Il Partito democratico è convivenza e sperimentazione in corso. In esso la politica, come le accade, produce discontinuità e novità secondo una logica che non è quella del principio di non contraddizione e neppure quella di Euclide. Il suo momento pubblicamente generatore è espressione di questa “potenza” del politico. Le primarie infatti del 14 ottobre 2007 sono palesemente l’incrocio sinergico di due spinte antagonistiche: l’istinto geometrico di conservazione di élites e nomenklature residuate dallo sfarinamento dei vecchi partiti di massa, il bisogno di cambiamento del popolo dell’Ulivo.
L’antica dorsale organizzativa dei partiti della Prima Repubblica ha allestito seggi e gazebo; il popolo dell’Ulivo ha prodotto uno tsunami di partecipazione, rispetto al quale si è dovuta registrare una qualche apatia giovanile. Un atteggiamento discendeva dall’alto; una larga spinta saliva dal basso. Antagonismo e sinergia. Competizione e solidarietà. Perché così funziona un partito politico. Senza la decisione delle élites di rompere gli indugi e imprimere una accelerazione al processo costituente il PD non avrebbe mai lasciato i nastri di partenza. Gli ulivisti passionali come me avrebbero continuato a descrivere le virtù nutritive di una buona frittata: ci voleva qualcuno che rompesse le uova. Solo élites stagionate erano in grado di farlo. Adesso gli si deve impedire di abbuffarsi della frittata appena sfornata…
Lascio immediatamente le metafore culinarie per tornare alla sana bulimia dell’analisi politica. A interrogarmi sul destino e quindi necessariamente sulle storie che hanno dato vita al PD. Perché chi non sa da dove viene generalmente ignora il traguardo. E perfino un anarchico come Herzen sapeva di doversi muovere tra passato e futuro. Tanto più che congedarsi dalle grandi ideologie dell’Otto e Novecento vuol dire misurare insieme distanze e vicinanze da culture che si fondano su classici riconosciuti, ma che hanno anche nell’insieme determinato la quotidianità di una vita collettiva diffusa sul territorio.
Non sono sicuro che si possa definire “secolo breve” quello che ci sta alle spalle: mezzo secolo dominato dal tallone d’acciaio dei totalitarismi, e mezzo secolo di esperienze democratiche “occidentali” che hanno mutato il clima della storia costringendo l’Est asserragliato dietro la cortina di ferro a incamminarsi a sua volta sulla via delle libertà democratiche.
Non siamo forse alla “atletica democrazia” celebrata da Walt Whitman negli Stati Uniti d’America, ma anche in Europa e nel Belpaese le cose risultano in evidente movimento. Anche se ovviamente in questo processo non tutto si sta muovendo in maniera lineare.
Vi è chi, già qualche decennio fa, ha prefigurato negli Stati Uniti il passaggio da una democrazia classicamente rappresentativa ad un sistema più in grado di deliberare. In Europa Niklas Luhmann si è interrogato a lungo sulla possibilità di dare rappresentazione ai troppi segmenti della società complessa prima di approdare a un pessimismo conclusivo.
In Italia ci si interroga oramai, a partire dalla discussione sui sistemi elettorali e la scomposizione dei vecchi poli contrapposti, sulla necessità di chiudere finalmente la “transizione infinita”.
E’ perciò utile interrogarsi sulle culture che convergono nella nuova forma partito e che sono intenzionate a superare i vecchi schieramenti, dando vita a una sorta di virtuoso meticciato.
Le identità sono importanti. Non se ne può addirittura prescindere. Ma chiedono di essere giocate in avanti, per due ragioni. La prima, che il loro incontro è possibile soltanto a partire da una forte affermazione, mentre viene reso vano da troppi silenzi e dal lavorare sulle subordinate. La seconda, perché queste identità se presentano un pieno di espressione, presentano anche un vuoto di motivazione, complicando non poco l’esigenza di dare senso alla propria vita e militanza politica a partire dal loro vecchio statuto.
Qui i lavori nei diversi campi sono giunti ad esiti differenti. La visione liberale e socialdemocratica del PD ha una lussureggiante indagine e una convincente codificazione negli scritti di Michele Salvati, giustamente riconosciuto come il padre culturale (non putativo) del PD.
Appena affrontato è invece un lavoro analogo e speculare che attraversi l’area della cultura popolare e cattolico-democratica. Per questo ho pensato utile tentare di colmare almeno in parte la lacuna, quasi rivisitando l’altra faccia della luna del PD.
Il cattolicesimo politico che abbiamo conosciuto, quello che da Murri e Sturzo porta a De Gasperi, a Dossetti, a Moro non esiste più nella sua integrità. La vicenda che si è chiusa in questi anni non riguarda però una fase o un partito ma, appunto, un secolo di storia politica. Non ha senso a mio parere porsi la domanda crociana su quanto sia vivo e quanto sia morto del cattolicesimo democratico. E’ più sensato interrogarsi sulla fecondità dell’esperienza del popolarismo nel nostro Paese: quanti figli ed epigoni cioè il cattolicesimo democratico abbia generato nell’esperienza della democrazia italiana, a partire negli anni venti dal manifesto Ai Liberi e Forti, e successivamente dal testo ineliminabile della Carta costituzionale del 1948.
Ciò che resta dell’esperienza politica dei cattolici è tuttora in una fase profonda di trasformazione, parola questa che va intesa in senso forte: mutamento di forma. Coglieva molto bene il problema Giuseppe Trotta in un aureo libretto dato alle stampe nel 1997 con il titolo Un passato a venire.
Scrive Trotta: “La forma che oggi ci lasciamo alle spalle è quella del partito. Essa nacque in discontinuità, in rottura con la corrente più naturale e profonda del cattolicesimo politico: il clerico-moderatismo. E’ impossibile fare una storia del cattolicesimo politico in questo secolo senza fare la storia della sua più originale espressione, quella del partito politico: partito cattolico, dei cattolici, di cattolici, di ispirazione cristiana; partito di centro, del centro, partito moderato o partito riformatore eccetera. Le vicende sono state complesse, il dibattito intenso. Per un lungo tratto cattolicesimo politico e forma partito sono stati aspetti di un unico problema, di un’unica storia. I cattolici si affacciano come protagonisti alla storia dello Stato unitario solo attraverso la figura e lo strumento del partito politico. La storiografia non ha sottolineato abbastanza questa novità e questa cesura”.
La lacuna, non soltanto storiografica, sta per essere necessariamente colmata dalla prassi della politica… Il PD pone infatti le condizioni per risolvere praticamente un problema non soltanto teorico. Questa è la genialità della politica, la sua “potenza”, la capacità di cogliere le occasioni, il farsi carico della necessità.
Il discorso, come è ovvio, non si interrompe qui, e andrà ripreso all’indomani di elezioni che si auspicano vincenti: forse l’ultima occasione per il nostro Paese per uscire dal torpore e dall’angoscia che lo travagliano.