Le lezioni di un luglio lontano

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Giovanni BianchiIl periodo fra il giugno ed il luglio del 1960 fu un momento topico nella storia della democrazia italiana, una di quelle svolte che hanno determinato la vicenda politica e sociale del nostro Paese, mettendolo come sempre al crocevia fra i suoi fantasmi ed i suoi vizi di sempre e la possibilità di un avvenire diverso.

La III Legislatura repubblicana (1958 – 1963) fu particolarmente instabile. Gli elettori avevano riconfermato una tenue maggioranza alla coalizione centrista (DC –PSDI-PLI-PRI) ma nello stesso tempo, soprattutto all’interno della DC e nei più avvertiti settori culturali e professionali, era nata la tendenza ad una più decisa apertura sociale che realizzasse le premesse della Costituzione e permettesse di rimettere in movimento una dialettica politica ormai semiparalizzata. Ciò pareva possibile passando attraverso il definitivo distacco del PSI dal PCI, favorito dal mutato giudizio sulla situazione internazionale all’indomani del XX Congresso del PCUS e, soprattutto,dei fatti di Ungheria del novembre 1956.

Non a caso, la legislatura si era aperta con un Governo guidato dall’allora Segretario della DC Amintore Fanfani, che si basava su di un rapporto privilegiato fra DC e PSDI (“piccolo centrosinistra”, secondo la stampa dell’epoca), il che suscitò forti apprensioni fra le forze conservatrici dentro e fuori il partito di maggioranza relativa, aggravate anche da quelli che parevano gli atteggiamenti autoritari del Segretario – Presidente. Nel gennaio 1959, a seguito di ripetute sconfitte parlamentari da parte di franchi tiratori e alle dimissioni di alcuni Ministri, Fanfani si dimise contemporaneamente dalla guida del Governo e da quella del Partito, venendo sostituito nel primo incarico da Antonio Segni, alla guida di un monocolore democristiano, e nel secondo da Aldo Moro. Contemporaneamente, la corrente maggioritaria di “Iniziativa democratica” si scindeva, e mentre una parte minoritaria rimaneva fedele a Fanfani ridenominandosi “Nuove Cronache”,  la maggior parte, riunita intorno a Moro, Rumor, Taviani ed Emilio Colombo si ritrovò nel convento romano di Santa Dorotea dando vita, appunto, alla corrente dei dorotei che ebbe la maggioranza nella DC per tutti gli anni Sessanta.

Il Governo Segni, che al momento della fiducia ebbe i voti, oltre che di DC e PLI, anche di monarchici e missini, ebbe vita piuttosto breve e travagliata; nell’ottobre del 1959 si svolse a Firenze il VII Congresso nazionale della DC, nel corso del quale i fanfaniani, alleati al cartello delle sinistre interne “Rinnovamento” (che raggruppava le correnti della Base e di Forze sociali), tentarono una rivincita che però venne arginata dai dorotei sulla base di una maggiore reticenza nei rapporti con i socialisti, portando alla riconferma di Moro alla guida del Partito.

A seguito delle dimissioni dei Ministri legati alle sinistre DC il Governo Segni dovette dimettersi nel marzo 1960: il Presidente della Repubblica Gronchi incaricò lo stesso Segni di formare un nuovo Governo ma il tentativo fallì. La scelta del Capo dello Stato cadde allora su Fernando Tambroni – già Ministro degli Interni e noto per la sua passione per i delatori, i confidenti  e le intercettazioni più o meno legali ai danni degli avversari politici e degli stessi compagni di partito- che costituì un altro monocolore democristiano il quale ebbe la maggioranza in Parlamento grazie al voto decisivo del MSI, rappresentando un netto spostamento a destra che causò le dimissioni dei tre Ministri che rappresentavano le sinistre democristiane: i basisti Giorgio Bo e Fiorentino Sullo e il fondatore della CISL Giulio Pastore, rappresentante di Forze sociali. Dopo di ciò Tambroni rassegnò a sua volta le dimissioni, ed un nuovo incarico venne affidato a Fanfani, che stava per dar vita ad un esecutivo a tre DC-PSDI-PRI con possibile astensione socialista, che però, a detta dello stesso Fanfani, abortì sul nascere per resistenze interne di alcuni settori della DC (incoraggiati anche da settori ecclesiastici “frondisti” rispetto alla linea di non intervento seguita da Papa Giovanni XXIII) che manifestarono l’intenzione di votare contro ad un Esecutivo troppo sbilanciato a sinistra. A quel punto il Presidente Gronchi confermò il mandato a Tambroni, che qualificò il suo Governo con la formula inedita di “Governo amministrativo” senza però sciogliere l’ambiguità del rapporto con i neofascisti, in un clima di crescenti tensioni sociali e politiche.

A fine giugno la situazione precipitava, con l’improvvida decisione di Tambroni di permettere al MSI, imbaldanzito dal suo ruolo di implicito partner di Governo, di celebrare il proprio Congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, affidandone oltretutto la presidenza, a quanto si diceva, all’ex Prefetto repubblichino della città. Vi fu una reazione sostanzialmente spontanea dell’antifascismo genovese, che condusse a duri disordini di piazza il 30 giugno, spingendo il Governo a consigliare ai dirigenti neofascisti di non tenere il loro Congresso. Ovviamente i missini si vendicarono togliendo la fiducia a Tambroni, mentre l’ inquietudine nel Paese divenne sempre più forte, e a metà luglio a Reggio Emilia la polizia sparò su un gruppo di manifestanti uccidendone cinque. A quel punto la stessa maggioranza dorotea della DC  si preoccupò, tanto più che un gruppo di intellettuali cattolici, fra cui Andreatta, Scoppola e Lombardini, aveva lanciato un appello al partito perché abbandonasse la strada dell’intesa con i neofascisti. Tambroni dovette dimettersi, e al suo posto si insediò Fanfani alla guida di un monocolore che aveva la fiducia di PSDI, PLI e  PRI, mentre il MSI tornava all’opposizione.

Di fatto, respinta la tentazione di destra, si apriva la strada per il centrosinistra, e non è un caso che dalle urne delle elezioni amministrative svoltesi nel novembre di quello stesso anno nascessero le prime Giunte di centrosinistra, prima fra tutti quella di Milano guidata dal socialdemocratico Gino Cassinis.

Naturalmente si potrebbe discutere a lungo di quelle vicende, parlando del velleitarismo ambizioso di Gronchi, che accarezzò probabilmente un disegno di tipo gollista senza avere il prestigio del Generale, della stupidità di Tambroni che si infilò in un gioco più grande di lui rimanendone stritolato, delle incertezze della maggioranza dorotea della DC…. Ma ciò che più conta qui è forse il ruolo avuto in questa vicenda da Aldo Moro, che pur essendo in quanto Segretario della DC il più alto rappresentante della corrente dorotea, di fatto fu colui che permise una conduzione sottotono dello spericolato esperimento tambroniano permettendone poi la liquidazione e di fatto conducendo tutta la DC all’appuntamento con i socialisti. Fu lui, del resto, ad intervenire in altri due momenti topici, nel 1964 depotenziando i progetti golpisti del generale De Lorenzo , a prezzo di una revisione al ribasso del programma del suo stesso Governo, e nel 1969 rientrando tempestivamente dall’estero dopo le bombe di piazza Fontana per scongiurare il pericolo che, prendendo a pretesto l’attentato “anarchico” potesse sorgere la tentazione di un Governo di salute pubblica preludio ad una sospensione delle libertà civili.

Forse ha ragione Miguel Gotor quando dice che Moro iniziò a morire non nel marzo 1978 ma molto prima, fin dagli anni Sessanta. Il vero problema è lo stato di salute di una democrazia che fra terrorismo, mafie, bombe e servizi più o meno deviati non è mai stata capace di dire fino in fondo la verità su se stessa.

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