Tito Boeri. La crisi non è uguale per tutti.

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Corso di formazione alla politicaIl libro del prof. Boeri spazia su tutti gli aspetti con cui i diversi attori (a partire dal governo i banchieri e i managers) hanno gestito il proprio ruolo nella crisi: l’analisi è così ricca che, qui, ci limiteremo a governo e lavoro subordinato. Il primo dato riferito è che il Prodotto interno lordo, nel 2009, calerà del 5,2 %. Il secondo dato è che nel 2010 l’indebitamento programmatico sarà uguale all’indebitamento tendenziale. Ciò significa che, davanti a una situazione definita catastrofica da molti osservatori, il Governo non intende intervenire sui saldi netti. Come rileva il professore, è la prima volte che succede. Il Governo si limiterà a ridistribuire tra i capitoli di spesa, senza  variare i  saldi.  Ad  esempio, non si cercherà di stimolare l’economia dando con un braccio a imprese e famiglie più risorse di quelle che vengono tolte con l’altro.

Tito Boeri. La crisi non è uguale per tutti.

1. leggi il testo dell’introduzione di Giancarlo Sartini

2. leggi la trascrizione della relazione di Tito Boeri

3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3

premessa di Giovanni Bianchi (5’18”) – introduzione di Giancarlo Sartini (27’45”) – relazione di Tito Boeri (1h 2′) – prima serie domande (13’44”) – risposte Tito Boeri (12’58”) – seconda serie domande (9’30”) – risposte Tito Boeri (9’45”) – terza serie domande (9’27”) – risposte Tito Boeri (7’52”) – quarta serie domande (6’49”) – risposte Tito Boeri (6’41”)

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Testo dell’introduzione di Giancarlo Sartini a Tito Boeri

Il libro del prof. Boeri spazia su tutti gli aspetti con cui i diversi attori (a partire dal governo i banchieri e i managers) hanno gestito il proprio ruolo nella crisi: l’analisi è così ricca che, qui, ci limiteremo a governo e lavoro subordinato.

Il primo articolo che pone il problema della politica economica del governo è“Rileggendo il Dpef”. Il primo dato riferito è che il Prodotto interno lordo, nel 2009, calerà del 5,2 %. Il secondo dato è che nel 2010 l’indebitamento programmatico sarà uguale all’indebitamento tendenziale. Ciò significa che, davanti a una situazione definita catastrofica da molti osservatori, il Governo non intende intervenire sui saldi netti. Come rileva il professore, è la prima volte che succede. Il Governo si limiterà a ridistribuire tra i capitoli di spesa, senza  variare i  saldi.  Ad  esempio, non sicercherà di stimolare l’economia dando con un braccio a imprese e famiglie più risorse di quelle che vengono tolte con l’altro.

Né al contempo si cercherà di migliorare i conti pubblici, altrimenti destinati a riportaci al debito del 1992.

In compenso, si interviene con un stillicidio di interventi definiti “proroghe, incrementi in dotazioni, adeguamenti”, dando all’uno ciò che si toglie all’altro.

L’intervento si assesta totalmente in questi interventi estemporanei, decisi in risposta alle pressioni dei vari gruppi di interesse, senza alcun intervento organico.

Un quadro non rassicurante della crisi viene dato da Boeri in “i disoccupati presi in ostaggio”.

Dalla metà del 2008 ai primi mesi del 2009 abbiamo bruciato più valore aggiunto che nei terribili 18 mesi a cavallo tra ’92 e ’93.

Il nostro paese, che doveva essere ai margini della crisi, ha fatto peggio di tutti, spingendoci a un 2009 peggiore dei paesi epicentro della crisi. Venendo da 10 anni di stagnazione, torneremo indietro molto più di altri.

Per non subire passivamente la situazione, occorre ad esempio, una seria riforma degli ammortizzatori sociali.

Chi è disoccupato in Italia è 12 volte più a rischio di essere povero del resto della popolazione.

I disoccupati rischiano  di superare i 2 milioni e il tasso si avvicina alle due cifre.

In questo contesto il Governo annuncia de aver reperito 8 miliardi  per finanziare gli ammortizzatori sociali tramite un accordo con le Regioni (in realtà ha liberato 2,5 milioni di euro in 2 anni).

Il ministro ha già annunciato che la riforma dovrà essere rinviata, mentre verranno finanziati unicamente gli interventi di Cassa integrazione in deroga.

Ma la Cassa in deroga si rivolge più alle imprese che ai disoccupati: non si istituisce infatti alcun diritto soggettivo a essere aiutati quando si perde il lavoro.

Non solo, ma la cassa in deroga autorizza a fare una politica industriale attraverso di essa: dando alle Autorità la possibilità di decidere discrezionalmente a quali imprese concedere la cassa, viene finanziato chi ha più potere contrattuale (e/o conoscenze).

Il Ministro motiva che un’apertura più diffusa dell’apertura del rubinetto, deresponsabilizzerebbe le aziende, ma Boeri obbietta che l’unico modo per responsabilizzare le aziende è quello di far loro pagare i contributi e fare in modo che solo chi versa possa accedere alle prestazioni.

Le prestazioni in deroga, senza contropartita, sono all’opposto proprio il modo di deresponsabilizzare le imprese e rischia di far diventare più costosi gli ammortizzatori.

Ciò che è in gioco con la Cassa in deroga è la possibilità dell’Autorità politica di controllare chi finanziare e chi no.

Un altro aspetto cruciale nella gestione della crisi è stato il ruolo affidato al “tavolo” con le parti sociali.

Il primo atto di Tremonti è stata la convocazione del “tavolo” sulla detassazione degli straordinari e premi di risultato.

I vari attori (e soprattutto CGIL, CISL, UIL e Confindustria) hanno posti predefiniti, nessuna discussione e nessuna informazione aggiuntiva riguardo a quella contenuta nei giornali del mattino.

E’ un rito con decisioni già prese.

Non si perviene a discutere nessuna forma di occupazione aggiuntiva.

Queste riunioni sono pubblicità aggiuntiva per il Governo e gli attori più importanti della concertazione.

Ma anche con le banche si usano metodi simili. L’accordo con ABI, ad esempio, prevede la possibilità di spalmare su più anni le rate dei mutui per renderle meno pesanti. Il valore del mutuo non cambia, la banca non ci rimette, e le famiglie in difficoltà tirano il fiato, ma pagano più a lungo.

L’unico risultato possibile è di spingere più banche ad adottare il provvedimento.

Dando più spazio ad alcune rappresentanze ed escludendone altre (come ad esempio le casalinghe e gli studenti) si incentiva una politica discriminatoria che privilegia gli interessi forti.

Inoltre, e forse soprattutto, la concertazione “estesa” rischia di creare o  rafforzare i cartelli a scapito della concorrenza.

Quando gli accordi rendono le offerte “commerciali” uguali, sottraggono ancora più sovranità ai consumatori.

E’ la concorrenza che può davvero togliere profitti ai monopolisti e distribuirli ai cittadini sotto forma di prezzi più bassi.

Se è la politica a decidere cosa farne di questi profitti, è sempre più forte il rischio che finiscano a qualche categoria protetta.

Questo articolo si conclude con un’indicazione importante circa il possibile rapporto virtuoso tra politica e mercati:”Ho sempre pensato che un buon politico sia colui che si rende sempre meno indispensabile. Deve creare le condizioni per cui le cose funzionino per il bene dei cittadini anche senza il suo continuo intervento.”

Un’altra questione rilevante nella gestione della crisi da parte del Governo è il continuo richiamo al debito pubblico per giustificare la modestia degli interventi.

Tale richiamo mette l’economia italiana in posizione di attesa, con conseguenze possibili sull’intero quadro europeo.

Per ora la Commissione Europea verifica la sua impotenza rispetto al coordinamento degli Stati e si limita alla richiesta di fare politiche di sostegno della domanda.

La politica del rigore rischia di mettere fuori gioco la nostra economia, come nel ’96, quando, in piena fase espansiva, la legge Tremonti, stimolando gli investimenti, ha prodotto un forte indebitamento delle imprese.

O come nel 2001/2006, quando si trattava di agganciare la domanda internazionale, e Tremonti preferì puntare su un improbabile rilancio della domanda interna.

Oggi, che bisognerebbe tagliare le tasse e concedere aiuti alle famiglie, si aumenta la pressione fiscale.

Dietro questo atteggiamento governativo, sta la preferenza per una politica di interventi di piccola entità, tutti basati su criteri fortemente arbitrari, alterabili poi a volontà,

Si sono aperti tanti piccoli rubinetti su cui a vegliare sarà qualche ministro, se non lo stesso Tremonti.

E’ una scelta di interventismo, di protagonismo dello Stato. La selettività invocata per spendere di meno, diventa sinonimo di completa discrezionalità.

Costerà di più degli interventi il controllo di chi finanziare e chi no: è una questione di potere più che di rigore.


Il vero ammortizzatore sociale

Ripercorriamo, a questo punto, la condizione della forza-lavoro subalterna. Il punto di partenza è il lavoro sommerso, che il Governo ha promosso a vero ammortizzatore sociale attraverso la riduzione del controllo sui posti di lavoro.

Nonostante l’aumento degli ispettori, i controlli nel 2009 sono diminuiti di un quarto (in certe regioni del Sud sono diminuiti del 50%).

Perché tutto questo? “La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione di vigilanza selettiva e qualitativa, diretta a limitare ostacoli al sistema produttivo.” Così risponde Tremonti.

Tale scelta può peggiorare i nostri conti nel 2009, infatti i controlli recuperano base imponibile (recupero frodi fiscali e contributive).

L’unica ragione di tale provvedimento può essere il recupero di parti della propria base elettorale, ma in questo modo si tengono in vita proprio le aziende più inefficienti, con svantaggio di quelle in regola.

Stato debole e invadente allo stesso tempo. Debole perché non in grado di far rispettare la legalità, invadente perché le imprese ispezionate vengono decise dalla Direzione Generale, sulla base di indicazione del Ministro.

L’economia sommersa conta tra un sesto e un quarto de nostro Prodotto interno lordo.

L’economia sommersa è diffusa soprattutto nel Sud, aggiungendo illegalità a illegalità, facilitando infiltrazioni mafiose e poi si deve tenere conto del fatto che sommerso vuol dire peggiori condizioni di sicurezza del lavoro.

Ora, nella crisi ci sono anche maggiori motivi per l’uscita dal sommerso, come ad esempio un minor costo della sicurezza, ma ci vogliono maggiori controllo non minori.

Si motiva che, reprimendo il sommerso, si rischia di creare disoccupazione, ma è vero il contrario: si aumenta la disoccupazione accentuando la tassazione  delle imprese in regola.

Meglio sarebbe diminuire la pressione fiscale sul lavoro, a beneficio di tutte le imprese in regola e dei loro lavoratori (e intensificare i controlli in modo da contribuire a finanziare la riduzione fiscale delle imprese in regola).


Sugli immigrati

Le scelte medianiche dei nostri apparati (ad esempio la denuncia della nazionalità per ogni atto illegale, a differenza di ciò che succede in Spagna) hanno preparato la strada alla dichiarazione  dell’immigrazione clandestina come reato e con l’aggravamento di pena per i clandestini.

Le esigenze di sicurezza possono essere giustificate, ma tale modo di classificare le persone non riduce la “pericolosità” degli immigrati, ma ne impedisce l’integrazione.

Si tratta di norme “simboliche”, ma non per questo innocue (ad esempio per definire il grado di severità del giudizio delle corti). I provvedimenti che non lasciano scampo, che tolgono ogni prospettiva di integrazione alimentano ulteriore illegalità, e sono troppi gli irregolari per pensare che se ne vadano.

Per questo tali provvedimenti non contribuiranno neanche a far sentire più sicuri gli italiani.

La soluzione sta in pene  applicabili, nella repressione di tutti gli aspetti criminali, sta nell’essere più selettivi, punendo ad es. la recidiva.

Soprattutto occorre puntare all’integrazione dei figli dei clandestini. I dati confermano che chi è andato a scuola nel Paese che lo accoglie ha la stessa identità dei nativi.

La nostra classe politica è molto miope e molti amministratori locali agiscono alla ricerca del consenso immediato, ma nel caso di esclusione dei figli degli immigrati non possono non conoscere le conseguenze.

All’opposto, occorrerebbe premiare gli insegnanti che, nonostante le difficoltà, concludono i programmi formativi.

Occorre combattere le forme di illegalità, ma non escludere i figli degli immigrati.

Allo stesso tempo, occorre intensificare i controlli per reprimere la piaga del lavoro nero.


Povertà e “politica straordinaria”

Nei tempi di “politica straordinaria” si possono fare riforme altrimenti impossibili.

La prima è ridurre i costi sociali della disoccupazione.

E’ anche un modo di accorciare la recessione, facilitando lo spostamento di lavoro dalle imprese in crisi alle nuove imprese, contenendo la caduta dei consumi.

Si tratta di riordinare gli ammortizzatori sociali, introducendo un unico sussidio di disoccupazione, che copra tutti quelli che perdono il lavoro, indipendentemente dal settore produttivo, dimensioni di impresa e tipo di contratto.

Si tratta di superare l’attuale selettività che finisce per coprire un disoccupato su 5.

Soprattutto si tratta di rifiutare l’uso degli ammortizzatoti sociali come strumento di politica industriale.

Attualmente, nella maggioranza dei casi si tratta di aiuti di Stato (ad es. la FIAT), ma tali aiuti sono molto costosi e allungano la recessione, ostacolando le necessarie ristrutturazioni.

Proprio i costi dell’aiuto richiesto da FIAT (40 milioni) rende più conveniente (poco più di cento milioni) aiutare tutti i disoccupati a cercare un posto di lavoro alternativo, senza finire in condizioni di povertà.

Risorse aggiuntive possono essere reperite dal provvedimento di detassazione degli straordinari: siamo in recessione e le aziende non hanno bisogno di ore straordinarie.

Un rapporto Ocse dell’ottobre 2008 mostra che in Italia le disuguaglianze di reddito sono esplose, e la povertà è quasi raddoppiata nella recessione del ‘92/’93.

Inoltre i poveri in Italia sono più poveri che negli altri paesi europei: a parità di potere di acquisto, il decile più povero della popolazione italiana sta peggio dell’ultimo decile degli altri paesi, compresa la repubblica ceca. Per i ricchi, succede il contrario.

Nel nostro Paese la povertà è superiore alla media europea sia per quanto riguarda l’incidenza (numero di persone povere),che per la distanza del reddito medio di chi è povero e la soglia di povertà (misura di quanto dovrebbe essere aumentato il reddito delle famiglie per uscire dalla povertà).

Il rischio di povertà si avvicina al 15% per le famiglie con figli, ed è ancora più alto tra chi ha meno di 18 anni.

Le cause principali di povertà sono legate al mercato del lavoro (perdita del posto di lavoro o salari più bassi per qualche membro della famiglia).

In Italia, a differenza degli altri Stati, solo il 12,5 % dei trasferimenti statali va al 20% più povero della popolazione.

Non è il caso di aspettare che l’attuale recessione peggiori la situazione:

Non sono solo i più poveri a rimetterci: il reddito dell’individuo medio (a metà della scala di  distribuzione del reddito e, quindi, “ceto medio”) è diminuito in rapporto al reddito medio realizzato negli ultimi 15 anni. E’ tempo di riformare gli ammortizzatori sociali.


Salari e produttività

Boeri cita un rapporto Ocse per documentare che, comunque la si misuri, la produttività del lavoro in Italia è cresciuta meno che nel resto dell’Europa dal 2001 e, inoltre, ci sono nel nostro paese forti differenza di efficienza nelle aziende anche dello stesso settore..

Le grandi imprese (sopra i 250 addetti) hanno una produttività del lavoro 3 volte superiore alle imprese con meno di 10 addetti.

Di qui il declino relativo dell’Italia, la discesa del nostro reddito per abitante al di sotto della media europea (anche allargata ai 27 paesi).

Si lamentano i lavoratori per i salari troppo bassi e anche gli imprenditori per il costo del lavoro: hanno ragione entrambi.

La bassa produttività spiega anche perché sia così difficile firmare un contratto ( è difficile mettere d’accordo tutti i rendimenti produttivi così differenziati).

Di qui la grande importanza che riveste la riforma degli assetti contrattuali.

Si tratta di consentire una contrattazione articolata che leghi la crescita della produttività del lavoro alla crescita dei salari ( e, quindi, al reddito pro-capite).

La riforma della contrattazione serve anche a rendere meno drammatico il problema del precariato, che oggi comporta, oltre all’instabilità dell’impiego, salari decisamente più bassi.

Legando salario a produttività si realizza una compensazione alla maggiore mobilità, cui siamo inevitabilmente destinati.

Chi cambia, inoltre, può trovare un lavoro più adatto alle sue competenze, e potrà essere pagato più di prima, mentre oggi il passaggio da un lavoro all’altro comporta, quasi sempre, una perdita di reddito e di potere d’acquisto.

Il libro del Prof. Boeri è molto più ampio di ciò che ho messo in risalto con la mia ricostruzione (ad esempio gli interventi sul federalismo, o sul ruolo dei grandi manager privati), e merita, per lucidità e “eterodossia”  degli interventi, un’ampia lettura.

A me è sembrato significativo un “taglio” che contenesse la descrizione della logica prevalente del Governo nella gestione della crisi, e, all’opposto, come si poneva il problema per le classi subalterne.

Molte domande si affollano come ad esempio sul ruolo che dovrebbe ricoprire la contrattazione o a che condizioni si può realizzare la riforma degli ammortizzatori sociali, sganciate dalle logiche ristrette del potere, ma, mi pare, soprattutto che due quesiti ci possono, forse, portare a una sintesi: quale deve essere il ruolo di uno Stato virtuoso e cos’è un mercato efficiente.

Trascrizione della relazione di Tito Boeri

Innanzitutto, grazie a Giovanni Bianchi per le parole introduttive e grazie a Giancarlo Sartini per questa davvero ottima ricostruzione del libro che mi permette a questo punto di concentrarmi soltanto su alcuni aspetti. E poi grazie a tutti voi perché è sabato e soprattutto è una delle pochissime giornate di questo gennaio uggioso in cui si vede il sole e quindi è davvero difficile chiudersi in una sala a parlare di temi anche difficili.

Nella mia presentazione cercherò di parlare e di guardare in avanti anche perché tutto sommato è un po’ questa la logica con cui ho sempre scritto, quello di trovare degli spunti per poi guardare in avanti e, soprattutto, formulare delle proposte concrete, operative, che in qualche modo ci diano la scossa. Dobbiamo prendere atto del fatto che il nostro paese è in una situazione difficile ma al tempo stesso pensare a delle strategie risolutive; dobbiamo essere il più possibile costruttivi nel nostro modo di pensare alle difficoltà del nostro paese. Quindi, è con questa logica che ho preparato una presentazione, anche per non annoiarvi troppo, e vi faccio veder un po’ di dati, grazie all’aiuto e al supporto tecnico di uno dei presenti che ci ha permesso di avere il suo computer.

Per riassumere un po’ le cose di cui vorrei parlare: innanzitutto, vorrei vedere un po’ il quadro della situazione a livello internazionale e che cosa è successo durante la crisi e soprattutto che cosa si annuncia per i prossimi anni a livello mondiale e poi, specificamente, per l’Italia. Non preoccupatevi, non passerò delle ore su questo, vi farò vedere soltanto due o tre cose. Poi parlare di un problema centrale che è quello del mercato del lavoro e dei giovani perché penso che sia questo davvero il tema cruciale da affrontare se vogliamo davvero uscire dalla crisi. Su questo dedicherò molta attenzione e soprattutto formulerò delle proposte anche perché ci stiamo proprio lavorando in questi giorni e ci sarà, spero, qualche iniziativa legislativa che parta proprio su questi temi, e i vostri commenti saranno particolarmente graditi. Quindi, il problema che affronta la questione del dualismo del nostro mercato del lavoro, i problemi dei lavori temporanei, del precariato, della copertura assicurativa, perché proprio questa crisi li ha messi in luce in tutta la loro gravità. È da tempo che se ne parla, personalmente non è da ieri che me ne occupo: lo avevamo detto, la prima crisi che succede saranno i primi a essere licenziati, a essere messi in difficoltà e puntualmente questo si è verificato. Davvero è opportuno fare quelle riforme di cui da tempo parliamo e a questo punto vorrei con voi poter andare nel concreto delle proposte.

Il punto di partenza è comunque un quadro di che cosa sta succedendo adesso nell’uscita dalla crisi. Il fatto è che il mondo sta evolvendo a delle velocità molto diverse fra di loro. Questo stava avvenendo già prima della crisi, ma è destinato ad avvenire ancora di più nell’uscita dalla crisi. Questo è l’andamento del prodotto interno lordo nei diversi paesi: nonostante ci siano spesso dei tentativi per ridurre l’importanza del PIL è la misura migliore di cui disponiamo per misurare il modo con cui evolve la ricchezza dei diversi paesi. Vedete questo è l’andamento dell’economia mondiale, i tassi di crescita: quando si va sotto quella linea orizzontale si va in crescita negativa; è sempre stato in crescita in tutti questi anni il PIL a livello mondiale e il calo è diventato negativo soltanto nel 2009. Nei prossimi anni le previsioni del Fondo Monetario Internazionale ci dicono che dovremmo tornare a una crescita dell’economia mondiale più o meno sui ritmi precedenti la crisi e si dovrebbe risalire in tempi abbastanza rapidi perché già nel 2012, più o meno, il tasso di crescita dell’economia mondiale dovrebbe tornare a essere ai livelli pre-crisi, quindi tassi molto elevati di crescita dell’economia mondiale.

Ma questo dato medio per il mondo nel suo complesso è il risultato di comportamenti molto diversi in diverse aree geografiche. In particolare, questo è l’andamento delle economie avanzate: vedete che le economie avanzate stanno accumulando un crescente ritardo rispetto all’economia mondiale: questa linea verde si abbassa sempre di più rispetto alla linea azzurra che vi da l’andamento dell’economia mondiale nel suo complesso e che le economie avanzate hanno subito una perdita del PIL, sono scese di parecchio sotto la linea orizzontale; quindi, hanno vissuto una recessione pesante nel corso del 2009 e anche nel 2010 risaliranno la china, ma con maggiore lentezza dell’economia mondiale.

Abbiamo invece, questa linea gialla, delle economie molto dinamiche che stanno crescendo a tassi molto alti e che sono di fatto quelle che stanno trainando sempre di più l’economia mondiale. Sono i mercati  dei paesi emergenti, la Cina, l’India, il Brasile che stanno conoscendo tassi di crescita davvero molto elevati. Vedete comunque la crescente divaricazione nell’andamento della crescita; prima ci si muoveva, se guardate negli anni ’80, in modo molto sincronizzato, le varie linee erano molto vicine tra di loro, negli ultimi anni si è andati a una crescente divaricazione. Abbiamo delle aree del mondo che crescono molto in fretta e delle aree che stentano a crescere e, poi, questa è l’area dell’Euro, e arriviamo all’Italia che è la linea rossa. L’Italia purtroppo è al di sotto di tutte queste: stiamo facendo peggio dei paesi avanzati e chiaramente molto peggio dei paesi emergenti. Ma mentre per il divario tra paesi emergenti e paesi avanzati c’è una ragion d’essere, c’è anche un processo di rincorsa che avviene storicamente tra i paesi che sono più indietro in tema di reddito tendono in qualche modo a rincorrere, a guadagnare posizioni rispetto ai paesi più avanzati, nel caso dell’Italia noi stiamo accumulando ritardi anche rispetto a paesi coi quali eravamo più o meno allo stesso livello di reddito pro capite. Quindi c’è un ritardo nel ritardo, se volete, da parte dell’economia italiana. Comunque, in un quadro, diciamo, di crescenti andamenti divergenti di una economia mondiale che procede a diverse velocità, noi siamo stati sempre indietro.

Qui ci sono i dati sul 2009, sul 2010 e 2011. Siamo stati indietro in un contesto in cui, sulla carta, noi potevamo pensare che l’economia italiana avrebbe fatto meglio di altri paesi avanzati perché l’Italia non è stata investita da crisi bancarie profonde, di grandi banche come quelle che ci sono state non solo negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, in Spagna, in Germania. Inoltre, non abbiamo avuto lo scoppio della bolla immobiliare come quello che è avvenuto in questi stessi paesi e in Irlanda. Quindi, sulla carta, noi avremmo avuto le caratteristiche di un’economia che poteva certo essere influenzata dalla recessione mondiale, che è caduta addosso a tutti e che è partita dai mercati finanziari, ma che la viveva in un modo forse meno drammatico di altri paesi. Noi potevamo prendere come riferimento la Francia, un paese come il nostro che non ha vissuto grandi crisi bancarie e lo scoppio di bolle immobiliari. Ma mentre in Francia il PIL cumulativamente è diminuito, nella recessione del 3%, in Italia il PIL è diminuito cumulativamente del 6,5%, questo a novembre del 2009, poi c’è stata un’ulteriore riduzione. Quindi vedete che nel panorama di questi paesi, l’Italia è quella che ha fatto peggio. L’unico paese che ha fatto leggermente peggio di noi è il Giappone, ma rispetto agli altri paesi investiti direttamente dalla crisi l’Italia ha fatto peggio. Non solo, ma le previsioni per il 2010 e il 2011 per il nostro paese sono delle previsioni che ci fanno guardare al futuro con qualche preoccupazione perché siamo destinati, dopo aver vissuto una perdita così forte, a risalire la china più lentamente degli altri paesi europei.

Intanto noi veniamo da anni di stagnazione perché prima dell’entrata nella crisi l’economia italiana cresceva molto lentamente, crescevamo con un tasso dello zero virgola, quindi il calo di reddito che noi abbiamo vissuto nel 2009 è un calo di reddito che era preceduto da incrementi molto limitati. E ci riporta indietro di molti anni. Il reddito pro capite delle famiglie italiane in questa crisi è tornato ai livelli del 1998-1999. Quindi noi avremmo bisogno, per riguadagnare anche solo il livello di reddito, di benessere precedente alla crisi, di crescere a tassi più elevati, questo non sembrerebbe qualcosa che è destinato ad avvenire nei prossimi anni.

Quindi c’è un problema assoluto, ma c’è un problema anche relativo di posizione dell’Italia. Questo grafico vi fa vedere il reddito pro capite a parità di potere d’acquisto, quindi tenendo conto del potere d’acquisto effettivo che c’è nei diversi paesi: la linea nera è l’Italia, la linea rossa è l’Unione Europea a 15 paesi, quella verde è la zona dell’Euro e quella azzurra è l’Unione Europea a 27paesi. Vedete che l’Italia è stata superata prima dall’Unione Europea a 15, poi dai livelli medi della zona dell’Euro e poi è stata superata in questa recessione anche dall’Unione Europea a 27. Quindi il problema è che l’Italia ha fatto peggio sia nelle fasi di crescita dell’economia mondiale, sia nelle fasi di recessione. Ripeto, non era affatto scontato che l’Italia dovesse far peggio in questa recessione degli altri paesi, eppure anche durante la recessione abbiamo fatto peggio degli altri, quindi siamo stati superati e adesso siamo al di sotto del reddito medio pro capite dell’Unione Europea allargata a 27 paesi, quindi nuovi paesi membri dell’Unione Europea. E secondo le previsioni del Fondo Monetario noi siamo destinati a essere superati, in quanto a reddito pro capite, da paesi come la Slovenia e addirittura la stessa Grecia. Non so se vi ricordate, ma per anni si diceva: fin che ci sarà la Grecia in Europa, l’Italia non sarà mai l’ultima. Rischiamo di non poterlo più dire. Quindi c’è un problema anche relativo di posizione del nostro paese.

Forse è alla luce di questi dati così negativi sulla crescita del PIL, che recentemente il nostro ministro dell’Economia ha cercato di pensare ad altri indicatori: di solito si usa il PIL, il reddito pro capite e ha convocato questa riunione dell’Aspen Institute in cui ha lanciato nuovi indicatori per misurare il benessere delle famiglie italiane. Notate bene, chissà perché sono degli indicatori in cui l’Italia è davvero ai vertici mondiali. Il primo di questi è il numero di automobili per abitante, davvero un indicatore interessante stante l’inquinamento che si respira nelle nostre città, il numero di morti che ci sono su strada. L’Italia è purtroppo il paese europeo in cui ci sono più morti su strada nel tragitto da casa al lavoro e avvengono proprio perché ci sono dei problemi molto seri nella mobilità urbana in particolare e quindi le persone sono costrette a prendere la macchina per andare al lavoro. Spesso muoiono proprio in questi passaggi. Ero ieri proprio a un convegno sulle morti bianche e sugli incidenti sul lavoro, parlavo con quelli dell’INAIL e mi raccontavano appunto che si tratta molto spesso di persone che sono stanche e che si addormentano in macchina, o di incidenti che avvengono perché appunto c’è molto traffico e congestione. Quindi, certamente, non è una cosa di cui andare orgogliosi il fatto che noi abbiamo così tante automobili per abitante.

Un altro indicatore che Tremonti ha proposto è il numero di utenze telefoniche per 1000 abitanti e anche qui certamente gli italiani sono conosciuti per il numero di telefoni, e telefonini in particolare: abbiamo un’intensità molto forte e tra l’altro le tariffe telefoniche sono più alte che negli altri paesi europei. Il problema è che potremmo magari essere contenti se ci fosse qualcuno che in Italia produce dei telefonini, dei cellulari; purtroppo non c’è neanche un’azienda che in Italia li produce, questo forse ci potrebbe dire che abbiamo qualche campanello di allarme.

Infine, l’ultimo indicatore che è stato proposto da Tremonti è la spesa pensionistica in rapporto al PIL, il che è davvero interessante perché vuol dire che una quota importante della spesa pubblica va lì, il che vuol dire tasse più alte, di fatto, che noi dobbiamo pagare, in generale, e poi questo rapporto tra spesa pensionistica e il PIL ci dovrebbe portare a concludere che il 2009 è stato un anno da incorniciare perché, se davvero è questo l’indicatore, il 2009 è stato un anno in cui il PIL è calato e la spesa pensionistica in rapporto al PIL è ulteriormente aumentata. Vedete questo è quello che è successo nel 2009, la spesa pensionistica era al 14%, era già la più alta a livello europeo e nel 2009 è salita oltre il 15%. Quindi davvero, dovremmo, secondo questi nuovi indicazioni che vengono dall’Aspen Institute presieduto dal ministro Tremonti, felicitarci con noi stessi per i grandissimi risultati che abbiamo ottenuto nel corso del 2009. Io penso che sia più prudente, più giusto, e anche una questione diaccountability, di responsabilità dei governi. I governi devono rispondere agli elettori essendo valutati sulle cose su cui si presentano, e quindi non possono cambiare le carte in tavola e quindi proporre nuovi indicatori quando gli indicatori standard vanno male.

Perché deve crescere il PIL, perché siamo così interessati al reddito pro capite, perché l’Italia deve tornare a crescere, perché è importante per tutti noi: innanzitutto, per stabilizzare la spesa pensionistica, se non vogliamo intervenire ulteriormente sulle pensioni e al tempo stesso non vogliamo che le pensioni assorbano una quota crescente delle risorse nazionali bisogna che l’economia cresca. In secondo luogo, per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria: abbiamo un paese che sta invecchiando come certamente sappiamo, la popolazione italiana sta invecchiando, ha bisogno di assistenza sanitaria di qualità, il benessere delle famiglie italiane è molto legato all’assistenza sanitaria, e se noi guardiamo gli indicatori, le indagini sulla felicità degli italiani, sul loro grado di soddisfazione, l’assistenza sanitaria è uno degli aspetti centrali. L’assistenza sanitaria di qualità non può che essere garantita da un’economia che cresce perché ha dei costi questa assistenza sanitaria di qualità, e quindi c’è bisogno di un paese che cresca per fornire un’assistenza sanitaria di livello.

Abbiamo il problema del debito pubblico che, siccome la nostra economia sta arrancando, è salito ulteriormente, è tornato ai livelli del ’92-’93 quando, vi ricordate, eravamo proprio nella crisi di debito più forte. Oggi ciascun lavoratore con meno di 40 anni ha sulle sue spalle 154 mila Euro di debito pubblico da ripagare. Ecco, l’unico modo per ridurre questa montagna, questo onere, è quello di crescere di più, non ci sono alternative. È l’unico modo con cui noi possiamo pagare gli oneri sul debito senza sottrarre risorse ad altre politiche che sono molto importanti per il nostro paese.

Infine, serve per ridurre le tasse. Se vogliamo davvero ridurre la pressione fiscale abbiamo bisogno di crescere di più, perché noi possiamo ipotizzare di riuscire a contenere la crescita della spesa pubblica facendola crescere meno della crescita dell’economia, questo ci da margine per ridurre le tasse, ma se l’economia va male, se l’economia non cresce questo chiaramente non avviene. È indicativo, peraltro, che lo stesso ministro Tremonti, che da una parte proponeva dei nuovi indicatori, dall’altro lato, messo un po’ alle corde e gli si chiedeva ma quando tagli le tasse nel 2010 riforma fiscale, taglio delle tasse, lui ha detto taglierò le tasse quando l’economia comincerà a crescere. Allora la domanda che si poteva porgli era: ma se il PIL è così irrilevante che tu proponi tre diversi indicatori, perché non hai detto che taglierai le tasse quando gli italiani avranno più telefoni cellulari: forse sarebbe stato più coerente con i tuoi indicatori; invece lui giustamente dice: quando crescerà l’economia, perché effettivamente l’economia è particolarmente importante.

E poi è fondamentale che l’economia cresca perché si trovino più opportunità di lavoro per i giovani, soprattutto, e per dare un futuro anche pensionistico ai giovani. Voi sapete, ne parleremo anche fra poco, che le pensioni tra i giovani vengono calcolate ormai in base al metodo contributivo; il metodo contributivo prevede che ogni anno si accantonino delle risorse, una parte del proprio salario viene messa da parte e questa parte del salario viene rivalutata anno per anno in base all’andamento dell’economia: se l’economia cresce di più vuol dire che in futuro io avrò una pensione più alta, se l’economia va male vuol dire essere destinati ad avere delle pensioni molto basse. Poi si aggiunge il problema del mercato del lavoro di cui parleremo fra poco.

Quindi per tutti questi motivi abbiamo bisogno che la nostra economia torni a crescere a tassi sostenuti per farci guadagnare rapidamente il terreno perduto nella crisi e recuperare posizioni rispetto agli altri paesi, perché no, e soprattutto dare un futuro al nostro paese. Però noi dobbiamo tornare a crescere in un panorama internazionale che, come vi dicevo all’inizio, è tale da avere delle differenze significative fra le diverse aree del mondo. I paesi asiatici emergenti crescono a tassi dell’8,3%, i paesi in via di sviluppo (l’Africa) al 6,1%, il mondo nel suo complesso al 4%, i paesi ad alto reddito al 2%, l’Italia è più a sinistra di tutti questi. Ecco se noi riuscissimo almeno a tornare al 2%, e quindi di avvicinarci agli altri paesi, sarebbe una gran bella cosa. Quindi, il nostro obiettivo deve essere quello: ogni politica economica, seria, in Italia deve porsi l’obiettivo di farci tornare almeno a quei livelli.

C’è un problema di consumi interni, ma il modo forse più evidente per agganciare il fatto che ci sono dei paesi fuori che crescono molto di più è aumentare le nostre esportazioni, cioè riuscire a essere in grado di soddisfare questa forte domanda che viene alimentata dalla crescita dei paesi emergenti. Purtroppo, la struttura attuale del nostro export non è tale da favorire questo perché noi stiamo esportando in aree del mondo che sono meno dinamiche e facciamo fatica a penetrare quei mercati che si stanno ingrandendo più rapidamente; quindi, se vogliamo crescere di più ed essere trainati anche dalle nostre esportazioni, abbiamo bisogno di dirigere le nostre esportazioni verso questi nuovi mercati che stanno crescendo in modo così rapido. Oggi il 60% dei beni prodotti in Italia ed esportati rimane nell’ambito dell’Unione Europea, soprattutto in Germania e Francia. Se Germania e Francia vanno bene, le cose vanno bene anche per noi, tuttavia, in generale, l’unione Europea cresce molto meno di quanto non crescano altre aree del mondo, come vi dicevo prima. Il 7% delle nostre esportazioni va nell’America del Nord che è cresciuta in modo abbastanza forte negli anni passati ma è una previsione abbastanza facile, nonostante che l’economia americana stia reggendo dal punto di vista del PIL molto bene alla crisi (i dati di ieri erano superiori alle aspettativa), tuttavia non appare essere trainante come in passato perché certamente ha dei problemi molto seri strutturali che devono essere affrontati, ha degli squilibri interni per cui probabilmente l’economia degli Stati Uniti non crescerà con gli stessi tassi precedenti alla crisi nei prossimi anni. Solo il 7% delle nostre esportazioni, quindi esattamente la stessa quota che oggi va agli Stati Uniti, al Nord America, va verso l’Asia che invece è l’area più dinamica del mondo in questo momento. Chiaramente, l’obiettivo che noi dobbiamo porci è quello di aumentare la nostra penetrazione in quei mercati e poi dovremmo cercare soprattutto di entrare, il che è più facile anche per vicinanza geografica, nei mercati del Nord Africa e del Medio Oriente; anche questi crescono a dei tassi molto elevati, però purtroppo anche qui il livello delle nostre esportazioni è molto basso.

Come fare per spostarci di più verso questi settori? Dobbiamo cercare di cambiare la specializzazione produttiva del nostro paese tornando a essere competitivi. Sin qui abbiamo cercato di competere in termini di basso costo del lavoro, ma questa è una strada che non ci porta da nessuna parte perché le condizioni di costo del lavoro in questi paesi sono per noi irraggiungibili e, devo dire, che già questo tipo di competizione ha portato davvero a dei fenomeni di marginalità, di sfruttamento del lavoro molto pesanti all’interno del nostro paese, di cui poi parleremo. Non parlerò oggi tanto di immigrazione, magari nella discussione poi ci torniamo, perché ci sono delle cose, di cui parlavamo proprio ieri a Bologna, che sono molto interessanti sul modo con cui l’immigrazione clandestina è stata utilizzata negli ultimi 10 anni in Italia per contenere e abbassare il costo del lavoro. Ma è una strada che, a mio giudizio, non ci porta da nessuna parte, oltre che a creare tensioni sociali, a essere iniqua e quant’altro.

L’unico modo davvero per cercare di penetrare di più in questi mercati è quello che un po’ è stato fatto anche in Germania, cioè spostare le produzioni verso attività a più alto utilizzo di capitale umano, perché su questo invece possiamo competere perché abbiamo chiaramente competenze che possiamo sfruttare, dobbiamo certamente attrarre talenti. Proprio una scelta diversa da quella che viene seguita: c’è chi oggi, di fatto, pensa che bisogna tornare al passato, ha molta nostalgia del piccolo mondo antico, o addirittura che in qualche modo ritiene che sia sbagliato investire nel capitale umano: durante le recessioni normalmente si investe di più nel capitale umano, i tassi di scolarizzazione tendono ad aumentare in tutti i paesi. L’Italia mi sembra che stia facendo la scelta opposta, soprattutto i messaggi che vengono dati, i messaggi che sono stati dati anche questa settimana con la riduzione di fatto dell’obbligo scolastico, messaggio che va esattamente nella direzione opposta.

Intanto, se mi lasciate dire una cosa a questo riguardo: si è detto che c’è un problema di dispersione scolastica, è vero ci sono molti studenti che non finiscono la scuola. Ma è giusto in qualche modo dare a un quattordicenne la responsabilità di scegliere se davvero lui non vuole più studiare. Io non so se a quell’età si ha davvero la consapevolezza del fatto che le proprie competenze, le proprie esigenze, si ha già un quadro già preciso di quello che si vuol fare nel resto della propria vita professionale per cui dargli la possibilità di uscire dalla scuola così presto, a mio giudizio, soprattutto va in controtendenza rispetto a quello che avviene nel resto del mondo, non mi sembra una scelta oculata e lungimirante. Noi dovremmo muoverci esattamente nella direzione opposta, quella di potenziare il capitale umano. È davvero fondamentale. E certamente, ci vorrà del tempo perché la riforma del sistema dell’istruzione, l’aumento della scolarità sono processi che richiedono un certo tempo. Ma una cosa che noi possiamo cominciare a fare comunque fin da subito è quella di cercare di attrarre dei talenti dall’estero. Siccome sta cambiando la geografia dell’economia mondiale, siccome abbiamo dei paesi che in passato attraevano moltissimi talenti che oggi soffrono e sono in difficoltà (pensiamo agli Stati Uniti), bene, noi potremmo cercare di attrarre più talenti in Italia e davvero ne abbiamo bisogno perché noi abbiamo una classe dirigente, dal punto di vista dei manager, delle imprese, che spesso non è di grande livello. Il livello di istruzione medio dei manager delle nostre imprese è basso. Abbiamo davvero difficoltà ad attrarre e a valorizzare talenti a questo riguardo.

Bene. Il capitale umano è la risorsa chiave: lo dimostra per esempio il fatto che se noi guardiamo nel corso del tempo, il premio per l’istruzione nei paesi avanzati è aumentato. Queste sono le differenze salariali tra chi ha un titolo di studio universitario o superiore e chi invece ha un titolo di studio secondario: vedete che nel corso del tempo, c’è stato un periodo che non era così, questi erano gli anni ’70 erano gli anni del forte egualitarismo, della compressione salariale, ma successivamente questi premi salariali sono aumentati fortemente nel corso del tempo. Questo ci sta a dire che, probabilmente, la parte più dinamica dell’economia, cioè le spinte all’espansione, la domanda di lavoro, tende sempre di più a orientarsi verso i lavori più qualificati e quindi ad alimentare una domanda crescente di persone che hanno titoli di studio superiori. Come lo spieghiamo? Lo spieghiamo col fatto che c’è stato un aumento della domanda di lavoratori qualificati e l’offerta di lavoratori qualificati stenta in qualche modo a tenere il passo con la domanda. Quindi, se noi vogliamo davvero beneficiare di questa domanda crescente, se vogliamo davvero creare nuove opportunità di lavoro, se vogliamo soprattutto creare nuove opportunità di crescita, abbiamo bisogno di avere più manodopera istruita, quindi investire nel capitale umano nel nostro paese.

E questo mi porta al tema successivo di cui vorrei parlare che è proprio quello legato alle prospettive dei giovani nel nostro paese e alle riforme necessarie da fare. Però con questa premessa generale, cioè che l’Italia per riuscire a competere meglio e a riguadagnare posizioni e a tornare a crescere ha bisogno di più capitale umano.

La crisi ha messo in luce il fatto che in Italia c’è una situazione di grave squilibrio a svantaggio dei giovani, quindi se il titolo del mio libro è La crisi non è uguale per tutti, devo dire che alla domanda chi paga di più la crisi, chi ha pagato di più la crisi, la risposta immediata è: i giovani, sono i giovani. Lo sapevamo già prima di entrare nella crisi che i giovani erano in una situazione svantaggiata, ma la crisi ha messo in luce ancora di più, in modo più drammatico, la situazione di svantaggio relativo dei giovani all’interno del nostro paese.

Quindi vorrei soltanto darvi i dati che documentano questo con anche l’evoluzione della crisi. Questo è il rischio di povertà, quindi la percentuale di persone povere in un dato gruppo di popolazione rispetto al tasso di povertà medio della popolazione italiana. Vedete la linea orizzontale 1 vi dice che quel gruppo ha la stessa probabilità di essere povero dell’italiano medio. Vedete, lo ricordava anche prima nell’introduzione Sartini, che i disoccupati hanno una probabilità molto più alta del 12%, 12 volte più probabile di essere poveri i disoccupati del cittadino medio. È comprensibile che i disoccupati abbiano un rischio maggiore, però una sproporzione così forte deriva dal fatto che noi abbiamo poca assistenza per i disoccupati. L’Italia ha un sistema di protezione sociale che ignora moltissimo i disoccupati che non accedono, che non hanno alcun tipo di aiuto. Potremmo ridurre significativamente quel tasso di povertà dei disoccupati.

La seconda cosa da notare da questo grafico è che le altre grosse vittime della povertà in Italia sono i lavoratori atipici, a termine e interinali. E poi sono i giovani e, soprattutto le famiglie con dei figli minori, che sono relativamente giovani all’interno del nostro paese. Sono queste le categorie che hanno maggiore rischio di povertà oggi in Italia, quindi tra di loro c’è il rischio maggiore di disoccupazione. Quindi se la risposta è di povertà, la risposta alla domanda di quanto aumenta il rischio di essere povero tra i disoccupati e i lavoratori duali, cioè lavoratori che hanno contratti temporanei, per i lavoratori duali la probabilità è 4 volte superiore alla media, 4 volte più probabile per loro di essere poveri che per l’italiano medio e per i disoccupati 12 volte la media.

Seconda domanda che può essere utile porci per capire la situazione relativa dei giovani oggi in Italia è quanto più probabile essere disoccupato tra i giovani rispetto agli altri: questo è il rapporto tra il tasso di disoccupazione giovanile, cioè di persone che hanno meno di 25 anni e il totale nel luglio del 2009. Vedete che la probabilità è superiore a 3, quindi i giovani hanno 3 volte la probabilità di essere disoccupati rispetto al resto della popolazione. E purtroppo questa situazione di svantaggio relativo dei giovani è più forte in Italia che negli altri paesi dell’Unione Europea. Perché l’Italia è l’istogramma rosso in questo grafico, gli altri paesi dell’Unione Europea a 27 sono a destra, tutti a destra dell’Italia. I giovani hanno ovunque una probabilità maggiore di essere disoccupati del resto della popolazione, soprattutto questo avviene anche durante le recessioni; la situazione relativa dei giovani tende a peggiorare perché ci sono meno assunzioni, i datori di lavoro reagiscono alle difficoltà, prima di licenziare congelano le assunzioni e questo mette i giovani che devono entrare nel mercato del lavoro in una situazione di particolare disagio e difficoltà. Ma l’Italia in questo si distanzia dagli altri in quanto è un paese in cui i giovani sono in una situazione più difficile che altrove.

Purtroppo, questa cosa è peggiorata ulteriormente durante la recessione in Italia, diciamo, questa differenza relativa: questo è il modo con cui è cambiato il rapporto tra la disoccupazione per chi ha meno di 25 anni e la disoccupazione totale in Italia nel 2008-2009, e vedete che l’Italia ha fatto peggio degli altri paesi; alcuni paesi sono riusciti addirittura a migliorare leggermente questo rapporto, a ridurre la concentrazione della disoccupazione tra i più giovani. In Italia invece è avvenuta una situazione diversa ed è peggiore di quella della crisi del ’92-’93: vedete la linea rossa è il livello del 2009, quello che vi ho fatto vedere nel grafico precedente, l’istogramma azzurro vi fa vedere che cosa era successo nella crisi del ’92-93. Perché la situazione è peggiore oggi della grande crisi precedente, quella del ’93? Perché questa volta, oltre ad avere quel meccanismo che vi dicevo prima, e cioè il congelamento delle assunzioni, di fatto c’è stato un nuovo fenomeno, che è quello del licenziamento dei lavoratori precari. Cioè, i giovani si trovano oggi in una condizione negativa e svantaggiata rispetto al resto della popolazione non soltanto perché hanno trovato di fronte a loro la porta sbarrata di ingresso al mercato del lavoro, ma anche perché molti di loro hanno perso il lavoro, perché avevano dei contratti temporanei e quindi sono stati i primi a essere licenziati.

Non è tra l’altro un fenomeno legato alla demografia. Al contrario. Cioè uno potrebbe pensare che i giovani in Italia sono tanti, sono tanti che entrano nel mercato del lavoro e queste coorti molto grosse si trovano di fronte a una situazione di difficoltà dell’economia e quindi non riescono in qualche modo a entrare nel mercato e questo porta ad aumentare i numeri della disoccupazione giovanile. Non è così, le coorti in ingresso nel mercato del lavoro in Italia sono tra le più basse a livello europeo perché in effetti, come sappiamo, c’è stato un declino molto forte della fertilità, sono passati gli anni del baby boom e quindi non è certo un fenomeno di tipo demografico. Vedete, l’Italia è proprio qui a destra.

Il problema, come dicevo prima, non è soltanto il blocco delle assunzioni ma il fatto che i giovani oggi perdono il lavoro: questi sono i dati delle forze lavoro da aprile 2008 a settembre 2009, ieri sono usciti ulteriori dati ma purtroppo non danno questa disaggregazione, voi sapete che la disoccupazione italiana è tornata sopra i 2 milioni e questa era appunto una delle facili previsioni che venivano fatte nel libro, che avevo scritto nel settembre 2008, cioè che la disoccupazione italiana sarebbe tornata probabilmente sopra i 2 milioni, comunque le perdite di posti di lavoro sono state concentrate tutte tra i lavoratori cosiddetti duali: i contratti a tempo determinato meno 257mila, i contratti a progetto meno 42mila, il lavoro autonomo, che sono molte partite IVA che in realtà è para-subordinato, lavoro alle dipendenze, che di fatto è lavoro alle dipendenze, anche se viene mascherato da lavoro autonomo, meno 385mila; e poi appunto le assunzioni che sono crollate di circa il 30%. Questo spiega il peggioramento della disoccupazione tra i giovani che è passata dal 18 al 27% durante la crisi.

Si dice spesso che la disoccupazione giovanile è un problema relativamente secondario, che è molto meglio avere disoccupazione tra i giovani che nella popolazione adulta. Non c’è dubbio che perdere il lavoro a 50 anni comporta difficoltà maggiori che perderlo a 24 anni. A 50 anni è molto più difficile tornare nel mercato del lavoro, ma vorrei che non si trascurasse il fatto che anche la disoccupazione giovanile ha dei costi che non sono assolutamente transitori. Ci sono molti studi che documentano episodi di disoccupazione vissuti nella fase iniziale della propria carriera lavorativa che tendono ad avere degli effetti persistenti. Sono effetti persistenti sulla carriera lavorativa, ci sono studi che documentano che uno a quel punto ha una carriera lavorativa molto più difficile, soggetta a molti più periodi di disoccupazione, salari sistematicamente più bassi, si perde fiducia, si perdono motivazioni, si perde anche parte del proprio capitale umano. Addirittura degli studi che documentano il fatto che ci sarebbero effetti sulla salute delle persone legate al fatto di aver vissuto dei periodi di disoccupazioni intense. Soprattutto, se la disoccupazione viene vissuta in modo molto duro. E la disoccupazione vissuta in modo duro è la disoccupazione non assistita, in cui non interviene l’aiuto dello stato, non hai un sussidio di disoccupazione che permetterebbe comunque di mantenere il tuo standard di vita mentre cerchi un lavoro alternativo.

Purtroppo in Italia noi abbiamo questa situazione: i lavoratori precari che perdono il lavoro non hanno alcun tipo di aiuto dallo stato. Quindi parliamo di questo problema del dualismo e poi delle strategie per uscire dal dualismo. Questi sono dati che voi conoscete bene, come oggi si entra nel mercato del lavoro per chi ha meno di 40 anni. Si entra soltanto praticamente in questi nuovi contratti, i contratti a tempo indeterminato vengono offerti soltanto al 30% delle persone assunte, nel 70% dei casi uno riceve un contratto a tempo determinato o dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa nel pubblico, oppure a progetto nel privato, oppure ci sono tutte queste situazioni, diciamo, di fatto di dipendenza che però sono definite come forme di lavoro autonomo e varie forme di lavoro autonomo a partita Iva che in realtà celano situazioni di lavoro alle dipendenze. Una volta entrati con questi contratti è molto difficile passare al contratto, diciamo, di base, quello a tempo indeterminato. Queste sono probabilità di passare attraverso diverse figure di lavoro contrattuale: vedete che un lavoratore che entra con un contratto di lavoro a tempo determinato ha circa il 10% di probabilità di vedere il proprio contratto trasformato in un contratto a tempo indeterminato in un anno. Quindi uno su 10 ci riesce e vedete anche qui a destra, che questi lavoratori che hanno un contratto a tempo determinato hanno una probabilità di perdere il lavoro, di diventare disoccupati che è circa 8 volte quella dei lavoratori che hanno dei contratti a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda invece i lavoratori che hanno appunto questi contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la probabilità di vedere il proprio contratto trasformato in contratto a tempo indeterminato è di circa il 5%, quindi uno su 20 riesce in questa operazione. Anche qui abbiamo una probabilità di perdere il lavoro molto più alta che per le altre figure contrattuali.

Quindi, di fatto, questo è il problema del dualismo: non è un semplice canale di ingresso nel mercato del lavoro, poi da lì io facilmente accedo al mercato del lavoro primario fatto di contratti a tempo indeterminato, purtroppo è una situazione cronica per molti, in cui uno rimane per molto tempo. Si può dire: se comunque io sono pagato bene, posso mettere da parte delle risorse per potere in qualche modo trovare delle forme assicurative, proteggermi contro il fatto che ho dei lavori più flessibili. È chiaro che se la flessibilità si accompagna a dei salari più alti, uno può compensare questo rischio maggiore investendo o trovando dei modi per tutelarsi da questo rischio. Purtroppo però i lavoratori che entrano con questi contratti hanno salari più bassi degli altri, i lavoratori con contratto a tempo determinato guadagnano in media 350 Euro in meno di chi ha un contratto a tempo indeterminato, tenendo conto delle differenze di età, genere e livello di istruzione, perché ci può essere anche un aspetto di composizione che può incidere su questi divari, ma noi controlliamo per tutte queste differenze la differenza di circa il 25%. Ciò vuol dire che un contratto temporaneo guadagna a parità di altre condizioni un quarto di meno di chi fa il contratto senza limiti di tempo. Ma la questione è principalmente di potere contrattuale: siccome io sono più debole, posso essere licenziato più facilmente, ho meno possibilità di potere ottenere dei salari più alti, almeno al pari degli altri lavoratori. Quindi questo concentra davvero un rischio su questi lavoratori che hanno più rischi di perdere il posto di lavoro, sono pagati di meno e hanno anche meno possibilità di tutelarsi contro il rischio di perdere il proprio posto di lavoro.

Si introduce un altro aspetto molto pesante che è legato alla formazione, perché nel mercato del lavoro odierno, come dicevo prima, la cosa cruciale è il capitale umano. Se il datore di lavoro investe nel capitale umano di un proprio dipendente, quindi gli da formazione, il lavoratore beneficia di una formazione in azienda, questo lo rende molto meno vulnerabile a degli eventi negativi che possono prodursi nell’impresa. Il datore di lavoro che dovesse decidere di ridurre gli organici ci penserà non una ma 10 volte prima di licenziare un lavoratore che ha già investito nella formazione, perché vuol dire che dovrebbe trovare in futuro un altro lavoratore, investire nella formazione di quest’altro lavoratore, e così via. È come dire, insomma, che si mette a buttar via un investimento che ha già fatto nella formazione. Normalmente, quello che avviene è che i giovani sono le persone su cui si investe di più nell’azienda in formazione perché poi ripagheranno questo investimento nell’intero arco della vita lavorativa.

Quello che succede con questo dualismo nel mercato del lavoro è che purtroppo i lavoratori che entrano con questi contratti a termine ricevono meno formazione degli altri lavoratori e quindi questo li espone ulteriormente al rischio di perdere il posto di lavoro. Perché questo avviene? Avviene perché i datori di lavoro sanno che questi lavoratori sono una specie di valvola di sfogo, non sono lavoratori su cui noi possiamo investire per una relazione di lungo termine. Però questo fa sì che questa idea diventi come una profezia che si autorealizza perché effettivamente quando le cose vanno male sono i primi a perdere il posto di lavoro, come si è visto in questa recessione.

Ci sono anche problemi dal lato degli incentivi del lavoratore a investire in formazione che vengono ridotti, perché questo è il premio dell’istruzione. Vi dicevo prima che chi investe in istruzione viene ripagato sempre di più dal mercato oggi, quindi l’investimento in istruzione è fondamentale. Però i contratti temporanei danno un premio molto minore all’istruzione dei contratti a tempo indeterminato.

Poi ci sono premi a più anni di istruzione se uno ha un contratto a tempo indeterminato, quindi sono gli stessi premi se uno ha un contratto a tempo determinato: vedete sono molto minori. Quindi se un giovane oggi deve decidere se studiare di più, il che gli comporta dei costi perché c’è l’iscrizione all’università e soprattutto c’è la rinuncia al fatto di lavorare e di avere un reddito, e sa che di fronte a lui ha un futuro da lavoratore a termine, probabilmente l’investimento che deve fare oggi per investire in istruzione è un investimento troppo elevato in rapporto ai benefici che ne ricaverà. Se invece potesse accedere al mercato del lavoro primario e quindi avere un contratto a tempo indeterminato probabilmente quell’investimento lo farebbe perché saprebbe che questo investimento gli darà dei benefici in futuro in termini di rendimenti del proprio investimento, molto divario, diciamo, di differenza salariale rispetto a quanto avrebbe guadagnato senza fare quell’investimento, molto più forte. Quindi c’è anche un problema di questo tipo, che il mercato duale, il dualismo nel mercato del lavoro, disincentiva anche il lavoratore stesso dall’investire in formazione.

Poi c’è un ultimo aspetto cui bisogna pensare oggi: sappiamo che la lungimiranza è qualcosa che difetta nella nostra classe politica, e invece bisogna pensare oggi alle pensioni future dei giovani, a chi oggi entra nel mercato del lavoro perché abbiamo cambiato le regole delle pensioni, siamo in un sistema contributivo, è giusto che siamo passati a questo sistema perché è sostenibile nel corso del tempo, ma questo rende molto importante proprio i salari iniziali che si hanno nei primi anni di lavoro. Allora queste sono delle simulazioni di quella che sarà la pensione di un giovane che inizia a lavorare a 25 anni, inizia con la modalità oggi dominante, con un contratto a progetto, lavora tre anni con un contratto a progetto, poi a 29 anni diventa disoccupato, perde il lavoro, poi rientra nel mercato del lavoro questa volta con un contratto a tempo determinato, quindi una situazione leggermente migliore rispetto della precedente; poi a 31 anni perde nuovamente il lavoro e riprende a lavorare in seguito ancora con un contratto a tempo determinato e finalmente a 35 anni vede il proprio contratto trasformato in un contratto a tempo indeterminato. È nella linea di quello che succede nelle carriere lavorative dei giovani. Questa linea rossa vi fa vedere l’andamento dei salari che percepisce e a fronte di questi salari ci saranno dei contributi previdenziali che vengono versati. I lavoratori che hanno contratti a termine o che hanno collaborazioni coordinate o continuative negli anni in cui perdono il lavoro non versano i contributi, né c’è lo stato che li versa per loro contrariamente a quanto avviene per gli altri lavoratori per i quali ci sono i contributi cosiddetti figurativi versati dallo stato.

Ecco questa è invece quella che sarebbe la carriera lavorativa, il salario e anche i contributi previdenziali di un lavoratore che entrasse fin da subito nel mercato primario. Pur ipotizzando che partano allo stesso salario di 800 Euro al mese (in realtà noi sappiamo che chi entra con un contratto a tempo indeterminato parte più alto di chi ha un contratto a termine, ma abbiamo voluto ridurre il più possibile le differenze fra i due scenari), vedete che il fatto di entrare diciamo dalla porta sbagliata, cioè dal mercato duale anziché dal mercato primario, comporta il fatto che il lavoratore avrà alla fine della sua carriera lavorativa una pensione che sarà del 30% inferiore a quella di un lavoratore che invece è entrato dal mercato primario. Questo è un problema serissimo che oggi si sottovaluta, ma il dualismo del mercato del lavoro comporta il fatto che avremo molti giovani che arriveranno all’età di pensionamento con pensioni molto basse perché contano tantissimo i salari nella prima fase lavorativa e se ci sono delle discontinuità di carriera, dei periodi in cui uno non paga i contributi perché perde il lavoro, questo si rifletterà in pensioni significativamente più basse.

Questo per dirvi la situazione e perché è così importante intervenire sui giovani e questo, tra l’altro, motiva la gravità della situazione giovanile oggi nella crisi e quello che dicevo all’inizio sull’importanza del capitale umano legittima ulteriormente l’intervento perché sono proprio i giovani oggi che possono darci quella spinta in più anche per risalire, per riprendere, per recuperare il terreno perduto nella recessione e nella stagnazione che ha preceduto la recessione.

Passiamo a questo punto alle proposte perché su questo vorrei chiudere soprattutto per avere le vostre reazioni. Sono tre le riforme che a mio giudizio sono fondamentali da fare nel nostro mercato del lavoro, tre riforme su cui da anni lavoro e ho lavorato molto anche con Pietro Garibaldi dell’Università di Torino.

La prima riforma riguarda il processo di ingresso nel mercato del lavoro: l’idea è di costituire un contratto a tempo indeterminato a tutte le progressive, cioè di far sì che l’ingresso dominante oggi dall’essere un contratto a termine, cioè un contratto che non ha scadenza diventi un contratto invece che non ha una scadenza, ma conceda una certa flessibilità all’ingresso al datore di lavoro onde incentivare a usare questa figura contrattuale piuttosto che i contratti a termine o del parasubordinato.

Seconda cosa da fare è quella di istituire dei minimi salariali perché abbiamo davvero delle fasce di lavoro che non sono minimamente coperte dall’iniziativa del sindacato, che hanno dei salari orari che sono inferiori ai 5 Euro: parliamo degli immigrati e parliamo anche di molti giovani con questi lavori nel parasubordinato.

Poi dobbiamo pensare anche ai processi di uscita dal mercato del lavoro, quindi gli ammortizzatori sociali cercando di dare una copertura a questi lavoratori che altrimenti sarebbero discriminati due volte, primo come lavoratori che sono soggetti a una maggiore probabilità di perdere il posto di lavoro, secondo in quanto disoccupati che non ricevono aiuto dallo stato a differenza degli altri disoccupati.

Qual è la filosofia generale? Quella di definire degli standard minimi che devono essere applicati a tutti, quindi dovremmo lavorare sui minimi. Questo è un’operazione che in Italia non è mai stata fatta, di fatto, perché sono stati creati tanti istituti, ma creando degli istituti differenziati a seconda delle categorie, molto spesso a seconda del potere contrattuale, senza pensare ai minimi universali. Quindi è una filosofia molto diversa da quella seguita fin qui: dobbiamo concentrarci su quei minimi e definire molto bene questi minimi e far sì che siano applicabili e vengano attuati. Poi certamente, se altri vogliono costruire altro su quei minimi, questo è ovviamente legittimo, sono solo dei minimi, non sono dei massimi. Ma la prima cosa a cui pensare è proprio definire questi minimi.

Qual è l’idea fondamentale del contratto unico a tutele progressive? È quello che bisogna dare una certa flessibilità alle imprese in entrata per non ridurre quelli che sono stati comunque i benefici della flessibilità introdotta nel nostro mercato del lavoro negli ultimi 15 anni. C’è stato un incremento nella creazione di posti di lavoro dal ’95 a prima della recessione e noi non vogliamo toglierci questo lato positivo della flessibilità anche perché uscendo da una recessione così dura vogliamo rapidamente ricostruire opportunità di lavoro, posti di lavoro per i giovani. Al tempo stesso non vogliamo riprodurre dualismo, cioè far sì che questi lavoratori vengano segregati.

Allora, l’idea è quella di usare una certa flessibilità in ingresso senza però dare degli orizzonti brevi alla relazione di lavoro; vogliamo che il contratto inizi subito con un contratto a tempo indeterminato e senza una scadenza ma che permetta nella fase iniziale al datore di lavoro una certa flessibilità nel guardare alle qualità del dipendente, testare davvero il dipendente, perché la cosa che in passato scoraggiava il datore di lavoro ad assumere era il fatto che doveva prendere subito un impegno di lungo periodo con un lavoratore che magari non conosceva. Vogliamo invece avere questa fase di ingresso che crea progressivamente delle tutele maggiori, queste tutele si rafforzano nel corso del tempo anche perché in questo periodo, presumibilmente, ci sarà formazione e quindi una volta che c’è stato l’investimento in formazione, a quel punto il vero costo per il datore di lavoro di licenziare quel lavoratore è legato al fatto che deve privarsi di una persona sul cui capitale umano ha già investito.

Quindi l’idea è proprio questa: dobbiamo avere questa flessibilità in ingresso, i contratti temporanei devono invece diventare dalla regola l’eccezione e l’eccezione che serve a coprire quei casi, che sono relativamente limitati, in cui ci sono delle prestazioni genuinamente temporanee, cioè persone con lavori stagionali, alberghiero, turismo ma anche nella ricerca: ci sono per esempio degli studenti che si laureano e hanno 9 mesi prima di andare a studiare all’estero e quindi sono veramente delle prestazioni temporanee, e allora lì la figura del contratto temporaneo ha una ragione d’essere, ma chiaramente è stata abusata in Italia. Insomma, il 70% delle assunzioni lì vuol dire che ci sono cose che non funzionano.

Vogliamo regolamentare anche queste altre figure contrattuali in modo tale che siano davvero delle figure contrattuali che vengono usate nelle eccezioni e non nella regola e che soprattutto diano la possibilità a chi è in quelle condizioni di potersi tutelare, e quindi se vuoi maggiore flessibilità, temporaneità, eccetera, allora devi pagare anche dei salari più alti.

Passiamo a descrivere come sarebbe il contratto unico a tempo indeterminato. Sarebbe un contratto che inizia subito, ripeto, con un contratto a tempo indeterminato che ha 2 fasi: una fase di inserimento in cui il lavoratore gode della tutela obbligatoria, questo indipendentemente dalla dimensione dell’impresa, per cui l’interruzione del rapporto di lavoro prima della fine del terzo anno senza giusta causa richiede il pagamento di una indennità al lavoratore che sale fino a 6 mesi di indennità al termine dei 3 anni. Una crescita progressiva, diciamo, 15 giorni ogni 3 mesi, oppure 5 giorni ogni mese. Deve essere proprio una cosa continua dove non ci sono delle forti discontinuità. Poi una volta che si passa oltre i 3 anni si passa a tutti gli effetti nella normativa attuale.

Questo è un grafico che vi fa vedere esattamente quello che dicevo: tutele che crescono a scalini, progressivamente, per cui il datore di lavoro che assume non ha problemi a offrire un contratto a tempo indeterminato perché sa che ha 3 anni di tempo in cui può comunque, a fronte del pagamento di un costo che però è in qualche modo prevedibile e ben definito, correre il rischio di prendere un lavoratore e definire un contratto a tempo indeterminato senza dovere immediatamente vincolarsi a doverlo tenere per tutta la vita. Se la cosa funziona, il lavoratore ha gli incentivi giusti in questo caso per investire in quella relazione di lavoro, per impegnarsi, per dimostrare che è adatto a quel tipo di mansioni, il datore di lavoro si convince di questo, investe nel capitale umano del lavoratore, a quel punto poi, il fatto che dopo 3 anni si passa alle protezioni forti previste dalla normativa attuale non è un deterrente per le assunzioni, tanto che i costi a quel punto sono i costi che vorrebbero dire privarsi di un lavoratore in cui si è investito nella formazione.

Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato bisogna regolamentarli in modo tale che siano, ripeto, l’eccezione: stagionali o sostituzione temporanea di lavoratori che, appunto, temporaneamente non possono prestare il loro servizio in azienda. L’altra possibilità è pagare dei salari più alti: se io voglio assumere con contratto a tempo determinato devo pagare dei salari più alti, perché devo dare il modo al lavoratore di tutelarsi di fronte al rischio di perdere in futuro il posto di lavoro.

Chiaramente, non deve essere possibile assumere prima con un contratto a tempo determinato poi passare al contratto a tempo indeterminato, a tutele progressive e quindi allungando di fatto questa fase di inserimento artatamente: chi assume con un contratto a tempo determinato e poi passa a un contratto a tempo indeterminato, chiaramente il periodo fatto come contratto a tempo determinato gli va scontato dal periodo di inserimento. Inoltre chi assume con un contratto a tempo determinato deve pagare dei contributi per la disoccupazione più alti degli altri, perché è più probabile che quel lavoratore finisca in disoccupazione e quindi non deve scaricare questi costi sulla collettività.

Quindi, l’idea fondamentalmente è che i contratti a tempo determinato vanno utilizzati per prestazioni effettivamente a termine. Un discorso simile si applica per il parasubordinato. Nel caso in cui ci sia una mono-committenza, quindi di fatto una relazione alle dipendenze, può essere consentito soltanto a fronte di retribuzioni molto alte, altrimenti l’unico contratto possibile deve essere il contratto unico a tempo indeterminato a tutele progressive. Anche qui l’idea è quella che se si paga molto il dipendente, il dipendente ha la possibilità di tutelarsi dal punto di vista della disoccupazione e può costruirsi delle sue forme assicurative; se invece lo pago poco chiaramente quella formulazione lì non è più consentita. I contributi previdenziali devono anche essere progressivamente allineati a quelli del lavoro dipendente in queste figure contrattuali, perché il parasubordinato, voi sapete, è anche un modo di risparmiare sui contributi previdenziali ma data la situazione grave per le pensioni dei giovani noi dobbiamo pensare a questo problema e non c’è nessuna ragione per cui dobbiamo differenziare le aliquote contributive tra diverse tipologie di lavoro.

Salario minimo: bisogna anche qui intervenire sui minimi, bisognerebbe introdurre un salario minimo con orario, con aggiustamenti automatici, magari per età, inizialmente. Esistono queste differenziazioni aggiornate sulla base delle osservazioni della Commissione sui bassi salari. Questa è una cosa fondamentale da fare, anche per gli immigrati perché tra gli immigrati ci sono tantissime componenti che hanno salari al di sotto dei 5 Euro. Ma anche nel parasubordinato spesso il pagamento è al di sotto dei 5 Euro.

Infine, intervenire sugli ammortizzatori sociali perché appunto noi abbiamo questo problema della bassa copertura dei sussidi di disoccupazione in Italia: solo circa il 10% dei disoccupati è coperto in Italia e questo avviene perché chi è a contratto a tempo indeterminato ed è in segmenti in grandi imprese, soprattutto nell’industria, è assistito con il circuito cassa integrazione/indennità di mobilità; chi invece è nella piccola impresa e soprattutto chi è con dei contratti temporanei, ha poco aiuto perché i sussidi ordinari di disoccupazione durano molto poco e sono anche molto bassi, oppure non riceve del tutto assistenza. Abbiamo questa situazione, dalla quale siamo anche partiti, la disoccupazione in Italia comporta povertà molto di più che in altri paesi. Quindi anche questa è un’altra riforma da fare e nell’introduzione si parlava appunto del fatto che è una tesi che ho sostenuto il più possibile, cioè che bisognava approfittare delle recessione per fare questa riforma dei sussidi di disoccupazione, definendo delle regole uguali per tutti, superando questo fatto che abbiamo disoccupati di serie A e di serie B. Non c’è nessuna ragione per differenziare le coperture, ci vogliono coperture molto più generalizzate ed estese soprattutto a chi ha maggiore probabilità di perdere il posto di lavoro. Anche questa è una riforma a mio giudizio fondamentale che va fatta, anche perché ci permetterebbe di vivere questo inevitabile processo di cambiamento della specializzazione produttiva del nostro paese in modo meno doloroso, con dei costi sociali minori.

Chiudo dicendo un’ultima cosa. Forse una domanda legittima che voi vi ponete è perché insisto così tanto sulla necessità di cambiare le regole di ingresso nel mercato del lavoro durante una crisi o in una fase in cui la disoccupazione sta aumentando; quando la disoccupazione aumenta uno dovrebbe pensare soprattutto ai sussidi di disoccupazione. Pensiamo ai sussidi di disoccupazione ma pensiamo anche ai percorsi di ingresso: la cosa più probabile che avverrà nei prossimi anni è che avremo una situazione di grande incertezza in cui le imprese si muoveranno con grande incertezza con l’economia italiana che faticherà a riprendersi e quindi questi sono i contesti tipici in cui la quota di lavori temporanei può addirittura aumentare perchè di fronte all’incertezza le imprese preferiscono non prendere impegni di lungo termine con i dipendenti. Quindi rischiamo di uscire dalla recessione pur essendo stati i lavoratori temporanei, lavoratori duali, chiamiamoli come vogliamo, quelli che hanno pagato di più lo scotto della crisi, quelli che hanno perso il posto di lavoro, rischiamo di uscire dalle recessione con ancora più dualismo di quello con cui ci siamo entrati perché continuano le assunzioni, e avverranno ancora di più, oggi al 70% e potranno essere fino all’90% soltanto con i contratti temporanei.

Noi dobbiamo cambiare le regole adesso se non vogliamo correre il rischio di perdere delle intere generazioni. Dicevo prima, quello che succede con il dualismo è che ci sono dei lavoratori che entrano nel mercato dalla porta sbagliata e rimangono in questa situazione di segregazione, non c’è investimento nel loro capitale umano e questo è quello che ci lascia poi delle eredità negative di lungo periodo. Per questo è oggi fondamentale intervenire non soltanto sui processi di uscita dal mercato del lavoro, ma anche su quelli in entrata. E d’altra parte anche l’esperienza del Giappone e della Svezia negli anni ’90 che uscivano da una crisi finanziaria è proprio stata questa: il dualismo del loro mercato del lavoro è aumentato. Noi non vogliamo commettere lo stesso errore, dobbiamo oggi agire sul percorso di ingresso nel mercato del lavoro.

Qui mi fermo perché davvero ho parlato troppo.

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