Nel corso degli anni Ottanta hanno preso a diffondersi una serie di dottrine politiche, filosofiche ed economiche ispirate al modello del cosiddetto “Stato minimo”. Reaganomics e Thatcherismo ne hanno rappresentato la concreta applicazione in termini di programmi di governo. Il quadro di riferimento teorico essenziale faceva leva su due capisaldi: il liberismo economico di M. Friedman e il libertarismo filosofico di Robert Nozick. All’interno di quella cornice, l’intervento dello Stato nelle pratiche economiche e sociali era considerato invasivo, e quindi economicamente e filosoficamente ingiustificato.
L’idea era che, stante il complesso di diritti individuali di cui gode ciascun individuo, a cominciare dal titolo valido sui beni prodotto del proprio lavoro e in proprio possesso, qualsiasi intervento dello stato orientato alla produzione di beni e servizi pubblici (con la sola esclusione di Tribunali, Polizia, Difesa) non può che rappresentare un indebito sconfinamento nella sfera di autonomia dell’individuo, ovvero una violazione della sua libertà negativa, intesa come assenza di interferenze generate dall’esterno.
Non dobbiamo peraltro dimenticare che proprio queste dottrine, o meglio il loro portato in termini di pratiche (a cominciare dalla liberalizzazione incondizionata dei flussi di capitale), sono alla base di quel Washington Consensus che ha rappresentato l’elemento regolatore della globalizzazione economica dagli inizi degli anni Novanta fino all’attuale crisi economico-finanziaria.
Cosa c’entra tutto questo con il nostro Paese? Beh, c’entra molto, perché se è vero che il berlusconismo è una degenerazione al solito buffonesca e tragica del reaganismo, è altrettanto vero che nel nostro Paese, dove il senso dello Stato ha sempre avuto la forma di merce rara, l’impatto con la cultura padronale del Cavaliere di Arcore è stato devastante.
In effetti, in un Paese in cui lo Stato viene considerato come un’idea astratta, e la roba di tutti viene giudicata essenzialmente roba di nessuno, e alle istituzioni si obbedisce per paure e non per convinzione, diventa più semplice di volta in volta cercare i favori di un Cavaliere, di un Eccellenza, di un Monsignore, insomma di un Padrone piuttosto che esigere i propri diritti come dovrebbe accadere in uno Stato, appunto, di diritto.
Con Berlusconi, ovvero con il padrone più padrone di tutti, si è registrata una degenerazione senza precedenti: quella, ad esempio, per cui un Prefetto di Milano già noto per incompetenza e servilismo, persecutore di rom e di clandestini per le finalità elettorali del partito del Padrone, riceve ossequiosamente una signorina brasiliana di facili costumi, compagna di un individuo ben noto alla Narcotici, perché latrice di una presentazione del Padrone. Quella per cui poliziotti e carabinieri sono costretti a fare da chaperon alle giovani prostitute d’alto bordo che rallegrano le notti del Presidente. Quella per cui la tragedia del terremoto abruzzese diventa un’occasione di affari per gli amici del Presidente grazie ad una stretta alleanza con un capo della Protezione civile con il complesso del messia e con il culto nemmeno troppo discreto dei buon affari. Quello per cui la stessa Protezione civile viene utilizzata sistematicamente come braccio secolare per emergenze che tali non sono, ma serve a meraviglia classificare come tali per poter saltare le procedure di legge e fare –una volta di più- buoni affari.
Insomma, il berlusconismo nella sua fase –si spera- terminale equivale alla distruzione dello Stato di diritto, delle sue procedure, delle sue garanzie.
Motivo in più per disfarcene il prima possibile.