Con stile sommesso ed acribia implacabile Luciano Gallino continua nella sua opera di sistematica demolizione degli idoli artificiali costruiti dal neoliberismo: lo ha fatto con la disoccupazione, ora con la globalizzazione e, nel suo ultimo testo, con la flessibilità. Tutti autentici dogmi profani, che servono essenzialmente a fissare il dibattito sociale e politico intorno a due o tre disperanti formulette che sembrano avere l’ unico effetto di esorcizzare ogni possibile tentativo di evasione dalla logica del pensiero unico, quello che pretende di avere un’ unica risposta ad ogni problema di natura socio – economica.
1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani
2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Gallino
Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino
Abbattere gli idoli
Una lettura politica di “Globalizzazione e disuguaglianze” di Luciano Gallino
Con stile sommesso ed acribia implacabile Luciano Gallino continua nella sua opera di sistematica demolizione degli idoli artificiali costruiti dal neoliberismo: lo ha fatto con la disoccupazione, ora con la globalizzazione e, nel suo ultimo testo, con la flessibilità. Tutti autentici dogmi profani, che servono essenzialmente a fissare il dibattito sociale e politico intorno a due o tre disperanti formulette che sembrano avere l’unico effetto di esorcizzare ogni possibile tentativo di evasione dalla logica del pensiero unico, quello che pretende di avere un’ unica risposta ad ogni problema di natura socio – economica.
In questo Gallino segue la strada del suo illustre collega Pierre Bourdieu, da poco scomparso, che fu uno dei pochi intellettuali che nel decennio testé trascorso avesse scelto di fare della propria disciplina – egli, come Gallino, era un sociologo- uno strumento di lotta militante a favore della causa degli emarginati, divenendo così il maggiore degli intellettuali organici ai nuovi movimenti sociali. Bourdieu sostenne sempre la necessità di un ruolo critico dell’ intellettuale rispetto allo sviluppo della società, dell’ economia e delle istituzioni, uscendo da categorie come quelle della “torre d’ avorio” o della “riserva critica”, le quali, a suo giudizio, erano comode maschere per il disimpegno e l’ oggettivo schieramento a favore dei poteri forti.
In questa logica si inseriscono pienamente i più recenti lavori di Gallino, del quale consideriamo oggi “Globalizzazione e disuguaglianze”, uscito per i tipi di Laterza nel 2000, che esamina con severità intellettuale animata da passione sociale quello che costituisce il più importante fenomeno culturale – e, a spiovere, economico, sociale e politico- del nostro tempo, che ha cambiato in profondità il modo stesso di rapportarsi alle questioni sociali, evidenziando la nascita di nuove forma di disuguaglianza che, da un lato, costituiscono l’ amplificazione e la dilatazione di diseguaglianze già esistenti, dall’ altro sono di natura nuova, insite nelle pieghe stesse della globalizzazione e richiedenti quindi nuovi strumenti volte a contrastarle.
Perché, anche se in molti se ne sono dimenticati, il compito dei movimenti sociali e dei partiti riformisti, sia di matrice cattolico democratica che di matrice socialdemocratica- è quello di combattere la disuguaglianza sociale, di renderla meno strutturale rispetto al sistema sociale e politico vigente, con una particolare attenzione ai diritti di chi non ne ha e di chi ne ha e potrebbe perderne.
In questo senso, l’ opera di Gallino appare una volta di più come un cri de coeur che un riformista di salde convinzioni lancia alla parte politica e sociale che sente più affine perché non si perda nell’ accettazione acritica del punto di vista degli avversari per ridursi a giocare eternamente -se mi si passa la metafora calcistica – di rimessa sul campo altrui.
Il mercato che non c’è
Una delle prime mitologie che vanno sfatate è quella che riguarda la natura del mercato, inattingibile totem del nostro tempo: non a caso, la prima parte del saggio di Gallino si intitola :”Il mercato, istituzione di Stato”.
L’ espressione contiene già in se stessa il suo significato, nel senso che la scelta di ampliare, restringere o addirittura distruggere la sfera d’ influenza del mercato spetta al potere che si pone come regolatore generale, ossia lo Stato, attraverso una molteplicità di strumenti che vanno dalle tariffe doganali più o meno elevate agli accordi transnazionali oppure attraverso la decisione di gestire in proprio settori della vita produttiva, o con l’ intervento a favore delle vittime dei processi di destrutturazione e ristrutturazione del sistema produttivo.
In ogni caso, lo Stato non opera sul mercato solo con finalità economiche, ma può intervenire anche con finalità politiche, come dimostra tutta la complessa architettura dell’ Unione europea, gigante economico costruito in base ad una precisa scelta di carattere politico.
Nello stesso tempo, la globalizzazione annulla gran parte dei presupposti in base ai quali gli Stati hanno costruito la loro politica economica nel corso del XX secolo: né d’ altro canto può essere differentemente, essendo la globalizzazione un fenomeno basato soprattutto sul principio della leggerezza e dell’ immediatezza, ambedue ben simboleggiate dalla rapidità degli scambi di capitali finanziari, dal diffondersi di tecnologie digitali sempre più sofisticate e, più in generale, dall’ affermarsi di politiche volte a rimuovere ogni vincolo ai movimenti di capitale e alla delocalizzazione degli investimenti produttivi in aree dove il costo del lavoro e le tutele sindacali e legali sono infinitamente inferiori a quelle dei Paesi sviluppati (giungendo all’ assurdo, come ha dimostrato Naomi Klein nel suo studio di certe “zone franche” nelle Filippine, di creare villaggi in cui non solo le leggi dello Stato ospitante ma anche le più elementari forme di diritti civili erano subordinate alle dure regole delle multinazionali) .
In questo senso, afferma Gallino, l’ autorità dello Stato risulta essere drasticamente limitata nelle sue funzioni di regolazione dei mercati, finendo anche per ledere la loro autonomia politica: quanto tali asserzioni siano vere lo comprova la vicende delle istituzioni internazionali come il Fondo monetario, la Banca mondiale, il WTO. Nate tutte da una fondamentale intuizione di John Maynard Keynes nelle discussioni di Bretton Woods al termine del secondo conflitto mondiale, ed intese dal geniale economista britannico come strumenti per creare un nuovo ordine economico più democratico e più attento ai bisogni dei soggetti più deboli, esse costituiscono un clamoroso esempio di eterogenesi dei fini.
Se infatti da un lato esse hanno parzialmente realizzato i loro scopi, in quanto hanno posto in essere una sorta di abbozzo di governo globale dell’ economia che limita fortemente il potere degli Stati su alcune questioni, e infligge loro sanzioni pecuniarie in presenza di trasgressioni. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che questo governo globale dell’ economia non ha nulla di democratico, ma è retto da una sorta di burocrazia tecnocratica autoreferenziale, non di rado composta da persone che in passato hanno lavorato per qualche multinazionale continuando a comportarsi come lobbisti (clamoroso in questo senso il caso di Renato Ruggiero, uomo – FIAT di alto livello e primo Direttore del WTO).
D’ altro canto, che fossero le grandi imprese ed i loro lobbisti a dettare l’ agenda di certe assise internazionali è cosa risaputa, e prima dell’ Assemblea di Seattle del WTO (finita nel fallimento che tutti sanno) lo ammise candidamente anche la capo – negoziatrice americana Charlene Barshefsky: si badi bene, allora era ancora Presidente Clinton. E’ da pensare che con la Presidenza Bush, fortissimamente voluta e finanziata dalle multinazionali, le cose non siano cambiate, ma anzi si sia accentuato il fenomeno di dipendenza delle politiche pubbliche dagli interessi privati.
Tutto ciò dimostra che la globalizzazione così come la conosciamo non è una specie di maledizione biblica o di fenomeno naturale al pari dei monsoni o dei terremoti, ma è piuttosto il frutto di ben precise scelte politiche ed economiche, che naturalmente una volta avviate seguono la logica che è propria della loro natura.
A fronte di ciò, il problema che si pone è quello di un governo dell’ economia che sappia rispondere alle sfide di una realtà globale che di suo riesce solo a produrre solo una stratificazione sociale sempre più accentuata: c’ è da riflettere profondamente di fronte ai dati citati da Gallino, che ci parlano di livelli salariali che differiscono in scala da 1 a 20 all’ ora fra i Paesi cosiddetti emergenti dell’ Asia – che sono la punta d’ iceberg di realtà in cui i salari sono ancor più inferiori- e l’ Occidente, di condizioni di lavoro che costringono circa 200 milioni di bambini fra i 6 e i 12 anni a far lavori pesanti in condizioni ambientali pessime per salari ridicoli, di diffusione di malattie endemiche, se non di vere e proprie pandemie.
La fabbrica delle disuguaglianze
In questo senso si legittima l’ opinione secondo la quale la globalizzazione avrebbe avuto per effetto principale quello di creare una quota sempre maggiore di disuguaglianze, che riguardano sia le distanze fra il Nord ed il Sud del mondo, sia quelle che si creano all’ interno delle stesse società sviluppate.
Gallino per certi versi va oltre, e denuncia che queste disuguaglianze, oltre a svilupparsi, tendono anche a stratificarsi, riproducendo di fatto un meccanismo perverso di nuove aristocrazie e di nuovi rapporti servili, che si esplicano anche in quello che Domenico Losurdo, con espressione colta ed insieme forte, chiama il “processo di rimancipazione” della classe lavoratrice.
Soprattutto la stratificazione sociale aumenta il rischio della marginalità e dell’ esclusione sociale: sono due tematiche su cui lo scandaglio del sociologo va a fondo, descrivendo da un lato il meccanismo che porta determinate persone – ed in numero sempre più crescente- a perdere identità, status sociale, modo di approvvigionarsi dei beni della vita.
Il problema maggiore sta nel fatto che se un tempo l’ esclusione sociale era applicata secondo criteri etnici, religiosi, morali o sanitari, adesso, senza che i precedenti vengano meno, è pesantemente segnata dalla “situazione di chi non trova più posto nel processo produttivo, sia che ne venga espulso, sia, come avviene ad una percentuale crescente di giovani, che non riesca ad entrarvi”.
La condizione viene rilevata soprattutto in ordine alle persone che sono colpite dalla disoccupazione detta di lunga durata, un anno ed oltre: in loro si rileva come la perdita del salario, e magari anche delle modeste provvigioni statali, si trova a vivere un progressivo degrado della relazione con la famiglia e la comunità, deprimendone l’ autostima e quindi la capacità di essere appetibile per un nuovo impiego.
Proprio da qui si misura l’ effetto perverso della “logica della competenza” che presiede alla dottrina del neoliberismo globale, e che pretende di suddividere il mondo del lavoro ( o il mondo tout court ?) fra chi possiede la capacità di adattarsi a nuovi know-how e chi invece no, riservando a questi ultimi un destino di espulsione dal contesto sociale.
Se si accetta la famosa partizione espressa dal sociologo liberale Ralf Dahrendorf per cui la cittadinanza consiste in un equilibrio fra entitlements, ossia i diritti veri e propri che derivano dalla condizione di cittadino di un determinato Paese, e provisions, ossia i beni materiali che sono collegati a tali diritti, si deve arrivare alla conclusione che è in atto una strategia di riduzione della cittadinanza medesima.
L’ attacco allo Stato sociale attraverso la riduzione dei diritti ad esso collegati, e che si esprimono in Italia nel tentativo di manomettere lo Statuto dei lavoratori, di monetizzare la salute e di ridurre la scuola a strumento di selezione classista, esprime la volontà vera e propria di ridurre determinati strati sociali in una condizione di cittadini di serie B, consumatori e non protagonisti della vita sociale e politica.
Una possibile strategia politica
A questo punto però si pone il problema centrale: atteso che la natura della globalizzazione, nelle modalità in cui si è fin qui esplicata, è quella di produrre nuove disuguaglianze mettendo in crisi le forme di mediazione e di protezione sociale tradizionalmente espletate dagli Stati, è possibile pensare che queste modalità possano essere governate e corrette o quello vigente è l’ unico modello esistente?
Gallino dichiara apertamente di riconoscersi nella posizione di coloro che affermano che “la globalizzazione è un processo originale di grande portata, il quale genera effetti rilevanti sia negativi che positivi. In aggiunta, essi insistono sul fatto che i primi sono di regola ignorati o sottovalutati, mentre i secondi potrebbero essere maggiori se la globalizzazione venisse in qualche modo sottratta agli automatismi della tecnologia e di mercati finanziari divenuti autoreferenziali”.
Questa, per inciso, è la posizione tipica del riformista, ed è bene precisarlo in un contesto culturale in cui, mutuando un po’ troppo da cattiva merce d’ importazione inglese, si ritiene che il riformista tipo sia colui che accetta supinamente tutti i dettati della cultura neoliberista, magari con qualche modesta variante.
Attraverso un serrata analisi condotta esclusivamente su dati e documenti accessibili a tutti – ma che molti evidentemente non leggono- Gallino smonta molte idee diffuse: non è vero, infatti, che la globalizzazione neoliberista favorisca la crescita economica, in quanto nei Paesi dell’ area OCSE – i più sviluppati del mondo- il PIL è cresciuto più rapidamente negli anni Cinquanta e Sessanta rispetto agli anni della globalizzazione (post – 1980), dimostrando come semmai la liberalizzazione o deregolazione dei mercati interni abbia avuto un effetto depressivo.
Non è neppur vero che abbia segnato un aumento dell’ occupazione, giacchè il periodo 1980 –2000 ha visto piuttosto il progressivo emergere di una nuova era di disoccupazione di massa, e chi nel dicembre del 1999 salutò con enfasi la discesa del tasso di disoccupazione nei Paesi dell’ UE sotto il 10% avrebbe dovuto ricordare che negli anni Sessanta questo tasso, nei medesimi Paesi, si attestava al 2%.
Quanto alla produttività, fra il 1985 ed il 1995 essa è cresciuta di poco più del 2% all’ anno, mentre il tasso del periodo 1950-1973 si attestava al 4%. Né vale il richiamarsi ad una presunta differenza fra gli indicatori europei e quelli nordamericani, giacché l’ analisi scomposta dei dati USA dimostra invece – lo abbiamo già visto lo scorso anno analizzando una precedente opera dello stesso Gallino- che questi ultimi anni per i lavoratori americani hanno rappresentato una forte contrazione del loro potere d’ acquisto, al punto tale che solo fra quindici anni circa potranno pensare di poter ritornare ai livelli degli anni Settanta, mentre nel contempo sono aumentate le persone che vivono al disotto della soglia della povertà, anche fra coloro che hanno un lavoro più o meno regolare.
Più in generale, gli studi del BIT dimostrano che su tre miliardi di individui che al mondo si possono considerare appartenenti alla forza lavoro, circa un miliardo sia disoccupato o sotto – occupato.
Da qui discendono almeno due evidenti conseguenze: la prima è che dall’ insieme di decisioni che presiedettero alla nascita del processo di globalizzazione sono derivati degli effetti perversi che forse non erano nelle intenzioni dei promotori. La seconda è che nulla autorizza a pensare che gli automatismi del processo di globalizzazione, se lasciati a se stessi, riescano ad annullare o minimizzare i citati effetti.
Di ciò ha preso atto con difficoltà l’ ONU, che fin dalla metà degli anni Novanta ha messo in piedi una Commission on Global Governance (CGG), finalizzata alla creazione di regole per la globalizzazione basate su accordi reticolari fra una o più parti per il controllo sui flussi economici mondiali, e, come rileva la stessa CGG nel suo rapporto del 1995, coinvolgendo non solo gli Stati ma anche le organizzazioni non governative (ONG). Nel testo si proponeva anche la costituzione di un Consiglio per la sicurezza economica con funzioni di monitoraggio della situazione economica globale e l’ assunzione di leadership in ordine alla promozione del consenso in ordine alle grandi scelte di politica economica internazionale.
Ma basta tutto questo? Evidentemente no, anche perché non pare che da parte della superpotenza americana vi sia la volontà di permettere alla CGG di svolgere il suo compito né più né meno di quanto consentono di fare all’ ONU nel suo complesso, almeno quando esso non si piega a fare da cassa di risonanza degli interessi americani. Una difficoltà ulteriore viene dall’ incapacità stessa della CGG di indicare obiettivi concreti, al di là di vaghi riferimenti alla Tobin Tax, che vadano oltre la tematica di un “coinvolgimento della società civile” espressa in termini vaghi e, forse, poco convinti.
Gallino non si tira indietro, ed indica lui alcune tematiche irrinunciabili per una global governance degna di questo nome, e che ci limitiamo ad indicare per titoli: riduzione dello squilibrio fra economia finanziaria ed economia reale; riduzione delle disuguaglianze internazionali e nazionali; assicurazione di una reale concorrenza tra le imprese (che anche i campioni del libero mercato cercano di soffocare in ogni modo: si vedano le vicende di Mediaset in Italia e di Enron negli States); miglioramento dei contenuti qualitativi dello sviluppo economico; promozione dello sviluppo locale. Ognuno di questi temi, va da sé, meriterebbe un’ ampia trattazione a parte, ma il riferimento è significativo per far capire che nel libro che stiamo considerando vi è un solido fondo di realtà.
Tre questioni finali
A questo punto non ci si può esimere dal rivolgere all’ Autore e a ciascuno di noi alcune domande che possono essere formulate in modo molto semplice, ma sono in realtà pesanti come macigni.
1. Nella chiusa del libro si accenna all’ importanza della mobilitazione sociale dal basso: quando esso fu scritto c’ era stata Seattle ma non ancora le due Porto Alegre e soprattutto Genova, il luogo in cui per la prima volta il movimento si è scontrato con la logica “imperiale” della repressione. La domanda che sorge spontanea è questa: fino a che punto il movimento sociale può fare a meno di una sponda politica, nel senso di un punto di riferimento capace di rapportarsi dialetticamente e di mediarne le istanze, senza disprezzarle ma anche senza recepirle totalmente in in quadro populistico? E, correlativamente, quanto può una politica di opposizione ma che si propone di tornare a governare fare a meno di un rapporto con movimenti sociali che si organizzano dal basso e che esprimono istanze reali?
2. A problemi globali risposte globali. Molti tendono ad utilizzare questa semplice verità come un metodo per esimersi da qualsiasi tipo di azione politica di contrasto alla globalizzazione neoliberista: esempio classico, la Tobin Tax che non può funzionare finchè non l’ adotta… tutto il mondo. Ma è proprio così? Oppure, ferma restando la necessità di un approccio di carattere globale a questi problemi, anche la politica nazionale, per non dire di quella locale, può essere un luogo nel quale elaborare determinate scelte?
3. Gallino sottolinea spesso il ruolo positivo che può essere svolto dalle realtà informali, dall’ associazionismo, ed egli stesso ha dimostrato di volersi rapportare a tali realtà come ha fatto con le ACLI nell’ edizione del 2000 dell’ incontro di Vallombrosa. Nello stesso tempo, le modalità con cui è gestito il ruolo del Terzo settore in alcune realtà governate dalla destra, e che il Governo attuale mostra di volere in parte riprodurre a livello centrale, fanno vedere per le realtà associative un ruolo di “spazzini” del sistema capitalistico, sostituendo a basso costo le prestazioni dello Stato sociale che verranno sempre di più smantellate e, per utilizzare un orrendo neologismo (una brutta parola per una cosa altrettanto brutta) esternalizzate . ma è questa la funzione del Terzo settore? O non è piuttosto quella di prefigurare in sé un diverso modello di società, magari attraverso realizzazioni parziali ?
Trascrizione della relazione di Luciano Gallino
Grazie per l’invito dei circoli Dossetti, mi fa molto piacere essere qui. Considero questa formula molto significativa, molto utile per i compiti che abbiamo davanti, perché sono tempi in cui si deve assolutamente discutere, discutere fino a morire, con tutti i mezzi ed in tutte le sedi possibili. Le questioni sono tante, la globalizzazione, la flessibilità…per cui discutere non basta; bisogna farlo sulla base di dati, di argomenti possibilmente ben costruiti, bisogna farlo con rigore, bisogna studiare, bisogna fare tutti insieme un’attività di informazione, bisogna cercare di imparare ancora perché è soltanto in questo modo che probabilmente si costruiscono delle alternative. Quindi benissimo la formula dei circoli Dossetti, di questi corsi di formazione che mettono insieme passioni civili, voglia di discutere e impegno di studio.
Dirò qualche cosa che sviluppa la linea di analisi del libro, ma che nel libro nel momento non c’è. Ad esempio, tanto per indicare quali sono le distanze tra l’alto e il basso nella piramide della disuguaglianza, posso collegarmi al capitolo centrale, il capitolo secondo del libro, in cui tento di tracciare un modello, uno schema della stratificazione a livello mondiale tra coloro che stanno molto in alto e coloro che stanno molto in basso. Oggi vale la pena farlo perché questo modello di disuguaglianza tra chi sta in alto e chi sta in basso sta diventando veramente mondiale, e si sta riproducendo anche nelle nostre città. Un po’ di mesi fa, a Madrid, c’è stato un ampio seminario internazionale che riguardava la terzomondializzazione del Nord, il fatto che le disuguaglianze, le ingiustizie, le discriminazioni, le condizioni di lavoro, i salari, si vanno riproducendo anche nel cuore del Nord. Lo strato più alto è, in primo luogo, al vertice della ricchezza, ma anche del potere, del prestigio e di altre cose significative della vita. Il primo strato è formato da alti dirigenti, amministratori delegati, presidenti, come si chiamano nei diversi paesi, alti dirigenti dell’industria, della finanza, dei servizi, ecc. Poi ci sono il Direttori ed i Dirigenti delle Banche Centrali, i Dirigenti delle Organizzazioni Internazionali, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e così via; nonché i Capi di Governo che, al di fuori dell’Italia, non sempre hanno redditi e ricchezze paragonabili a quelli degli alti dirigenti dell’industria. Il caso italiano vuole che il potere politico e anche il prestigio dell’essere Capo del Governo coincida anche con uno dei primi 15-20 posti nel mondo nella stratificazione della ricchezza.
Io ho disegnato una dozzina di strati in questi modelli e al fondo, undicesimo-dodicesimo strato, si trovano i lavoratori poveri, cioè quelli che lavorano regolarmente anche per tutto l’anno ma che tuttavia sono sotto il livello di povertà: braccianti, lavoratori dipendenti, lavoratori del sommerso, immigrati clandestini, e così via. Ci sono poi, più in fondo ancora, membri di famiglie spezzate, privi di lavoro stabile, disoccupati di lunga durata, bambini lavoratori, e altre case del genere.
Per sintetizzare tutto questo ho trovato recentemente un dato che penso metterò in epigrafe in una prossima edizione del libro. L’ingaggio annuale di Michel Jordan, asso del basket e anche persona molto simpatica, equivale a 7.000 anni di salario del ragazzo che in Indonesia cuce le sue scarpe da basket, della Nike in questo caso. Alti dirigenti della Walt Disney hanno un reddito di 1.000 dollari l’ora, sono parecchi che hanno un reddito di 1.000 dollari l’ora, mentre la ragazzina che ad Haiti cuce i costumi di Pokahontas, uno dei successi che permettono ai dirigenti di guadagnare 1.000 dollari all’ora, riceve 11 centesimi di dollaro l’ora. Il divario tra i due redditi orario è di 9.000 volte: 7.000-8.000 volte verso l’alto, uno volta verso il dodicesimo o tredicesimo strato. L’economia contemporanea spinge verso una stratificazione sociale di questo tipo.
Ricorderò, prima di prospettare altri due tipi di disuguaglianze che nel libro non ci sono, che anche per quanto riguarda l’Italia gli indici disponibili mostrano un notevole incremento delle disuguaglianze nel corso degli anni ’90. Secondo un indice molto usato tra l’87 ed il ’91 c’è stata una sensibile riduzione delle disuguaglianze e poi vi è stato un forte aumento delle medesime. A partire dal ’95 l’Italia fa registrare degli indici di disuguaglianza che sono i più elevati di tutti i paesi dell’Unione Europea, con l’eccezione della Gran Bretagna, che è uno dei due paesi (l’altro sono gli U.S.A.) che ha fatto registrare le peggiori prestazioni in termini di accrescimento di disuguaglianza per tutto l’anno ’90.
Altri segni dell’aumento della disuguaglianza in Italia sono da vedersi nella crescita della quota di popolazione con un reddito inferiore della metà alla linea della povertà. La linea della povertà è data da un reddito corrispondente al PIL pro capite medio per una famiglia di due persone, quindi due individui che si dividono metà del PIL medio. Il 50% al di sotto significa un’intensità, questo è il termine che viene usato per la povertà, molto rilevante. La quota di popolazione avente un reddito inferiore al 50% della linea della povertà era del 5,5% nel ’86 , mentre già nel ’95 era superiore al 9% e si ritiene che ora abbia passato il 10%. I bambini della stessa fascia, con un reddito inferiore del 50% alla linea della povertà erano 11,4% nel ’86, mentre già nel ’95 erano più del 20%.
E’ diventata molto più diseguale la ripartizione tra redditi di lavoro e redditi di impresa. Da oltre un decennio in Italia, come e più degli altri paesi della U.E., la quota dei redditi da lavoro è andata fortemente riducendosi: ad esempio, per dare un solo dato, la quota del reddito nazionale lordo disponibile percepito dalle famiglie era del 78,9 nel ’91 ed è scesa di 8 punti a 71,6 nel ’97, mentre la quota delle imprese è cresciuta dal 5 al 7,4 nel ’97. Così le famiglie hanno percepito redditi sostanzialmente inferiori e le imprese individuali e le società hanno ricevuto redditi notevolmente superiori. Anche i divari salariali territoriali si sono molto ampliati perché, ad esempio, la differenza percentuale tra le retribuzioni nette percepite al centro-nord e al sud è aumentata negli anni ’90 del circa 2% (agli inizi degli anni ’90 si era sul piede di quasi parità) al 15%. Così come è fortemente aumentata la quota di lavoratori che possiamo considerare poveri perché percepiscono bassi salarti, cioè pari o inferiori al minimo salariale della categoria. Nel 2000 la quota di occupati che percepiscono i bassi salari così definiti era del 28% nel Mezzogiorno e del 14% nel Centro-Nord, che non è male neanche per quanto riguarda il Centro-Nord. Agli inizi degli anni ’90 era in tutte le regioni di circa l’8%. Per completare un po’ il panorama delle disuguaglianze citiamo quelle relative alla speranze di vita e di mortalità infantile. Al presente, sono dati del 2001, ci sono nel mondo 49 paesi designati dalle Nazioni Unite come paesi a sviluppo minimo, il cui criterio di ammissione è aver un PIL pro capite inferiore a 900 dollari l’anno. 900 dollari l’anno sono sì e no 1000 Euro, meno di 2.000.000 l’anno di vecchie lire. La maggior parte di questi paesi sono ben lontani dal limite di 900 dollari pro capite. In oltre la metà di questi paesi a sviluppo minimo (27 su 49) la speranza di vita alla nascita del sesso che modalmente (ossia con maggior frequenza) compare come il più longevo, che è la donna, è inferiore a 55 anni (Quella dei maschi è inferiore di almeno 2.4 anni). Tra questi 27 ve ne sono 16 che comprendono paesi popolosi, paesi come l’Etiopia che oggi ha 64 milioni di abitanti, l’Uganda con 23 milioni, in cui la speranza di vita delle donne è inferiore a 50 anni. Ve ne sono 4 in cui la speranza di vita alla nascita è inferiore a 40 anni.
Poi ci siamo noi. All’estremo opposto troviamo che in 22 paesi a sviluppo massimo ve ne sono almeno 18 (18 su 22) che facevano registrare una speranza di vita tra le donne superiore a 80 anni. Unica eccezione, anche se per pochi mesi, sono Danimarca, Irlanda, Regno Unito e USA. Quindi le donne dei paesi più sviluppati possono sperare con fondatezza di vivere una vita che può essere lunga da una volta e mezza a due volte quella di una donna dei paesi meno sviluppati.
Ci sono anche dei dati positivi: la speranza di vita nei paesi in via di sviluppo, che non sono quelli che ho menzionato, ma sono quelli che stanno nella fascia intermedia, è aumentata in media da 55 anni nel ’70 a 65 anni nel ’97. Però la disuguaglianza rispetto ai paesi OCSE è rimasta quasi immutata: era di 14 anni nel ’70 ed era di oltre 13 nel ’97. C’è anche il fatto che a volte le tendenze positive si invertono. A partire dal 1990, 38 paesi hanno conosciuto un declino della speranza di vita: 12 di essi hanno perso da 5 a 17 anni di speranza di vita. Uno è la Tanzania e quello in peggiori condizioni è il Botswana, in specie a causa dell’epidemia di AIDS.
Ancora un cenno sul tasso di mortalità infantile. Il tasso di mortalità infantile su 1.000 nati vivi è pari o inferiore a 5 in Austria, Belgio, Francia, Germania, Olanda, Svezia, Svizzera; l’Italia vi è molto vicina: era nel 2000 intorno al 5,5 per mille. Vi sono 23 paesi in cui esso varia dal 100 al 200 per mille, ossia è da 20 a 40 volte più elevato della lunga serie di paesi che ho ricordato sopra. Si va da Benin all’Uganda che sono 2-4 punti sotto al 100 per mille, il che vuol dire già 20 volte più della Francia o anche dell’Italia, se togliamo quel mezzo punto, al 125-150 per mille di Afganistan, Liberia, Mozambico e Sahara Occidentale, fino a sfiorare il 200 per mille nell’Angola; è questo un dato ripreso da una recentissima serie di dati delle Nazioni Unite che si riferiscono appunto all’anno 2000. Anche in questo caso le disuguaglianze internazionali appaiono diminuire in termini assoluti ma si approfondiscono in termini relativi.
Un altro tipo di disuguaglianze che credo valga la pena di annotare perché stanno diventando una vera sfida, sopra tutto per quel che riguarda i processi formativi, l’educazione, l’istruzione, ecc, riguarda la disuguaglianza nell’accesso alle tecnologie dell’Informazione e delle Comunicazioni, alla Rete, a Internet, ecc. Agli inizi del 2002 si stima che gli utenti di Internet abbiano superato nel mondo i 550 milioni, più di mezzo miliardo. Questa popolazione appare distribuita nei diversi paesi ed entro ciascun paese in modo fortemente disuguale. L’Europa ha 165 milioni di utenti e questo fa 41 volte più dell’Africa che arriva a mala pena a 4 milioni, benché abbia una popolazione maggiore (800 milioni contro 703), L’America del Nord, Canada compreso, con 310 milioni di abitanti ha più di 200 milioni di utenti; l’America Centrale e Meridionale che ha 200 milioni di abitanti in più (più di 510 milioni) ha circa 21 milioni di internauti, cioè di persone che accedono regolarmente alla rete. Nei 30 paesi dell’OCSE (dato del 2002), paesi che hanno meno di 1/5 della popolazione mondiale, sono collocati il 95% degli ox-computers di tutto il mondo (gli ox-computers sono computers connessi con proprio indirizzo stabile).
In India ci sono 1,1 miliardi di persone e l’India è nota per i suoi successi nell’ingegneria del software (vi è una produzione di software che esporta in tutto il mondo) ebbene, sempre l’India conta 5,2 milioni di utenti internet, cioè un quarto rispetto all’America Latina che ne ha 10 volte di meno degli USA. Dato che la Rete, non solo Internet, ma anche il Web, è diventato uno strumento fondamentale non solo per il commercio elettronico ma anche nel campo educativo, perché permette di accedere a risorse che fino a pochi anni fa erano assolutamente inaccessibili (musei, laboratori virtuali interattivi di ogni tipo, di matematica, di statistica, di fisica, di chimica), ciò produce un “digital divide”. Io preferisco il termine “frattura digitale”, divario è un po’ debole, “frattura digitale” perché di frattura, di spaccatura si tratta. E’ un’enorme frattura nelle speranze di istruzione, di educazione, di crescita intellettuale per miliardi di persone nel mondo.
Se riuscirò a convincere l’editore che continua a stampare il libro nello stesso modo (perché così gli va bene) che nel libro si possono menzionare altre disuguaglianze, inserirò anche queste.
I quesiti di Gaiani, su cui poi spero si discuta, sono quesiti centrali, talmente centrali, talmente ben formulati che, tutto sommato, al limite, si potrebbe rispondere con un sì o con un no. Ad esempio, se Gaiani chiede quanto può una politica di opposizione, ma che si propone di tornare a governare, fare a meno di movimenti sociali che si organizzano dal basso e che esprimono istanze reali, la mia risposta è sicuramente no, non si può. Una politica che non tenga conto di questi movimenti, di quello che ormai si comincia a chiamare “grass root organization”, un’organizzazione dalle radici, o dal basso, se una politica di opposizione non tiene conto di questi movimenti sociali e della loro variegata molteplicità, delle loro arruffate e talora contraddittorie istanze, ecc., una politica di opposizione, a mio avviso, non andrà da nessuna parte. Credo che il movimento sociale che va da Seattle a Genova, a Porto Alegre, abbia bisogno di uno sbocco politico perché, speriamo che durino, ma sono le democrazie parlamentari lo sbocco politico; è la democrazia parlamentare, se non verrà svuotata di senso, che è lo sbocco in cui portare queste istanze. Credo che la strada sia molto ampia tra questo pelago che copre tutto il mondo, di cui nessuno ormai è in grado di fare dei censimenti: 10 mila organizzazioni non governative che vanno dal Venezuela ai nigeriani del delta del Niger, ai molti Social Forum italiani, francesi, svizzeri o guatemaltechi. Credo che debbano in qualche modo essere incanalati, orientati verso sbocchi politici, verso formazioni di vecchio tipo o di nuovo tipo, non so bene, ma che arrivino ad avere struttura, corpo, presenza nell’ambito dei sistemi politici, nell’ambito delle democrazie parlamentari.
Credo che in pochi anni siano stati fatti notevoli passi avanti perché Seattle era forse molto più colorito, molto più variegato, molto più spontaneistico di quanto non sia stato, per esempio, Porto Alegre. In due anni, o poco più, in 3 anni, sono stati fatti passi, anche organizzativi, importanti, molto significativi, c’è sicuramente una maturazione del movimento. Intendiamoci, nemmeno Porto Alegre era fatto di alcune migliaia di giovanotti e giovanotte che si trovavano in strada e se la prendevano con il WTO; fu molto importante l’azione della CISL internazionale, fu importante perché 50.000 persone arrivassero a Seattle non a caso, perché erano organizzatissimi; non a caso Seattle non fu semplicemente quello sfogo pittoresco che sulle prime pagine è stato spesso presentato. Lo scrivo nel libro. La copertura che i media fecero di Seattle, e poi di molte altre manifestazioni di questo movimento, fu semplicemente indecente. Si videro soltanto giovanotti e ragazzi con le facce dipinte, o qualcuno che rompeva le vetrine senza un tentativo di capire, di approfondire, di spiegare. Fu una cosa che io trovai intollerabile. La maturazione del movimento c’è e va tenuto conto di quale importanza abbia oggi la ricerca, lo studio, l’attività che si svolge, per esempio, in molti atenei, in molte università. Negli Usa c’è un’interazione tra questi centri di studio e il movimento, per cui anche il tono culturale, il livello tecnico delle discussioni che si fanno nel movimento è di molto salito. Occorre vedere in che modo ci si può avvicinare ad uno sbocco politico.
In altri paesi, la Francia ad esempio, stanno succedendo cose interessanti. In Francia il primo ministro Jospin ha costituito, già parecchi mesi fa, prima di Porto Alegre, nell’estate scorsa, la commissione di esperti per valutare l’efficacia, l’utilità, le ricadute economiche della Tobin Tax, coinvolgendo anche dei membri di “Attac”. I francesi stanno studiando seriamente e se si vedrà che vi sono ricadute che possono essere per loro politicamente significative, economicamente non dannose, è probabile che il gruppo di studio faccia un po’ di strada. I francesi sono stati anche tra i più numerosi a Porto Alegre: non c’era soltanto Josè Bovet, ma c’erano anche ministri, molti politici. Mi pare si possa essere un po’ meno pessimistici, un po’ più ottimistici circa la possibilità di uno sbocco politico, di un’ancora politica del movimento. Credo che molti nel movimento, sul piano internazionale, se ne rendano conto.
La domanda numero due di Gaiani. Può darsi che uno strumento come la Tobin Tax non possa funzionare se non l’adottano almeno 2 o 3 grandi paesi. Già l’adottassero la Francia e l’Italia….Dubito che l’asse Blair-Berlusconi sia molto disposto a questo, ma se 2 o 3 grandi paesi l’adottassero, potrebbe cominciare a funzionare senza aspettare il mondo intero. Però molte altre cose si possono o si potrebbero fare tranquillamente a livello locale. Credo che gli Enti Locali, le forze disponibili, i sindacati, le associazioni potrebbero fare molto di più a favore dello sviluppo locale. Lo sviluppo locale, l’ho detto in un altro libro in cui ho parlato delle mie esperienze con Adriano Olivetti, non significa ignorare le esigenze e i vincoli della globalizzazione, e nemmeno i vantaggi della globalizzazione. Se a Taiwan fanno bene i computer che poi ci costano 1000 euro e vanno benissimo (noi abbiamo ormai rinunciato colpevolmente a farli da ormai 25 o 30 anni), benissimo, comperiamo i calcolatori da Taipei. Però vi sono molte attività locali, sia industriali, artigianali, agricole, agro-industriali che potrebbero essere invece difese e sviluppate per stabilire un equilibrio tra l’inevitabile, e anche utile, interdipendenza dovuta alla globalizzazione e il tasso di indipendenza che una comunità locale, che può essere una Regione, o qualcosa di abbastanza grande, dovrebbe comunque mantenere, puntando sulla qualità, sui saperi locali, sulle culture locali, ecc. La tanto vantata interdipendenza finisce in molti casi per essere una forma di gravissima dipendenza. Per questo non c’è alcun bisogno di aspettare cosa facciano i vicini, o le Nazioni Unite, o il mondo. Questa vale per molte altre cose. E’ chiaro che la questione della rimessa parziale o totale del debito, soprattutto verso l’Africa, dato che in realtà l’Africa finanzia il Nord, potrebbero essere provvedimenti che, sia pure parziali, da singole nazioni senza dover aspettare che altri si comportino allo stesso modo.
La terza domanda direi riguarda l’associazionismo. Io credo che sia uno dei fenomeni importanti del nostro tempo e l’associazionismo nato intorno alla globalizzazione credo che sia uno dei più significativi fenomeni culturali e politici della fine dell’altro secolo e dell’inizio di questo. Credo che si debba fare tutto il possibile per non spingerlo nel vicolo cieco in cui il governo attuale pare volerlo spingerlo, cioè quello del sostituto a basso costo, o a costo zero, di prestazioni che in campo sanitario, magari in campo scolastico e in tanti altri campi del sociale che lo Stato e gli Enti Locali, non intendono fornire. Credo che l’associazionismo debba difendersi da questo e potrà difendersi se non si limiterà a fare incontri, ma farà anche formazione, svolgerà delle attività finalizzate a scopi concreti, a scopi definiti in vari ambiti e sopra tutto se si riuscirà a difendere e a coltivare. Non è un gioco di parole: la cultura dell’associazionismo come un modo di arricchire l’esistenza e non come uno strumento sussidiario là dove le imprese o lo stato si ritirano. Grazie.