Natoli descrive in questo libro i nodi essenziali del tempo presente così da permetterci di gestirlo, di navigarlo, di migliorarlo migliorando insieme la qualità della nostra vita. Vita che – sostiene Natoli – è questa qui e basta: “settanta chili per ottanta anni”, almeno come speranza nelle nostre civiltà debordanti benessere. Natoli si pone la domanda: come essere felici nel limite della nostra vita, nei limiti dettati dalla morte, senza speranza nel dopo, senza dimensione della creaturalità e dell’affidamento a una paternità, per quanto nascosta questa paternità possa essere dalla nebbia del tempo.
1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato
2. leggi la trascrizione della relazione di Salvatore Natoli
Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Salvatore Natoli
Preliminarmente ricordo che due anni fa, qui al Circolo Dossetti, avevo presentato il libro di Salvatore Natoli Progresso e catastrofe, che si concludeva con la proposta di un’etica del finito ancora da pensare. Lo scorso anno ho presentato libro Natoli La felicità di questa vita che tentava di costruire proprio quell’etica del finito. La felicità di questa vita era quasi un manuale per la felicità, esortava a praticare la costruzione della vita felice, che lì prendeva quasi la forma di un’arte, di una perizia, di una attività sapiente che affronta virtuosamente ostacoli e difficoltà. Nel nuovo libro che ho il piacere di presentarvi oggi (Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente) Natoli compie un passo ulteriore sulla stessa strada: dà indicazioni per una politica della felicità: la costruzione della felicità di questa vita si apre alla dimensione della collettività e della storicità, diventa una strada da costruire con gli altri e nella congiuntura dell’epoca presente, la quale va compresa nelle sue insidie e nella sua peculiare densità.
Per far ciò Natoli descrive in questo libro i nodi essenziali del tempo presente così da permetterci di gestirlo, di navigarlo, di migliorarlo migliorando insieme la qualita della nostra vita. Vita che – sostiene Natoli – è questa qui e basta: “settanta chili per ottanta anni”, almeno come speranza nelle nostre civiltà debordanti benessere. Natoli si pone la domanda: come essere felici nel limite della nostra vita, nei limiti dettati dalla morte, senza speranza nel dopo, senza dimensione della creaturalità e dell’affidamento a una paternità, per quanto nascosta questa paternità possa essere dalla nebbia del tempo. L’intenzione di Natoli mi richiama alla memoria alcune righe di un autore che apprezzo molto, anche se non mai sentito vibrare le sue corde in modo esplicito nella pagina di Natoli; si tratta di Vladimir Jankelevitch, che scrive: “La vita non è donata che una sola volta all’uomo, e non gli sarà rinnovata. La vita è dunque ciò che c’è di piu serio. Non perdete questa chance unica in tutta l’eternità” . Ma tra Natoli e Jankelevitch c’è una differenza fondamentale: Jankelevitch è estremamente elitario, mentre Natoli ha una passione popolare; non che Natoli non pensi che la via per la felicità non sia difficile e non esiga un lungo esercizio, ma pensa anche che le indicazioni per percorrere tale strada possano e debbano essere messe a disposizioni di quante piu persone possibili e possano diventare addirittura senso per una politica della convivenza civile: da qui l’apprezzabile chiarezza dei suoi scritti, che sono proposte per molti e non per pochi.
Il tema di questo libro è quindi ancora l’etica del finito, ma ora più attualizzato nell’incombente presenza dell’epoca, dei suoi fatti terribili. La vita contingente è sospesa all’abisso e come tale preziosa: direi che Natoli riesce bene a farci percepire l’aspetto positivo della vita. Per la sua immensa e imprevedibile ricchezza la vita va coltivata, custodita, salvaguardata: Natoli non si concentra primariamente sul dolore, ma su quella potenza generatrice di senso che prende molti nomi, anche i nomi delle nostre passioni, e a partire da tale fecondità tenta la costruzione di una “politica della felicità”. D’altro canto Natoli col dolore deve fare i conti, almeno, ma non solo, perchè deve fare i conti col tempo presente e con i suoi tragici eventi. Natoli vuole infatti costruire un “pensiero dell’attualità” che vada al di là delle apparenze, che ne comprenda la genesi dei significati. Ma prima di problematizzare deve comunque render conto degli eventi. Perciò il libro si apre con un capitolo intitolato “Società” che prende avvio dalla vicenda dell’11 settembre e dall’analisi del fenomeno del terrorismo in relazione al fenomeno della globalizzazione. Natoli sostiene che le nuove forme di terrorismo sono strettamente connesse alla globalizzazione, sono sviluppi in qualche modo ad essa interni, interni da un lato alla mobilità senza precedenti di merci, capitali, uomini, e soprattutto al processo di inclusione-esclusione che è tipico della globalizzazione: inclusione di vasti strati della popolazione mondiale nella “mentalità” americano-occidentale, nel “senso” di tale mondo, e contemporanea esclusione effettiva dalla possibilità di praticare il “modo di vivere” occidentale: “gli esclusi dai consumi – scrive Natoli – non lo sono dalla civiltà dei consumi da cui sono anzi attratti, sedotti, cui appartengono ormai per mentalità”. Di piu: la globalizzazione ha addirittura in molti luoghi accentuato lo sfruttamento territoriale e personale per migliorare le condizioni di vita “occidentali”, aprendo ulteriormente la forbice tra paesi ricchi e paesi poveri. Strana e schizofrenica associazione-dissociazione tra il corpo derelitto e la mente illusa: inclusione in un unico contenitore d’abitudini ed esclusione dai mezzi per realizzarle. Ora in questo villaggio globale “le guerre sono civili”: si delineano forme di guerra (direi una “forma” nuova della guerra) inedite rispetto al passato, e tali da mettere in luce la fragilità del concetto di “diritto”: non più guerre dichiarate da stati sovrani che reciprocamente si identificavano come nemici in nome di un diritto comune, bensì forme di resistenza mobili e piu o meno devastanti nei confronti di pressioni di vario genere: economiche, etniche, religiose e così via. A fronte di tali conflitti il potere che si autodefinisce “legittimo”, ma che in realtà è residuo e residuale, interviene con azioni di polizia, spesso per salvaguardare i “diritti umani”, soprattutto se, o forse solo se, questi “diritti” corrispondono agli interessi di tale potere. Ora, sottolinea Natoli, dato il grande evento “epocale” che conclude la storia del novecento, il crollo dell’Unione Sovietica, l’unico potere “legittimo” effettuale sopravvissuto è quello dell’America, che si trova perciò “sovraesposta” a livello di coinvolgimento nei conflitti internazionali. Per cui “i popoli della miseria a torto o ragione imputano a un Occidente ricco e rapace – e specificamente agli Stati Uniti – la loro indigenza e povertà. Qui un terreno di cultura di per sé non terrorista ma fortemente disposto alla ribellione”; “La globalizzazione – in altri termini – non ha realizzato affatto un’inclusione generalizzata e tuttavia ha permesso agli esclusi di guadagnare una maggiore consapevolezza della loro posizione. E ciò li rende meno disposti a tollerare”. Si sviluppa così una dinamica del risentimento certamente non sufficiente, a parere di Natoli, a spiegare il terrorismo dell’11 settembre, ma comunque determinata da una responsabilità dell’Occidente, e di cui l’Occidente deve farsi carico. Farsi carico cioè dell’esistenza di una piramide sociale che il processo di globalizzazione accentua invece di ridurre, e farsene carico anche per garantire la propria sicurezza. Ma in che modo l’Occidente può “farsi carico” di questo immenso peso?: “non c’è altra via – scrive Natoli – che la pazienza democratica. Non tutto il bene subito, ma un lavoro assiduo per ridurre il male, soprattutto per evitare che gli uomini nel ricercare ognuno per proprio conto il loro vantaggio si nuocciano reciprocamente”
Ora l’espressione “pazienza democratica” è interessante perché indica una via politica che passa necessariamente attraverso la formazione personale, in quanto il termine “pazienza” indica appunto il risultato di una educazione, di una cura di sé e del proprio pensiero, la quale si attiva innanzi tutto nella dimensione dell’etica, e quindi si esprime nella dimensione politica. Perciò Natoli ci dà indicazioni per coniugare la prospettiva dell’etica personale con quella dell’etica collettiva in funzione di una difesa e un rinnovamento della democrazia, di una prassi democratica che possa recuperare alcune finalità e alcuni valori in un’epoca, come la nostra, in cui sembra quasi scomparsa ogni tensione ideale: “L’agire politico contemporaneo – scrive Natoli – è, a differenza dei modelli moderni, ormai privo di fini ultimi, è alla costante ricerca di soluzioni intermedie e di arrangiamenti provvisori… Nella politica contemporanea, ogni parte in campo si presenta come garante dell’interesse di tutti e le differenze sembrano riguardare più i mezzi che gli obiettivi. Ma fino a che punto tutto ciò è sufficiente a orientare nelle scelte? … viene però da domandarsi se il depotenziamento dei fini non possa alla lunga produrre un’equivalenza tra gli stessi mezzi, fino al punto da privilegiare una politica rispetto a un’altra non tanto in ragione della sua qualità, quanto della sua opportunità… “Più o meno Stato” oppure “più o meno libertà”, “più o meno spontaneità sociale” sono allora decisioni che si prendono a seconda della necessità o urgenza di pareggiare di volta in volta le sorti, di redistribuire il reddito evitando accumuli impropri e ineguaglianze. Se le cose stanno così – si domanda Natoli – in politica è ancora necessario un antagonismo di valori o basta una fisiologica alternanza tra governi?” E’ questa una domanda molto interessante, alla quale non è facile rispondere; certamente ci invita a penetrare la complessità della questione e a prendere le distanze dalla forma d’epoca presente pur nella consapevolezza di non poterci astrarre da essa, per esempio tornando alle vecchie ideologie o alle semplici proclamazioni di antichi ideali. Natoli propone come risposta primaria un ripensamento “contemporaneo” dei valori di giustizia e di solidarietà, cosnsiderati come valori essenzialmente democratici: una democrazia, argomenta Natoli, non può fondarsi su un “capitalismo compassionevole”, non può legarsi a forme di beneficienza e generosità arbitrarie e non comprese in un’idea di giustizia; ad essa è essenziale la sfera del diritto sociale non discrezionale: “Una democrazia – scrive Natoli – è effettivamente tale solo se tende a includere progressivamente gli esclusi o comunque coloro che non sono sufficientemente tutelati. Una concezione di questo tipo – che ha caratterizzato da sempre la sinistra, ma anche il cattolicesimo sociale e la borghesia avanzata – è orientata a guardare il mondo dal punto di vista degli esclusi e perciò prende a inizio del proprio operare i punti bassi della società. Questo punto di vista oggi viene sempre più oscurato. E’ corrente invece un lessico neoliberista che per la verità non espelle la solidarietà dalla politica, ma tende a interpretarla in termini di carità”. Nella forma del diritto si trova allora una differenza tra una politica della solidarietà gratuita e una politica della solidarietà garantita: poiché “la solidarietà non deve essere confusa con l’assistenzialismo essa si configura come un diritto per i cittadini e come un obbligo per le istituzioni”; la politica insomma come sfera della giustizia e della solidarietà ad essa interna, e non come ambito della carità. Mi pare (Natoli non tematizza questo punto ma credo sia in linea con la sua proposta) che questo ragionamento abbia un valore generale, valga per il locale come per il globale, anzi sia tanto più forte quanto più venga esteso alla dimensione del globale, cioè della politica estera e della politica economica su scala mondiale, poiché in tale dimensione emerge chiaramente la sua utilità per i paesi dell’Occidente nei confronti della minaccia terroristica: una banale e forse poco nobile, ma forte utilità di sicurezza a diversi livelli, sulla quale si potrebbe aprire un’ampia discussione.
Dunque Natoli invita a pensare una politica della solidarietà garantita come diritto e promossa come fonte di utilità collettiva. Ma si tratta di una proposta “fragile”, dove questo termine non ha nulla di derogatorio, ma indica la situazione effettiva di questa proposta politica, che, in quanto connessa con l’etica e con l’educazione, è sospesa al rischio delle libere volontà e alle critiche, facili ma efficaci, del pensiero economicista (ma pensi davvero che i flussi di capitali, ormai quasi flussi impersonali e quantitativamente impressionanti siano gestibili da una politica della solidarietà?). Natoli ha ben chiaro il problema, e infatti critica la teoria della giustizia di Rawls, la teoria dell'”altruismo conveniente”: “La logica evoluta che dice “l’altruismo conviene” parte infatti dall’idea di una società futura in cui l’insieme sociale sarà equilibrato e i soggetti sociali, a partire dalla loro individuale incertezza, avranno ragioni di sicurezza. Questo discorso ha trovato la sua formulazione più adeguata e piena – scrive Natoli – nella teoria della giustizia di Rawls con il famoso argomento del velo di ignoranza: poiché gli uomini, nemmeno i più ricchi, sanno quale sarà la loro sorte futura, devono costruire una società di diritti in cui, qualunque sarà il loro destino, tutti si troveranno garantiti. In quasto modello di giustizia la società assicura il minimo a tutti, dopo di che ognuno potrà pervenire al suo massimo. La più diretta applicazione di questa teoria politica sono i modelli di welfare”. Ma – prosegue Natoli – questo argomento “razionale” è astratto, in quanto è valido soltanto se ci collochiamo in un punto di vista esterno rispetto alle concrete dinamiche socio-economiche; se invece “partiamo dall’idea di chi possiede, costui dice: perché mai dovrei pensare a un altruismo generalizzato nella società e non invece a rafforzare la mia posizione? Perché puntare sul velo di ignoranza e non sulla certezza che solo accumulando mi garantisco di più?”. Insomma, puntare sul bene futuro, e sul futuro bene collettivo, è davvero sensato per chi ora possiede i beni? Forse sì, ma a patto che abbia un concreto pericolo di perderli, un pericolo che storicamente proveniva dalle potenzialità rivoluzionarie degli oppressi, e che ora a livello locale e globale sembra provenire dalle dinamiche migratorie e terroristiche: l’integrazione e la pace sono oggi più convenienti della repressione e della guerra? Possono essere le nuove forme della Realpolitik?
Sto in realtà un po’ forzando il pensiero di Natoli, che non si pone esplicitamente queste domande così rozze e brutali, e persegue una strategia più sottile, tesa a evitare di affidare la solidarietà alla dinamica gratuita del dono. Natoli cerca di configurare lo “spazio incerto della solidarietà” più in quello circoscrivibile della giustizia che in quello incontrollabile della carità: “Non a caso Tommaso d’Aquino – scrive Natoli – collega la parola iustitia al termine iustari, nel senso di rendere conveniente, congruo. La giustizia aggiusta le disparità, rende pertinenti le situazioni, è un’operazione di armonizzazione da cui scaturisce un intero organico. Tutti sono tenuti a praticare la giustizia. E la solidarietà, in quanto situazione che include il fattore altruistico come condizione per la realizzazione del benessere individuale, è sostanzialmente un modo per esercitare la giustizia. E’ a questo titolo che noi la troviamo nell’articolo 2 della Costituzione, dove, essendo una realtà giuridica, non è più un dono ma una strategia della società: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali … e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La solidarietà – prosegue Natoli – è alla base del patto sociale di cittadinanza: è un vincolo, non è un dono. Implica che i cittadini, in base al patto sociale, nella loro vita ordinaria, nel frutto del loro lavoro e così via, assumano esplicitamente la responsabilità della condizione altrui come elemento per relizzare la società giusta”.
Ma, restando al livello delle domande rozze, si potrebbe obiettare: non è forse utopistica questa “pretesa” di solidarietà, o di inglobamento della solidarietà nella sfera della giustizia? Più profondamente: in che senso propriamente si “sottoscrive” un “patto di cittadinanza”? Quale è il senso del “vincolo” costituzionale? Il dettato costituzionale sulla solidarietà non è forse continuamente negato dalla prassi politica e dalle dinamiche sociali? cosa sono in realtà le Costituzioni? ideali regolativi elaborati da alcune anime belle? (come la Carta dei diritti delle Nazioni Unite, che nulla può nei confronti dei veri poteri – un esempio recente di un certo interesse: la rapidità con la quale è stata annullata la Commissione di controllo sulla strage di Jenin); servono a qualcosa o sono degli alibi?
Ovviamente la strategia di Natoli è raffinata e punta, come dicevo, all’esplorazione delle condizioni genetiche del tempo presente in funzione di un’educazione complessiva del sé che permetta di coltivare la solidarietà come valore sociale e politico. Tale esplorazione si dispiega nel libro in modo ricco e articolato, attraversando le domande fondamentali e pressanti sul senso della tecnica e sul rapporto sapere-potere a questa collegato. A tale proposito Natoli mette bene in luce come oggi si stia passando dalla “età della tecnica” alla “età del rischio” connesso all’autosviluppo incontrollabile della tecnica, problema etico-politico di straordinaria importanza e di difficile gestione: La tecnica, nell’epoca del rischio – scrive Natoli – ha in qualche modo a che fare con la fine: per un verso, infatti, la realizza, per l’altro la indica. L’epoca del rischio realizza in qualche modo una fine nel senso che archivia la tecnica come epoca: qualla della tecnica è ormai un’epoca compiuta, qualcosa di storicamente acquisito, di irreversibile… La tecnica può solo avanzare, nessuno la può fermare”, e si pensi soltanto, se questo è vero, a come sia difficile pensare il problema del limite, per esempio del limite etico, della tecnica. Eppure, sostiene Natoli, una certa forma del limite, almeno del limite come problema, è intrinseco allo stesso divenire (non al “progresso”, e nemmeno allo “sviluppo”, ma al “divenire” della tecnica); scrive Natoli: “Quel che però la tecnica non può fare è abolire il limite: lo può spostare all’infinito, ma non lo può annullare… A prova di questo basta considerare come le conquiste della tecnica nel momento stesso in cui ampliano le opportunità creino immediatamente dilemmi. I nuovi ritrovati o le soluzioni trovate si trasformano subito in nuovi problemi… E quanto più potenti sono le scoperte, tanto più ampi gli effetti; e quanto più ampi gli effetti, tanto più complesse e in taluni casi drammatiche le decisioni”. Pensare questi limiti della tecnica può consentirci, dice Natoli, di sfatare il mito progressista della tecnica, l’ultimo mito moderno ancora attivo; ma non è decisa con ciò la direzione verso cui tale demitizzazione può condurci: forse ci porterà verso un nuovo immaginario ipertecnologico con tratti apocalittici o paradisiaci, forse finiremo incantati dalla rete incatenati in mondi virtuali. Ancora una volta è essenziale, allora, il richiamo alla cura di sé, alla gestione accurata e sapiente di quel limite che noi, innanzi tutto, siamo. Si tratta di un percorso fondalmente etico: “c’è etica – scrive Natoli – soltanto se c’è amministrazione della propria finitezza”.
Perciò Natoli approfondisce, nei successivi capitoli, il tema della cura di sé, e in particolare della cura di sé intesa come l’aiuto di sé attraverso gli altri nei confronti dell’esperienza del disagio (del disagio mentale, ma anche del disagio scolastico), della malattia, del danno e infine del dolore, del dolore devastante che spezza le relazioni, che isola, che mette alla prova la solidità delle relazioni affettive e sociali, e infine della morte: “Il senso – scrive Natoli – non è qualcosa che il soggetto produce da sé. Noi quando cominciamo a parlare, apprendiamo un linguaggio: apprendiamo a vivere e così pure a morire. Come nascendo non abbiamo inventato una lingua, ma siamo entrati in un discorso che già correva, così abbiamo appreso a morire dalla e nella morte degli altri. Prima di essere un attacco all’individuo la morte è contrassegno della specie. La morte la incontriamo per la prima volta negli altri che muoiono, e in ciò si lacera il senso… e dal momento che l’uomo è collocato in un orizzonte di senso, cerca di ritesserlo oltre la lacerazione del dolore”, eppure “l’esperienza del dolore risiede proprio in questo: nella circolarità tra danno e senso. Il dolore non ha, e probabilmente non avrà mai, una ragione che lo giustifichi. Diventa però occasione per darsele, le ragioni, e per cercarle. Intanto si cammina insieme, fino a che la strada conduce. Bisogna saper stare sulla linea, bisogna portarsi all’altezza della propria morte. Gli antichi lo sapevano: apprendere a morire fa parte del ben vivere. Certo rubando al tempo – e fino in fondo – le sue gioie”.
A questo punto Natoli non poteva non concludere il suo libro che con un discorso sapienziale, con un tentativo di parlare il linguaggio arduo della sapienza; e compie tale tentativo mantenendosi a stretto contatto con i grandi testi sapienziali della tradizione greca ed ebraico-cristiana. Lo scopo è resistere alla tentazione del nichilismo, non lasciarsi sconfiggere dalla disperazione: anzi lo scopo è di trovare le forze e le vie per uscire da un’epoca, come la nostra, che è per numerosi aspetti proprio un’epoca di nichilismo compiuto, epoca della definitiva secolarizzazione, epoca della morte di Dio anche nella forma insidiosa, dice acutamente Natoli, della “normalizzazione del cristianesimo”. Al proposito, a mio avviso opportunamente, Natoli scrive: I cristiani non dovrebbero attenuare l’incredibile del credere, quello che nella loro fede è scandaloso – e il rischio che la sottende – per renderla più persuasiva e convincente presso quelli che la ignorano o poco la considerano. Sono invece dell’idea che un cristianesimo meno conformista potrebbe rivelarsi più attraente perfino per gli stessi non credenti o almeno per alcuni di essi: potrebbe lasciar loro intuire la serietà e l’etrema drammaticità del credere”.
Dunque di fronte a quella totale deprivazione del senso della vita che talvolta diventa negazione volontaria della propria vita (Albert Camus, in Il mito di Sisifo, esprime bene questo sentimento: “Morire volontariamente significa aver riconosciuto, anche solo istintivamente, il carattere insignificante di tale abitudine, l’assenza di qualunque ragione importante di vivere, il carattere insensato di questa agitazione quotidiana e l’inutilità della sofferenza”) si muove la “sapienza” di Natoli. Sapienza che, pur basata sul terreno della classicità, prende i tratti quasi di un’interpretazione profana del cristianesimo: scrive Natoli: “La crudeltà è ineliminabile dalla natura e contrassegno di questo è la morte. Ma la pietas, come contromovimento rispetto alla crudeltà dell’esistenza, si determina come reciprocità e condivisione: siamo figli della stessa madre. In questo quadro perfino il cristianesimo è suscettibile di un’interpretazione profana. Basta prendere sul serio fino in fondo il significato dell’incarnazione. “Nascere da donna” vuol dire essere destinati alla morte. Gesù nasce da donna e perciò non può che morire. Certo per i credenti il crocifisso è anche risorto e non solo: è la “primizia” dei risorti e perciò promessa di immortalità. Ma per chi non crede Gesù è un uomo che ha amato la vita, l’ha goduta, che avrebbe preferito non morire e tuttavia non si sottrae alla morte; soprattutto non si vendica con chi l’uccide e sa essere compagno di chi muore: oggi sarai con me in paradiso. E si tratta – credo – di un paradiso in nulla diverso dalla terra, ma solo di una terra redenta dall’amore, dove ogni uomo prende su di sé il peso dell’altro in reciproca gratitudine. E questo permette a ogni uomo di fronteggiare la sua morte, d’esserne all’altezza”.
Ma in realtà queste sono parole con le quali Natoli conclude il penultimo capitolo del suo libro, quello dedicato alla secolarizzazione. Dopo di queste inizia il capitolo sulla “sapienza”, un capitolo molto intenso che mette a confronto il grande sapere greco, il sapere ironico di Socrate e il sapere tragico di Eschilo, col grande sapere ebraico di Giobbe e di Qohelet. Il punto forse più delicato del discorso di Natoli riguarda adesso il concetto di Eternità, interpretata da Natoli non come un alterità trascendente rispetto alle dimensioni del tempo, bensì come “un’istanza di totalità, un’esigenza di completezza” posta nel nostro intimo, che tuttavia è destinata a rimanere irrealizzare e a provocare una tensione produttiva di ricerca di senso: “L’eternità – scrive Natoli – che Dio ha posto nel cuore dell’uomo gli impedisce di affermare e di negare in assoluto: è però una sapienza che gli consente di operare, che lo rende capace di muoversi nell’incertezza, di trovare vie d’uscita nella difficoltà, di tentare persino l’impossibile”.
Trascrizione della relazione di Salvatore Natoli
Ringrazio Roberto Diodato per la lettura attenta, acuta e la capacità di cogliere in modo nitido i nodi e anche le intenzioni del libro.
Unire gli specialismi
Noi a volte parliamo di istituzioni senza pensare alle mentalità. Sta qui l’importanza del taglio che ho voluto dare al libro contro gli specialisti che molte volte assumono il formalismo giuridico o la rappresentanza politica come separata delle motivazioni soggettive, dalle mentalità, dai progetti d’esistenza. Molte volte noi viviamo vite schizofreniche, parliamo di solidarietà in termini di politica ma poi, nel privato, nell’amministrazione del proprio desiderio, nel modo di rapportarsi agli altri, nelle sensibilità correnti, nella prossimità, non viviamo questa dimensione di solidarietà. Eccola la dimensione di sapienza! La dimensione di sapienza è: noi vogliamo davvero quello che diciamo? C’è questa sinergia, c’è questo sbocco, o invece la vita è fatta di discrasie tra buone intenzioni e incapacità soggettive, progetti personali non congruenti a questo?
Da questo punto di vista il libro tenta di mettere insieme i diversi registri, e difatti è strutturato come un prisma. Io apro orizzonti prospettici, li metto in contrasto tra di loro, faccio una politica degli sfondi, ma è poi il lettore che deve alla fine chiudere questo libro. Il libro rimane senza conclusione. Ma non perché non c’è, ma perché il lettore si metta alla prova e la produca lui.
Del risentimento
Comincio a rispondere ad alcune delle domande. Il risentimento. Si, in effetti il risentimento può avere diverse origini. Io uso questa nozione in senso nicciano e nel contesto della globalizzazione. La globalizzazione ha sviluppato sopra tutto a livello mondiale una dinamica di risentimento di cui i vari terrorismi sono dei segnali. E perché si è acuito il risentimento? Perché si è sviluppata la prossimità.
Tra le due forme di risentimento, la più peculiare del nostro tempo è la seconda, cioè quella della povertà relativa. Nella grande miseria il problema fondamentale era di soddisfare un bisogno elementare, primario.E’ così che si sono sviluppate le ribellioni. Nella storia del mondo ci sono state sempre le ribellioni delle plebi sotto il bisogno, le esplosioni della fame.
Ribellione e rivoluzione
La caratteristica della modernità è appunto nei modelli rivoluzionari: dare coerenza, prospettiva alla ribellione. Bisogna fare un distinzione molto importante: la differenza tra ribellione e rivoluzione. Noi abbiamo società ribelli che però non sono rivoluzionarie perché c’è lo spasmo che produce l’esplosione ma che non converge in una progettazione politica. L’età delle rivoluzioni, che è abbastanza breve, comincia con la Rivoluzione Francese e finisce con la fine dell’Unione Sovietica. Essa da ai diversi gradi di ribellione un modello di crescita, di ordine; in fondo l’ordine nuovo, l’egemonia di Gramsci, che cosa erano? Erano anche questo tentativo.
C’ è un’intimità molto forte tra ribellione e rassegnazione. Sono due facce. E’ come nella nevrosi: c’è un’intimità tra depressione ed euforia. La ribellione scoppia quando non c’è più possibilità di rassegnarsi. Le ribellioni erano esplosioni locali, mentre la caratteristica delle rivoluzioni è di darsi tempo, di essere strategiche, di darsi ritmo, cosa che invece l’esplosione non ha.
Ecco noi siamo dinnanzi ad esplosioni ripetute nel tempo, più segmentate, costanti. Esse sono dovute alla prossimità. Nella prossimità si è a contatto con il benessere e quindi si sopporta meno l’esclusione. In società lontane non c’è la possibilità di percepire in modo evidente una esclusione, neanche nel colonialismo. Nel colonialismo c’era lo sfruttamento delle risorse, però i mondi erano lontani. E’ nella globalizzazione che invece si vede l’esclusione, perché arriva il messaggio, arriva l’informazione, arriva a tutti, grosso modo.
Nella globalizzazione sono venute meno nella società contemporanea alcune polarità; non esiste più il centro-periferia. Abbiamo una mobilità non soltanto finanziaria, ma degli uomini. I demografi, quelli che studiano davvero i movimenti extra-comunitari, hanno fatto degli studi sui flussi di movimento, delle entrate, che non sono così arbitrarie come si pensa, sono molto più ritmate, più razionali. La gente si muove, ma non è poi così stupida da muoversi, spendere soldi se non ha opzioni. Ci sono dei gruppi sociali più abituati a questo. Per esempio il ricambio che hanno i filippini è generazionale, sono come le formiche, c’è chi viene e chi torna .
C’è questa globalizzazione non solo della finanza, la più mobile di tutte, ma anche degli uomini, che sono molto meno mobili. Il dentro-fuori è una categoria che ormai non è più oppositiva come il centro-periferia. Dentro-fuori: noi abbiamo ricchezze iperamericane in Brasile e grande miseria a New York, abbiamo grandi esclusioni nella società del benessere e grandi ricchezze nella società del margine. Però in questa caduta o diminuzione del dentro-fuori, centro-periferia, ne è rimasta una, più visibile e più drammatica: alto-basso. Il profilo della piramide si vede meglio nella prossimità e lo si sopporta meno.
La semipovertà ha un potenziale di risentimento e non di ribellione, perché mentre la ribellione è una risposta spasmodica di un bisogno, il risentimento è odio conservato, lento, moralistico.Te lo tieni dentro, te lo coltivi come un serpente che ti divora e nel momento in cui vuole esplodere, esplode. Il risentimento ha la stessa natura della morale. Gliela devo far pagare: questa è la logica del risentimento. La ribellione non ha questo: ho fame, assalto il forno (Manzoni). Ci prendiamo la farina, poi magari la sprechiamo, non abbiamo la capacità di amministrarla e la buttiamo via per la gioia di averla. No, il risentimento non ha questa strategia.
Terrorismo e risentimento
Il terrorismo si forma su questa dimensione del risentimento. La prossimità ha prodotto risentimento perché la riduzione dell’opposizione dentro-fuori, centro-periferia ha fatto emergere di più l’alto-basso. Ci può essere il risentimento della semplice esclusione (non voglio essere escluso indipendentemente da ciò da cui sono escluso) che si formula di più in termini di diritto, ma può esserci un risentimento molto più ambiguo: si patisce l’esclusione perché si è innamorati di quel mondo. Qui c’è un disturbo della mentalità, qui si vede come si connette molto profondamente la dinamica del politico con la dinamica dell’etico, nel senso che scatta il meccanismo della volpe e l’uva. Io mi ribello dall’essere escluso, però quello che mi piace è quel mondo lì. E’ un mondo desiderato, ma anche un mondo cattivo. Sbaglia chi parla di “lotta tra civiltà”, perché dimentica che larga parte del mondo islamico è secolarizzato; attacca questo mondo ma ci sono delle condotte che in fondo gli piacciono. Questo può potenziare ancora di più la dimensione del risentimento, nel senso che si tende a distruggere e a sfregiare il bello che non è mio. C’è un odio nei confronti della bellezza, quando non la si possiede. Ecco queste dinamiche.
Allora vedete bene come il terreno della politica tocca quello delle passioni. Quando si parla di istituzioni politiche in senso formale si fa un discorso giusto, strictu sensu politico, ma non dobbiamo dimenticare che il discorso strictu sensu politico è un’operazione della scienza, ma la vita è organica, non separata. Quindi c’è il risentimento in termini di diritto puramente politico, ma c’è risentimento come odio conservato e nulla più del terrorismo è la testimonianza di questo.
Intendo per terrorismo una realtà separata. Il bacino dove i terroristi prelevano può essere il risentimento, la ribellione, ecc. ma la forma in cui il terrorismo funziona è una forma separata e autoreferenziale. Ecco la ragione per cui sono contro il patetismo politico alla Bertinotti che si dice che i ranghi del terrorismo sono alimentati dalla ribellione. No, c’è un passaggio in cui cambia natura il soggetto. Quando da ribelle si diventa terrorista si entra in una logica di separazione e quindi di sradicamento.
Conflitto e solidarietà
E veniamo quindi alla dimensione della solidarietà, come obbligo. Io faccio una distinzione perché c’è un equivoco. C’è un equivoco nella formula del capitalismo compassionevole, ma c’è un equivoco in una certa cultura del volontariato, che poi è un volontariato che può essere facilmente pagato dalla politica. Questo è un tema su cui io torno sempre, perché la solidarietà è fondamentalmente connessa con la giustizia. Cioè i diritti non sono elemosina. L’accesso alla giustizia, questo ampliamento dell’inclusione è avvenuto attraverso le lotte. Ci sono delle pagine dove io riconosco chiaramente questo, cioè senza queste lotte non ci sarebbe l’allargamento dell’inclusione.
Quando la sinistra ha avuto grande successo? In fondo se voi leggete le ultime parole del “Capitale”, avete la cifra: proletari di tutto il mondo unitevi, non avete che da perdere le vostre catene. Cioè il punto di vista era: c’è un’esclusione grande. Allora è facile trovare unità quando si tratta di includere al minimo, perché la base è grande e l’obiettivo è basso. Ma quando si è prodotta l’inclusione al minimo e si è prodotta la differenziazione dei bisogni, allora il problema non è più quello di includere al minimo, ma di liberare le risorse, o le capacità. A questo punto, il massimo della solidarietà è la valorizzazione delle differenze.
Valorizzare le differenze
Ma possiamo parlare della valorizzazione delle differenze in modo non liberale? Io direi di sì. Ma dobbiamo parlare di una valorizzazione delle differenze perché se non ne parliamo noi in modo non liberale, ne parlano in modo scorretto i liberali. Ecco questo è il nodo importante. Allora il movimento operaio era compatto quando si trattava di portare una grossa fascia di popolo dentro l’inclusione. I problemi sono venuti fuori quando si è sviluppata la differenziazione e quindi la molteplicità dei lavori e tutte le cose che sappiamo. Allora oggi fare uguaglianza è stimolare le differenze e renderle convergenti. Ecco, questo è il tema politico che io metto qui. Da questo punto di vista, capite bene il io tipo di argomenti e la vecchiezza della sinistra.
Abbiamo un esempio che oggi ci può suggerire questo: dinnanzi ad un liberismo selvaggio si difende l’Art. 18. Siamo dinnanzi a due arretratezze: da un lato il sindacato deve difendere una cosa che non ha senso difendere perché non fa parte delle politiche del lavoro, è un diritto che dovrebbe essere ritenuto come acquisito, o per lo meno riformulato dentro una generale politica del lavoro. Gli altri fanno un attacco per mostrare sostanzialmente la mano forte, quando i temi da affrontare sarebbero altri. Si vede bene come c’è un gioco di arretratezze e la situazione rimane bloccata.
L’inclusione deve oggi essere pensata nel senso della valorizzazione delle differenze. C’è un economista che ragiona così, Amartya Sen. Egli pensa l’inclusione non nei termini di distribuzione del reddito o di allocazione di risorse, che tutto sommato è una mentalità utilitaristica, ma come potenziamento delle capacità. E questo è molto importante sul piano personale etico. Non a caso questo modello lo prende da Aristotele. Se noi pensiamo la distribuzione in termini di reddito o di ricchezza, assumiamo il modello di distribuzione occidentale come quello migliore. Invece noi dobbiamo mettere in discussione proprio quel modello. Si è felici e si sta bene se tutti possono avere la Ferrari? Dobbiamo pensare la distribuzione in questo modo? Allora è chiaro che ci deve essere un minimo di allocazione delle risorse, ma nella società delle differenze poi le preferenze sono molteplici. Allora: dobbiamo pensare in termini di contenuto la distribuzione o in termini di capacità dove ognuno valorizza se stesso? Keynes aveva un problema di inclusione di grandi masse a seguito delle grandi lotte operaie, mentre Amartya Sen pensa a come includere gli indiani. Includerli non vuol dire che io gli devo far fare la vita degli Americani. A questo punto il discorso del reddito cambia.
Carità e solidarietà
L’altra distinzione importante è la distinzione tra solidarietà e carità, perché mentre la solidarietà è nella dinamica impersonale della giustizia, risponde alla voce tutti, la dimensione della carità è una dimensione che si incentra su un’altra figura, la figura del prossimo, e si colloca al di là della giustizia perché è il prendere in custodia l’altro, nella situazione di indigenza, di bisogno, di malessere mentale, di disperazione, indipendentemente dal fatto che sia ricco o povero, indipendentemente dal ceto sociale in cui è collocato. Gesù sta coi poveri ma parla anche con il giovane ricco, gli dice che deve dare tutto ai poveri, però gli parla; si incontra di notte con Nicodemo. E’ vero che Gesù si mette dalla parte degli ultimi, ma non è che non guardi gli altri. Questo è il discorso.
La carità è costituita dalla capacità di dono nella prossimità. Mentre la giustizia si può dare un programma, la carità non si da un programma, non si deve dare un programma. Teresa di Calcutta, o i Piccoli Fratelli di Padre Foucault non fanno giustizia, la fanno alla lunga. Il volontariato diventa un fenomeno politico non in quanto contratta il suo spazio, ma quando indica in una società del disamore un diverso modo di relazionarsi tra gli uomini. Da questo punto di vista è profetico ed è politico. Ma se pensa di andare a coprire le faglie aride della società, pagato da Formigoni o da chiunque altro, diventa uno strumento del capitalismo compassionevole. Il capitalismo compassionevole si compra il volontariato che gli fa un servizio che nessuno fa e, nello stesso tempo, si prende i voti. Se il volontariato è invece una forma di vita che si propone a tutta la società il volontariato ha una caratteristica, un impatto politico-profetico. Profetico nel senso che è presente nell’urgenza del presente, politico nel senso che dice: io queste cose le faccio, ma non dimenticatevi che il modo vero e concreto per risolvere questi problemi deve essere in termini di giustizia e non deve essere in termini di volontariato.
Del conflitto
Per quanto riguarda il conflitto. E come se c’è! Il conflitto è tematizzato nel mio libro. Quando, esempio, critico Rawls. Perché puntare sul velo di ignoranza e non sulla certezza che solo accumulando vi garantisco di più? Insomma puntare sul bene futuro e sul futuro bene collettivo è davvero insensato per chi possiede beni. Nella distribuzione iniqua del potere della ricchezza chi è ricco tendenzialmente tende ad autogarantirsi, cioè a non aver bisogno dello Stato o della macchina pubblica. Questi sono indici personali, ma ci sono anche categorie sociali squilibrate. E’ chiaro che ci deve essere un conflitto. Ma quale conflitto? Io lo penso in termini della pazienza democratica, cioè di strategie lunghe di inclusione, caratterizzate dall’emergenza dei processi, strategie più oculate, strategie di bilanciamento, in una situazione di mondo ad alto tasso di complessità. Io ritengo che la teoria dei sistemi ci spieghi meglio di ogni altra teoria come funziona il mondo, non perché è pacificante ma perché ci dimostra che nella società dei sistemi c’è una possibilità di scarico del conflitto e di differimento che permette al sistema di stare in equilibrio. E’ il discorso che faceva Zolo sulla guerra: il Manifesto è quello della guerra infinita, ma questo serve solo a creare consenso; di fatto c’è un cinismo ed un pragmatismo che passa dall’accordo con Putin, che domani potrebbe essere con la Cina. Dove c’è un policentrismo di forze, fondamentalmente c’è un elemento capace non di annullare il conflitto, ma di differirlo, cioè di impedire che si concentri in un punto solo.
Ecco, la caratteristica della nostra società rispetto a quelle classiche: essendo queste a bassa complessità era facile che i conflitti precipitassero in un punto solo; c’era minore capacità di differimento e allora scoppiava la rivoluzione sovietica. Oggi c’è una più ampia capacità di differimento e allora, caso mai si moltiplica il terrorismo. Non esistono le moltitudini che alla voce dell’arcangelo si uniscono e redimono il mondo. In fondo Negri non è cambiato.
Il mio discorso è che nel differimento del conflitto deve diventare più strategica, ecco la pazienza democratica, la tecnica di inclusione. Lavorarci dentro i conflitti ma nella persuasione che allo stato del mondo poi tutto può succedere. Che precipiti in un punto solo e che ci sia una organizzazione sola che li possa guidare e dirigere, secondo me, questo appartiene al passato della nostra umanità, forse a un prossimo futuro. Nella fase che viviamo non c’è possibilità trontiana. Tronti è un caro amico, un amabile grande nostalgico perché vuole unificare il conflitto e trovare un punto unico dello scontro. E’ impossibile, secondo me, nella diagnosi della società è impossibile. Allora la pazienza democratica deve attraversare molti guadi. Ci vuole un’astrazione adeguata alla complessità. Il conflitto non può essere pensato e diretto secondo le forme della vecchia ideologia. Non che sia stata un errore. Io non parlo mai dell’esperienza marxista-comunista in generale come un errore. Vi sono state componenti di errore, ma ci sono state anche componenti di riuscita. Le politiche di welfare che caratterizzano più della metà il ‘900, per esempuio.. Ma il vecchio secolo si era aperto con un assalto al cielo e il risultato è che ci siamo trovati all’inferno e poi nelle macerie. I cieli non si assaltano. Ecco la mia attenzione per il cristianesimo. E’ la Gerusalemme Celeste che scende, ma fabbricarla diventa Babele. Di qui la mia prossimità con la Bibbia e, in questo caso, con il Vecchio Testamento. La mia approssimazione con la tradizione ebraico-cristiana si va sempre più delineando nella direzione di Qoelet.
Giustizia e pace
Mi si è chiesto: c’è pace senza giustizia? Se la giustizia è ridurre le disuguaglianze e quindi le ragioni dell’antagonismo, è chiaro che riducendo le ragioni dell’antagonismo ci si mette in una dimensione di pace. Quindi è chiaro che la giustizia, riducendo la polarità, mette in una condizione di maggior discorsività, quindi se non pacifica, quanto meno, mette nelle condizioni di mediazione. Usiamola una volta questa parola. Il discorso sul perdono è già diverso perché la caratteristica del perdono è legata in modo molto stretto e singolare alla persona e non alle condizioni. Le condizioni di ingiustizia, come dato oggettivo, non sono suscettibili di perdono; lì devi fare la guerra. Nei confronti delle persone tu dai il perdono; questa è l’essenza del cristianesimo. Ma poniamo la situazione ideale che tu da cristiano dai il perdono e non puoi rifiutarlo. Il perdono fallisce, anche se dato, se non si accede alla conversione. Il perdono non può essere solo dato, ma anche ricevuto. Se tu resisti al perdono perché ti configuri nel male, ti danni, ma ti danni nel senso vero della parola, non nel senso che è Dio che ti manda all’inferno, ma rimani legato al tuo peccato. Questo è il senso vero della dannazione. Non c’è una dimensione punitiva. A questo punto, non tu come persona, ma il peccato cui sei legato, mi ti rende nemico, è la condizione a cui ti sei legato che ti rende nemico. Come persona il perdono io te l’ho dato. Questa è una differenza per evitare il patetismo del perdono. Il perdono sembra ormai sia diventato uno scoop pubblicitario. Io mi sono trovato in una trasmissione televisiva a parlare di queste cose con una scema assoluta che mi ha tolto la parola perché stavo facendo saltare la trasmissione. Si stava sfruttando anche il dolore della gente. Quando uno soffre si dispone a tutto, anche ai più terribili sputtanamenti, pur di avere un protagonismo. Il dolore indebolisce, il dolore è una condizione in cui se tu non hai la forza del pudore, ti rende zimbello di tutti, ti fa fare cose che non faresti mai. Nel mio ragionamento si combinano sempre affetti, passioni, istituzioni, cose che normalmente vengono separate perché non abbiamo i campi disciplinari, ma si è perso quello che gli antichi chiamavano la sapienza come vita intera. Io, nella mia filosofia cerco di riprodurre questo modello. Io dico che sono la reincarnazione di Aristotele, mal riuscita…
Giustizia e mercato
C’è la religione del mercato, ma ragionando di giustizia e di conflitto, ho implicitamente risposto. Se il mercato è sregolato, evidentemente non crea inclusione. Il mercato è libertà, ma è libertà ad una condizione: che sia possibile l’accesso con la possibilità più ampia di soggetti. Era in fondo il modello di Adam Smith, professore di filosofia morale, quando parlava di mani invisibili. Diceva: “il mercato fa giustizia dell’inefficienza però non esclude chi è efficiente dal mercato”. Ricardo, e poi Marx, hanno mostrato che il mercato si sviluppa per meccanismi di concentrazione: i soggetti non sono isolati, ma si creano grandi aggregazioni, ci sono gli oligopoli, oggi le multinazionali che sono una forma sofisticatissima di oligopolio, e poi un distacco radicale del capitale finanziario dai beni immobili, quindi un’inafferrabilità della ricchezza. E’ chiaro che ci vuole una regolamentazione.
Della pazienza democratica
Quando parlo di pazienza democratica dico proprio questo: trovare i luoghi del potere e scatenare conflitti specifici. Questa è la differenza tra modello rivoluzionario e conflitto specifico. La sopravvivenza di certe idee finalistiche di rivoluzione non ci aiuta per elaborare una strategia analitica del micro-conflitto, ma ci devia. Questo è un elemento che ci fa perdere tempo. Dunque: legalizzare il mercato, puntare analiticamente al conflitto, sapendo che quando si è vinta una battaglia poi il conflitto riapparirà da un’altra parte, perché la differenza rispetto alle teorie rivoluzionarie è che il movimento dell’esistenza è a zig-zag. Quando Aristotele parlava dei modelli di governo, lui, a differenza di Platone, non aveva creato un modello di repubblica, ma si era messo a studiare tutte le costituzioni del bacino del Mediterraneo, quelle monarchiche, quelle aristocratiche, aveva studiato quelle basate sulla isonomia, sull’eguaglianza. Per i Greci la parola democrazia era una parola che voleva dire casino. Noi traduciamo in greco la parola democrazia con isonomia, perché la democrazia come potere del “demos” è fondamentalmente plebiscitaria. Così la pensavano gli antichi. Il popolo era articolato secondo modelli costituzionali. Se il popolo è tutto insieme produce il tiranno. Aristotile aveva studiato queste costituzioni e dice: tutte le costituzioni risolvono un problema. Parlava come Luhmann ante litteram. Le monarchie non sono negative, se realizzano il bene dei cittadini nel contesto in cui operano. Il discorso non era evolutivo. Non è che le aristocrazie sono meglio delle monarchie e le isonomie sono meglio….. Tutte le forme sono suscettibili di corruzioni, nascono perché risolvono problemi e non li risolvono se si corrompono.
Il ragionamento che io faccio è questo: la storia non ha situazioni finali che di per sé siano buone, né ingegnerie costituzionali che di per sé siano definitive, ma sono tutte contestuali. Ecco la pazienza democratica. La pazienza democratica vuol dire elaborare modelli di conflitto e tecniche di soluzione dei conflitti adeguate al contesto, perché la storia non finisce.
Cristianesimo e umanesimo
C’è tanto di cristianesimo che è assimilabile all’umano e ritengo, non senza ragione, perché se prendiamo sul serio l’incarnazione è ovvio che ci sia tanto di cristianesimo da assimilare all’umano, altrimenti che si è incarnato a fare? Il problema vero è che non bisogna ridurlo all’umano, perché altrimenti uno dice: ma perché ti sei incarnato a fare?
Ecco io mi trovo dinnanzi ad un cristianesimo che per rendersi credibile lo rende troppo umano e allora è irrilevante. Qui bisogna stare attenti perché ne va il destino del cristianesimo. A tanti che mi dicono: guarda tu sei un cristiano, la mia risposta è: sì, io sarò un cristiano, ma voi lo siete? Perché se voi dite che sono un cristiano io, molto probabilmente voi non lo siete poi del tutto. Ecco, questa è la direzione. Che ci sia dell’umano nel cristianesimo lo dichiara l’incarnazione, ma che nell’incarnazione ci sia un Dio che si incarni, qualcosa vorrà pur dire. C’è un’eccedenza.
Del terrorismo
Ci sono culture differenti. La prossimità acutizza la differenza delle tradizioni. Infatti nel mio libro io non dico che tutte le società siano secolarizzate, ma le civiltà non secolarizzate non sono così compatte. E’ questo il punto. C’è un Islam secolarizzato, quello che frequenta il danaro, lo stesso Islam terroristico.
Il terrorismo ha le caratteristiche della mafia e quindi funziona separatamente. Nella mafia voi avete: i militari, il reclutamento del denaro, e la valorizzazione del denaro. C’è un nucleo che tiene insieme questi tre cerchi, ma i tre cerchi tra loro non si conoscono. Tra le cerchie non c’è rapporto, perché è una macchina segreta. Qui la ragione non può funzionare a rete, perché altrimenti si entra nel buco e la rete è finita. Ci metti il virus. Funziona invece a compartimenti stagni, con un centro che regola. Il terrorismo per prelevare i Kamikaze deve scremare dal fondamentalismo. Non tutto il fondamentalismo è terrorismo. Il fondamentalismo è la risposta ad una società secolarizzata. La prova che l’Islam sia secolarizzato sta nel fatto che c’è fondamentalismo. I fondamentalisti rivendicano, in una società secolarizzata, l’identità della tradizione. Algeria, ma anche Comunione e Liberazione, non versione Formigoni, ma versione Giussani. La Compagnia delle Opere è già un’altra cosa. I fondamentalismi sono come le analisi del sangue, la traccia della secolarizzazione.
Dal fondamentalismo tu scremi un piccolo esercito perché il terrorismo non ha bisogno di eserciti in campo, non ha bisogno di numeri, ha bisogno di lealtà. Cioè ti bastano mille terroristi per fare i kamikaze, non è che hai bisogno di eserciti. Non ci vuole un grande bacino di fondamentalisti per tirar fuori mille terroristi. Da qui possiamo capire tutta la falsità del discorso di bertinotti: il terrorismo è alimentato … Ci sono tanti conflitti che non diventano per nulla terrorismo. Anzi quelli che diventano terroristi sono le parti più patologiche del fondamentalismo. Un testo come quello dell’Oriana Fallaci ha distorto completamente la riflessione politica sul terrorismo. Ha identificato il terrorismo con una civiltà.
Scrematura di un esercito piccolo, leale. Non si prende il fondamentalista più dubbioso, ma si prende il fondamentalista più ascetico e disperato. Sono due cose che stanno bene insieme. Questo lo diceva anche il vecchio Aristotele: se uno si va ad uccidere non è detto che sia un eroe, può essere uno che non ama più la vita e quindi perderla non gli costa niente. Non ci possono essere componenti di nichilismo in questi? A matrice religiosa? Perché non è detto che il nichilismo è nato solo a Vienna. Ci sono tante matrici di nichilismo.
Soldi, e allora la criminalità. Non è necessario che il kamikaze sappia da dove venga il denaro, lo usa. Perché il kamikaze deve sapere da dove viene il denaro? Anche a me è stata fatta l’obiezione: perché sei andato da don Verzè? Io non so da dove arrivano i soldi a Verzè, però il progetto è bello e in questo caso non si tratta di terrorismo. Da dove arriva il denaro? Esiste un’area che produce denaro e sono i mercanti di droga e di armi. Su questo terreno c’è una compatibilità perfetta tra la mafia di Palermo e il terrorista islamico. Se esiste una multinazionale della criminalità il denaro si prende da per tutto, e siccome pecunia non olet, tu ti puoi immaginare che i reclutatori di denaro che poi arrivano ai kamikaze, lavorano anche con i mafiosi normali.
Questo denaro deve essere valorizzato, e allora bisogna andare a Wall Street, dove ci sono degli operatori finanziari in giacca e cravatta, che finanziano il terrorismo e speculano sulle borse. Non è necessario che questi sappiano chi sono i kamikaze. Il meccanismo del terrorismo funziona perché c’è una cellula che connette insieme questi cerchi dove nessuno verosimilmente sa alcunché dell’altro.
Ma cosa vuole il terrorismo? Vuole il riscatto islamico, o quello è un manifesto ideologico perché vuole l’Arabia Saudita? C’è un progetto di fare scoppiare una rivoluzione nel mondo islamico o questo è una copertura per un discorso molto più giocato sugli interessi? La pazienza democratica deve cominciare a scardinare queste cose e trovare delle entrature, ecc. ecc.
Keynes e Amartya Sen
Lungi da me contrapporre Keynes e Amartya Se. Volevo solo mostrare la differenza per indicare che per quanto, per molti versi, le politiche keynesiane abbiano ancora senso, ci sono però nelle società nuove emergenze che non sono soltanto le differenze nel senso nostro, le differenze dopo l’inclusione, ma un qualcosa di più, le differenze di forme di vita, cioè a dire di progetti di sviluppo che non siano omologati sullo standard occidentale. Da questo punto di vista Sen ti parla di diritti però in un mondo meno occidentale.
Noi abbiamo un nuovo vocabolario per pensare i diritti allargati. Keynes quando ha pensato ai diritti li ha pensati dentro il taylorismo, dentro il fordismo. Sen dice sì ai diritti, però in una dimensione di mondo in cui dobbiamo pensare uno sviluppo che non sia quello occidentale. In questo senso, senza negate il contributo di Keynes, bisogna vedere l’originalità del punto di vista che ha in mente Sen.
Stile di vita e stile di carità
Il cristianesimo tende, per molti versi, ad essere eticizzato anche nelle forme migliori. Quando dico eticizzato intendo dire denuclearizzato del suo elemento più strettamente salvifico. Vogliamo chiamare questo fine del mondo? Vogliamo chiamare questo altro mondo? Non tanto nel senso di Paradiso o di mondo separato, ma altro mondo nel senso di questo, ma come mondo redento. Riditemi i fondamentali della sparizione del dolore e della morte. Tutto questo insieme di credenze, domando, sono diventate qualcosa di allegorico, oppure sono ancora qualcosa di strutturale? Quando si parla di resurrezione dei morti, quando si parla di dolore che sparisce dal mondo, ecco, tutto questo che cosa è? E’ un involucro metaforico del cristianesimo? E invece il cristianesimo vero è la pratica della carità, la povertà, il mettersi al servizio? Ecco, su questo terreno io faccio una doppia riflessione e dico: il cristianesimo, in questo caso proprio la pratica cristiana, esige la carità (poi ritornerò su questo), il farsi carico dell’altro incondizionatamente. L’essere gli uni per gli altri con tutte le conseguenze che questo comporta nella vita. Questo è qualcosa che il cristianesimo ha disvelato come una possibilità dell’uomo. Gesù si realizza in quello che tutti gli uomini possono fare. Gesù è una figura esemplare di possibilità umane e quindi restituisce l’uomo a sé stesso nel suo modo migliore. Ecco, teniamo questa dimensione del cristianesimo, questa dimensione di esemplarità, questo offrire all’uomo la sua immagine migliore di uomo riuscito; è ciò che il cristianesimo ha di essenziale. Quando gli uomini praticano questo, già di fatto il cristianesimo è realizzato. Da questo punto di vista la vita cristiana è un’inseminazione nel mondo della speranza, oppure la speranza cristiana è l’attesa che questa realizzazione ci sarà. Ci sarà perché Dio salva dal dolore e dalla morte.
La prima parte del mio ragionamento si presta a quella che io chiamo una valorizzazione profana dal cristianesimo, che non è una secolarizzazione, ma una transfigurazione, un inveramento: alla luce di Cristo l’uomo cambia un pochino, non negando la dimensione del tempo. Non liberazione dal dolore ma condividere il dolore, accompagnare nel dolore. Tutta la tematica della debolezza di Dio. Dio è una figura non della redenzione dal dolore, ma della comprensione del dolore, della condivisione. Io vedo un crinale. Se di quell’insieme di credenze noi diciamo che è un involucro metaforico, allora il cristianesimo perde molta della sua identità, diventa un’altra cosa. Pongo qui una domanda: questo forse è il modo migliore o l’unico modo attraverso cui il cristianesimo va oltre sé stesso. In quest’ottica vita eterna, redenzione, ecc. ecc. sono qualcosa che si dissolvono nella mitologia. Quando io parlo con i cristiani domando: si dissolve nella mitologia, o no?
Questo mi permette di interpretare il modello cristico come un’ermeneutica nuova dell’esistenza che sta in continuità con la cura di sé. Sono d’accordo: non coincide con la cura di sé, però sta in continuità. La cura di sé può essere interpretata in due modi: come cura della propria perfezione, cioè la capacità di equilibrio, la giusta misura di cui parla Aristotele, non diventare schiavi delle proprie passioni e sapere godere senza patire, che poi culmina nella figura della autodeliberazione, della libertà. Gustare liberamente il mondo vuol dire possibilità di potere anche farne a meno. Quando si parla di autarchia presso i Greci vuol dire questa: sapere usare delle cose però senza scadere rispetto ad esse in una dimensione di dipendenza, quindi c’è rispetto ad esse un rapporto di elasticità, di libertà. Ora questo modello di cura di sé è anche paolino, e probabilmente Paolo lo prende anche dalla tradizione stoica. Il “nihil habentes et omnia possidentes” è proprio questo, cioè non avere tutto, nel senso di non essere vincolato alle cose, ma possedere tutto nel senso di saperle usare. E’ chiaro che per potere fare questo occorre avere la capacità di controllare la propria passione. Molte volte l’uomo è schiavo di sé stesso è in balia dei propri movimenti e allora la cura di sè è questa capacità di tenere la misura e quindi di giocare la propria libertà.
Ecco, si potrebbe dire che su questo modello si può immaginare un tipo di umanità tutto sommato autosufficiente in questa formula: gli uomini che ci arrivano, beati loro, diventano un esempio di vita, di stile per tutti gli altri. Allora leggete questi modelli di vita come vostri e realizzateli.
Questa di per sé è una cosa buona perché non è in contraddizione con la carità? Perché secondo me lo stile, il governo di sè dice la capacità di conoscersi e di amministrare le proprie passioni e permette di potersi donare meglio. Perché tu sei in una condizione di dono nei confronti degli altri se ci sei. Se tu sei mosso dalle tue passioni, puoi inquinare lo stesso dono, nel senso che tu puoi praticare una carità come compensazione che, stranamente, dal punto di vista pratico, può avere anche buoni effetti, ma è equivoca nel rapporto di te con te. La carità può essere un modo di catturare le simpatie dell’altro nei tuoi confronti, può essere un fenomeno, come dire, di seduzione. L’attenzione a sè in fondo è l’attenzione alla verità nella propria relazione con l’altro. Uno può arrivarci o non arrivarci, ma è un interrogarsi sulla verità della propria relazione. Quanto più sei chiaro nella verità della tua relazione, tanto più il tuo dono è puro, tanto più vai all’altro, lasciando l’altro essere altro, non catturardolo nella tua benevolenza. Ecco, questa problematizzazione del proprio rapporto caritatevole senza un’enfasi, rende più fine la carità. Certo la carità è di più perché va oltre il sentimento della propria perfezione, però il coltivare la propria perfezione è un’occasione per praticare in modo più autentico la carità.
Nel ragionamento che io ho fatto pocanzi, stile e carità, ho mostrato gli aspetti per cui la cura di sé non è antagonista rispetto alla carità, ma certamente la carità è eccedente alla cura di sé. Su questo non c’è ombra di dubbio e in questa dimensione eccedente della carità c’è una discontinuità. Devo dire che questa è una ragione per cui io, con rispetto, mi definisco non credente. Perché vedo questa eccedenza. Poi mi capita, e sono contento che voi mi avete fatto questa domanda, che altri che si dicono credenti vedano in me il credente e allora, evidentemente, loro hanno perso l’eccedenza. Voi oggi, con le domande che mi fate, mi proponete l’eccedenza. La struttura dell’argomentazione è che la cura di sé, correttamente concepita, non è antagonista della carità, anzi per molti versi la facilita, però la carità ha una eccedenza che è irriducibile alla cura di sè e che addirittura la rovescia.
Religione e globalizzazione
La globalizzazione mette in contatto tradizioni diverse, forme di vita diverse. Lascerei da parte un attimo le ideologie, perché le ideologie sono una cosa un pò diversa dalla forma di vita, le ideologie sono programmi, sono progetti, visioni del mondo; le forme di vita sono appartenenze e quindi possono avere degli elementi di contatto, ma non coincidono. Il Manifesto del partito comunista è un’ideologia; l’ebraismo non lo è, però si potrebbe dire quanto di materiale ebraico c’è nel manifesto. Questa è la differenza tra un’ideologia, che tutto sommato è a tavolino, e una forma di vita. Allora le religioni sono più forme di vita che ideologie.
Comunque in questo accostamento si intrecciano forme di vita e non è la prima volta nella storia. Tutta la storia è una storia osmotica. Nel contatto le civiltà si deformano e si ricostruiscono, come si fa con le piante, come i giardinieri che fanno inerpicare le rose sugli alberi e poi non si capisce più che differenza c’è fra la rosa e la fronda. Manzoni amava molto fare queste cose. La botanica è un esempio di questa contaminazione. Nel tempo lungo c’è una mediazione tra le culture. Nel tempo lungo prevalgono le dimensioni di trasformazione perché l’umanità sarebbe già perita molte volte. Questo è sempre avvenuto. C’è stato l’incontro tra l’ebraismo e le culture elleniste. Quando io parlo di Qoelet e di Giobbe, questi due libri, se noi vogliamo dare una loro giustificazione esegetica, storica, si collocano nel rapporto col confine. Giobbe e Qoelet nascono in un contesto in cui da un verso il pagano vicino all’ebreo vuole capire la natura dell’ebraismo e della legge e nasce Giobbe; dall’altro, l’ebraismo accerchiato dalle scuole ellenistiche vuole mantenere la sua identità e nello sforzo di mantenere la sua identità, cerca di prendere ai suoi avversari qualche mossa, qualche carta per poterne parlare con loro ed essere pronti.
Tutta la storia è fatta di scontri e di tensioni. Caratteristica della globalizzazione è di avere accelerato questi impatti, il tempo di assimilazione si è ridotto. Questa è la caratteristica del ‘900. Con Alessandro Magno c’erano le guerre, prima di raggiungere un posto ce ne voleva, lo spazio contava. In una dimensione di globalizzazione lo spazio conta sempre meno, gli impatti sono molto più veloci, molto più turbolenti. Però se introduciamo la variabile tempo è possibile che queste religioni queste culture, queste forme di vita si integrino. Ma non tanto nella forma che si teme di omologazione, che era quella dell’uomo a una dimensione di Marcuse, ma forse in una forma più ricca e creativa di effervescenze diverse, forme che noi non abbiamo mai visto. L’avvenire del mondo sarà un grande meticciato. Il processo di integrazione è ormai irreversibile, può essere più o meno costoso, ma delle due l’una: o il mondo perisce nel conflitto o viene fuori un’efflorescenza diversa di umanità e quindi anche una contaminazione. Porto un esempio per farmi capire: la valorizzazione profana che io faccio del cristianesimo è cristianesimo ma non è più cristianesimo. Non si può dire che non sia cristiano, però, spogliato dell’eccedenza, ecc. ecc., non è più cristianesimo. E’ una cosa che non c’era prima. Probabilmente nella globalizzazione noi avremo queste forme di ridefinizione dove la tradizione è prelevata ed è reinvestita. Il mio rapporto con il futuro non è solo negativo, ma è anche positivo. Questo lussureggiare dell’ibrido, avvenuto nella biologia, ha creato razze bellissime. I brasiliani sono biondi e sono neri, ci sono molti a cui piace moltissimo il mondo brasiliano, cioè questa efflorescenza di razze. Questa prospettiva non esclude tensioni, anche atroci, ma accanto a queste si potrà vedere anche qualche altro elemento.
Qoelet
Invece , veniamo al dominio di sé e all’ordine della carità. Ha ragione Roberto, non c’è sintesi, proprio c’è asimmetria. Io ho sempre detto che la caratteristica del cristianesimo, ma non solo del cristianesimo, è proprio di essere smoderato, quella di essere caratterizzato dalla dismisura e la dismisura è data dal fatto che la misura di Dio è l’infinito, e quindi all’infinito ci si affida. Tutto il discorso su Giobbe è questo. Tu ti devi leggere alla luce dell’infinito, ma per leggerti alla luce dell’infinito dovresti metterti alla luce dell’infinito, ma siccome non puoi ti abbandoni. Una cosa è regolare le mie passioni per rendermi disponibile nei confronti degli uomini, altra cosa dire, indipendentemente dalle mie passioni, io mi dono. Chi farà crescere la pasta non sono io. Il discorso che la salvezza non è nelle opere, non vuol dire che non si debbano fare le opere, ma chi le porta a termine non seri tu. Nel cristianesimo c’è anche questa finezza: non puntare come meta alla propria perfezione, che è una delle massime tentazioni. Questo è seducente nel cristianesimo. Io non lo credo perché, non pensando che esista un lievitatore, non posso crederlo. Ci devo pensare io alla mia perfezione. Tutta la tematica genetica dell’indifferenza è centrata su questo: io non devo pretendere la mia perfezione. Ignazio è interessantissimo in questo senso, sembra apparentemente opposto a Lutero. Il mondo è questa crudeltà, è questa lacerazione. Bisogna cercare di suturare questi tagli ed è l’uomo tragico. Nell’uomo tragico c’è il male, però il male è quella lacerazione che deve essere suturata senza la pretesa che questa possa essere estirpata definitivamente dal mondo. Nel Cristianesimo, l’idea che il male possa essere definitivamente estirpato dal mondo è una possibilità, ma non dell’uomo. Questo che cosa produce? Produce un’enfasi del male proprio in vista del fatto che si può definitivamente togliere. Un male che si può togliere diventa insopportabile e si vede in sé più la propria natura di peccato che la propria capacità di produrre equilibrio. Tutto il cristianesimo è giocato sull’eccedenze e sullo squilibrio. E lo squilibrio è tanto più lacerante in quanto non è nelle mani dell’uomo la possibilità di poterlo suturare.
Nell’uomo che non crede, non gli resta che fare questo. La posizione di Qoelet è interessante in questa direzione. Nel Qoelet il tetragramma non c’è mai, Qoelet non nomina mai Javè e non nomina mai la Torah. Sono due elementi strutturanti. La Torah è evocata sotto un’altra forma, sotto un’altra voce, il timore di Dio. Ma non per la redenzione, ma in sé. Cosa vuol dire in sé? E’ non cedere valore alla propria presunzione di onnipotenza. Il timore di Dio vuol dire questo: non cedere al proprio delirio di potenza, avere dentro di sé la legge dell’altro, la legge come dispositivo relazionale che è buono in sé indipendentemente dai risultati perché dà sensatezza all’esistenza e senza senso c’è demenza. Tanto è vero che molte volte questa sensatezza nella realtà produce insensatezza: tu rispetti la legge, ma le cose non funzionano. Ma se io togliessi il senso perché le cose non funzionano sarebbe ancora peggio perché non avrei neanche il senso e quindi perderei il mio orientamento nel mondo. Qui c’è una dimensione che non fa riferimento alla trascendenza, ma alla possibilità di trovare orientamento nel mondo. La posizione di Qoelet per molti versi si congeda dalla dimensione biblica profetica, per altro verso ha una vena di pessimismo sulle possibilità di auto-ordinamento dell’uomo che problematizza l’ottimismo delle scuole filosofiche. Qoelet si mette in questa situazione singolare del doppio delle cose, cioè non si può dire mai sì o no. Però nelle situazioni in cui ci si trova ad essere si dovrà dire sì o no. Non esistono assunti generali che abbiano valore di verità, la verità si fa decidendo, perché da quello non ci si può esonerare. E come? Con la sapienza accumulata dall’osservazione. La parola ricorrente di Qoelet è quella “ho visto, ho visto, ho visto”. In base a questo ritengo…
Del meticciato
Il meticciato io ho detto è una direzione immaginabile anche alla luce della storia trascorsa dell’umanità. Non è un programma, è un esito, ed è un esito che in quanto esito ha passaggi dolorosi, cruenti. Nella storia è sempre stato così. La storia mostra che nonostante la violenza terribile dell’umanità le tradizioni non sono mai state cancellate del tutto. E’ difficile trovare qualcosa di definitivamente cancellato perché i mondi vitali sono radici per molti versi inestinguibili. E’ chiaro che nella formazione di nuove culture c’è un reinvestimento di questi materiali. Il paganesimo del Sud, quello che studia De Martino, è sparito nella cristianizzazione o no? Non è sparito affatto. Ma possiamo dire che è lo stesso di prima? Ecco, meticciato vuol dire che la storia selezione forme viventi nuove. Se noi per meticciato intendiamo un dolce accordarsi sbagliamo. Il mio è un tragico ottimismo: l’umanità non va a picco però i suoi processi evolutivi li paga ad alto costo. Però un fatto è immaginare punti di chiusura, un fatto è lavorare in una direzione in cui la selezione sia feconda.
Ci sono costi inevitabili. Nella storia le trasformazioni sono passate attraverso guerre terribili. Nella storia del mondo non bisogna nascondersi che molte volte le guerre sono state funzionali a processi di civilizzazione. Quindi noi faremmo un discorso troppo sentimentale sulle guerre se vedessimo soltanto il loro lato distruttivo. Le guerre molte volte nella storia sono state forme di violento contatto, hanno creato un terreno per nuove alchimie. Evidentemente alchimie si possono creare senza le guerre, allora l’esperienza moderna dello stato di diritto, la logica occidentale, molto feconda, del principio della neutralizzazione. Forme istituzionali di addomesticamento della violenza. Sono modalità che noi non dobbiamo abbandonare, pur essendo convinti che non basta mettersi ad un tavolo. Sono necessarie mediazioni. Più volte ho accennato alla pazienza democratica per trovare questi elementi. Poi la selezione verrà. Fino adesso è avvenuta nella storia. L’Europa nasce così, da una sintesi fortissima di tradizioni ellenistiche e di paganità nordica. Non bisogna usare la parola meticciato come placebo, ma significa soltanto che non si va in un cul de sac. Così ci sono dei costi ma che possono produrre civiltà. Allora fluidificare questo processo, ecco fluidificarlo creando un ambito che in età di secolarizzazione è quello più favorevole data questa accelerazione degli incontri.
Obbedienza
Non si tratta di aderire al punto di vista dell’altro, ma capire cosa l’altro dice. E qui la cura di sé è fondamentale per l’ascolto, è il modo di svuotarsi per lasciare essere, diventare campo di risonanza. La capacità di sottrazione suppone una grande forza che contiene l’enfasi dell’io. Io non posso ascoltare l’altro se sono troppo presente, devo avere questa capacità di diminuzione, la devo avere come esercizio su di me, perché altrimenti non ascolto l’altro.
Valorizzo nel libro la nozione di obbedienza. Non vuol dire soggezione. L’obbedienza nel senso etimologico della parola “ob audio”, ascolto. E ascolto l’altro non nel senso che lo sto a sentire. Molte volte noi stiamo a sentire, ma non ce ne frega assolutamente niente. L’obbedienza include una forma dello stare a sentire quello che dice l’altro per cui deve poter essere assunto come una norma per me. L’obbedienza è prendere sul serio il discorso dell’altro. Io dico che questa pratica è rarissima, perché raramente si prende sul serio il discorso dell’altro come se fosse normativo per me.
L’ampliamento della interlocuzione può creare, fatto salve le differenze, un costume di confluenze pragmatiche, si somiglianze di condotte, anche se le ispirazioni restano diverse. In questo caso le ispirazioni che restano diverse rilanciano l’interrogazione, però l’interrogazione, per non essere una finzione, è che il punto di vista dell’altro deve diventare normativo per me. Se io non lo prendo sul serio, non c’è mai domanda, non c’è mai verifica. Controllare il mio comportamento in base a quello che dice l’altro di sè e del mondo è decisivo per poter anche produrre fenomeni di confluenze non violente. Questa è una pratica in cui nelle condotte possono essere assottigliate le differenze che invece ci sono nelle ispirazioni.
Fondamentalismi e secolarizzazione
Cosa sono i fondamentalismi, le differenze etniche? Sono resistenze residuali? Forse saremmo troppo ottimisti se dicessimo che sono resistenze residuali. Io userei questa formula: sono dei transiti non consumati. Essi hanno ancora una propria forza. Non si possono cancellare. La globalizzazione produce un’accelerata coesistenza del diverso. L’unico modo è creare questo campo di ascolto che è la forma migliore di neutralizzazione, però partendo dall’idea che ancora non siamo dinnanzi a dimensioni assolutamente residue. C’è ancora un affiorare di isole consistente. Riuscire, diciamo, ad ammortizzare il conflitto, tenendo conto però che l’alterità resta, che è un grumo di presenza che non possiamo annullare.
Una domanda come nuova
Secolarizzazione-cristianità. Si certo, la cristianità era il luogo in cui, più o meno, si stava tutti. La cristianità si è dissolta nel senso della secolarizzazione, non esiste più una coincidenza chiesa-mondo, religione-mondo. Questa è la secolarizzazione. Diciamo che la secolarizzazione ha dissolto la geografia della salvezza, cioè lo spazio. Prima lo spazio della salvezza coincideva con la credenza. Nella dissoluzione di un continente, che era la coincidenza geografica tra religione e salvezza, tra cristianesimo ed Europa l’interrogazione teologica è una sfida. Ma lo è anche nella forma della mia lettura profana del cristianesimo perché questa mia lettura è già post-secolarizzata. Sconta che il cristianesimo come civiltà sia finito. Ma Cristo che fonte di senso è per me dopo la fine della cristianità? Può essere la figura della carità, ma non è da eludere che sia il volto visibile del Dio invisibile. Anche questa è una domanda, ma è radicalissima. Questa domanda suona come nuova, giunge da fuori, nel senso che non emerge più da una Chiesa che la proclama, ma dal silenzio di una dimenticanza. Direi che messa così è persino più elitaria dell’etica del finito che propongo io. E’ molto più facile incontrare un neo-aristotelico che uno che ha l’orecchio aperto sulla parola che dice l’invisibile.
Tempo ed eternità
Dice il Qoelet: c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, le stagioni ritornano. Allora si sa tutto? No. Dio ha posto nel cuore dell’uomo l’eternità. Cosa vuol dire l’eternità? Rashi, che è un grande commentatore medioevale della Bibbia, da una sua interpretazione: “posto nel cuore dell’uomo” lo traduce con “ha posto il tuo cuore nelle tenebre”, perché tu non sei nella condizione di fare coincidere l’inizio con la fine. Sarà pur vero che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, però io lungo la vita devo risolvere la mia transitorietà e quindi l’eternità è in me. Anche se tutto ritorna, io non torno. Nel mio tempo io devo fare in qualche modo coincidere l’inizio con la fine. Non ce la faccio perché non so dove sono. Fra l’eternità e questo sporgersi sull’interrogazione che chiama la decisione ci può essere un governo di sé e ci può essere una decisione nel senso dell’abbandono alla Parola che dice l’eternità. Ma in questo caso non l’eternità incongrua, ma l’eternità della misericordia. Da questo punto di vista dico che il cristianesimo è soprannaturale, nel senso stretto della parola, nel senso che non è qualcosa che possa essere giustificato dalla ragione, ma si pone al suo limite, al suo confine e la mette a prova. Quindi un’interrogazione teologica…. Ma se la teologia è questa, è la teologia dello spaesamento, non è più la teologia politica. La teologia politica era una forma di secolarizzazione, della decisione religiosa. Diciamo che quello che dico io non è configurabile nel modello smithiano, che è un modello che porta alla secolarizzazione.