Discutere di questioni ideologiche in una fase in cui si susseguono avvenimenti drammatici e in presenza di una grave crisi economica e sociale agli occhi dell’opinione pubblica appare immediatamente come una grave perdita di tempo ed un infallibile segnale di indifferenza alle questioni reali, simile a quella di quei teologi bizantini che disputavano sul sesso degli angeli mentre la loro città subiva l’assedio finale degli Ottomani (e lasciamo stare che la cosa non sembra essere storicamente vera).
Così, il dibattito sulla cultura politica del Partito Democratico e sulla presenza di una corrente che ne vorrebbe fare una sorta di filiale italiana del socialismo europeo ha fatto partire uno di quei dibattiti che ci deliziano (si fa per dire) da troppo tempo, e che sembrano fatti apposta per rilanciarsi gli uni gli altri posizioni stereotipe che caricaturizzano quello che invece sarebbe un dibattito davvero importante se si volesse andare al nocciolo della questione. Ed il nocciolo della questione è: che cosa esiste a fare il Partito Democratico nell’Italia di oggi?
In termini storici una grande socialdemocrazia di tipo europeo non è mai esistita nel nostro Paese, se si considera che fin dal 1912 si stabilizzò sul Partito socialista il predominio della corrente massimalista su quella riformista, e che il risultato delle elezioni della Costituente nel 1946, che faceva dello PSIUP il secondo partito d’Italia, alle spalle della DC ma prima del PCI, venne vanificato dalla contesa mortale fra il gruppo “fusionista” guidato da Nenni e la componente socialdemocratica di Saragat che sfociò inevitabilmente nella scissione del 1947 da cui nacquero due tronconi deboli e alla fine subalterni nei confronti dei due maggiori partiti. La ripresa dell’autonomismo socialista dopo i fatti d’Ungheria sfociò poi nell’accordo di governo con la DC, che diede vita al primo centrosinistra (pagato con un’altra scissione), che se era probabilmente inevitabile nelle condizioni storicamente date (ossia il blocco derivante al sistema democratico italiano dal fatto di essere un Paese di frontiera dell’occidente in cui la sinistra era egemonizzata da un forte partito comunista), nello stesso tempo certificava per lungo tempo l’impossibilità di un’alternativa che fosse guidata, come nel resto d’Europa, da un forte partito socialista, poiché semplicemente il PSI, fallita la fusione col PSDI, si limitò a trasferire la sua posizione di subordinazione dal PCI alla DC.
Indubbiamente Bettino Craxi aveva chiaro come la posizione del PSI fosse alla lunga intenibile, ma nonostante l’uomo non mancasse di fantasia e di inventiva politica, non seppe e non volle condurre il dibattito a sinistra nella formula dell’ “alleanza competitiva” che aveva permesso al PS di Mitterrand di fiaccare progressivamente l’alleato-avversario comunista per poi conquistare il potere appoggiandosi a lui ma mantenendo una posizione egemonica che avrebbe ridotto il PCF alla poca cosa che è adesso. Al contrario Craxi ritenne che la collaborazione con la DC, ed in particolare con la sua componente più moderata,gli permettesse da un lato di lucrare i vantaggi della posizione governativa (giacché il PSI era diventato ineludibile partner di governo a tutti i livelli politici ed amministrativi) e dall’altro di sfruttare il crescente isolamento politico del PCI per presentarsi al momento giusto come il federatore della sinistra magari attraverso l’istituzione di una forma di presidenzialismo che costringesse anche i comunisti a votare per lui contro il candidato moderato.
Solo che questa strategia, che pure a breve termine sembrò vincente, venne pagata da un lato con lo scavarsi di un solco di feroce astio a sinistra e dall’altro con la piena immersione del PSI e del suo leader nel sistema di malaffare diffuso che venne scoperchiato dalle inchieste di Tangentopoli e provocò la caduta della cosiddetta Prima Repubblica.
Si arrivò così alla resa dei conti, fra la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, con un PCI costretto a cambiare ragione sociale ma incapace di trovare una strategia alternativa, ed il PSI delegittimato moralmente e politicamente. D’altro canto la crisi aveva investito anche la DC, che peraltro aveva sempre rifiutato di definirsi come il polo di destra della politica italiana, e che aveva al suo interno sensibilità sociali e politiche irriducibili alla logica neo moderata, come dimostrò Martinazzoli rifiutando l’alleanza proposta da Berlusconi.
Il percorso che ha portato alla nascita del Partito Democratico è quindi determinato dalla constatazione di una specificità della situazione italiana, e dalla necessità di far evolvere le forme della politica in ragione di tale specificità. Constatare, come è ovvio, che il PD occupa di fatto lo spazio che negli altri Paesi europei è occupato da partiti che si definiscono socialisti o laburisti (si definiscono: i contenuti sono tutti da vedere), non può significare in alcun modo la riduzione di un’esperienza peculiare a modelli esterni che, detto per inciso, non sono nemmeno omogenei fra di loro (tanto per fare un esempio, il legame con il sindacato, tuttora forte per il Labour e per la SPD, è pressoché inesistente per i socialisti francesi).
Nello stesso tempo, il posizionamento del PD è chiaramente quello di un partito progressista, riformatore e di sinistra, e paragoni fantasiosi come quelli con l’israeliano Kadima non possono esorcizzare la realtà di una dialettica politica che, congelata dalla fase necessaria del Governo tecnico, riprenderà a breve il suo cammino naturale come ha realisticamente affermato Pierluigi Bersani.
La questione, come sempre, è quella delle “cose”, difficile da affrontare in un Paese come il nostro dove invece sono i “nomi” a suscitare le più aspre e deleterie passioni, anche se non corrispondono più alla loro sostanza. Come sempre, stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
Forse, se volessimo essere conseguenti, dovremmo ammettere che in una fase storica in cui il prepotere della logica mercantile del capitalismo globalizzato comprime gli spazi della politica, e della politica democratica in particolare, dirsi democratici è già molto, ed anzi designa un percorso possibile, autenticamente riformista, in materia istituzionale, economica e sociale, prospettando l’obiettivo di un nuovo equilibrio fra democrazia e capitalismo .
Ci sarebbe molto da fare, ma è chiaro che si tratta di un percorso non semplice e irto di ostacoli: in questo senso, si capisce, le dispute fantasmatiche sui nomi sono molto più rassicuranti.