altro una sorta di successo residuale dovuto alla maggiore credibilità dei candidati espressi dal centrosinistra rispetto a quelli della controparte, in un contesto di generale disaffezione verso la democrazia rappresentativa. In questo senso, la sconfitta elettorale di febbraio (ed in politica una mancata vittoria è una sconfitta) ha rappresentato anche la fine della concezione del partito politico come di una “ditta” di cui alcuni sono titolari ed altri al massimo comprimari se non ospiti spesso mal tollerati.
La sfida di Matteo Renzi per la segreteria del partito, paradossalmente, appare come un’occasione privilegiata più ancora delle primarie per la guida della coalizione lo scorso anno, giacché appare ormai evidente che una proposta politica credibile deve essere veicolata da un soggetto credibile, e questo soggetto ovviamente deve avere un leader, ma non un capo solitario, bensì il capo di un partito, ossia di una forza viva , presente nella società, capace di interpretarla e di assumerne le istanze anche più radicali per farne proposta politica, costruzione di consenso ed azione istituzionale.