L’approccio metodologico di Sen si può comprenderea partire da un esempio che troviamo nel primo capitolo del libro: ci sono tre bambini, Anna, Roberto e Carla, che si contendono un piccolo flauto; litigano, ma ciascuno di loro ha le sue ragioni: Anna pretende il flauto perché è l’unica dei tre che lo sa suonare, cosa di cui gli altri due sono consapevoli: vi pare giusto negare il flauto all’unica persona che lo sa adoperare? Roberto vuole il flauto perché è povero, così povero da non avere neanche un giocattolo: vi pare giusto negargli l’ unico giocattolo che potrebbe avere? Carla si applicata per mesi con diligenza per costruire il flauto con le sue stesse mani: il flauto l’ha fatto lei, e ora se lo vuole tenere; vi pare giusto che gli altri due glielo portino via?
1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato
2. leggi la trascrizione della relazione di Gianni Vaggi
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presentazione di Giovanni Bianchi (6’04”) – introduzione di Roberto Diodato (20’38”) – relazione di Gianni Vaggi (52’38”) – prima serie di domande (27’52”) – risposte di Gianni Vaggi (16’43”) – seconda serie di domande (6’32”) – risposte di Gianni Vaggi (23’45”)
4. con gli occhi degli altri: riflessioni su etica e giustizia
A supporto della tematica proposta dal testo di Amartya Sen si può scaricare qui in PDF lo scritto di Gianni Vaggi del 2002
Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Gianni Vaggi
In questa introduzione cercherò di evidenziare il metodo che Sen adotta nella sua ricerca sull’idea di giustizia, senza intrattenermi sui contenuti e sulle soluzioni che il libro offre.
L’approccio metodologico di Sen si può comprenderea partire da un esempio che troviamo nel primo capitolo del libro: ci sono tre bambini, Anna, Roberto e Carla, che si contendono un piccolo flauto; litigano, ma ciascuno di loro ha le sue ragioni: Anna pretende il flauto perché è l’unica dei tre che lo sa suonare, cosa di cui gli altri due sono consapevoli: vi pare giusto negare il flauto all’unica persona che lo sa adoperare? Roberto vuole il flauto perché è povero, così povero da non avere neanche un giocattolo: vi pare giusto negargli l’ unico giocattolo che potrebbe avere? Carla si applicata per mesi con diligenza per costruire il flauto con le sue stesse mani: il flauto l’ha fatto lei, e ora se lo vuole tenere; vi pare giusto che gli altri due glielo portino via?
A chi dare il flauto? Si vede bene che operarela scelta “giusta” , cioè operare “con giustizia”, non è facile, ma se apparteniamo a delle “scuole” etico-politiche abbiamo una risposta pronta: a Roberto “il bambino più povero, andrà il pieno appoggio dell’egualitarista, orientato a ridurre le differenze nella ripartizione delle risorse economiche degli individui. Carla, l’artefice del flauto, si guadagnerà immediatamente la simpatia del liberalista (si dà un nesso fortissimo tra lavoro e proprietà, per esempio nel liberalismo lockiano).
L’esponente dell’utilitarismo edonista… tenderà a tenere in maggiore considerazione il fatto che a ricavare dal flauto il maggiore piacere sarebbe Anna, l’unica in grado di suonarlo”.
Ora le cose sono ovviamente più complicate di quanto l’esempio mostri, ma il senso è chiaro: se partiamo da teorie generali (come egualitarismo, liberalismo, utilitarismo…)non siamo in grado di soddisfare le istanze diverse, eppure pienamente razionali, che stanno alla base di una medesima esigenza, e siamo costretti a escludere ragioni non arbitrarie. Le “grandi teorie” della giustizia si sono costituite per lo più sulla base della definizione di un assetto sociale perfettamente giusto, sul quale tutti gli esseri razionali dovrebbero convenire in un accordo trascendentale unico; partono insomma da un’idea di giustizia razionalmente fondata, dalla quale emerge un sistema di principi di giustizia, interpretano i casi concreti a partire da questa idea di giustizia e stabiliscono quali istituzioni siano adatte a promuoverla e realizzarla. Si tratta di un’idea di giustizia che si declina in regole, norme di comportamento che la attuano: una concezione di giustizia in fin dei conti incentrata sulla struttura di una ragione astratta.
Questo modo di costruire l’idea di giustizia è tipico, dice Sen, di un certo filone dell’Illuminismo, variamente articolato intorno alla nozione di un ipotetico “contratto sociale” (Hobbes, Locke, Rousseau), che giunge fino all’approccio contrattualista che ha esercitato il maggiore influsso sulla filosofia politica contemporanea, quello di John Rawls (con il suo celebre libro Una teoria della giustizia del 1971),autore che per Sen rappresenta una vera pietra di paragone.Rawls argomenta così: la giustizia deve essere intesa in termini di requisiti di equità, e per equità si deve intendere innanzitutto un’istanza di imparzialità, la quale “imparzialità” a sua volta è specificata dall’invenzione teorica dell’idea di una “posizione originaria”, “un’ipotetica situazione di iniziale equità, nella quale i gruppi coinvolti sono all’oscuro dei rispettivi interessi e identità personali. I loro rappresentanti sono chiamati a compiere scelte sotto questo “velo di ignoranza”…, ed è in questa condizione di ignoranza che principi di giustizia vengono scelti in modo unanime”. Insomma viene ipotizzato un punto zero, un punto di partenza in cui la ragione è “pura”, non è condizionata da interessi, pregiudizi, propensioni: in questo luogo teorico miracoloso gli esseri umani convergono razionalmente, attraverso una sorta di spontanea ragionevolezza, su ciò che è giusto: in questa “situazione iniziale” persone ragionevoli scelgono i principi di giustizia. Tali principi di giustizia andranno poi a determinare le istituzioni sociali di base che governeranno la società.
(tra parentesi, Rawls ritiene che tali principi, individuati da una scelta razionale unanime, quelli cioè che tutti sceglierebbero se si trovassero nella “posizione originaria” sarebbero i seguenti:
“a. Ogni persona ha un uguale diritto al sistema di uguali libertà fondamentali più esteso, compatibile con un sistema di libertà analogo per tutti.
b. Le disuguaglianze economiche e sociali sono ammissibili a patto
1) di dare il massimo beneficio previsto ai meno avvantaggiati,
2) di essere associate a posizioni e cariche aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza delle opportunità”).
Amartya Sen ritiene che la costruzione di una teoria della giustizia debba procedere in modo inverso a quello ipotizzato da Rawls e in genere dal contrattualismo, e debba fare a meno di ipotetici “stati di natura” in cui gli uomini possano esercitare una pura razionalità. Per costruire la sua “teoria”, cioè una posizione comunque argomentata razionalmente, Sen si riferisce piuttosto a una diversa prospettiva presente nell’Illuminismo, quella coltivata per es. da Adam Smith, Condorcet, Bentham, Stuart Mill, che pure dà grande importanza all’argomentazione razionale, evitando di affidare al sentimento e all’intuizione la valutazione del giusto e dell’ingiusto. In questa prospettiva però la costruzione di una teoria della giustizia non prescinde dalla concreta realtà sociale, e dalle esperienze complesse che le persone vivono in essa, anzi ritiene che il senso della parola giustizia possa emergere solo da tale complessità. Non si tratta, in questa prospettiva, di individuare innanzitutto l’ “idea” di giustizia e le istituzioni “giuste” che possono realizzarla, si tratta piuttosto di confrontare modi di vita, comportamenti individuali e interazioni sociali; si tratta di cogliere le relazioni, sempre sottili e sfuggenti, tra le emozioni e le ragioni che insieme e spesso nel loro intreccio guidano le scelte che chiamiamo libere; si tratta di valutare le diverse forme di condizionamento che rendono concrete le scelte. Senza con questo sminuire l’importanza dell’argomentazione razionale, anzi evitando con forza di abbandonarsi alla persuasione della natura pervasiva dell’irrazionalità.
La concretezza del metodo adottato da Sen punta quindi, in contrasto con il contrattualismo classico e contemporaneo, e evidenziare il modo comparativo di dare risposta alle questioni di giustizia, senza concentrarsi innanzitutto sull’individuazione dei requisiti che dovrebbe avere una società perfettamente giusta; non isola un modello di “società perfetta” dalle altre società, come se questa potesse separarsi dal resto del mondo, o imporre al resto del mondo la sua “perfezione”; non trascura il fatto che, realisticamente, le persone possano comportarsi in modo “non ragionevole”, e cerca di aprire costantemente uno spazio di dialogo tra opinioni differenti al fine di ricercare un orientamento per quanto possibile comune attraverso il confronto pubblico, e a tale scopo ricerca modi e mezzi per ampliare la base informativa della scelta sociale.
L’approccio di Sen è quindi relazionale, e si serve della scelta sociale come metodo di indagine, dove con l’espressione “scelta sociale” si intende una teoria, più o meno formalizzata, che aggrega i giudizi individuali di un gruppo eterogeneo di persone in un insieme che soddisfa condizioni minime di ragionevolezza. Questa teoria si concentra sulla dimensione comparativa, sulle ragioni pratiche che operano dietro le scelte e le decisioni individuali e collettive; riconosce l’inevitabile molteplicità dei principi in competizione reciproca nell’ambito della giustizia sociale, dando rilievo alla pluralità delle posizioni e così accettando, da un lato, il rischio dell’impossibilità di giungere a una soluzione definitiva dei problemi, dall’altro tenendo conto che proprio la possibilità che esistano contrasti permanenti tra principi non eliminabili può essere molto importante per una teoria della giustizia; ammette le soluzioni parziali e non definitive dei problemi di giustizia sociale, e anche la possibilità che una teoria della giustizia accettabile proponga classificazioni incomplete della giustizia. Tenendo conto comparativamente delle diverse istanze e rispettando la complessità delle situazioni, “in base ai parametri in concorrenza emergeranno gerarchie alternative diverse, con alcuni elementi comuni e altri divergenti. L’intersezione tra i vari ordinamenti prodotti dalle diverse priorità darà luogo a un ordinamento parziale, che si esprimerà con chiarezza e coerenza su alcune coppie di opzioni”.
L’approccio metodologico opportuno, a parere di Sen, per giungere a una teoria della giustizia apre insomma una via lunga, attenta alle differenze, priva di garanzie, ma molto ricca nell’attenzione ai motivi delle scelte concrete e rispettosa dei principi che le sorreggono, i quali devono essere sempre discussi e mai eliminati a priori. La discussione avviene attraverso il confronto razionale, nella persuasione che questo possa conciliare posizioni in conflitto che solo a prima vista appaiono irrazionali, in quanto, dice Sen “i pregiudizi poggiano in genere su qualche forma di ragionamento, per quanto fragile e arbitrario… e il più delle volte l’irrazionalità non consiste nella completa deroga al ragionamento, ma nell’uso di ragionamenti molto primitivi e difettosi”.
La propensione di Sen al comparativismo è anche un retaggio della cultura indiana dalla quale Sen proviene, che spesso nutre con esempi interessanti i suoi ragionamenti, e che complessivamente gli fornisce una distinzione di rilievo, operante, sul piano questa volta del contenuto, in tutto il suo lavoro. Si tratta di due diverse nozioni di giustizia desunte dall’antica giurisprudenza indiana: niti e nyaya” parole che in sanscrito significano entrambe “giustizia”. “Il primo concetto (niti) si riferisce sia all’adeguatezza di un’istituzione sia alla correttezza di un comportamento; il secondo (nyaya) riguarda i dati riscontrabili e il modo in cui si presentano, in particolare la vita che le persone sono effettivamente in grado di condurre”. Ora “il dato cruciale qui – scrive Sen – è che, per realizzare la giustizia in termini di nyaya, non basta valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le società stesse. Non importa quanto siano appropriati gli assetti stabiliti: se un pesce grande può ancora divorare un pesce piccolo a piacimento, siamo di fronte a una palese infrazione della giustizia umana intesa come nyaya”.
Insomma Sen adotta una prospettiva incentrata sulla realtà concreta, e ci spinge più a denunciare, prevenire e combattere l’ingiustizia manifesta nel mondo che a cercare la giustizia perfetta.
Trascrizione della relazione di Gianni Vaggi
Grazie mille, prima di tutto, a Giovanni e a Silvia Bianchi dell’invito. Mi fa sempre molto piacere ritrovare loro con cui ci conosciamo da 40 anni e con cui in qualche modo riflettiamo su tematiche che sempre ci appassionano. Lo dico con grande piacere e con grande sincerità: a questo tipo di tematiche Giovanni Bianchi mi ha molto aiutato ad avvicinarmi quando eravamo verdi sul serio tutti e due.
Roberto Diodato ha fatto già una descrizione molto completa ed essenziale che Sen fa in questo libro. Estremamente utile, quindi mi ha semplificato tantissimo il lavoro, che poi non è un lavoro, ma un piacere ritrovarmi qui con voi.
Lasciatemi fare due premesse; una di carattere semibiografico. Io ho incontrato Amartya Sen la prima volta nel 1972 a Cambridge, però lui faceva il professore, io era a un seminario che lui teneva e in realtà si occupava di cose molto più tecniche. Poi ci siamo ritrovati agli inizi degli anni ’90 e in qualche modo siamo rimasti sempre in contatto. C’è un’annotazione appunto della sua biografia che credo importante anche per capire le cose che emergono in questo libro come in altri libri negli ultimi 20 anni, il suo interesse per la storia del pensiero economico, in particolare per Smith che è l’altro, con Rawls, grande punto di riferimento di fatto di questo testo, che deriva anche che l’attuale moglie di Amartya Sen, Emma Rothschild, è una storica del pensiero economico, in particolare dell’Illuminismo e forse una delle persone al mondo che ne sa più di tutti su Condorcet in particolare. Quindi, c’è un’attenzione che deriva anche da un dialogo familiare che viene portato avanti.
L’altra considerazione è che io non consiglierei mai a qualcuno (non vorrei scoraggiarvi) di prendere questo libro come il primo libro di Sen che eventualmente legge, perché è un libro difficile, perché è un libro che ha due dimensioni: c’è il punto principale, quello che ci ha sottolineato Roberto Diodato, la contrapposizione tra quella che lui chiama la corrente dell’istituzionalismo trascendentale, e quest’altro confrativismo che deriverebbe da Smith, che poi vediamo cosa significa come metodo di indagine. Però come spesso accade nei lavori di Sen, qui la cosa è abbastanza forte, ci sono molte altre finestre che si aprono. Che cos’è una finestra? È una cosa da cui vedi qualche cosa, e lui ci fa vedere delle cose, cose che hanno relazioni, ovviamente, con il tema principale. Ci sono finestre che si aprono sul Bhagavad Gita, poema religioso indiano; c’è Gramsci, c’è Aristotele; ci sono storie come quella del flauto, ma ce ne sono tante altre. Queste finestre è chiaro che hanno un significato rispetto al senso, ma nello stesso tempo rappresentano anche un metodo di presentazione dell’argomento, che possono a volte anche rendere più difficile seguire il filo. Quindi, la presentazione di Diodato è stata utilissima.
Più ancora che in altri testi, questa è un’allegoria in cui ci sono delle parti di argomentazione estremamente serrata, quando discute, diciamo, tra virgolette con i suoi colleghi, che non sono solo Rawls anche se lui in particolare, Nozick, Dworkin e molti altri, e lì i passi vi garantisco non sono semplici; e poi invece quando discute un po’ di più con noi e vuole convincerci della sua posizione. Però il testo, proprio per questo, è affascinante.
Trattandosi di un testo complesso, e appunto anche che ha un tema che viene presentato in modo allegorico, ci sono tante piastrelle che devono comporre il mosaico, poi la figura centrale del mosaico c’è, ma le piastrelle proprio per il mito del comparativista hanno il loro rilievo, allora a me sembra importante qui fare una premessa che è la mia lettura del lavoro di Sen che personalmente, anch’io come diceva Giovanni Bianchi, considero assolutamente un maestro.
Che cosa ti insegna un maestro? Che cosa ti vuole dare davvero un maestro? E questo lo fa in tutti i suoi libri, per lo meno da 30 anni a questa parte in modo chiarissimo. Lo ha detto già Roberto Diodato, un metodo, non ti dà una verità, guai, non ti dà un modello, Cerca di darti un metodo, convincendoti che questo non è l’unico, ma è certamente un modo per. Allora, un modo per, un metodo per un qualcosa, per uscire. Ovviamente, non possiamo pensare che Sem non abbia un punto di partenza e non abbia un’idea su dove arrivare. Lui ce le ha, anche se ci dice: “Non aggrappatevi alle vostre posizioni originarie, alla vostra cultura, al vostro territorio, a quello di cui discutete con i vostri più vicini”. Si parla di popoli anche, di popolo, di un cerchio più stretto, quello in cui ci si capisce meglio. Ma più che questo che lui sicuramente ha (questa è una interpretazione mia ovviamente, che sia molto importante averlo ben presente nel leggere questo libro), Sen non è un relativista, tanti punti di vista diversi e poi dopo più o meno vanno bene, oppure… Certo che si devono combinare e si devono confrontare, ma lui ha chiaro dentro di sé (poi possiamo essere d’accordo o no) se non il punto di arrivo, il modo per individuare se stiamo seguendo un percorso, un processo, qualcosa che riduce la nostra distanza da un qualche punto di arrivo.
Su che cosa misura questo percorso? Quindi, il suo metodo. Lo misura sul concetto di libertà, badate bene. “Giustizia come equità ed equità come giustizia” è Rawls 1958. Dobbiamo leggere anche questo evento, a mio modo di vedere, nell’ottica anche di che cosa intende Sen per libertà, o meglio dovremmo dire liberazione. Perché la diversità dei punti di vista, e ve lo dico dall’inizio altrimenti poi dopo non va bene, il comparare diverse culture, come dire, un criterio per sapere in che direzione ci stiamo muovendo, se questa direzione, diciamo, ha un segno più o un segno meno lui ce lo dà.
Se potessi sintetizzare l’opera di Sen in una frase, direi: la libertà come processo attraverso la conoscenza e il dialogo; la libertà è l’aumento delle opportunità di scelta, per qualcuno di noi o per ognuno di noi. Così come lui ha definito la povertà, come la mancanza delle opportunità di scelta. Lui non definisce mai la ricchezza. Troverete pochissime espressioni, parole in cui lavori, ma definisce più volentieri la povertà come mancanza di opportunità. Allora la libertà è questa liberazione. È un’idea di giustizia, non è una teoria della giustizia, perché, è già stato scritto da Rawls, forse non gli interessa una teoria della giustizia. Anzi, è nelle sue parti più, diciamo, argomentative all’interno del dibattito sulla giustizia, forse ha anche un po’ paura delle teorie della giustizia, e ci mette un po’ in guardia dal prendere in modo forte… Forte cosa vuol dire? Forte vuol dire che escludi il dialogo, che escludi il confronto, o che vai a un dialogo, a un confronto pensando però che tutto sommato il mio è il dio vero e gli altri… capito? Di questo ha paura Sen, e allora ci offre un metodo, Ma non è un metodo e basta. È un metodo che però ha sempre come parametro di guida un qualcosa che ci consente di vedere se c’è un po’ più di liberazione per alcuni di coloro che partecipano a questo dialogo di conoscenza. Io credo che questo sia molto importante perché lo si ritrova facilmente nei vari testi di Sen e mi pare che sia in realtà anche (non compare nel titolo) ma è sotteso ed è esplicitamente portato alla luce.
C’è un bellissimo capitolo in cui lui distingue nell’espressione inglese libertà: liberty, oppure freedom, che non vogliono dire la stessa cosa: liberty è quasi come un diritto che ognuno di noi ha; freedom è un processo e lui gioca, come sa fare lui ovviamente, per alcune non poche pagine proprio su questa questione. Teniamo a mente che nel 1999 ha scritto un libro che si intitola Lo sviluppo come libertà, non lo sviluppo è libertà: “The development as freedom”, come processo di liberazione.
Sen è attento a partire dalle cose concrete, e poi delineare dei possibili percorsi. Questo è molto importante e non sono percorsi che uno vale l’altro: attenzione! Non è così: sono percorsi che hanno effettivamente una guida.
Scusate un po’ questa lunga introduzione, ma altrimenti un pochino ci si perde nei dibattiti con Rawls e così via.
Vediamo adesso i contenuti di questo libro e mi soffermerò su alcune questioni che a mio modo di vedere sono quelle centrali per capire come si fa in pratica a realizzare un confronto sulle idee di giustizia, come si lavora. Questo veramente è Adam Smith, ma ci arriviamo dopo.
Fatemi anche ricordare questa distinzione, Sen è un grandissimo uomo, io lo ritengono una delle persone che più hanno da insegnarci, e ci hanno insegnato. È ovvio che se voi presentate questi due filoni di pensiero che vengono dall’Illuminismo, e anche un pochino prima, forse lo dobbiamo collocare un attimo prima Hobbes, Locke, Kant, Rousseau, Rawls, quello che lui chiama istituzionalismo trascendentale, c’è un’idea di giustizia che si realizza attraverso dei consensi sulle istituzioni e sulle norme. Quindi, è molto legata alla politica nel senso del come si forma.
E l’altro filone, Smith, Condorcet, Bentam, John Stuart Mill, Marx, per arrivare allo stesso Sen. È ovvio che se voi andate a prendere questi due gruppi di autori, quello che lui ci offre è una lettura, perché sappiamo benissimo che con altre tipi di letture mettere assieme John Stuart Mill e Marx sarebbe molto difficile. E forse anche la distinzione che noi possiamo fare tra Kant e Smith e John Stuart Mill stesso non è così forte.
Questa è una cosa che a volte Sen fa, come fanno anche molti, per fare il punto deve in qualche modo tagliare con il rasoio di Occam, deve semplificare le cose e classificarle. Quindi, qualche riserva su questi due filoni, dal punto di vista interpretativo – io sono un economista non un filosofo, però mi sono occupato per tanti anni di Illuminismo e di Marx – si può anche vedere. Però quello che conta in questi casi è il messaggio.
Chiaramente, lui lo dice subito in apertura, questo libro, contrariamente alla maggior parte delle moderne teorie della giustizia, centrate sull’idea di una società giusta, è un tentativo di procedere per confronti basati sulle realizzazioni concrete che riguardano il progresso e il regresso della giustizia. Quindi, la maggior parte delle teorie moderne sono nell’altro filone, quello del contrattualismo sociale di Rawls, perché è quello che spiega meglio la realizzazione delle società politiche concrete, alla fine della fiera.
È vero. Ci sono tanti modi per spiegare perché lo stato è fatto in un certo modo, e quello riesce a spiegarlo. Quindi, lui sa di proporre qualcosa che è minoritario, però tornando al discorso sulla libertà che vi dicevo prima, procedere per confronti basati sulle realizzazioni concrete che riguardano il progresso o il regresso della giustizia. Lui ha un criterio, il progresso o il regresso della giustizia, quello che vi dicevo prima. Ma sa che è in una situazione minoritaria e dice: il mio punto di partenza ha il duplice effetto di imboccare la via comparativa anziché quella trascendentale. (Allora, questi autori grandissimi quando scrivono, ogni tanto vanno giù pesanti con i loro colleghi, perché se tu dici a uno che lui si colloca in un filone che si chiama istituzionalismo trascendentale, capite che non è tanto un complimento perché vuol dire che addirittura dai all’istituzione una valenza ontologica. Bisogna dire le cose come sono, cioè è una classificazione abbastanza discutibile.) Ha l’effetto di imboccare la via comparativa e di concentrarsi sulla realtà effettiva delle società considerate, anziché limitarsi a valutare istituzioni e norme. Ma se non valutiamo istituzioni e norme che cosa sono le società concrete? È un altro punto in cui veramente bisogna capire che cosa andiamo a comparare.
Sen ha un altro grande punto di partenza, che si lega alla sua idea di liberazione ed è l’individuo; in un linguaggio a noi più familiare potremmo parlare di un mondo cristiano, cattolico, potremmo parlare di persona. Le istituzioni, le norme, le persone, gli individui, tutti questi esempi che lui fa da quello bellissimo con cui apre dei tre bambini, il discorso del flauto, ma attenzione, queste società di cui noi parliamo sono fatte di persone. Noi dobbiamo rivolgerci anche a queste persone. La teoria della giustizia istituzionalista trascendentale si muove per disegni che sono visti come da applicare in determinate realtà. È vero, ci sono le norme sociali che non sempre esattamente coincidono con le istituzioni, ci sono moltissimi esempi , ma queste società sono soprattutto società fatte di persone. Guardate, questa è una caratteristica di Sen per cui è molto difficile, come dire, lui non è un utilitarista, non è un individualista metodologico, assolutamente, però ha questa attenzione alle persone concrete messe dentro a una certa realtà. E non bastano le istituzioni e le norme.
La giustizia non è soltanto un’idea di ciò che è giusto in astratto, ciò che ci dicono i pensatori. E qui è dove, adesso lo vedremo quando arriveremo a Smith. La giustizia è la formazione del giudizio che noi ci facciamo su ciò che è giusto e sbagliato; è una formazione del giudizio. Che senso ha comparare le cose se non per conoscerle, per cercare di capirle, per leggere le realtà (lo dice lui) con gli occhi degli altri? Tra l’altro questa è una frase di Smith.
Cioè, che cosa vuol fare? Non è il problema del costruire l’istituzione. Il problema è prima di tutto, come dire, farmi un’idea, formarmi un giudizio di ciò che è giusto e sbagliato, di dove voglio andare. Teniamolo molto presente: la giustizia è la formazione del giudizio che noi ci diamo, o che ognuno di noi si dà. Il punto probabilmente centrale di tutto il libro, credo, a mio modo di vedere. È qui dove veramente lui prende, prende parecchio da Smith, è questa distinzione tra imparzialità chiusa e imparzialità aperta. Questo è il metodo, questo è il metodo che lo consegue.
Nel 1759, quindi un po’ di anni prima di scrivere La ricchezza delle nazioni che è il suo testo più famoso, Smith scrive un testo che si chiama La teoria dei sentimenti morali. Se voi vedete le opere di Sen degli ultimi 30 anni, vedrete che questo è uno dei testi che lui cita maggiormente. In questo testo, che è un testo di etica, Smith identifica un metodo per arrivare a giudizi condivisi su ciò che è giusto e sbagliato. L’etica è la ricerca della virtù. Ma lui non parte in questo testo dicendo è giusto questo, è giusto quello, bisogna fare questo, bisogna fare quello. Le parole con cui Smith apre (1759, quindi 250 anni fa), il titolo del suo primo capitolo, dice: il principio su cui si fonda la morale, l’etica, è il principio della simpatia.Sympathy in inglese in realtà noi lo tradurremmo con empatia. È il principio per cui, traduco quasi letteralmente, per quanto ognuno sia interessato ai fatti propri, in inglese la cosa è self flow che è un pochino più bella che “fatti propri”, c’è però dentro di noi qualcosa che ci rende interessati al benessere degli altri. Questa è l’apertura del libro di Smith, quello che viene accusato, o viene detto essere il padre dell’utilitarismo, ed è sbagliato. Fodativo è il principio di questa simpatia, di questa capacità di mettersi in relazione con gli altri.
Cpacità di entrare in relazione. Per quanto ognuno di noi possa essere, tra virgolette, interessato al suo self flow, per quanto ognuno di noi possa essere egoista, in realtà c’è dentro di noi un principio che ci rende attenti alla situazione degli altri. Nasce negli anni attorno al 1860 un dibattito fra gli autori proprio dicendo: ma allora Smith era altruista o era egoista? Perché qui nella Teoria dei sentimenti morali sembra uno Smith altruista che critica il principio dell’utilità molto pesantemente, dice che è un principio sbagliato, lo scrive. E poi invece dopo sembrerebbe essersi pentito. Lasciamo questo problema che è noto come il problema di Adamo Smith nella letteratura, ma certamente Sen usa tantissimo il metodo che nellaTeoria dei sentimenti morali dove Smith dice come si fa a sviluppare la relazionalità in vista,di una condivisione dei giudizi, in vista dell’avere una visione, un’idea di giustizia che sia il più possibile condivisa, ma non data a priori dal filosofo o dal politico di turno. Che nasca attraverso il dialogo, la comparazione, la conoscenza. La metafora che Smith usa è quella dello spettatore imparziale. Chi è lo spettatore imparziale? È quello che in una determinata situazione si pone distante, diciamo, dai due punti di vista, dai due contendenti, si pone come arbitro, si pone fuori e cerca di leggere una situazione attraverso degli occhi terzi.
O addirittura, dice a volte Smith, si va anche al di là. In ogni situazione concreta provate a uscire da voi stessi e a entrare nella posizione dell’altro e a vedere come l’altro vede voi. Guardatevi con gli occhi degli altri. Usa delle altre immagini, ovviamente, usa l’immagine dello specchio. Provate a mettervi davanti a uno specchio, ma uno specchio che è altro, non siete voi; l’immagine riflessa non è quella mia che vedo, è un’immagine che viene da altro. ltre all’immagine dello specchio poi c’è l’idea che in ogni situazione concreta noi dobbiamo distanziarci. Lo spettatore imparziale è quello che si distanzia. Guardate che questo è un esercizio che Smith raccomanda, un esercizio che Sen raccomanda.
Che cos’è l’imparzialità aperta che io credo sia il cuore del suo messaggio, francamente? Tutto il resto ne deriva. L’imparzialità chiusa è quella che ci diceva benissimo Roberto Diodato prima, che deriva dalla posizione originaria. Io mi confronto con il mio gruppo, con il mio popolo, mi confronto con loro, ma non sento il bisogno, la necessità di confrontarmi, di usare questo meccanismo dello specchio, del pormi con gli occhi degli altri, al di fuori del mio gruppo di riferimento. Il gruppo può essere un circolo di amici, può essere un popolo che ha delle norme, non ha solo delle istituzioni, ha delle norme consuetudinarie. Metto il velo, non metto il velo…
Attenzione, non sono tutte norme così, però l’imparzialità chiusa è legata alla posizione originaria, alla mia storia, al dove sono. Io sono nato cattolico, battezzato, e guardo, leggo, mi confronto all’interno, in qualche modo, del mondo della chiesa cattolica, del cristianesimo e così via. Ovviamente, non è questo che piace a Sen. Poi, insomma, anche qui, è la stessa storia che dicevo prima, l’istituzionismo trascendente. Quando uno sceglie i termini, già ti orienta, perché dire imparzialità chiusa, imparzialità aperta, tutti diciamo meglio l’imparzialità aperta. Sono strumenti dialettici di convincimento e questo è importante perché poi c’è un altro elemento fondamentale per il passo che faremo.
Noi vogliamo l’imparzialità aperta. L’imparzialità aperta è quella del secondo filone che nasce dall’Illuminismo. Dovevo dirlo prima ma mi sono dimenticato. A me dispiace che dentro questo filone dell’Illuminismo non ci sia un riferimento al barone di Montesquieu, perché quando si parla di modernità (1748, Lo spirito delle leggi) il barone di Montesquieu è nel filone diciamo, dell’istituzionalismo, del contrattualismo, ma è forse il personaggio che più ha dato rilievo.
Ma veniamo all’imparzialità aperta. L’imparzialità aperta è questo esercizio dello spettatore imparziale, del leggere se stessi attraverso gli occhi degli altri al di fuori della propria posizione originaria. È il comparativismo, ma fuori da… “Fuori da” vuol dire con gruppi, con persone, con realtà, con religioni, con situazioni, popoli, norme che non conosco, che sono diversi. Io ho letto tanti anni fa, confesso, il Ramaiana, ma il Mahabarata non ce l’ho mai fatta a leggerlo tutto, anche se ho letto dei pezzi. È chiaro che sono storie molto diverse dalle nostre.
Allora lì si spiegano la costruzione allegorica di Sen, il fatto che voi ci trovate la realtà indiana, ma non solo; trovate esempi che derivano dal mondo musulmano e così via… Cioè, lui vuole portarci a dire: ma guarda che ci sono dei pezzi di storia che sono diversi dal tuo. L’imparzialità aperta è quando tu fai questo esercizio dello spettatore imparziale, del portarti fuori da te. Che vuol dire giudicare, esprimere dei giudizi sulle situazioni, magari su te stesso, però andando a comparare, a conoscere.
E qui c’è un altro pezzo che a me pare fondamentale, se no non ci capiamo. Adesso io non ve lo sto a leggere, ma quando parla di imparzialità chiusa o aperta – siamo alla fine del cap. V inizio del cap. VI – lì ci sono anche citazioni di Smith che ci risparmiamo e così via. Allora, come si fa questa cosa dello spettatore imparziale, come si usa questo metodo? È facilissimo al giorno d’oggi e difficilissimo al tempo stesso. Perché questo metodo presuppone il linguaggio. Prima c’è una parte in cui Sen si occupa di posizioni oggettive e così via, in cui ci racconta di Wittgenstein, di Gramsci, di Sraffa.
Il linguaggio: come ci si conosce se non attraverso il modo di comunicare? Come facciamo a conoscere le realtà diverse, fuori da noi, distanti, se non attraverso la comunicazione? Ogni strumento di comunicazione è linguaggio, mica soltanto il fatto che conosciamo l’inglese. Oggi abbiamo una quantità di strumenti a disposizione che è assolutamente incredibile, enorme, per conoscere e per comunicare. Non li sto nemmeno a citare, i media sono di una potenza pazzesca. Però dobbiamo capire che questo strumento fortissimo che abbiamo a disposizione, che ci consente di conoscere cose distanti da noi, diverse da noi, richiede il nostro atteggiamento dello spettatore imparziale e di una imparzialità aperta. E richiede, lui non lo usa questo termine ma io mi permetto, richiede curiosità nei confronti delle altre situazioni.
Perché questo? Perché in sostanza è, come diceva appunto bene Diodato prima, è attraverso la relazionalità che si può procedere verso il tentativo di creare uno spazio di condivisione su ciò che è giusto, che sia uno spazio che è come due cerchi che si intersecano, ma che man mano questa intersezione si possa allargare sempre un po’ di più.
Il confronto è necessario, la conoscenza è necessaria per il confronto, potremo davvero aumentare le occasioni di libertà come liberazione attraverso un processo che ci veda tutti impegnati nel confronto, nella conoscenza e nel dialogo: per questo lo strumento del linguaggio è fondamentale.
Nel capitolo secondo della Ricchezza delle nazioni, il libro più noto di Smith, e quindi siamo propria all’inizio, Smith dice che le società umane, nella loro componente economica, perché si occupa della componente economica, si reggono, diciamo, sulla innata predisposizione di ciascuno di noi a cercare di migliorare la sua situazione. Questa versione che poi è stata scambiata con l’egoismo, ognuno di noi, dentro di sé, vuole migliorarsi. Poi c’è la divisione del lavoro, facciamo tante cose diverse, però facendo tante cose diverse il nostro benessere aumenta, ecc. ecc. Ebbene, Smith dice: questa predisposizione che sta dentro di noi non è un principio ultimo della natura umana, l’egoismo se vogliamo tradurlo in modo un po’ frettoloso, non è il principio ultimo della natura umana, ma è un principio che deriva da due caratteristiche che dentro di sé ha l’uomo: una è la ragione e su questa, per distinguerci dagli animali, siamo tutti d’accordo, l’altra è la parola. E come mai Smith mette insieme ragione e parola? Linguaggio. Perché il linguaggio è la capacità di comunicare. Tu non hai società umane se non hai la possibilità di comunicare. C’è un capitolo del libro di Sen in cui dice: ma siamo uomini economici o individui sociali?
C’è un bellissimo libretto mai tradotto in italiano di uno studioso scozzese che nel 1967 parlando di Smith ha scritto in un testo intitolato L’individuo in società. Non è l’uomo economicus, è l’individuo in società, cioè nelle sue relazioni con gli altri; mica è interessato solo al mercato, è interessato a un sacco di cose questo individuo. La pluralità delle fonti, dice Sen, la pluralità delle fonti. Se tu pensi in un unico principio di poter sintetizzare la giustizia, tu sbagli. Se pensi in un unico principio di poter spiegare una società umana tu fai un’opera di riduzionismo, ma anche un’opera estremamente pericolosa.
Qui arrivo alla chiusura. Perché Sen ha scritto questa cosa? L’idea di giustizia? Perché se la prende con il contrattualismo? Non perché lui non stimi questi autori, ci mancherebbe ancora. Dalla loro parte ci mette Kant, figuriamoci. Ma perché lui dice: attenzione, perché noi oggi siamo in una situazione in cui non basta, anzi può essere illusorio e pericoloso, credere che arriviamo alla giustizia come equità attraverso delle forme di contrattualismo. Le istituzioni, le norme, facciamo il federalismo e abbiamo risolto tutto, oppure facciamo l’Europa unita e abbiamo risolto tutto. No, c’è qualcosa di più e di diverso. Cos’è questo qualcosa di più? Sono le idee di giustizia che gli individui si fanno. Metto il velo o non metto il velo. Capito? Sono queste le cose su cui dobbiamo davvero confrontarci. Se noi ci limitiamo alle strutture, alle istituzioni, trascuriamo una parte fondamentale dell’essere sociale che sono gli individui, le persone, ancora una volta, e poi queste ti possono scassinare le istituzioni se non c’è dentro, come dire, un’idea, un modo di formulare i giudizi, un convincimento.
E come faccio a convincermi con i diversi? Devo prima conoscerli, devo uscire dall’imparzialità chiusa, dalla posizione originaria e questo prima della conoscenza. La conoscenza si fa con i media, con gli strumenti, il linguaggio, il dialogo e lì si ferma. Non mi dice chi dei tre bambini avrà il flauto. Lo dice? Non lo dice, ma non vuol dire che è un relativista, perché è uno che ha bene in mente che la misura di cui questo processo di imparzialità aperta è il procedere della piccola libertà per qualcuno piccolo di noi. Quindi la misurabilità c’è. Ma quello che Importa è il metodo. Non voglio sapere che cosa c’era all’inizio e neppure quale sarà il mondo ideale, voglio però che tu esca da te e ti confronti e ti conosca e tu parli, e tu dialoghi. E che tu misuri questo percorso, sul fatto se vedere che chi è partecipe a questo dialogo ha dopo un briciolo, diciamo, di opportunità di libertà e di scelta in più, possiamo metterla così.
Allora, vedete che è un metodo che ha grandissima attualità, che richiede di uscire (lo scrive lui) dal provincialismo, è una premessa per poter applicare questo metodo, perché se no lo neghi, stai nella imparzialità chiusa, che cioè non è neppure imparzialità.
Chiudo, poi possiamo ovviamente, anzi mi farebbe molto piacere, ritornare sugli argomenti. Vi chiedo scusa se anche è stata un po’ costruita questa chiacchierata, però questo libro, che è l’ultimo di Sen, si inserisce in un percorso che va avanti da più di 30 anni. Come dicevo all’inizio, non è soltanto una polemica con Rawls, non è soltanto la descrizione delle cose sulla democrazia che scrive qui, le aveva già scritte, ma le riprende, tanti esempi sono già stati fatti, non è neppure dire il contrattualismo non serve. Non è questo. Guardate che Sen è uno che molto raramente dice no, questa è la strada sbagliata, è difficilissimo che lo dica. Dice, attenzione, dobbiamo fare qualche cosa: è questo metodo che giustamente lui attribuisce a Smith, è un metodo che però in realtà Smith stesso prende da un misto di Socrate e di stoicismo, è un esercizio che ognuno di noi deve fare, è un esercizio necessario. Pensare di poter evitare questo esercizio dello spettatore imparziale attraverso il compararsi con altre situazioni è assolutamente improponibile.
L’ultima cosa che voglio dirvi riguarda un libro precedente di Sen, Identità e violenza del 2001. Lì lui ci mette in guardia – fa riferimento soprattutto alla realtà inglese – da quello che chiama il pluralismo monoculturale, che è una cosa che non è da spettatore imparziale di imparzialità aperta, perché dice: se io ho tante società che vivono l’una a fianco all’altra, i pakistani di Birmingham stanno con i pakistani di Birmingham, i nigeriani stanno con i nigeriani, gli inglesi stanno con gli inglesi, io lì ho tante realtà, quindi ho pluralismo, ma questi non si incontrano. Ognuno sta con la sua cultura. O pensate anche all’Olanda. Un paese che sembrava tra i più imparziali come mai vengono fuori queste tensioni? Perché evidentemente il pluralismo può essere monoculturale: tolleri, accetti, ma non ti conosci, non ti incontri, non fai il gioco di uscire dalle tue scarpe e di entrare in quelle dell’altro, qualunque cosa questo possa significare in concreto.
Allora lui, si riferisce, ripeto, in particolare alla realtà di certe grandi città inglesi, e dice: guardate che noi, quando parliamo di pluralismo, dobbiamo stare attenti perché possiamo avere un pluralismo monoculturale, ognuno se ne sta per le sue cose e poi prendono tutti la stessa metropolitana, magari ubbidiscono tutti alle stesse leggi, ma in realtà non c’è il gioco della imparzialità aperta. Questo non c’è.
Allora, io qui mi fermo e vi invito, se avete voglia, a leggere questo libro.
I media oggi ci danno anche un grande enorme vantaggio: uscire da se stessi per praticare l’imparzialità aperta non vuol dire che dobbiamo conoscere tutto il mondo, andare in giro dappertutto, leggerci tutti i testi di tutte le religioni del mondo e così via perché il principio della conoscenza dell’altro gode anche della proprietà transitiva. Pensate a situazioni di paesi in via di sviluppo dove voi magari non ci siete mai stati, però conoscete un’associazione che ci lavora da tanto tempo, avete degli amici che ci sono stati e vi hanno raccontato delle storie. Io magari non andrò mai in Giappone, per dire, però ci sei stato tu in Giappone e noi facciamo parte dello stesso gruppo e quando ritorni dal Giappone mi racconti delle cose; siccome io di te mi fido, ho già stabilito con te un rapporto di fiducia più stretto, allora io posso conoscere quest’altra cosa anche se non ci vado direttamente ma attraverso la conoscenza fatta da qualcun altro.
Ovviamente, questo ha anche il risvolto della medaglia: se sui grandi media passano delle forme di conoscenza o immagini di un altro di un certo tipo e io le assorbo… gli arabi sono tutti terroristi… Capito? Diverso è se io sento Giovanni Bianchi che torna dall’Iraq e mi dice: guarda che funziona così e così. Quindi dobbiamo anche stare molto attenti a queste modalità di conoscenza. Sempre meglio andare a vedere con i propri occhi. Ricordandosi però di provare a mettersi anche dall’altra parte.
E poi però stare attenti anche che ci sono modi di arrivo (?)…questo lo dico pensando anche ai miei tre figli che sono bravi ragazzi, qualcuno di loro gira il mondo, ma quando si parla con loro è chiaro che l’immagine che a volte viene proposta di certe situazioni, così con questa enorme potenza che hanno certi media, è un’immagine che non aiuta a dire: ma come quelli guarderanno me. È un’immagine un po’ piatta, un po’ dialogica, non voglio dire dialettica, ma poco dialogica.
Quindi questo è molto, molto importante.
Come poi realizzare in concreto questi strumenti, queste capacità di interrelazione, la relazionalità sociale può anche essere pericolosa, ci possono essere immagini molto semplici, molto facili che però vengono lanciate in quelle che possono diventare l’immagine dell’altro rispetto al quale si crea un muro, e non lo passi più questo muro, non riesci più a vedere l’altro. Quindi bisogna stare estremamente attenti.
Io penso che un circolo come il vostro, le persone come Roberto Diodato, come Giovanni Bianchi, sono gli antidoti, secondo me, rispetto al muro, all’immagine che tanto questo muro io non lo scavalco, oppure io vedo riflessa solo l’immagine che il muro mi vuole fare passare. Però bisogna stare molto attenti. L’apertura è un’apertura che passa attraverso, prima di tutto, a noi persone o ai più giovani…Quindi girare, conoscere, guardare con i propri occhi, giudicare con la propria testa, ma però tenendo presente sempre di non guardare la pagliuzza negli occhi del tuo prossimo, ma guarda la trave che c’è nel tuo occhio.
C’è dentro anche la parabola del buon Samaritano, tra le altre cose. Quindi, chi è il tuo prossimo. Che poi quella parabola lì noi la conosciamo tutti, ma è chiaro che come molte parabole nasce da una domanda che viene posta a Gesù e invece di rispondere alla domanda lui risponde con una parabola. La domanda gli viene fatta da un dottore della legge che dice ma insomma cosa devo fare: la legge di Mosè, la nuova legge, il comandamento dell’amore, ama il tuo prossimo, ma chi è il mio prossimo? Quindi era un tentativo, come dire, di provocare una risposta diretta che invece avviene attraverso un racconto poi molto semplice.