Il libro di Viale, rigoroso e documentato, parte da una nuova nozione di crisi, ridotta dall’attuale ordine economico, a problemi di “crescita” e/o di “sviluppo”dovuti a problemi di finanza e di economia, che pure ci sono. A queste dimensioni, Guido aggiunge quella della crisi ambientale, non riducibile, come vorrebbero molti, alla tutela ambientale, ma intrinsecamente legata alle altre due dimensioni dalle modalità di funzionamento dell’attuale “modo di produzione”, come direbbe Marx. A questo legame sono ad esempio collegate varie diseconomie come la distanza tra produzione e consumo, lo stress cui è sottoposta la terra dall’agricoltura industriale, che sul lungo periodo la impoverisce, o l’impoverimento della qualità di molti prodotti alimentari e relative sofisticazioni, etc. etc. etc.
1. leggi il testo dell’introduzione di Giancarlo Sartini
2. leggi la trascrizione della relazione di Guido Viale
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presentazione di Giovanni Bianchi (8’00”) – introduzione di Giancarlo Sartini (20’45”) – relazione di Guido Viale (49’20”) – intervento Giovanni Bianchi (4’14”) – prima serie di domande (5’55”) – risposte di Guido Viale (9’31”) – seconda serie di domande (8’38”) – risposte di Guido Viale (22’40”) – terza serie di domande (7’18”) – risposte di Guido Viale (16’06”)
Testo dell’introduzione di Giancarlo Sartini a Guido Viale
Il libro di Viale, rigoroso e documentato, parte da una nuova nozione di crisi, ridotta dall’attuale ordine economico, a problemi di “crescita” e/o di “sviluppo”dovuti a problemi di finanza e di economia, che pure ci sono.
A queste dimensioni, Guido aggiugne quella della crisi ambientale, non riducibile, come vorrebbero molti, alla tutela ambientale, ma intrinsecamente legata alle altre due dimensioni dalle modalità di funzionamento dell’attuale “modo di produzione”, come direbbe Marx.
A questo legame sono ad esempio collegate varie diseconomie come la distanza tra produzione e consumo, lo stress cui è sottoposta la terra dall’agricoltura industriale, che sul lungo periodo la impoverisce, o l’impoverimento della qualità di molti prodotti alimentari e relative sofisticazioni, etc. etc. etc.
Per Guido, pur essendo tutti problemi strutturali sviluppatisi in un periodo molto lungo, nell’attuale forma, sono legati all’affermazione, di un movimento generale di “restaurazione”, che dura da oltre 30 anni, coperta dall’”ideologia” della libertà di mercato attualmente in crisi, funzionali alla creazione di un potere oligarchico in mano a pochi gruppi ed enti finanziari ed economici di dimensioni globali.
Il loro funzionamento, che dipenderebbe da meccanismi ciechi e automatici (o presunti tali) del mercato, ha costruito un modello “culturale” che legava affermazione e realizzazione personale (almeno nell’attuale ideologia) a processi eminentemente selettivi e falsamente “meritocratici” legati a pratiche di competizione individuale.
La “risposta”, dopo lo scoppio della crisi, ha percorso due vie in generale: da una parte la riproposizione di un liberismo sfrenato (“deregolazione” del mercato), dall’altra quella costituita da vari dosaggi (Keinesiani) di interventismo statale,
Entrambe, nella valutazione di Guido, fallimentari.
Sono infatti le due polarità tra cui hanno oscillato tanto le teorie economiche che le dottrine politiche. Dopo la crisi finanziaria, si tende a far prevalere l’interventismo statale. Ma entrambe, ponendo il problema in termini abbastanza di breve periodo e in termini “tradizionali” di crescita e/o “sviluppo, sono incapaci di dare risposte soddisfacenti ai problemi che abbiamo, per cui occorre mettersi nella prospettiva di convivenza con la crisi.
Ciò che si può tentare allora, per costruire una risposta adeguata (su tutti e tre i termini di cui si sostanzia) è il governo seppure parziale, lasco e imperfetto, delle condizioni materiali che regolano la vita e le aspettative di chi é costretto a subire le conseguenze dell’attuale crisi. Ciò è tentabile solo moltiplicando le risorse mobilitate (innanzi tutto la conoscenza) nei contesti locali, compresi i potenziali inespressi sia materiali che immateriali:capacità di iniziativa, di imprenditorialità, di tenacia, di curiosità, di amore per la bellezza, di emotività, di affetti, di speranze…..
Queste risorse sono proprio quelle che, sia a livello nazionale che internazionale, sia a livello locale che a livello settoriale o di categoria, non si riescono più a mobilitare. Le nostre Autorità, infatti, non hanno “nè l’interesse né l’intelligenza delle cose necessarie per farlo”.
La scelta “locale” è dunque per Viale, l’unica capace, con la necessaria cultura del limite che pure dobbiamo avere presente, di mescolare, in modo pacifico e tollerante, culture diverse, di riscoprire saperi prodotti e diffusi, in molti casi valorizzati da un lavoro di scavo, di elaborazione e di divulgazione dovuti spesso negli ultimi anni alla componente più attiva dei movimenti, all’iniziativa importante delle amministrazioni locali, del quadro tecnico di università e centri studi, ma anche all’iniziativa di un’imprenditoria indipendente, sopratutto quella sociale.
La conoscenza, elemento strategico, grazie alla scelta locale, non è più solo quella avanzata e innovativa, ma anche quella “tradizionale”, radicata nel territorio. E’ l’incontro di questi due fronti del sapere che è da considerare elemento trainante, nella loro sinergia, dello ”sviluppo” della comunità.
L’intero ragionamento di Guido si fonda sulla crucialità, per un’adeguata uscita dalla crisi, di nuove forme sociali di partecipazione e autogoverno.
Un altro fronte di spinta verso il mutamento rispetto all’attuale modalità di gestione del potere sono le forme di mobilitazione in comitati o di attivazione referendaria, assieme a forme di movimento più tradizionali.
E’ il caso dei comitati di vario genere sorti per l’opposizione a scelte assolutamente non partecipate, come l’alta velocità in Piemonte, o la base militare a Vicenza, ma anche le mobilitazioni trasversali per i rifiuti, l’educazione, la ricerca, l’urbanistica partecipata, le iniziative multietniche, ma, e forse sopratutto, la vera novità sono le mobilitazioni per i “beni comuni”(per ora acqua e aria, ma, sempre di più, la conoscenza).
Conflitto e partecipazione sono i due elementi su cui può marciare qualsiasi alternativa alla gestione delle attuali forme di potere nella loro tendenza allo sbocco autoritario, e in questo processo prende corpo un nuovo paradigma di autodefinizione di un modello culturale e politico.
Senza pretesa di esaustività, si può citare il tema della pace, la lotta al razzismo in tutte le sue forme, le mobilitazioni, anche tradizionali, di protesta contro le sperequazioni tra ricchi e poveri,inclusione e esclusione, precarietà e sicurezza, solidarietà e competizione.
Tutti questi conflitti e movimenti contribuiscono a “rileggere”i problemi in gioco, e conseguentemente, nuove prospettive da costruire.
Tutto questo, assieme a un lavoro sulla dimensione locale che implichi una conoscenza del territorio che è posseduta solo dagli abitanti del territorio, che i grandi progetti ignorano per vocazione, e che invece è il fondamento di qualsiasi progettualità sostenibile, non è solo “obiettivo politico”, ma costruzione di reti di relazioni personali, coinvolte in un processo di crescita che include l’aumento dell’informazione e dell’elaborazione, che passa anche da internet, ma non abolisce la centralità del rapporto fisico in loco, anche per coltivare ciò che rimane del nostro rapporto con la natura. Questo è uno degli elementi centrali che motiva la scelta privilegiata della comunità locale, che consente di creare e consolidare nuovi rapporti sociali.
Viale si confronta non solo con i discorsi “teorici” sulla crisi e con le dimensioni implicate dalla costruzione di una possibile alternativa, bensì descrive anche il “modo di produzione” stabilizzato dall’attuale gestione politico-economica del pianeta.
La connessione.
La popolazione del pianeta si divide sempre di più tra connessi e non connessi: non è una barriera geografica bensì sociale: le classi cosiddette alte sono connesse (direttamente o per interposta persona). Man mano che si scende lungo la scala sociale, l’accesso si dissolve.
Il denaro.
Il più rapido mezzo per approfittare delle opportunità dell’ interconnessione è stato il denaro che viaggia a una velocità e in una quantità mille volte superiore alla ricchezza “naturale” presente sulla terra, aumentando così a dismisura la speculazione, ma anche la discriminazione sociale costruita nel pianeta.
Persone che si spostano.
Tutte comprese nell’area turistica, così differenziata al suo interno: si distinguono le orde di turismo “culturale” che contribuiscono al calcolo economico del valore delle opere, il “turismo” d’affari e congressuale, attivi nel definire in concreto anche la “globalizzazione, e poi quello sportivo, religioso e sessuale….
Sono tra i protagonisti del cosmopolitismo costruito dalla globalizzazione
Viaggiatori che non sono “turisti”, come sopratutto gli impegnati di un lavoro e forse di una patria, ma anche pendolari e turismo povero.
Merci giramondo.
Nel Sud del mondo le materie prime, In altri paesi si fanno i semilavorati, poi in altri trasformazione, sagomatura e assemblaggio,per ridurre al massimo i costi del lavoro poi si arruolano gratis gli schiavi bambini. Si aggiunga la possibilità di inquinare a piacimento! Il tutto converge verso le città, in tutto il mondo, ma sopratutto in quelle dei paesi “ricchi”.
Rifiuti alla deriva.
Il modo più spedito per far viaggiare i rifiuti è quello di bruciarli in un inceneritore, che poi distribuirà i fumi prodotti più o meno lontano a seconda delle correnti d’aria. In forma liquida, i rifiuti saranno scaricati nei fiumi che li scaricano nei mari, oppure nelle navi che scaricano nel modo più veloce.
A volte, e sopratutto con rifiuti ad alta tecnologia, si torna nei paesi del Sud del mondo. Gli altri, ma anche di diversa composizione, vanno in navi destinate a naufragare.
Il governo.
Sul piano planetario, i governi devono sopratutto governare questi flussi. Il loro apparato e la loro strumentazione non consente altro, e per questo sono diventati paesi molto poco influenti sul piano planetario. Per il resto, la realtà “esterna” con cui ci confrontiamo è per noi un “dato”.
Il cambiamento è invece l’evento: quello alla cui comparsa possiamo partecipare anche noi direttamente, nello “ spazio pubblico” creato dalle relazioni che saremo capaci di costruire.
Questo esame del modo di produzione che si è consolidato è la motivazione più puntuale della scelta della dimensione locale come ambito non solo economico e sociale più appropriato per costruire un diverso “sviluppo” alternativo e sostenibile, ma anche per la costruzione una diversa comunità.
Il libro affronta poi tanti altri temi, legati alla tematica della sostenibilità, con i cambiamenti che saranno necessari, ma che non vogliono dire Austerità, quanto una diversa idea di ricchezza, e poco legata al reddito. Ciò però che a mio giudizio è particolarmente importante sono le analisi e la relativa proposta di gestione partecipata e dinamica dello sviluppo nel caso di un parco protetto e del “caso” Campania.
Trascrizione della relazione di Guido Viale
Grazie per avermi invitato e grazie per essere venuti numerosissimi. Faccio una prima precisazione sul titolo di questo libro, Prove di un mondo diverso. Prove, qui va inteso sia in senso, diciamo, giuridico scientifico, evidenza che un modo diverso di vivere e di lavorare è possibile, ma prove anche nel senso di trial, di tentativo di errore perché ci troviamo in una condizione di lavoro assolutamente sperimentale, in cui non abbiamo dei modelli definiti da perseguire, né delle strategie, delle linee politiche molto chiare da seguire. E quindi ciascuno di noi, nella misura in cui si sente impegnato nella trasformazione, in parte o in tutto, di questo mondo credo che si trovi nella condizione di procedere in questa maniera.
Il tema centrale di questo libro, che poi è in realtà una raccolta sia di articoli in parte già pubblicati, sia di note di lavoro e di appunti che avevo preso nel corso del tempo che poi, ovviamente, ho rimpastato e rimescolato insieme per cercare di dargli un filo conduttore unitario. Questo filo conduttore unitario si chiama “conversione ecologica”, che tra l’altro è il titolo (faccio un po’ di pubblicità) di un mio prossimo libro che uscirà l’11 marzo che è un pochino fatto come questo, e anche il prossimo sarà un rimescolamento e un rifacimento di articoli e pezzi in parte già pubblicati.
Che cos’è la riconversione o la conversione ecologica? È un termine introdotto più di 25-30 anni fa da un nostro, e credo anche per alcuni di voi, carissimo amico che si chiamava Alex Langer che è stato l’introduttore della cultura verde in Italia, praticamente, e che è uno dei personaggi di maggior spicco in questa cultura, ma che ha dietro di sé una storia molto complicata. Insisteva sempre nel dichiarare di preferire, dopo un passato nella sinistra rivoluzionaria, il termine conversione al termine rivoluzione, a cui aveva aderito negli anni giovanili, o riforme, o cambiamento, o trasformazione, o cose di questo genere. Perché gli sembrava che il termine conversione alludesse contemporaneamente sia alla dimensione soggettiva che alla dimensione oggettiva e strutturale del cambiamento che dobbiamo affrontare.
Alex Langer era di origine ebraica e si era convertito giovanissimo al cattolicesimo, da cattolico era stato una specie di eretico, era molto legato a Don Milani, a Padre Balducci, poi aveva aderito a Lotta Continua, il movimento in cui anch’io, e anche Giancarlo Sartini abbiamo militato quando eravamo giovani; poi era diventato verde, ha fondato la lista verde in Italia, è diventato deputato europeo, oltre che più volte consigliere regionale dell’Alto Adige, e come deputato europeo ha speso gli ultimi anni della sua vita in una maniera frenetica, girando per il mondo, dappertutto, dal Sud America all’Asia, all’Africa, al Medio Oriente, ma soprattutto in Yugoslavia durante la guerra che ha dilaniato la Bosnia e, tra l’altro, è morto suicida proprio pochi giorni prima del massacro di Srebrenika, perché si era reso conto del fallimento totale del suo impegno.
La conversione per lui allude sia alla dimensione soggettiva, direi anche spirituale, morale ed etica del cambiamento che poi ha una ripercussione diretta nello stile di vita, nei modelli di consumo e nel nostro modo di rapportarci al nostro prossimo attraverso iniziative di solidarietà e di prossimità. Però non è possibile cambiare il mondo esclusivamente cambiando noi stessi, se contemporaneamente non si lavora per cambiarne le strutture oggettive, la produzione, le istituzioni, l’economia e il modo di funzionare. E quindi è importante tener sempre presente questa doppia dimensione della conversione ecologica.
Ecologica che cosa vuol dire? Non c’è bisogno di spiegarlo, ma quello a cui Alex Langer faceva molta attenzione era la dimensione temporale dei processi. Ecologica vuol dire tener conto dei limiti delle nostre esistenze individuali, quindi c’è un tempo per agire perché poi non ne avremo più a disposizione, limiti della vita degli esseri che compongono la natura, ciascuno dei quali ha dei tempi di rigenerazione e di riproduzione che non possono essere violati; se si consumano i prodotti della natura più rapidamente di quanto siano in grado di rigenerarsi si distrugge l’ambiente in cui viviamo e soprattutto non lo si lascia più alle successive generazioni, le generazioni del futuro che sono insieme a tutti gli uomini che popolano la terra oggi i due riferimenti fondamentali di quell’altro termine che ha occupato la cultura ambientalista negli ultimi anni che è sviluppo sostenibile, introdotto, formulato la prima volta in termini compiuti dalla ex-presidente del governo norvegese Brundtland che aveva avuto l’incarico nel 1985 (che ha pubblicato poi i risultati del suo incarico nel 1987) di preparare un documento, che è stato pubblicato in Italia col titolo Il futuro di noi tutti, un documento preparatorio per la conferenza di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo, e che per la prima volta ha dato una formulazione univoca al termine sviluppo sostenibile che credo che voi tutti conoscete, e che comunque è sviluppo che soddisfa i bisogni del presente, cioè di tutti quelli che vivono oggi sulla terra senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni.
Volevo anche dire che questo abbinamento tra il termine sviluppo e il termine sostenibilità è stato messo in discussione da più d’uno e ci sono molti che lo considerano un ossimoro, cioè una cosa incompatibile. Possiamo, per capirci e prima di procedere oltre, individuare grosso modo quattro filoni, diciamo, di contestazione del modo in cui lo sviluppo sostenibile, che poi è stato il tema generale del vertice di Rio del 1992 da cui è nata la convenzione sui cambiamenti climatici, la convenzione sulle foreste, ecc., in particolare quella sui cambiamenti climatici ha avuto la sua concretizzazione nei protocolli di Kioto, che sono quelli su cui lavorano, senza combinare niente, tutti i governi del mondo per cercare di limitare i processi che sono all’origine dei cambiamenti climatici e dei fenomeni estremi di devastazione del territorio dovuti al cosiddetto effetto serra, cioè all’abuso dei combustibili fossili.
Ma tornando indietro, il termine sviluppo sostenibile trova quattro filoni di contestazione. Uno è decisamente precedente alla stessa formulazione della Bruntland ed è la formulazione, la proposta dello stato stazionario: chi ha messo in campo questa espressione è un economista di nome Daly, che è stato tra l’altro vice presidente dalla Banca Mondiale, poi è stato cacciato o se ne andato volontariamente perché non era più gradito, e la cosa curiosa è che nella seconda parte degli anni ’70 era stata fatta propria questa concezione addirittura dal presidente della Commissione Europea, che era un olandese di cui adesso non ricordo il nome. Cioè, anche un organismo governativo come era allora la Commissione Europea, quella che poi ha dato vita alla Comunità Europea, quella che animava la Comunità Europea e che poi ha dato vita all’Unione Europea, all’interno di questo organismo, frutto allora del concorso di 7 paesi europei, si è discusso e c’era un presidente che diceva: “In realtà non si può andare avanti a sviluppare”. Cioè, il mondo non può crescere indefinitamente. Siamo alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’70 sono avvenuti tre avvenimenti che avevano fatto riflettere molto su questo: la prima Conferenza Mondiale dell’ONU di Stoccolma su quello che allora si chiamava sviluppo umano e non sviluppo sostenibile, in cui il problema ambientale era stato posto all’ordine del giorno. Tanto è vero che era nata poi la UNDP, cioè un’agenzia delle Nazioni Unite che si dovrebbe occupare dell’ambiente, molto poco finanziata, molto poco curata e quindi non ha combinato gran che. Poi c’è stata la crisi petrolifera anche in seguito alla guerra in Medio Oriente nel 1973; ma soprattutto il 1972 è l’anno di pubblicazione del pamphlet I limiti dello sviluppo commissionato a degli studiosi del MIT dal Club di Roma, lo stesso che ogni anno continua a pubblicare dei trattati sulla questione ambientale. Il Club di Roma era una cosa grossa, era stato fondato da un italiano che si chiamava Aurelio Peccei, morto poi pochi anni dopo (era un collega di mio padre tra l’altro, io l’ho conosciuto negli anni della mia giovinezza), che riuniva manager, uomini di governo, scienziati di taratura internazionale e quindi era un pensatoio dove le cose pensate si sperava che avrebbero potuto avere anche un riflesso sulla realtà.
La seconda linea di contestazione dello sviluppo sostenibile è venuta da un istituto tedesco che si chiama Vuppertal Institut che sostanzialmente ruota intorno al concetto di spazio ambientale e cioè le risorse della Terra utilizzabili per la produzione sono sostanzialmente quelle, vanno divise in maniera equa tra tutti gli abitanti della Terra e quindi anche in termini statistici e materiali si può misurare quale sia la quantità di risorse di cui ogni uomo può disporre senza rubarle, senza portarle via e quindi ridurre la possibilità e l’accesso a queste stesse risorse agli altri. Di lì sono nati due obiettivi che hanno ancora molta rilevanza nel dibattito internazionale sull’ambiente, obiettivo 4 e obiettivo 10, fattore 4 e fattore 10, che sostanzialmente vogliono dire che (queste formulazioni risalgono agli anni ’80 e oggi la situazione è peggiorata molto dagli anni ’80) bisogna ridurre nel giro dei successivi 40 anni, di cui almeno 30 ce li siamo già mangiati, il consumo di risorse di un fattore 4 a livello mondiale, per metà rendendo più efficienti i processi produttivi, cioè ricavando più utilità dalla stessa quantità di materiale, e per metà invece riducendo proprio il prelievo attraverso anche lì utilizzi maggiori. Ma per i paesi sviluppati in cui il tenore di vita è quello che noi tutti conosciamo, anche se non tutti pratichiamo, il fattore è 10, che non vuol dire ridurre del 10% i nostri consumi, ma di 10 volte: 10 volte il consumo di energia, 10 volte il consumo di acqua, dei minerali, ecc. C’è stata una serie di scienziati e tecnici e tecnologi che hanno lavorato su queste cose qua, che hanno pubblicato anche degli studi molto interessanti che dimostrano che in molti campi le tecnologie per garantire lo stesso tipo di benessere e di utilità con una riduzione del 10% del consumo di risorse sono praticabili.
Faccio semplicissimamente l’esempio: qui abbiamo delle lampade al neon, oggi ci sono delle cose che sono molto più risparmiose delle lampade a incandescenza, la cui vendita è proibita in tutta Europa tranne che in Italia perché come al solito abbiamo chiesto una proroga. Però, oggi ci sono dei corpi illuminanti che consumano 10 o 20 volte meno di questi e che hanno lo stesso effetto e non si capisce perché non li utilizziamo e non li introducono. Tra l’altro, sarebbe giusto. Ma in una serie di campi molto ampi della nostra vita quotidiana dei tecnologi hanno lavorato e hanno dimostrato che le possibilità di ridurre i consumi ci sono.
La terza contestazione a questa linea dello sviluppo sostenibile la conoscete tutti perché è una parola oggi molto alla moda, si chiama “decrescita” e che è stata introdotta dal filosofo e antropologo francese Latouche, che oggi è stata ripresa in Italia dal Movimento per la decrescita felice. Non mi soffermo su questo. Apre, secondo me, un approccio sostanzialmente giusto al problema di fondo: non si può pensare che l’economia continui a crescere, crescere e crescere divorando sempre più risorse perché le risorse sono finite, ma un approccio però più meditato nel senso che, come i politici e i teorici dello sviluppo misurano il benessere in termini di Prodotto Interno Lordo, sembra che loro misurino quanto si sta meglio in termini di riduzione del PIL, ma le cose sono molto più complicate di così.
L’ultima linea di contestazione è stata quella elaborata dai Social Forum mondiali, a partire da Porto Alegre; anche questa viaggia su una parola molto alla moda che si chiama buen vivir, che poi in italiano vuol dire benessere, però la si dice in spagnolo per distinguerla dal concetto di benessere che c’è stato tramandato dalla cultura del consumismo, che significa accesso quanto più dispiegato possibile a tutti i beni che possono soddisfare il nostro sfizio, mentre buen vivir invece è una vita buona, fatta in un rapporto molto stretto con la terra e con la natura e con gli altri uomini, ovviamente.
Ho fatto tutta questa lunga digressione per capire poi dove intende collocarsi questo libro. Allora, dopo la formulazione del principio dello sviluppo sostenibile e il vertice di Rio de Janeiro ci sono stati, grossomodo, due movimenti opposti e sinergici che hanno cercato di tradurlo in pratica.
Uno lo possiamo chiamare top-down e si chiama Agenda 21. L’Agenda 21 è un documento corposo di più di 1000 pagine, messo a punto nel Congresso Internazionale Summit della Terra che si è svolto nel 1992 a Rio de Janeiro ed è un’agenda che riguarda il XXI secolo delle cose da fare per riportare l’economia entro i limiti della sostenibilità e a una maggiore equità tra i paesi, tra le classi, ecc. Top down perché lì è stato fatto questo documento di 1000 pagine, però il principio era che ogni paese che aveva partecipato a quel summit, cioè 192 tutti quanti, e poi ogni regione, e poi ogni città, poi ogni quartiere, e alla fine, se vogliamo, ogni singolo individuo si doveva fare la sua Agenda 21, cioè una serie di iniziative da prendere per contenere il proprio consumo di risorse, per sfruttarle meglio, per migliorare le relazioni con il prossimo all’interno del territorio di competenza.
Come sapete, a livello nazionale, alcuni paesi l’hanno fatta questa Agenda 21, anche in maniera abbastanza credibile, l’Italia se l’è sbrigata con dei fogli di carta che sono circolati dappertutto. Ma ci sono una serie di Amministrazioni comunali che si sono impegnate a fondo e il presupposto di questo sono anche lì i processi partecipativi, cioè che all’elaborazione di questi programmi, che devono essere tradotti in pratica, che non devono essere semplici pezzi di carta, ci sia una partecipazione delle principali componenti sociali. In alcuni paesi, soprattutto scandinavi, questo ha avuto un grosso seguito e un grosso impatto. In Italia, i Comuni impegnati nel portare avanti l’Agenda 21 sono molti, ma i risultati in termini di partecipazioni sono relativamente bassi .
Il secondo processo, quello bottom up, chiamiamolo così, di tentativo di dare un contenuto, se non allo sviluppo sostenibile – per tutte le obiezioni che vi ho presentato prima – alla sostenibilità è quello dei Forum mondiali a partire da Porto Alegre del 2001 dove movimenti reali e prima di tutto movimenti rurali come quelli dei contadini sans terre, ma a cui poi hanno partecipato tutti quanti i movimenti, i comitati, le associazioni di volontariato, gli stessi partiti, i sindacati, eccetera, che erano disponibili a impegnarsi in questo processo, hanno cercato di portare il loro contributo personale all’elaborazione di un’agenda politica che doveva riguardare per la prima volta tutto il mondo.
Bene, entrambi questi processi sono ancora in corso e quello che volevo dire è che, grossomodo, oggi noi sappiamo, cioè chi si occupa di queste cose sa e sono molti, sappiamo che cosa bisognerebbe fare per impedire il disastro. Sappiamo che il disastro è alle porte, cioè i cambiamenti climatici sono una cosa vera, comprovata da un gruppo internazionale di 3 mila scienziati che lo sta studiando per conto dell’ONU ormai da oltre 15 anni e le evidenze scientifiche di questi processi, e le conseguenze, sono ormai fortissimi e incontestabili, le manifestazioni già le vediamo perché gli uragani si sono moltiplicati, le siccità, le alluvioni ecc, con un’intensità molto maggiore che nei secoli e nei decenni scorsi, il processo aumenta.
Che cosa bisogna fare per cercare di riportare senza praticare una politica (che una volta si chiamava marcusiana) di povertà, di miseria, ecc., ma anzi di maggiore equità e di maggior benessere, per lo meno di maggior buen vivir, di miglior vita del pianeta tutto entro i margini dello sviluppo, vi sono dei settori portanti dell’apparato produttivo mondiale che sono quelli che io analizzo in un capitolo del mio libro che hanno un ruolo cruciale.
Sono il settore energetico, che è all’origine poi dei gas di serra che producono poi i cambiamenti climatici, nella sua duplice dimensione di passaggio dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili, ma anche di efficienza energetica perché le fonti rinnovabili, per quanto potenti, diffuse, estese possano essere, non raggiungeranno mai la potenza che nel noi giro di due secoli abbiamo cominciato e continuato a estrarre dalle viscere della terra con la prospettiva che entro un periodo relativamente breve, per alcuni molto breve, si esauriscano, forse prima ancora che il disastro che l’effetto serra produca.
L’agricoltura, ne ha già accennato Giancarlo Sartini, cioè l’agricoltura intensiva, basata tra l’altro su combustibili fossili non su fertilizzanti ricavati da fonti fossili, su pesticidi ricavati da fonti fisiche, su catene del freddo e di trasporto intercontinentale che consumano quantità enormi di combustibili fossili, su allevamenti intensivi fatti in stalle perché anche lì consumano grandi quantità di prodotti fossili, eccetera, non è più sostenibile. Rovina la terra, costa carissima, per ogni caloria di nutrimento che ci viene prodotta da questo tipo di agricoltura se ne consumano dieci ricavate dai combustibili fossili disperse lungo la catena, nei vari anelli della filiera. Bisogna ritornare all’agricoltura più differenziata, multiculturale, cioè quella dove in ogni campo ci sono le rotazioni e le diversificazioni necessarie anche per garantire la diversità biologica perché la biodiversità è una ricchezza naturale, di piccole dimensioni perché chi la coltiva ne sia responsabile direttamente. Quindi un ritorno alla cultura contadina.
Il guru dell’alimentazione sana e gustosa che è Carlo Petrini che oggi gira il mondo e che è partito facendo dei ristoranti di lusso e che oggi guida un movimento, Terra Madre, che riunisce milioni di contadini di tutto il mondo perché ha seguito una strada bella e intelligente lungo il suo percorso esistenziale, che insiste nel chiamare gli agricoltori contadini, cioè gli agricoltori che fanno vera agricoltura, contadini perché sono i portatori, non sono gli operai del campo, ma sono i portatori di una cultura, in parte tradizionale e in parte altissimamente innovativa, perché anche le colture moderne hanno bisogno di molta scienza, di molta conoscenza per essere praticate, ma che la trasformazione dell’agricoltura intanto si può fare solo se i contadini saranno protagonisti.
Terzo settore in cui bisogna intervenire è quello delle risorse che noi conosciamo semplicemente attraverso il suo rovescio, quello dei rifiuti. Napoli e la Campania insegnano. Quelle sono tutte risorse rinnovabili e non rinnovabili che noi abbiamo estratto dalla terra e che poi, dopo una parentesi brevissima, quasi istantanea, di utilizzo, di consumo, eccetera, noi abbandoniamo o riconsegniamo all’ambiente nella forma più inconcepibile. Quindi, c’è la necessità di utilizzare al meglio le risorse.
La cura del territorio che riguarda sia l’edilizia, cioè case più sostenibili, meno energivore, più adatte anche alla salute, ma anche poi tutta la infrastruttura urbana e tutta l’infrastruttura che lega tra di loro la ricerca di dati e la mobilità.
Tema auto, è stato detto, cioè io 15 anni fa ho iniziato una battaglia solitaria contro l’automobile… Faccio una premessa: primo io posseggo un’automobile, la uso il meno possibile perché in alcuni casi non avere un’automobile diventa un ostacolo molto grave. Secondo, non sono contrario all’esistenza di veicoli a 4 ruote, a motore che si possano muovere autonomamente lungo le strade, ma semplicemente all’uso e al ruolo che l’automobile ha avuto nel corso dello scorso secolo. Ha cambiato completamente il paesaggio stuprandolo con viadotti, autostrade, svincoli, eccetera; ha cambiato la città permettendo lo sprout urbano, la città diffusa, che si diffondesse su tutto il territorio rendendo sempre più necessario avere un’automobile. È ovviamente una fonte di consumo di materiali, per costruirla, per ripararla, enorme, è una grande fonte di consumo energetico. Ma, a mio avviso, c’è stata una lunga divergenza con la cultura main streaming dell’ambientalismo: il danno maggiore dell’automobile non è l’inquinamento, che pure è una cosa gravissima, non è il contributo alla emissione di gas di serra, ma è il consumo di spazio e, in particolare, le tante automobili hanno sottratto lo spazio di vita, di incontro e di socialità agli umani. Le nostre città sono ornai città fatte per l’automobile e non più fatte per gli umani, perché si possano incontrare e vivere, oltre che a casa loro, anche in spazi pubblici e di scambi, eccetera.
E lo specchio maggiore di questa situazione noi lo vediamo nella condizione dei bambini perché sono sempre i bambini lo specchio migliore della condizione umana. I bambini non possono più andare per strada, giocare per strada, andare a scuola da soli, incontrare gli amici senza essere accompagnati perché come varcano la soglia del portone vengono sicuramente schiacciati da un Suv, di quelli che sta costruendo o sta prestandosi a costruire Marchionne.
Io ritengo anche che la mobilità nel mondo moderno sia un diritto inalienabile di cittadinanza e che molti ne siano privati per il fatto di non possedere un’automobile, o di non essere patentati o di non poter essere patentati, e che bisogna restituire a tutti il diritto di mobilità e che per farlo bisogna ricorrere a mezzi di trasporto diversi dall’automobile. Non dal punto di vista meccanico, ma dall’uso che se ne fa: cioè, condividere i mezzi di trasporto attraverso tecnologie telematiche che lo rendano possibile.
Bene, c’è poi un sesto settore trasversale che è l’educazione, l’istruzione, la formazione che vanno riviste in maniera radicale, secondo me, secondo tre criteri:
– Primo, deve essere permanente, attraversare tutto l’arco della nostra vita.
– Secondo, deve reincorporare una componente di manualità perché noi siamo degli esseri mutilati, anche quelli che fanno lavoro manuale, perché col fordismo e con la cristallizzazione del lavoro fanno sempre la stessa cosa, ma anche loro, come me, in generale non sanno fare altro; io per esperienza, siccome quando ero giovane rivoluzionario frequentavo molto gli operai della Fiat – se ne parla anche in questo librino che ti ho regalato – in quegli anni ’70 gli operai della Fiat Mirafiori erano tutti giovani che venivano dal mezzogiorno sapevano fare i contadini, sapevano fare i muratori, sapevano fare i fabbri, sapevano fare i falegnami, avevano imparato a casa loro, nella loro famiglia, nel loro ambiente, dei mestieri veri. Venti anni più tardi, quando hanno cominciato a licenziarli perché erano tutti anchilosati, avevano delle malattie professionali, eccetera, non sapevano più fare niente se non avvitare quel bullone. Erano stati, in 20-30 anni di lavoro alla catena, deprivati non solo della loro intelligenza, esonerati dall’usare l’intelligenza, invitati ad accantonarla, ma anche della loro manualità. La manualità va recuperata.
– Terzo, il recupero della cultura materiale, cioè noi non sappiamo più niente di quello che ci passa per le mani, da dove viene e dove va soprattutto, dopo che l’abbiamo usato noi. Questa condizione non è intrinseca alla condizione umana. Fino alla rivoluzione industriale tutti sapevano da dove venivano e dove andavano a finire i materiali che gli passavano per le mani, magari non li sapevano fare, perché erano frutto di un lavoro artigianale che aveva altissimi livelli di professionalità, ma sapere un pochino il ciclo di vita di questi prodotti lo conoscevano tutti. Oggi noi non sappiamo più niente e, secondo me, nelle scuole utilizzando le stesse organizzazioni disciplinari che esistono adesso, bisognerebbe fare più attenzione alla dimensione materiale.
Bene, mi avvio alla conclusione facendovi l’esempio dell’energia, perché qua entriamo nel merito del problema Però quello che adesso vi dico sull’energia, secondo me, è trasponibile, e nel libro lo si spiega, in tutti gli altri campi di cui voi ho parlato.
L’energia fondata su fonti fossili, che sono carbone, petrolio e metano, è un’economia centralizzata: grandi campi petroliferi, grandi campi metaniferi, grandissime miniere (spesso a cielo aperto) di carbone, grandi oleodotti, metanodotti, treni carbonieri, navi petroliere, navi carboniere e metaniere, grandi impianti di trattamento, rigassificatori, raffinerie, impianti termoelettrici, grandissime reti di distribuzione di queste cose per arrivare al consumatore finale. Per fare queste grandi reti e questi grandi impianti ci vogliono grandi capitali, grande finanza e quindi grande concentrazione del potere, L’economia fondata sui combustibili fossili è un’economia indirizzata e orientata alla massima centralizzazione possibile dei poteri. Tant’è vero che tutte le altre attività economiche, anche quando non interferiscono direttamente con la produzione o la generazione energetica, ne rispecchiano però la struttura fondamentale: l’industria automobilistica, l’industria dei computer, l’industria chimica e cose di questo genere.
Le guerre, tutto il secolo scorso, più la parte che abbiamo vissuto del secolo attuale, è attraversato da guerre che hanno come obiettivo fondamentale l’accaparramento delle risorse petrolifere. Nella prima guerra mondiale c’era l’impero ottomano in disfacimento e là c’era il petrolio (in Irak) tutti lo sapevano, infatti con la fine della guerra se lo sono spartite le grandi potenze, Francia, Inghilterra. Nella seconda guerra mondiale, l’avanzata di Hitler verso Mosca, che ha significato l’autodistruzione della Germania, era finalizzata a raggiungere i pozzi del Mar Caspio perché se no l’esercito tedesco non avrebbe più funzionato. Non parlo poi delle più recenti guerre di cui siamo stati testimoni noi perchè è noto l’obiettivo.
Bene. L’energia fondata sulla efficienza, o se volete chiamarlo risparmio energetico, e sulle fonti rinnovabili è per natura un’economia decentrata, distribuita sul territorio, diffusa e, al bisogno, differenziata. È vero che ci sono anche esempi, secondo me molto negativi, di utilizzo delle fonti rinnovabili in maniera centralistica; il progetto più grande in questo campo si chiama Desert Tech, una grossa realtà e forse alcuni di voi l’avranno sentito nominare, e vuol dire ricoprire un certo numero di centinaia di chilometri quadrati del deserto del Sahara di impianti fotovoltaici e poi con un cavo, o molti cavi sottomarini, convogliare una parte consistente di qesta energia, quella che non si lascia ai paesi possessori di questa cosa, verso l’Europa. È stimato un investimento di 400 miliardi di Euro e ci sono già delle società che ci stanno. E si farà.
Un altro esempio, minore per fortuna, ma molto più grave dal punto di vista delle conseguenze, investe l’uso che in Italia è stato fatto dei finanziamenti per le fonti rinnovabili, in particolare per il fotovoltaico. L’Italia ha incentivi tuttora (sono stati diminuiti dal 1 gennaio di quest’anno ma tuttora sono i più alti del mondo) incentivi per l’istallazione di impianti fotovoltaici. Ma invece di metterli sui tetti delle case, o delle fabbriche, o delle aziende agricole che si consumano direttamente la loro energia, siccome questi incentivi sono stati distribuiti a chi era più prepotente o più potente, eccetera, è successo che in molti casi si sono addirittura espiantati vigneti, ulivi, coltivazioni, eccetera, per coprire ettari ed ettari di pannelli fotovoltaici. Da parte di chi? Da parte di multinazionali, molto spesso non italiane, che vivranno di rendita per i prossimi anni perché questi incentivi sono fatti in conto energia, cioè per ogni kiliwattora di energia che produco, ai costi più alti possibili, perché oggi l’energia solare è l’energia del futuro ma per adesso costa di più di tutte le altre, dell’eolico, delle biomasse, del carbone, eccetera, costa solo meno dell’energia atomica che è la più cara di tutte. Domani costerà molto meno, si sa, perché il progresso è in continuo sviluppo. Però questi signori che hanno fatto questo investimento per i prossimi 30 anni avranno una rendita senza dover muovere un dito perché quegli impianti lì non hanno nemmeno bisogno di manutenzione. Dunque, esempio assolutamente negativo.
Altra cosa negativa pazzesca è che in Italia, non essendoci nessuna politica industriale, sono stati dati gli incentivi a chi istallava impianti, ma nessun aiuto, né di carattere scientifico, né di carattere economico, né di carattere organizzativo a chi quegli impianti li produce, per cui li importiamo tutti quanti dall’estero: è una delle cause della disoccupazione e dello scarso sviluppo che abbiamo è che la nostra industria verde, cioè quella che produce direttamente impianti e attrezzature per la conversione ecologica, non esiste e importiamo dall’estero.
Ma la cosa su cui mi voglio soffermare è invece la parola “differenziata”, cioè sempre l’economia orientata al massimo utilizzo delle fonti rinnovabili e delle efficienze energetiche. Cosa vuol dire differenziata? Vuol dire che, a differenza del metano, del petrolio e del carbone che sono uguali dappertutto, le fonti rinnovabili sono differenti da una zona all’altra. Il vento sfruttabile c’è solo da certe parti, l’onda del mare anche, il sole c’è più in alcuni punti e meno in altri, ci sono delle case in ombra che comunque mai potranno essere attrezzate con degli impianti, e poi c’è una differenza nei carichi. Ci sono dei carichi, cioè degli utilizzi di questa energia indispensabili, e che vanno salvaguardati, altri che possono essere moderati o ridotti, altri che magari potrebbero magari venir eliminati. Questo dipende da come è strutturato un territorio: quante fabbriche, che tipo di fabbriche, che tipo di produzione ci sono, che tipo di abitazioni, o che tipo organizzazione, eccetera.
Quindi, il ricorso alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica – vanno coibentate le case, vanno utilizzate le fonti luminose più economiche, vanno sostituiti gli elettrodomestici e le macchine utensili eccetera – è anche questa una cosa differente da una zona all’altra, non può essere pianificato centralmente, deve essere deciso territorio per territorio. Relativamente all’energia solare, per esempio, casa per casa, tetto per tetto perché ognuna ha delle caratteristiche differenti, mentre quando si danno degli incentivi così a tutti… L’altro giorno Niki Vendola si lamentava perché ha molta parte del suo territorio devastato da questi impianti di energia fotovoltaica distribuiti anche a rovinare il paesaggio oltre che ad aver espiantato coltivazioni di pregio. Dice Vendola: “Decido io, mentre invece lo decide un organismo che si chiana Gestore dei Servizi Energetici che quando uno fa la domanda gli concede l’autorizzazione poi basta, e io come capo della Regione non ho (Viva il federalismo) nessuna possibilità di vietare quella roba”. Adesso sta facendo delle leggi per cercare di arginarla, ma insomma funziona così.
Questa economia non può essere diretta centralmente, deve essere progettata, pianificata e differenziata caso per caso, territorio, per territorio. Chi conosce meglio di tutti un territorio? Quelli che ci abitano. In quel territorio sicuramente ci sono per lo più anche le competenze tecniche per affrontare questi problemi perché i territori non sono ormai più fatti da plebi ignoranti o poco istruite, ma dentro alla popolazione di qualsiasi genere ci sono tecnici di tutte quante le discipline e le competenze che molto spesso all’interno delle loro aziende, se sono occupati, non vengono assolutamente valorizzati se non per una parte molto limitata della loro conoscenza. E sono ovviamente a chilometro zero.
Che cos’è il vantaggio delle energie rinnovabili? Che io me la produco sul tetto e me la consumo in casa, mi rivolgo alla rete nei momenti in cui ho bisogno di consumo superiore alla mia produzione e cedo alla rete l’energia in eccesso che ho. Questo vale, diciamo, per la casa ma vale, in generale per il territorio, per il comune, per la strada, per l’azienda agricola e cose di questo genere, è un’economia fortemente interconnessa a livello locale, come è fortemente interconnessa a livello locale l’agricoltura rinnovata del tipo di cui parlavamo.
Allora, vengo alla conclusione. Per pensare, concepire e poi programmare una conversione, un cambiamento dell’apparato industriale, ma anche ovviamente dei nostri consumi e dei nostri stili di vita, che si regga sulla trasformazione di questi settori da altamente centralizzati ad altamente decentrati, da un’efficienza dovuta alla quantità a un’efficienza dovuta all’adattamento alle caratteristiche specifiche di un territorio, ci vuole un’organizzazione politica sociale, una forma embrionale di autogoverno diverso da questo. Non sono processi che possono essere governati dall’alto e questo è il fallimento del neo-keynesismo di fronte alla crisi. Che cosa fanno fatto i governi (l’Italia quasi niente) i governi che si sono dati da fare per combatterla? Hanno dato un sacco di soldi alle banche e hanno incentivato soprattutto l’industria automobilistica, alcuni attraverso la rottamazione, altri attraverso sia alla rottamazione che ai contributi (come Sarcozy o la Merkel) alle aziende. Tant’è vero che le aziende francesi sono più forti. Ma fuori di lì non hanno saputo fare niente. Perché per sfruttare le potenzialità dell’economia verde, quella che si basa su queste nuove potenzialità, su queste nuove conoscenze, bisogna scendere a livello del territorio.
E non ci potrà mai essere riconversione se da territorio per territorio non ci sarà innanzitutto la volontà di lavorare in questa direzione, poi la capacità di mettere al lavoro le forze che sono disponibili a farlo, inizialmente saranno poche ma possono crescere nel tempo, terzo la capacità di avere delle piattaforme, dei programmi, dei progetti realistici, praticabili e delle persone interessate a farlo, poi si tratterà anche di trovare i finanziamenti, i supporti necessari, i collegamenti, eccetera, ma queste cose qua vengono dopo e vengono se ci si può.
Chi sono gli attori di questa trasformazione? Sostanzialmente secondo me sono tre. Ci vogliono imprese, perché per fare le cose ci vogliono organizzazioni che le facciano, operai, tecnici, imprenditori che possono essere pubblici o privati, cooperative o individuali, sociali o non sociali, però devono essere disposte a fare queste cose. Poi ci vogliono amministrazioni locali, o parti di esse. Molti piccoli comuni si sono già schierati, pronunciati, impegnati in direzioni come questa. Nei grandi, come è noto è più difficile operare e non dipende dal fatto che siano di destra o di sinistra perché sono da questo punto di vista assolutamente tutti uguali. Cioè, tutti ancora proiettati sull’economia, la grande economia centralizzata, i grandi eventi, sui grandi investimenti, le grandi edificazioni, eccetera, e scarsissima attenzione invece per le piccole cose la cui somma molecolare costituisce invece il cambiamento.
Poi ci vogliono i cittadini, e quali cittadini? La parte attiva che all’inizio può essere ridotta ma che se riesce a impegnarsi, a lavorare e, soprattutto, se riesce a valorizzare le conoscenze che ha e che può attingere facilmente, porta quel contributo essenziale senza il quale un piano, un progetto a livello territoriale non si può fare. E quindi, la sede della nuova partecipazione, che poi vuol dire democrazia partecipata, che non deve – nella prospettiva che io vedo – soppiantare la democrazia rappresentativa, che è quella che caratterizza il nostro ordinamento giuridico, ma affiancarsi e condizionarla fortemente, la sede è un Forum o una consulta, delle sedi dove si incontrino queste tre componenti: imprese, amministrazioni locali o parti di esse, e organizzazioni della cittadinanza attiva in qualsiasi forma.
Esprimono punti di vista radicalmente differenti, e a volte anche conflittuali, ad esempio tra padroni e operai non soltanto nelle imprese private, ma l’esperienza è di tutti, anche molto spesso, fra dirigenti e manodopera, persino nelle cooperative sociali, si creano dei conflitti. Ben vengano perché il conflitto resta la molla della trasformazione. Però il conflitto non deve annullare la volontà, e la possibilità, e l’interesse congiunto a lavorare nella prospettiva della trasformazione ecologica.
Ultima cosa che mi sono dimenticato di dire è che l’economia fondata sul decentramento eccetera è anche labour intensive per definizione, mentre l’economia fondata sui grandi impianti eccetera è per definizione capital intensive e, quindi, nella prospettiva di una trasformazione ecologica graduale del nostro apparato industriale, sicuramente le opportunità di lavoro a tutti i livelli, da quelli più dequalificati a quelli più qualificati, e soprattutto la possibilità di qualificarsi in corso d’opera, sono molto più ampie di quelle offerte dal sistema economico attuale.