La geografia politica che la tornata elettorale di maggio riconsegna è contrassegnata da un profondo mutamento di classe dirigente nelle Amministrazioni locali, e anche se è indubbiamente presto per trarne delle conseguenze generali sul quadro politico nazionale, è un dato di fatto che il Governo Berlusconi da oggi è più debole nel Paese e probabilmente nelle istituzioni, anche se continua ad avere una maggioranza più o meno ampia in sede parlamentare.
Le vittorie di Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris alle elezioni comunali di Milano e di Napoli assumono quindi un significato particolare: nel capoluogo lombardo, patria e simbolo del berlusconismo, un avvocato e uomo politico proveniente dai lidi di quella che si suol chiamare sinistra radicale sconfigge nettamente il Sindaco uscente Letizia Moratti, mentre sotto il Vesuvio l’ex magistrato legatosi al partito di Di Pietro, pur guidando una coalizione ridotta, sconfigge nettamente il candidato della destra Gianni Lettieri, uomo legato al ben noto e chiacchieratissimo capo del PDL campano Nicola Cosentino.
A contorno di queste due importanti vittorie, il centrosinistra può vantare i successi in altri due capoluoghi di Regione sottratti alla destra: Cagliari, con Marco Zedda, e Trieste, con Roberto Cosolini. In tutta la Lombardia, per venire ai dati specifici, il centrosinistra perde due soli ballottaggi (a Varese e Treviglio) e conquista o riconquista città simboliche ed importanti come Rho, Arcore, Gallarate, e conferma la Provincia di Mantova riconquistando dopo molti anni, con il senatore Daniele Bosone, quella di Pavia.
Si tratta evidentemente del completamento di un fenomeno già rilevato al primo turno,un generalizzato ripudio di quella destra basta sull’asse di ferro Berlusconi – Bossi che aveva vinto le elezioni politiche di tre anni fa e quelle successive a livello amministrativo e regionale, e che ora batte in testa soprattutto a causa dei pessimi risultati del Governo e dell’incapacità del Cavaliere di tener distinta la sua vita privata e affaristica da quella istituzionale. Si aggiunga che il PDL, partito costituitosi per puro calcolo elettoralistico e mai veramente decollato, chiuso fra il dominio cesaristico di Berlusconi e le infinite risse dei vari leader nazionali e locali, si trova oggi di fronte ad una crisi gravissima che di fatto ne mette in discussione la sussistenza stessa come soggetto politico. Resta poi da vedere per quanto tempo la Lega Nord potrà rimanere legata ad un’alleanza che oltre a non essere più vincente non produce alcun risultato pratico per le legioni “padane” creando continui imbarazzi a livello di base per l’eccesso di comprensione verso le personali fobie di Berlusconi.
Probabilmente il declino del leader della destra italiana è ormai in fase avanzata, ma è altrettanto probabile che esso non sia per nulla pacifico né edificante, soprattutto perché l’intrico degli interessi che sono alla base del potere berlusconiano rende impensabile l’idea di una transizione come è nella prassi normale delle altre democrazie. Il passo d’addio, quando ci sarà, potrebbe avere tonalità drammatiche.
L’attenzione generale, ovviamente, è rivolta a Milano. Giuliano Pisapia arriva a Palazzo Marino con un notevole bagaglio di esperienze e competenze che gli derivano dalla vita professionale, dalle due legislature passate in Parlamento, da una lunga pratica sociale vissuta a prescindere dall’appartenenza politica. Il tentativo compiuto da Nichi Vendola durante la festa in Piazza Duomo di mettere una sorta di cappello politico alla vittoria di Pisapia, facendone il propellente per la sua rincorsa alla leadership del centrosinistra, per quanto comprensibile, è doppiamente sbagliato.
Da un lato, infatti, il partito di cui Vendola è il leader risulta minoritario in una coalizione che vede il PD aggiudicarsi venti seggi sui 29 di cui dispone la nuova maggioranza; dall’altro, la vittoria di Pisapia, e lo si è visto nel corso di tutta la campagna elettorale ed in momenti particolari come il dibattito presso la sede delle ACLI milanesi del 24 maggio scorso, è stata quella di un candidato che non ha nascosto né la sua storia né le sue idee ma ha saputo anche proporsi come guida e sintesi di un percorso in cui potessero riconoscersi anche soggettività e filoni culturali sensibilmente diversi dal suo.
Sul nome di Pisapia c’è stata una convergenza generalizzata di forze diverse, con un impressionante dato di rifiuto della Moratti da parte di quei settori della borghesia e del ceto medio che considerava acquisiti alla sua causa, e che invece hanno storto il naso e cambiato il voto a fronte della sua inerzia operativa e della sua supina devozione ai poteri forti. Gli stessi spin doctors della signora se ne sono accorti ed hanno incentrato la campagna per il ballottaggio, costellata da accuse pazzesche e volgari contro Pisapia ed il suo programma, sul recupero delle fasce meno colte, più anziane ed impressionabili della città. Senza riuscirci, peraltro.
Pisapia ha potuto vincere, fra le altre cose, anche perché una larga parte del mondo cattolico milanese lo ha sostenuto, e questo ben prima che gli sconsiderati attacchi della stampa di destra al card. Tettamanzi provocassero la reazione di “Avvenire” e della CEI: molti operatori del sociale, molte persone nelle parrocchie sempre più preoccupate dal degrado della vita pubblica e desiderose di affrancarsi dal ricatto della paura verso il diverso, lo straniero, il capro espiatorio di turno, hanno deciso di dare fiducia a chi parlava un linguaggio diverso. Questa fiducia deve però essere ripagata nei programmi e nelle scelte concrete che saranno operate dai nuovi amministratori, e anche nelle persone che dovranno darne forma e sostanza.