1. La nostra è l’ epoca degli intellettuali organici, anche se i diretti interessati non sembrano rendersene conto. Intellettuale organico, beninteso, nella versione più volgare dell’ espressione gramsciana, nel senso di una ripetizione pedissequa di una linea talmente accettata con varie sfumature di conformismo da avere assunto il nome di “pensiero unico”. Il fenomeno è così diffuso che alla fine non pare nemmeno possible che vi possano essere dei dissenzienti, delle persone che legittimamente avanzano dubbi sui nuovi dogmi della flessibilità, della liquidazione dello Stato sociale, delle privatizzazioni a prescindere, dell’ America come faro del mondo a cui tendere sia in termini politici che sociali.
In questo senso gli intellettuali, quelli che scrivono sui giornali (sia di destra che di “sinistra”) o che fanno gli opinionisti alla TV, si distinguono per la loro capacità di abbellire più o meno variamente la linea ideologica definita dalle forze economiche -o più esattamente, ma lo vedremo più avanti, da quelle finanziarie- in modo da renderla accettabile più o meno come sono accettabili i mutamenti climatici secondo il progredire del calendario, con quelle necessarie variazioni che servono a giustificare le residue differenziazioni politiche.
Dovremmo essere grati a Luciano Gallino essenzialmente perché ci ricorda che, invece, il ruolo dell’ intellettuale è quello di sottoporre ad una critica permanente le “idèes recues” del suo tempo: volendo usare un linguaggio più enfatico, potremmo dire che l’ intellettuale è colui che sfata i miti ed abbatte gli idoli, soprattutto nel momento in cui si tratta di idoli che condizionano e rendono peggiore la vita di molta gente.
Il punto, avverte Gallino, è che la continua decantazione delle “magnifiche sorti e progressive” della società globalizzata serva essenzialmente a distrarci da uno scenario assai meno attraente che ci si sta formando sotto gli occhi, quello di una “società dei quattro quinti (di esclusi)”, che è un rischio reale per un Paese come il nostro che cumula alcuni svantaggi strutturali: la carenza di settori industriali ad alto contenuto tecnologico, la drammatica crisi della natalità, la debolezza del nostro apparato finanziario. Ciò non può non avere conseguenze permanenti in una realtà in cui la fine delle tradizionali forme di insediamento produttivo richiede nuovi approcci alle problematiche dell’ occupazione, in un contesto culturale portato a demonizzare ogni forma di intervento più o meno diretto delle istituzioni nel settore economico.
A sua volta, la politica appare come paralizzata non solo da questi anatemi, ma anche da una sensazione di diffusa impotenza che si manifesta in modo particolare nei confronti del più tipico dei fenomeni di questa fase economica globale, ossia quello della finanziarizzazione del mondo. Si tratta, come dice giustamente Gallino, di una “rappresentazione mentale (che) descrive il processo come se fosse il risultato di leggi incontrovertibili, e minaccia guai a chi non vi si conforma; quasi avesse sfidato, l’ incauto, la legge di gravità”. E’ sintomatico come l’ analisi del tutto oggettiva di Gallino su di un mercato finanziario ormai completamente staccato dall’ economia reale, e nello stesso tempo divenuto uno dei principali oggetti d’ attenzione da parte dei notiziari e persino nelle conversazioni private abbia una certa consonanza –al di là dei ruoli diversi- con le denunce dalla “periferia del mondo” di padre Alex Zanotelli, a significare che non sempre scienza e profezia sono termini contrastanti…
Quel che più importa, in questa sede, è che l’ analisi serrata di Gallino sta a dimostrare come quegli “investitori istituzionali” (fondi pensione, fondi d’ investimento, compagnie assicurative, casse di depositi e prestiti…) in larghissima parte statunitensi, e che formano oltre il 50% degli investitori finanziari a livello globale, hanno ormai assunto un potere tale da intervenire sistematicamente nella vita delle imprese in cui investono, come anche nelle scelte fondamentali di molti Stati, condizionando l’ autonomia delle scelte imprenditoriali e di quelle politiche. E’ chiaro che in questa logica distorta –e, ripetiamo, separata dalla realtà dei rapporti sociali e d’ impresa- ben poco importa agli investitori istituzionali degli indici occupazionali, al punto che in genere la Borsa premia le aziende che procedono a massicci tagli di personale. I Governi, poi, che temono il famoso “giudizio dei mercati” come nel Medio Evo si temeva il “giudizio di Dio” (l’ immagine è sempre di Gallino) adottano misure di contenimento della spesa che hanno come principale effetto la creazione di depressione finanziaria, e quindi di pesanti ricadute sui livelli occupazionali, i quali ultimi ai mercati non interessano non per personale cattiveria degli operatori ma perché è la logica intrinseca della finanziarizzazione a spingere ad agire così. Quel che è certo è che la dipendenza della struttura economica da quella finanziaria genera un’ insicurezza generalizzata che si ripercuote in termini di malessere sociale diffuso anche sul livello politico.
Credo quindi che sia corretto interpretare il testo di Gallino non solo come un importante esercizio di decostruzione delle mitologie economiche e politiche correnti, ma anche come un forte appello contro la rassegnazione della politica: se c’ è infatti una causa radicale nella vulgata corrente che rende sempre meno distinguibili fra di loro la destra e la sinistra sta proprio nel fatto che ambedue sembrano completamente assuefatte alla logica della finanza, di quella cultura che in Francia, con bella immagine, si definisce dell’ “argent roi”: peggio ancora, la sinistra sembra soffrire di un accentuato senso di colpa nei confronti dei mercati che la spingono ad uno zelo fin eccessivo nell’ applicare ricette che si rivelano rovinose per gli equilibri occupazionali, fidando poi nei cosiddetti meccanismi del mercato per creare nuova occupazione.
Si tratta ora di vedere come è possibile uscire d questo circuito vizioso.
2. Un’ operazione di chiarezza non si può fare se prima non vengono spazzati via tutti gli equivoci, ed in questo senso è assai opportuno il percorso delineato da Gallino nell’ affrontare e decostruire le idee maggiormente diffuse in materia di creazione di nuovi posti di lavoro.
a) La prima di esse consiste in quello che si potrebbe definire come il sogno americano. Ce l’ hanno raccontato in tutti i modi che nel corso degli ultimi vent’ anni gli Stati Uniti avrebbero guadagnato circa 80 milioni di occupati, mentre l’ Europa ne ha persi due. Da qui discenderebbe la necessità di “fare come in America” (con lo stesso fideismo con cui una volta si voleva “fare come in Russia”), e quindi privatizzare, deregolamentare, rendere sempre più flessibile (in uscita) il mercato del lavoro, eccetera eccetera. I dati si rivelano in parte falsi o in parte gonfiati, giacché si dimentica il forte incremento demografico che gli USA hanno avuto nel corso dell’ ultimo ventennio (un fattore che di per sé è già esso stesso causa di aumento dell’ occupazione), e inoltre fra i 130 milioni di occupati si debbono conteggiare categorie come gli studenti che lavorano anche solo per un’ ora alla settimana, i lavoratori “contingenti” a brevissima scadenza, gli occupati part – time, insomma tutti coloro che le statistiche europee conteggiano come disoccupati o parzialmente occupati, mentre quelle americane li considerano occupati a pieno titolo. In questo senso, e tenendo conto che le citate statistiche applicano gli stessi criteri peculiari al conteggio delle persone alla ricerca di un’ occupazione, si può concludere, come fa l’ autorevole economista del MIT Lester Thurow, che il tasso effettivo di disoccupazione negli USA tocchi il 14%. A ciò si deve aggiungere un fenomeno che in Europa è assai meno diffuso, ossia l’ enorme sperequazione esistente fra i salari dei massimi dirigenti e quelli dei lavoratori medi, che nel 1994 ha raggiunto l’ impressionante proporzione di 187: 1. Sicchè, si potrebbe affermare, il prodotto reale dell’ economia americana è la diseguaglianza sociale.
b) Quello della flessibilità, più che uno strumento economico, è ormai assurto nella mente di moti commentatori e uomini politici ad una specie di dogma. A volerci ben leggere dentro, questo concetto implica in sé molti elementi: libertà assoluta di licenziamento, di riduzione di orario o di aumento degli straordinari, di pagare salari reali più bassi, di esternalizzare il più possibile la produzione, di ridurre al minimo il “nocciolo duro” dei dipendenti a tempo indeterminato e a salario pieno… Sempre, ed in ognuno dei casi, l’ azienda è il soggetto della flessibilità, ed il lavoratore è l’ oggetto al quale si chiede di adattarsi a lavorare in condizioni peggiori e a salari sempre decrescenti, con il rischio permanente di essere licenziato appena le sue prestazioni vengano ritenute non più necessarie. Stabilito ciò, occorre chiedersi se corrisponda al vero l’ equazione flessibilità=aumento dei posti di lavoro. La semplice analisi della realtà americana, una volta di più invocata come termine di paragone dell’ intero discorso anche da autorevoli personaggi come il Governatore Fazio, certifica piuttosto il contrario, nel senso che l’ aumento (relativo, come si è visto) dell’ occupazione corrisponde ad una diminuzione del potere d’ acquisto dei salari, cosicché molte persone che lavorano sono comunque da considerarsi al di sotto del limite ufficiale di povertà. In questo senso la flessibilità opera soprattutto come strumento di pesante condizionamento da parte delle imprese nei confronti dei lavoratori, cosicché l’ invito ad una maggiore flessibilità appare come una sorta di rivestimento ideologico all’ interesse concreto degli imprenditori di pagar meno i loro dipendenti, convincendoli del fatto che ciò corrisponde all’ evoluzione dell’ economia e della società. Come a dire: i danni e le beffe…
Qualcosa del genere lo si può riscontrare anche nell’ enfasi messa sul discorso dei lavori atipici, ossia a quell’insieme di attività che sfuggono ai canoni tradizionali del lavoro dipendente (pubblico e privato) e di quello autonomo (professionale, imprenditoriale, commerciale…). Il lavoratore atipico più diffuso è quello a part-time, mentre si stanno diffondendo le tipologie del lavoro interinale (in affitto) o del lavoro in franchising (concessione). Una peculiarietà tutta italiana è quella dei “lavoratori socialmente utili” (LSU), cioè di quelle persone che hanno accettato di svolgere un lavoro ausiliario presso Enti pubblici e parapubblici, a metà tempo e con un compenso irrisorio, e che da anni aspettano la loro definitiva “stabilizzazione” fra una proroga e l’ altra. Queste forme d’ impiego vanno anche sotto la dizione di “nuovi lavori”, dando la sensazione che si tratti di realtà innovative, quando a voler ben vedere si tratta invece di trasformazioni in termini precari, e quindi oggettivamente meno favorevoli per il lavoratore, di situazioni lavorative standard. Prova ne sia, come dimostra Gallino, che il livello occupazionale generale non pare intaccato dal diffondersi di queste modalità di organizzazione del lavoro.
E’ ormai abitudine consolidata di mettere sul banco degli imputati, quale massimo responsabile degli alti livelli di disoccupazione europei, lo Stato sociale. Il nocciolo della critica è semplice: con i suoi alti costi, con le ingenti spese che comporta soprattutto in materia previdenziale, sanitaria ed assistenziale, lo Stato sociale costituisce un freno allo sviluppo e di fatto abitua la gente ad aspettare tutto dallo Stato – provvidenza piuttosto che dalle proprie capacità imprenditoriali e di risparmio. A parte che i dati dimostrano che Paesi che hanno una spesa sociale molto più alta di quella italiana (compresa l’ Inghilterra del paradiso thatcheriano) dimostrano di avere migliori performances in materia di occupazione è l’ argomentazione in sé ad essere sbagliata, poiché dello Stato sociale dà una lettura puramente contabile e ne dimentica l’ importante valore di integrazione sociale che ha svolto il compito di attutire le forme più eclatanti del conflitto di classe. In questo senso, argomenta Gallino, lo Stato sociale andrebbe considerato come un fattore di produzione avente la stessa importanza della forza lavoro, della terra e del capitale nella formazione del PIL.
Certamente non sarà l’ Europa, l’ eterna ancora di salvataggio della politica italiana, a trarci d’ impaccio rispetto agli alti livelli di disoccupazione. Un po’ perché tutti i principali attori della nascita dell’ Euro hanno escluso che uno degli effetti della moneta unica sia quello di creare più lavoro. Un po’ perché la logica soggiacente al Patto di stabilità dell’ UEM ha preoccupazioni del tutto diverse, nel senso che, mirando a tenere sotto controllo la spesa pubblica, e rimettendo ogni determinazione in merito alle oscillazioni dell’ Euro alla BCE i Governi e le Banche nazionali si sono interdetti la possibilità di svalutare le divise nazionali come in passato. I parametri di Maastricht possono essere una condizione per una forte rirpesa economica in Europa, ma non è detto che tale ripresa si porti dietro una crescita dei posti di lavoro.
Un discorso a parte meritano le proposte riformatrici che vengono avanzate anche da sinistra in ordine alla possibilità di combattere la disoccupazione, in particolare quelle che prevedono una valorizzazione del Terzo settore oppure l’ introduzione della settimana lavorativa di 35 ore. Si tratta, rileva Gallino, di proposte serie, che hanno una loro specifica dignità intellettuale. Tuttavia sono inadeguate in termini di lotta strutturale alla disoccupazione, poiché non mettono in discussione l’ impostazione economica che la produce. Il vero problema dell’ occupazione – ed è il cuore di tutta l’ opera- non sta nel fatto che ormai il lavoro è finito, come dicono alcuni, ma che la gran quantità di lavoro da fare non è ancora stata convertita in termini di occupazione, poiché la “nuova economia” ha preteso di dividere il mondo in due parti: quello dei servizi che debbono essere prodotti al minimo costo possibile attraverso la più sregolata economia di mercato, e quelli che si potrebbero in astratto produrre ma che di fatto a nessuno interessa produrre. Ed è proprio qui che si trova la faglia di rottura, quella in cui una politica degna di questo nome potrebbe e dovrebbe intervenire.
3. Occorre quindi aprire una riflessione non di maniera, che coinvolga tutti i soggetti politici e sociali responsabili e che li metta davanti alle loro responsabilità senza invocare l’ alibi della globalizzazione e di altri fenomeni incontrollabili. Gallino dà il suo contributo in questo senso costruendo un’ agenda possibile delle modalità di creazione di nuova occupazione che partono dalla constatazione di dati di fatto e di bisogni reali della società.
In particolare egli sottolinea la necessità di concentrarsi su quelli che potremmo definire lavori di utilità sociale (non lavori socialmente utili perché questa espressione è ormai delegittimata) che partono da carenze reali del sistema –Italia. Nello specifico si può pensare alla questione della lotta alla delinquenza, che richiede un rimpinguamento degli organici della magistratura, dell’ amministrazione della giustizia, delle forze dell’ ordine, con conseguenze benefiche in termini di sviluppo economico della parte del Paese che maggiormente è soffocata da fenomeni di natura criminale. Viene poi l’ annoso problema del miglioramento della rete infrastrutturale del Paese, a partire dalle ferrovie e dalle strade a grande circolazione, la valorizzazione dell’ immenso patrimonio dei beni culturali del nostro Paese, l’ attuazione di progetti per una migliore efficienza della Pubblica Amministrazione, eliminando le code e le perdite di tempo per i cittadini. Insomma, tutta una serie di attività e di iniziative che, se opportunamente coordinate, possono dare vita ad una crescita non effimera dell’ occupazione.
Una particolare riflessione Gallino la richiede alle forze politiche, sia di destra che di sinistra. Le prime sono chiamate a rivedere gli slogan tipo : “meno Stato più mercato”, perché il mercato non risolve tutti i problemi dell’ economia, ed anzi il suo intervento va rafforzato, non per intralciare l’ iniziativa privata ma per potenziare i settori strategici dell’ economia, per impedire il crollo di attività importanti per il Paese e creare le condizioni per la nascita di nuove imprese. Le seconda sono invece sfidate sul punto della loro avversione tradizionale nei confronti della grande impresa e della cultura che essa produce, laddove il nostro Paese denuncia carenze strutturali in quello che invece è il luogo naturale della crescita dell’ innovazione tecnologica e della produzione di nuovi servizi.
Particolarmente articolato è il discorso sul ruolo economico delle famiglie, le quali dovrebbero essere considerate come imprese bisognose di servizi specifici e meritevoli di particolari agevolazioni, laddove la mentalità media degli imprenditori e dei funzionari pubblici è orientata, nel primo caso, ad un target consumistico di tipo individualistico, e, nel secondo, ad una concezione puramente punitiva di ciò che nel bilancio familiare eccede la pura e semplice sussistenza. Cosicchè le famiglie sono spesso costrette a scegliere fra prestazioni di servizi scadenti o la ricerca di servizi più raffinati ma assai più costosi e talvolta proibitivi per budget limitati: laddove, invece, un’ intelligente politica imprenditoriale ed un’ altrettanto intelligente politica pubblica potrebbe creare un’ ampia gamma di servizi alla persona su base di massa a costi decisamente inferiori, permettendo nel frattempo di dedurre la più parte delle spese familiari dalle imposte, il che, producendo maggiore occupazione proprio nel campo dei servizi alla famiglia, permetterebbe anche al fisco di trarne giovamento una volta che il sistema fosse andato a regime. E’ da dire, forse, pensando a certe polemiche, che oltre che sulla cultura d’ impresa la sinistra italiana dimostra un cronico ritardo anche sulla cultura della famiglia e più in generale dei corpi sociali.
Un altro investimento strutturale, colpevolmente negletto dalla maggior parte dei Governi che si sono succeduti nel cinquantennio repubblicano, è quello della ricerca e dello sviluppo (R&S), che invece è strategico nel momento in cui si consideri che una delle ragioni della superiorità degli Stati Uniti sta proprio nei massicci investimenti che sono stati fatti in questo settore. Connesso a questo è il tema della formazione permanente dei lavoratori, che permette loro di non rimanere sorpresi di fronte a cambiamenti tecnologici che a volte hanno gli effetti più devastanti in termini di distruzione di posti di lavoro. In tal modo si dà un senso compiuto all’ espressione “occupabilità”, intendendola come idoneità di una persona ad un determinato lavoro, rendendo appetibile un certo lavoratore per un’ impresa che deve assumerlo, o rendendo non desiderabile per l’ impresa che lo ha già assunto il licenziarlo. In questo senso va creata un’ alleanza positiva fra il mondo della formazione e quello del lavoro, a tutt’oggi mestamente assente.
4. Che fare di questo libro? Più esattamente, in che modo un libro come questo, uscito tre anni fa e positivamente riscontrato da molti studiosi, ma rimasto lettera morta nell’ azione politica, che continua ad essere orientata dai dogmi di cui si diceva, può essere un contributo alla riflessione e –soprattutto- all’ azione?
Vediamo innanzitutto quali possono essere gli interlocutori interessati ad aprire un discorso. Un primo fronte può essere aperto con le forze sociali o, se si preferisce, con il terzo settore. Già abbiamo visto come Gallino, pur considerando insufficiente una risposta alla disoccupazione basata solo sulle forze del terzo settore, si guardi bene dal considerarle come fattori marginali o secondari. Le realtà della cooperazione, del volontariato che si trasforma in impresa sociale, anche associazioni di stampo tradizionale come le ACLI o l’ ARCI possono indubbiamente contribuire non solo alla creazione diretta di posti di lavoro, ma anche alla ridefinizione di un grande patto per l’ occupazione che sia alla base delle scelte che poi dovranno essere concretamente operate e che, in uno spirito di sussidiarietà che sia rettamente inteso (che non diventi cioè il lasciapassare per la privatizzazione di ciò che è e deve rimanere pubblico), conferisca a tali realtà un ruolo di protagonisti nella costruzione di un nuovo modello sociale.
Una funzione specifica ce l’ hanno i Sindacati, ai quali, nella grande recita a soggetto che ha caratterizzato il dibattito economico e sociale in questo decennio, è stato assegnato il ruolo dei conservatori ad ogni costo. In realtà i Sindacati fanno il loro mestiere, nel senso che il loro scopo principale è la difesa degli occupati, non la definizione di improbabili strategie per l’ occupabilità. Si dice che gli strumenti di tutela dei lavoratori già esistenti siano dei meccanismi che strozzano la flessibilità del mercato del lavoro, ma è da chiedersi per quale ragione i Sindacati ed i lavoratori che essi rappresentano dovrebbero acconciarsi ad una riduzione delle garanzie (salariali e non solo) nel momento in cui le alternative proposte sono a dir poco fumose, o legate a modelli stranieri distorti e comunque incompatibili con la nostra struttura sociale e, soprattutto, gli interlocutori – a partire da una Confindustria che si è recentemente data una dirigenza che concepisce la dialettica sociale come una specie di suk levantino (come dimostra l’ incredibile vicenda dello scambio IRPEG contro allargamento a Est dell’ UE)- non sembrano disposti a concedere nulla, nemmeno in un momento di oggettivo favore della congiuntura. Salgono i profitti, ma contemporaneamente salgono anche i prezzi ed i salari reali sono inchiodati ai livelli di dieci anni fa. Ai Sindacati piuttosto si deve chiedere la disponibilità –già manifestata nelle trattative sui patti territoriali- a favorire le scelte innovative, collaborando in particolare sulle tematiche dei servizi alla famiglia, del progetto R&S, della formazione permanente, in cui l’ esperienza di difesa sociale che è tipica del movimento sindacale può operare opportunamente per dare una maggiore concretezza a questi progetti.
Ma è chiaro che un ruolo specifico e precipuo spetta alla politica, ed in particolare a quella di centrosinistra, che è chiamata a riprendere in mano il timone delle scelte fondamentali. La fine del modello comunista e la crisi oggettiva della socialdemocrazia, che peraltro deriva dallo stesso ceppo marxiano, hanno messo il versante dello schieramento politico che più credeva nella necessità della supervisione politica sui processi economici e sociali in una condizione di perenne inferiorità di fronte ad avversari che credono nella tesi dell’ economia che va col “pilota automatico”, nuova versione della Mano invisibile smithiana. In realtà le mani che governano gli attuali processi economici sono visibilissime, e non è necessario iscriversi ai marciatori di Seattle o di Nizza per rendersene conto. Il vero problema è che la dimensione politica si rivela sempre più incapace di far fronte a queste sfide, bloccata com’ è da una dimensione nazionale che è quotidianamente surclassata dalla dimensione globale in cui si è assestato il mercato finanziario. Non ci sono ricette predeterminate, ma almeno sarebbe necessario che i responsabili politici dell’ area che si dice democratica e riformista mostrassero di prendere atto della realtà intrinseca dell’ economia globale, e uscissero dal ghetto di impotenza in cui si sono autoconfinati.
Sarebbe una grave colpa se toccasse a Gallino, come a Federico Caffè e ad altri, di sperimentare la solitudine del vero riformista in un’ epoca in cui questo aggettivo è requisito da reazionari della più bell’acqua.