Il PD alla prova

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Giovanni BianchiNon si può dire che all’indomani della faticosa tornata congressuale il Partito Democratico abbia trovato un suo equilibrio nella gestione della linea politica e nella capacità dei suoi uomini di interloquire con il Paese.

La nuova maggioranza che ha portato all’elezione di Pierluigi Bersani alla segreteria del Partito si era aggregata su parole d’ ordine abbastanza chiare, che si potrebbero riassumere così: ripresa organizzativa del partito in termini tradizionali (e quindi superamento della suggestione veltroniana del “partito leggero”), centralità del ruolo delle alleanze soprattutto nella logica di un’intesa strategica con l’UDC di Pierferdinando Casini ( e quindi fine della “vocazione maggioritaria”, anch’essa caposaldo della stagione di Veltroni), centralità delle questioni sociali a scapito delle battaglie sulla giustizia, ricerca di possibili convergenze sulle questioni istituzionali con la maggioranza di destra.

A pochi mesi di distanza questa strategia, se non è del tutto fallita, dimostra di versare in gravissime difficoltà, da un lato per il permanere di tensioni interne al partito, in parte inevitabili per la logica propria della dialettica politica, in parte causate dalla durezza con cui la maggioranza – di cui Bersani è l’uomo immagine, ma la cui guida è saldamente in mano a Massimo D’Alema – ha proceduto all’occupazione di tutti gli spazi di governo della struttura, incurante del fatto che il suo consenso (53%) è stato tutt’altro che plebiscitario, marginalizzando di fatto l’apporto delle minoranze. Ma più di ogni altra cosa ha pesato il fatto che erano i presupposti stessi della strategia ad essere largamente infondati: la ricostruzione di un modello di partito tradizionale, già difficile per l’oggettivo cambiamento delle condizioni politiche e sociologiche generali rispetto, ad esempio, alla fase postbellica del ritorno alla democrazia, è stata definitivamente messa in crisi dall’evidente preferenza di militanti, simpatizzanti ed elettori del PD per il modello partecipativo simboleggiato dalla cosiddette “primarie” (ossia elezioni aperte per la definizione delle cariche di partito e delle candidature a cariche pubbliche), che evidentemente non  può essere ristretto ai soli iscritti. L’intesa con l’UDC in alcune Regioni, Province e Comuni c’ è stata, ma non è diventata un dato strutturale e strategico poiché una simile alleanza confliggerebbe con la natura stessa dell’ UDC, il cui leader ha apertamente rivendicato la politica dei “due forni” (alleanze libere con sinistra e destra) e punta ad una ridefinizione in termini proporzionalistici del sistema politico italiano, cosa che la dirigenza del PD (soprattutto le minoranze interne) non è del tutto disposta ad accettare. Sulle  questioni sociali il PD sconta una sostanziale difficoltà a rimettersi in fase con una realtà che sembra avere disertato per lungo tempo, al punto che talvolta certi atteggiamenti populistici e strumentali delle destre sembrano più in fase con il sentire degli strati più deboli della società di quanto non lo siano le proposte di un PD esternamente dominato dal timore di non apparire abbastanza “moderato” e “moderno”. Infine, la prospettiva delle riforme è dominata dall’agenda personale di Berlusconi, ed in particolare alla sua volontà di sfuggire ai processi in cui è coinvolto, a fronte della quale il PD sembra incapace di elaborare una proposta da cui emerga chiaramente quali siano i punti trattabili e quelli non trattabili in materia costituzionale, alternando momenti di rigidità a quelli che sembrano essere cedimenti preventivi rispetto ad una destra a suo modo coerente nella sua linea presidenzialista  e larvatamente autoritaria.

Il capolavoro (si fa per dire) di questa fase di disorientamento è stata la gestione della vicenda delle elezioni regionali in Puglia, dove il PD si è trovato a decidere sulla riconferma o meno del Presidente uscente Nichi Vendola, già esponente di Rifondazione comunista ed ora coordinatore nazionale del cartello “Sinistra e libertà”. Tutti e tre i candidati alla segreteria regionale del PD avevano preso posizione a favore di Vendola, ma il centro nazionale del Partito, ed in particolare D’Alema avevano altri progetti. La Puglia avrebbe dovuto essere una sorta di laboratorio nazionale per l’alleanza fra PD ed UDC ovviamente con un candidato diverso da Vendola, un esponente del PD come Michele Emiliano, l’ex magistrato rieletto lo scorso anno Sindaco di Bari dopo una tesa campagna elettorale, che però si ritirava dopo alcune scaramucce poco edificanti (ad esempio la richiesta da parte di Emiliano di una sorta di legge ad personam che gli permettesse di mantenere la guida del Comune di Bari pur candidandosi alla guida della Regione). Alla fine la Segreteria nazionale imponeva unilateralmente ad un partito regionale spaccato in due la candidatura di Francesco Boccia, economista molto legato al Vicesegretario nazionale Enrico Letta, di origini pugliesi ma ormai completamente estraneo al tessuto della Regione a differenza di Vendola. Le primarie, imposte dal presidente uscente e   concesse con difficoltà dal gruppo maggioritario del partito (se tale era ancora), si concludevano con un plebiscito per Vendola che otteneva più del 70% dei consensi, imponendosi come unico candidato possibile per il centrosinistra alla sostituzione di se stesso. Ovviamente, una buona metà del partito aveva votato per Vendola, forse non tanto per simpatia nei suoi confronti quanto per plastica avversione per il gruppo di maggioranza e, ancor di più, per la leadership (chiamiamola così) nazionale.

Negli stessi giorni precipitava la crisi del Comune di Bologna, dove il Sindaco neo eletto Flavio Delbono, anch’egli economista ma legato a Romano Prodi, dopo giorni di graticola mediatica per certe vicende della sua vita privata che si erano impropriamente connesse al suo precedente incarico di Vicepresidente della Regione Emilia – Romagna, era costretto a dimettersi aprendo una gravissima crisi nella città che è da sempre il simbolo del “buon governo” della sinistra italiana.

Da tutto ciò non emerge evidentemente la rottura dell’esperienza politica del PD, ma si avverte  la necessità di un serio ripensamento delle idee e delle proposte, e forse anche della  inevitabile messa in discussione di un ceto politico che, nei vari cambiamenti di sigla e di simbolo, ha trovato il modo di perpetuare se stesso perdendo per strada idealità politiche, freschezza di idee, chiarezza intellettuale, limpidità morale – e consensi.

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