Il libro di oggi tratta uno dei temi più sentiti nella società dei nostri giorni, quello del “lavoro”.
Un tema di cui sentiamo discutere principalmente con riferimento alla crisi economica, alle scelte politiche che dovranno sanare le emergenze in termini di disoccupazione, soprattutto giovanile ma non solo vista la presenza nel nostro paese di un numero di lavoratori (i più citati i cosiddetti “esodati” ) troppo giovani per andare in pensione ma troppo vecchi per il mercato del lavoro. Viviamo in un mondo in cui sentiamo continuamente invocare il lavoro, in cui si fanno politiche per il lavoro, si eliminano vincoli (e a volte tutele) nella speranza di favorire il lavoro, o meglio, l’offerta di lavoro, i “datori” di lavoro.
I numeri della disoccupazione sono sempre più impressionanti, leggiamo di disoccupazione al 12,5% ma poi sappiamo bene che il concetto è più complesso, che dobbiamo distinguere tra disoccupati e inoccupati e che, come il nostro Presidente del Consiglio ci insegna, può essere che aumenti la disoccupazione ma, contemporaneamente aumenti il numero degli occupati semplicemente perché tra gli inoccupati un numero crescente di persone che in precedenza non provavano nemmeno a cercare lavoro iniziano a cercarlo e vanno così a ingrossare le fila dei disoccupati.
1. leggi il testo dell’introduzione di Stefano Guffanti
2. Leggi la trascrizione della relazione di Luigino Bruni
3. clicca sui link sottostanti per ascoltare i file audio mp3
1. premessa di Giovanni Bianchi 04’08” – 2. introduzione di Stefano Guffanti 09’17” – 3. relazione di Luigino Bruni 58’06” – 4. domande 13’29” – 5. risposte di Luigino Bruni 18’43” – 6. domanda con risposta di Luigino Bruni 07’07” – 7. domanda con risposta di Luigino Bruni 01’40” – 8. domanda con risposta di Luigino Bruni 06’36” – 9. chiusura di Salvatore Natoli 06’16”
Testo dell’introduzione di Stefano Guffanti a Luigino Bruni
E’ un vero piacere per me presentare il libro “Fondati sul lavoro” del prof. Luigino Bruni, docente di economia, coordinatore del progetto Economia di Comunione del Movimento dei Focolari, scrive su diverse testate giornalistiche, tra cui «Avvenire» e si interessa in particolare di temi quali l’economia civile e l’etica economica, argomenti a cui ha dedicato molti libri.
Il libro di oggi tratta uno dei temi più sentiti nella società dei nostri giorni, quello del “lavoro”.
Un tema di cui sentiamo discutere principalmente con riferimento alla crisi economica, alle scelte politiche che dovranno sanare le emergenze in termini di disoccupazione, soprattutto giovanile ma non solo vista la presenza nel nostro paese di un numero di lavoratori (i più citati i cosiddetti “esodati” ) troppo giovani per andare in pensione ma troppo vecchi per il mercato del lavoro.
Viviamo in un mondo in cui sentiamo continuamente invocare il lavoro, in cui si fanno politiche per il lavoro, si eliminano vincoli (e a volte tutele) nella speranza di favorire il lavoro, o meglio, l’offerta di lavoro, i “datori” di lavoro.
I numeri della disoccupazione sono sempre più impressionanti, leggiamo di disoccupazione al 12,5% ma poi sappiamo bene che il concetto è più complesso, che dobbiamo distinguere tra disoccupati e inoccupati e che, come il nostro Presidente del Consiglio ci insegna, può essere che aumenti la disoccupazione ma, contemporaneamente aumenti il numero degli occupati semplicemente perché tra gli inoccupati un numero crescente di persone che in precedenza non provavano nemmeno a cercare lavoro iniziano a cercarlo e vanno così a ingrossare le fila dei disoccupati.
Sono di questi giorni i dibattiti sul Job Act con commenti che riguardano i sui effetti in termini di nuova occupazione e maggiori (o minori a seconda dei punti di vista) tutele dei lavoratori.
E però, pensandoci bene, qualcosa non torna… non torna ad esempio il fatto che a fronte di una massa crescente di disoccupati aumentano, tra gli occupati, fenomeni legati al crescente stress lavorativo: straordinari non pagati per il fenomeno diffuso di trattamenti economici omnicomprensivi, mobbing, utilizzo delle nuove tecnologie informatiche (basti pensare agli smart-phone o ai PC che obbligano molti lavoratori a essere “connessi” anche durante le festività).
Aumenta, anziché diminuire, la mole di lavoro degli occupati e si verifica il fenomeno, citato da Bruni in un articolo su Avvenire, dei manager imbevuti di falsi valori che sacrificano la loro vita a culture costruite da multinazionali e società di consulenza simili a divinità pagane, bruciati e sostituiti come ingranaggi di una macchina infernale.
Leggevo di recente in un libro di Noam Chomsky la seguente frase: “una cosa che viene data per scontata dalle più diverse posizioni politiche è che la popolazione deve essere sottomessa ai governanti; in una democrazia i governati hanno il diritto di esprimere il proprio consenso e nulla più. Nella terminologia del pensiero progressista moderno potremmo dire che i cittadini devono essere “spettatori” e non “attori” della scena politica, con la sola eccezione delle poche occasioni in cui sono chiamati a scegliere tra i leader che si candidano a rappresentare il potere effettivo.
Se abbandoniamo il terreno politico per addentrarci in quello economico la situazione cambia: qui, dove si determina in larga misura la sorte della società , la popolazione subisce un’esclusione totale; secondo la teoria democratica prevalente, su questo terreno il popolo non deve rivestire alcun ruolo.”
Che ne è quindi del lavoro ? Perché il dibattito democratico è così scarso quando si parla di economia e di lavoro ?
Sicuramente il lavoro non riguarda solo la produzione di ricchezza e il benessere materiale: l’articolo 1 della nostra Costituzione, nonostante il paese fosse appena uscito da una dittatura che aveva praticato una “retorica del lavoro” utilizzata a fini propagandistici, decide di metterlo al primo posto del nuovo patto sociale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Questo comporta che anche noi cittadini che ne facciamo parte siamo veramente cittadini perché lavoriamo, lavoreremo, abbiamo lavorato (o perché non possiamo lavorare pur volendolo fare).
“I padri e le madri costituenti hanno creato la più bella equazione della nostra storia repubblicana, quella tra democrazia e lavoro” Bruni illustra i ragionamenti che stanno alla base di questa equazione, in questa sede mi piace ricordare due concetti che mi hanno particolarmente colpito e che trovo diano il senso della scelta dei nostri costituenti: il primo dice che: “le comunità umane che non si fondano sul lavoro non possono che fondarsi su rendite e privilegi e quindi non sono democratiche. Il lavoro, quando vissuto nella libertà, è una delle espressioni più alte di amore nella sfera sociale di cui gli esseri umani possono essere capaci; per questa ragione al lavoro non occorrono aggettivi che lo rendano degno e buono; lo è da subito.”
È importante però il riferimento al lavoro vissuto nella libertà !
Bruni infatti dimostra attraverso un excursus storico, che ci sono voluti secoli per dare dignità alla parola lavoro, per anni i lavoratori dovevano sopportare, oltre alla fatica della loro condizione, il malcelato disprezzo delle classi dominanti che consideravano poco “degno” chi non possedeva altro che le proprie braccia.
La valutazione culturale sul lavoro come attività infima e ignobile è sicuramente dovuta anche al dato storico che presso gli antichi erano gli schiavi e i servi a svolgere il lavoro materiale “impuro”. Bruni cita l’etimologia della parola latina lavoro (labor) che potrebbe risalire a “rab”, (con la trasmutazione poi di r in l : lab), che in lingua slava antica indicava lo schiavo (rabu).
Per i greci e i latini il lavoro materiale è cosa ignobile, l’uomo antico apprezzava l’otium e disprezzava il negotium e l’attività delle mani (a questo proposito Bruni cita un eloquente brano dalle Georgiche di Virgilio che attribuisce a Giove l’introduzione del lavoro e della fatica nella vita umana). Dalla lettura della Bibbia, che descrive la cultura del lavoro presente nel popolo ebraico, continua ad emergere una concezione del lavoro materiale come attività inferiore in dignità rispetto al lavoro intellettuale e spirituale anche se, rispetto al mondo greco e mediorientale, il lavoro materiale è maggiormente valorizzato e rispettato.
Con l’avvento del cristianesimo abbiamo un’operazione di “nobilitazione” del lavoro che culmina durante il Medioevo con l’ora et labora del monachesimo, il lavoro assimilato alle orazioni. Da una parte monaci che trascrivono i grandi classici di Aristotele, Seneca, Platone, Isaia, Paolo, e dall’altra sviluppano le tecniche commerciali, di costruzione, di bonifica, di conio delle monete.
Nei monasteri vi erano giuristi, giudici, economisti, si crearono le prime forme di divisione del lavoro e di organizzazione razionale del tempo e dei luoghi. Scrive Bruni: “le Abbazie e i Monasteri salvarono, creativamente, la civiltà, poiché furono luoghi anche di grandi innovazioni, laboratori vivi dai quali presero vita forme di democrazia (gli abati venivano eletti all’interno di governance complesse e articolate) e di relativa autonomia politica sia dall’imperatore sia dal papato e dai vescovi”.
Ecco allora la ripresa in questa prospettiva della lunga storia del lavorare degli uomini e delle donne, fino al rapido tramonto delle forme del lavoro contadino e poi di quello della fabbrica, dove si erano condensati secoli, se non millenni, di storia di arti e mestieri, di professioni e abilità. Un tramonto dopo il quale non si intravede ancora con chiarezza quale sarà il futuro delle nuove forme di produzione di beni e servizi: se una modalità più umana e umanizzante o invece il ritorno di una dipendenza quasi servile, una sorta di neo-feudalesimo.
E’ importante tuttavia ragionare sul significato semantico del lavoro, spesso ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi – precario, dipendente, autonomo, nero… – mentre viene elusa la domanda decisiva: che cosa è il lavoro?
Sicuramente è una dimensione che dice agli altri chi siamo, se incontriamo una persona o un collega non inizieremmo mai il dialogo chiedendo quali sono i suoi hobbies o la sua fede religiosa, la prima e naturale domanda è: “che lavoro fai ? E tuo padre, tua moglie, tuo marito ?”
Il rischio è che l’identità di una persona rischi di “finire” con il lavoro, non tenendo conto che vi sono interessi e passioni al di fuori di esso. A partire dalla fine del XX secolo all’era del lavoro, che aveva dominato nell’800 e nel ‘900, è subentrata quella del consumo e della finanza, così oggi “il lavoro viene asservito al consumo”. Poiché è il lavoro che dice agli altri “chi siamo”, la sua perdita comporta una crisi dell’identità personale. Quindi il lavoro è necessario ma deve essere un lavoro “libero”. Ecco quindi che “non tutto il lavoro fonda la Repubblica, non tutto il lavoro è degno, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi, di ieri e di oggi.
Ma oggi assomigliamo più alla civiltà greca o a quella cristiana ? Cosa è oggi il lavoro ? Qualcosa da elemosinare ? Per cui chi lavora deve ringraziare ? O un contratto tra persone che hanno pari dignità e diritti quale dovrebbe essere ?
Nel libro viene esaminato il lavoro in rapporto con la rendita. Bruni cita economisti come Ricardo, Loria, Piketty e pone l’accento sul conflitto tra profitti e rendite che ha comportato un aumento esponenziale delle rendite accompagnato da aumento delle imposte indirette, tagli al welfare e riduzioni dei salari dei lavoratori.
A questo si accompagna un crescente aumento delle retribuzioni e del potere dei manager giustificato da Università e Master in cui si insegnano le stesse cose, si utilizzano gli stessi testi e si ragiona secondo un “pensiero unico”. I capitali devono rappresentare strumenti che potranno generare flussi di reddito e creare sviluppo. Un’impresa, un sistema economico, una civiltà iniziano la loro decadenza quando i flussi sono visti in funzione dei capitali, i salari e i profitti in funzione delle rendite, come dice con efficace metafora Bruni “alla speranza subentra la paura, il senso del grano diventa il granaio e ci dimentichiamo di chi di quel grano ha bisogno per vivere e lavorare”.
Una critica che, provenendo da studi economici, mi ha molto colpito e che ho avuto modo di constatare occupandomi di lavoro nella pubblica amministrazione è quella che Bruni muove alla teoria economica, che “da decenni ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per concentrarsi unicamente sul lavoratore inteso come “risorsa umana” o come “capitale umano” che risponde razionalmente a incentivi e sanzioni.
In un appassionante carteggio che recentemente ho avuto modo di leggere tra Elio Borgonovi, per diversi anni Direttore della SDA Bocconi e Luigino Bruni emerge una condivisione del fatto che si sta imponendo una concezione di management come «tecnica libera da valori», favorita da una distorta applicazione dei princìpi di divisione e specializzazione del lavoro, delle funzioni economiche, del mercato inteso soprattutto in termini di competizione win-lose (qualcuno migliora e qualcuno peggiora) e non in termini di win-win (tutti possono migliorare se sono disposti anche a collaborare).
Una cultura manageriale che si fonda su una antropologia del talento individuale che si collega a concezioni antiche di homo faber fortunae suae e di “ascensore sociale” consentito dalla mano invisibile del mercato.
Nel libro un’attenzione specifica viene poi dedicata ai giovani che sono i più penalizzati dalla recessione economica. Si evidenzia in particolare un forte scollamento tra scuola, università e lavoro.
Oggi il tasso di disoccupazione, soprattutto di quella giovanile, è molto elevata l’assenza di lavoro ha ripercussioni negative sul mondo della produzione in generale, che perde in creatività, energia, entusiasmo, e non riesce perciò a rinnovarsi. I giovani devono poter coltivare la loro vocazione lavorativa e imparare un mestiere da cui dipende la loro felicità, spesso invece vengono costretti a un lavoro sbagliato, sfruttati come schiavi.
Il discorso sui giovani porta l’autore a riflettere sul sistema scolastico, in particolare quello universitario, ormai obsoleto per la mancanza di rapporto con il mondo del lavoro, e sul pregiudizio ancora radicato della superiorità dell’attività intellettuale su quella manuale.
Un aspetto evidenziato da Bruni è il fatto che un tempo i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, luoghi abitati dai popoli che potevano “viverli”, oggi la ricchezza che nasce dalla finanza finisce invece spesso nei paradisi fiscali o in residenze e luoghi inaccessibili al popolo.
Le scuole, secondo Bruni, dovrebbero essere costruite nei luoghi più belli della città in maniera da permettere ai nostri figli di unire scuola e bellezza con una formazione che, anziché concentrarsi in alcuni anni full-time, si sviluppi attraverso corsi flessibili che affianchino i periodi di lavoro a quelli di studio e che durino molti anni.
E’ importante poi sottolineare il rapporto tra il lavoro ben fatto ed il merito. Il merito è diventato un dogma! Guai a chi osa metterlo in discussione, guai a chi osa far notare che, come osserva Bruni, è un tema molto antico complesso e discusso nella vita civile, militare ed economica.
Guai a far notare che è stato, insieme all’onore, la parola delle comunità umane non egualitarie (esercito, scienza, religioni, scuola, famiglia…) e che la modernità ha cercato di coniugare alcune dimensioni del merito con la democrazia e il mercato.
Se penso al campo in cui opero, la pubblica amministrazione, i concetti che Bruni esprime con riferimento all’utilizzo strumentale del concetto di merito mi fanno immediatamente pensare al dibattito sui dipendenti pubblici “fannulloni”.
Se è vero che in alcuni casi la responsabilità e quindi il demerito è dei singoli lavoratori e altrettanto evidente, a chi esamini il fenomeno oltre la demagogia e la superficialità imperante sui media, che vi sono dipendenti pubblici che non sono messi in condizione di lavorare da dirigenti inetti o invidiosi che “nascondono il lavoro”, così come vi sono persone costrette a svolgere, non certo per colpa loro ma a causa di una organizzazione del lavoro irrazionale, compiti assolutamente inutili.
La crisi economica è il risultato non solo del demerito, scrive Bruni, ma anche e soprattutto di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD che non garantiscono che chi li ha superati sia “meritevole” in termini di relazioni, etica, umanità.
Anche un lavoro che non corrisponde alla propria vocazione può essere utile agli altri e, se svolto bene, può contribuire al bene personale e a quello comune. Il lavoro è un’attività relazionale e sociale, ognuno con il proprio lavoro contribuisce al benessere di tutta la società. Oggi si diffonde la cultura dell’incentivo: il denaro è diventato la principale se non addirittura l’unica motivazione del lavoro, anche in ambiti come la sanità e la scuola.
Secondo Bruni va sostenuta invece la cultura del “premio” se il lavoro è tendenzialmente dono anche la remunerazione deve essere intesa come un dono nella reciprocità: il salario e lo stipendio non devono misurare il valore di un lavoratore, ma essere intesi come un premio, un contro dono, non il prezzo di una merce.
Un ulteriore tema toccato da Bruni riguarda Il ruolo degli imprenditori. Come si spiega, sosteneva Einaudi, che ci siano imprenditori che investono i loro capitali e tutte le loro energie per ottenere utili molto più modesti di quelli che potrebbero ottenere più facilmente attraverso la rendita e la finanza speculativa ?
Si spiega, ricorda Bruni, con il fatto che l’imprenditore non è sempre e necessariamente in conflitto con il lavoratore dipendente, in molti casi i due lavorano fianco a fianco e dividono fatiche e rischi.
In una fase storica in cui la creazione di lavoro è così scarsa occorre “risemantizzare” la parola imprenditore distinguendo (contrariamente a quanto fanno spesso i media) i veri imprenditori dagli speculatori, dai faccendieri che preferiscono, anziché investire nella propria impresa, in lavoro e in tecnologia, investire nella “carta”.
L’alto livello di evasione che caratterizza tristemente la realtà del paese è assimilato invece da Bruni al fenomeno sportivo del doping.
L’atleta onesto che opera in un contesto dominato dal doping si trova nella situazione del “dilemma del prigioniero”, modello economico della teoria dei giochi (la cui nascita può essere fatta coincidere con l’uscita del libro “Theory of Games and Economic Behavior” di von Neumann e Morgenstern nel 1944 anche se tutti ricorderanno John Nash interpretato da Russel Crowe nel film di Ron Howard “A beautiful mind” ) con la quale si tenta di descrivere matematicamente il comportamento umano in quei casi in cui l’interazione fra uomini comporta la vincita, o lo spartirsi, di qualche tipo di risorsa.
Molti sportivi sceglierebbero di non doparsi in un contesto in cui regnasse la fiducia e l’onestà, viceversa in un contesto nel quale dominano la slealtà e il sospetto reciproco molti atleti finiscono nella spirale del doping per timore di essere ingiustamente penalizzati
Lo stesso avviene con l’evasione, l’imprenditore onesto finisce per evadere se percepisce intorno a se l’idea che: “chi non evade è un fesso”. Evade per vincere o evade anche spesso per non chiudere. Anche qui emerge l’influenza del contesto sociale e relazionale sulla natura e sul ruolo del lavoro e come sia utopistico pretendere di risolvere il problema con una pura logica economica.
Bruni sviluppa poi la rilettura sotto una nuova luce delle ‘parole’ del lavoro: a cominciare da charis, ‘gratuità’, passando poi a felicità, dono, ferita, relazionalità, cura, nell’attuale scenario di crisi e di ricerca di nuove idee ed esperienze.
Il mercato funziona per le merci, ma mostra i suoi limiti se subentrano relazioni umane più complesse o beni come i beni comuni. Occorrono la famiglia, la comunità e quel modello di stato sociale europeo che un certo neoliberismo da per morto ma che, in una situazione in cui la società invecchia e l’economia è in crisi, dimostra la sua utilità e la capacità di garantire un senso di appartenenza. Viene ribadito il valore intrinseco di ogni lavoro se esso contiene ed esprime dimensioni di gratuità, motivazione e relazionalità: un lavoro che può esprimere la complementarietà e la reciproca interdipendenza tra l’istituto del mercato con quello della famiglia e della comunità sociale.
Ricordando il pensiero di John Stuart Mill che, ritenendo la famiglia e l’impresa i due luoghi in cui dominava una logica illiberale e gerarchica, scriveva: “La formazione morale dell’umanità non avrà ancora sviluppato tutto il suo potenziale, finchè non sarà capace di vivere nella famiglia con le stesse regole morali che governano la comunità politica”, Bruni constata come la situazione nella maggior parte del mondo veda oggi, a fronte di un miglioramento nella relazione uomo e donna all’interno della famiglia una asimmetria persistente, a sfavore della donna, in ambito economico e lavorativo.
Interessante è poi l’analisi del rapporto tra famiglia, lavoro e momenti di festa e l’invito di Bruni a ritrovare tra i tempi della festa e quelli del lavoro all’interno della famiglia. E’ infatti nell’ambito della famiglia che si apprende “l’arte della gratuità”. L’attuale economia capitalistica non concepisce più il rapporto tra il lavoro e la festa. Senza il lavoro la parola festa perde di significato, rischia di diventare un concetto autoreferenziale, quando la festa viene associata all’assenza di lavoro invece che alla sua presenza.
Concludendo siamo di fronte a un testo che recupera il valore centrale ma non assoluto del lavoro nella vita e nella fioritura di ogni persona così come nella crescita e nello sviluppo di una società armoniosa e giusta.
Lavorare bene significa quindi esercitare al meglio il proprio ruolo professionale, con amore appunto, a prescindere dalle condizioni, anche negative, in cui ci si ritrova. Chi non lavora si priva di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della vita: del resto, la perdita del lavoro comporta non solo una perdita di stipendio ma anche una perdita di umanità. E’ importante e necessario per la società che ogni persona possa esprimersi lavorando, possibilmente secondo il suo daimon, la sua vocazione.
Per usare le parole di Bruni in una recente intervista un lavoro è davvero umano quando si svolge “con e per qualcun altro”. Lavorare “per”, con gratuità, può essere visto come la condizione per poter parlare di lavoro dalla prospettiva adottata nel libro. Se l’attività lavorativa è un’attività umana e se l’umano è davvero tale quando è relazione, allora lavoriamo davvero quando il destinatario della nostra attività è qualcun altro. Detto in modo ancora più esplicito, lavoriamo veramente quando la nostra attività è espressione di gratuità. Potremmo dire che si lavora veramente quando si lavora per amore.
Trascrizione della relazione di Luigino Bruni
Economia con l’anima
È la più lunga recensione che mai abbia avuto un mio libro, quindi davvero complimenti, sono commosso e grato. Grazie per l’invito a Giovanni Bianchi. Io venni qui per mediazione di Salvatore Natoli, che vedo e ringrazio con tutto il cuore, a presentare un mio libricino che non dico che sia il più significativo tra i libri che ho scritto, però sicuramente è un libro che ha aperto una stagione della mia vita, che è quella attuale, nel 2007, e che si chiama La ferita dell’altro e che venni a presentare qui e che ha un po’ aperto i miei interessi, che vanno un po’ oltre a quello economico in senso stretto, un po’ biblici, un po’ filosofici, che poi sono il mio mestiere di oggi, dove non so più esattamente cosa faccio perché quando scrivo e insegno economia, scrivo di economia, ma l’economia è troppo poco per spiegare il mondo, quindi bisogna conoscere altre cose, bisogna cercare di capire certamente il lavoro, fra parentesi è un’esperienza antropologica spirituale molto più grande di quella del contratto di lavoro, dell’incentivo e dintorni.
Sono molto lieto di tornare qui dopo sette, o otto anni quasi, da quel primo appuntamento, un po’ invecchiato e spero un po’ migliorato dalla fatica del vivere e dagli incontri. Ma io volevo appunto, continuando il dialogo che abbiamo appena iniziato, e ringrazio molto il collega per questa bella introduzione. Quanto tempo abbiamo, più o meno? Entro quanto devo terminare? Perché non voglio abusare del tempo, quanto parlo? tre quarti d’ora, cinquanta minuti? Insomma, quando finisco. Facciamo fino a mezzogiorno, poi devo andare, ho l’aereo per Roma, quindi abbiamo due ore e possiamo fare tanto, anzi temo di resistere fino a mezzogiorno, e se finiamo un po’ prima non è che sia proprio un peccato.
Volevo essenzialmente ragionare non tanto raccontandovi il libro, perché il libro una volta che è uscito bisogna pensare al prossimo, almeno per l’autore; per il lettore a leggerlo fa anche bene, ma per chi l’ha scritto evidentemente il libro nasce e tutti quelli che scrivono libri seriamente. quando leggono le bozze, dicono: oddio, dovrei ricominciare da capo perché in quei mesi tra la conclusione del libro e la produzione del libro, nel frattempo ho fatto altre letture, altri incontri, altre cose e ti preme di ricominciare da capo. Ecco perché tanta gente non scrive mai. Perché è una sorta di malattia ché, essenzialmente consapevoli quando si è onesti, che ogni libro è un semilavorato di un percorso che mentre scrivi, proprio mentre scrivi il testo, ti viene di cambiare l’idea, perché la vita è un flusso, tanto è vero che ci sono delle persone, ne conosco alcuni, che continuano a rimandare il libro della vita perché non sono mai pronti. Credo che ci sia anche l’eccesso opposto, quello di scrivere libri con umiltà, sapendo che è una puntata, un capitolo di un unico libro che scriverà post mortem, quando avrà finito. Anzi, continuerà anche dopo in caso di grandi autori come Salvatore Natoli, perché ogni lettore riscrive in qualche modo il suo libro partendo dal libro che legge.
Dirò alcune cose che sono nel libro ma altre cose che penso possano essere utili per un dibattito o per un dialogo. Io credo che l’idea, come accennava già il professor Stefano Guffanti, l’idea, come si può dire, il profilo formale come avrebbero detto gli antichi, di questo libro è l’ambivalenza del lavoro. Io sono partito, nel guardare il lavoro, lo guardavo da questa prospettiva, cioè il lavoro, se non si accetta la sua ambivalenza, si cade nell’ideologia, perché o è sempre buono, o è sempre sfruttamento, o è romantico, o è disumano. Cioè il lavoro in realtà è tante cose assieme che vanno dalla schiavitù all’educazione. È interessante qui il punto (qui ogni tanto guarderò Salvatore Natoli perché conosco i suoi lavori) di guardare l’etimologia del lavoro, l’etimologia a volte è fuorviante; conosco degli autori che hanno percorso strade pessime facendo dell’etimologia dei discorsi senza senso. Ma altri autori per i quali l’etimologia è l’inizio di un discorso, è un punto di partenza per dire cose serie, può essere utile.
L’etimologia sul lavoro è capace di ispirare idee perché sappiamo che la parola latina labor sembra che venga da una variante di un originale slab, rab, che significava schiavo che poi diventa lab, labor, quindi rimanda all’idea che quelli che lavoravano erano gli schiavi per lo storico del tempo. Ma sappiamo anche che in tedesco c’è un gioco molto bello tra lavoro ed emulazione.
Quindi, le lingue hanno in già in sé e nascondono questa ambivalenza del lavoro, cioè la dimensione internazionale che Lutero, Calvino, Max Weber fino a oggi hanno sviluppato partendo da un’anima del lavoro; ma c’è anche una organizzazione degli schiavi che è ben presente nell’origine della parola lavoro e che c’è ancora oggi, come diceva prima Stefano Guffanti: in certe culture lavorative attuali abbiamo delle persone iperpagate ma che sono molto simili agli schiavi perché se vogliono incentivi hanno perso la libertà. Quindi praticamente l’impresa che ti compra, anche se firmi un contratto, ti dice: benissimo ti garantisco carriera, salario, automobile, tutti i benefit che vuoi, però non hai orari, non hai domeniche, non hai tempo libero. Questa è una forma di schiavitù, diciamo, post-moderna che convive con i milioni di euro.
Io ho cercato di leggere il lavoro in modo non ideologico e quindi necessariamente ambivalente perché se non si accetta l’ambivalenza si cade nella dicotomia, o buona o cattiva, o romantico, o sfruttamento, ecc.
Allora volevo partire da una battuta che spiega l’interiore del mio libro, battuta che evidentemente rimanda alla Costituzione. Questo libro l’ho cominciato e ha avuto una genesi complessa, doveva uscire già nel 2011-2012 poi in realtà scrivendolo non mi piaceva perché è esplosa la seconda crisi, perché in Italia, sopra tutto nel 2011, sembrava che fosse finita la crisi finanziaria e ci siamo accorti che è cominciata quella del lavoro e del debito pubblico. E quindi non mi convinceva, l’ho riscritto, l’ho fatto maturare. Comunque, il sondaggio sul lavoro era legato anche a questo periodo dove veramente il lavoro stava, sta e starà ancora male.
Il titolo quindi rimanda all’art. 1, però volevo partire dall’esperienza che ho fatto ieri pomeriggio quando sono andato a trovare a Cremona delle suore di clausura domenicane, che mi avevano scritto una bellissima lettera, fra le più belle che ho mai ricevute. Sono due o tre i monasteri di clausura che leggono i miei articoli su Avvenire e mi scrivono lettere meravigliose e non so perché. A volte parlo anche di cose bibliche, ma spesso parlo anche di economia e per loro è più interessante l’economia della Bibbia, questo mi ha colpito. E mi hanno scritto una lettera molto bella, meravigliosa, per cui sono andato a trovarle, per ringraziarle e qui un’esperienza tipicamente del dono, degli esperti del dono: io sono andato a trovarle, avevo già fatto un investimento di tempo, di risorse, se volete anche di soldi per andarci, eppure ho sentito il bisogno di non andarci a mani vuote, di portare qualcosa; cioè non puoi arrivare lì senza almeno, che so un mazzo di fiori, che poi alla fine non ho trovato, perché non c’è un fioraio a Cremona, ho comprato una scatola di cioccolatini, poi mi sono accorto che era un venerdì di quaresima e le suore di clausura hanno di prassi la penitenza, va beh, li mangeranno.
Comunque, quello che voglio dire è che il dono è proprio ciò che va oltre l’aspettativa dell’altro. L’esempio classico: se due fidanzati in tempo di austerity dicono: quest’anno non ci facciamo il regalo a Natale ma solo un bigliettino, così, diciamo, con una frase, se il giorno dello scambio dei bigliettini non porti anche qualcosa in più, insomma non si è contenti; cioè in realtà che non ti basta ciò che già l’altro prevede, hai bisogno di un eccedente che sorprende l’altro, comunque è un di più. Quello che volevo dire di questa faccenda delle suore è che ho raccontato loro un episodio, noto certamente a Giovanni Bianchi e a chi conosce la politica italiana, su come è nata questa espressione “fondata sul lavoro”. Perché ci fu un dibattito nell’Assemblea Costituente molto forte tra chi voleva che si scrivesse, che era la parte socialista e comunista, “l’Italia è una Repubblica di lavoratori” e dall’altra parte Giorgio La Pira che voleva che “in nome di Dio” si cominciasse la Costituzione, che era un modo un po’ diverso. Allora Fanfani, col suo genio, ma anche raccogliendo la provocazione di Giorgio La Pira, lui era, oggi si direbbe, un po’ fondamentalista ma coglieva una cosa vera (non l’ho detto ieri questo alle suore), lui diceva: se tu vuoi mettere i lavoratori, lasciamo fuori le suore di clausura, perché lavorano pregando ma non sono lavoratori.
Quindi il lavoro è eccedente rispetto al lavoratore. Tanto qualcuno oggi eccede l’attività lavorativa e allora Fanfani propose “fondata sul lavoro” per includere anche… (Fu Dossetti.) Non La Pira? (La relazione finale fu di Fanfani, il riferimento fu di Dossetti.) Quindi comunque, il lavoro include anche le monache di clausura, mentre sui lavoratori si potrebbe anche discutere, ma in quel tempo lì si pensava più al lavoratore classico della fabbrica e degli uffici.
Allora questa è una prima battuta, cioè il work non è il job, direbbero gli americani, cioè c’è una dimensione lavorativa che va oltre il posto di lavoro e che quindi ci complica la vita, ce l’arricchisce perché da un certo punto di vista l’attività lavorativa non finisce mai e questo lo sa chi fa lavori che non sono necessariamente legati al lavoro remunerato, pensiamo al mondo contadino. Mio nonno è morto a 93 anni e il giorno prima stava raccogliendo i pomodori nei campi. C’era una dimensione nel mondo contadino, non c’era l’dea di tensione, di distinzione tra lavoro e tempo libero che è tipicamente frutto della modernità, anzi della società fordista e industriale.
Però una cosa che volevo dire subito, che volevo sottolineare perché tocca un punto che mi sta a cuore oggi e il dibattito politico attuale, è che non tutto il lavoro va difeso e va salvaguardato, ci sono lavori sbagliati, anche oggi. Io per esempio, qualcuno di voi lo saprà, sono molto arrabbiato, indignato e schierato sul tema del gioco d’azzardo, anzi dell’azzardo, l’azzardo non è un gioco; il gioco, dice Martha Nussbaum, è una delle dieci capacità fondamentali dell’uomo, poter giocare in tutte le età, mentre l’azzardo non è un gioco, ma è un’altra cosa, è un azzardo. Sono molto arrabbiato. Una delle cose che mi dicono….anche ieri sera mi ha scritto… ho un dibattito in corso con Baretta che ha la delega come sottosegretario al gioco, che comportandovi in questo modo voi compromettete dei posti di lavoro. Magari.
Ci sono dei lavori che dovrebbero chiudere. Abbiamo perso migliaia di posti di lavoro quando fu abolita la schiavitù. A Livorno, a Lisbona, a Liverpool, un sacco di lavori. L’umanità va avanti distruggendo lavori sbagliati e creandone dei buoni. Quindi, se oggi chiudessero le imprese di pornografia, le imprese che producono mine anti-uomo, perderemmo posti di lavoro: ottimo. Questa è distruzione creatrice. Quindi, se chiudessero le sale giochi, questi videolottery che mangiano centinaia di migliaia di poveri in Italia, certo perderemmo un po’ di posti di lavoro. Meraviglioso. Civilmente, ci impegneremo a trovarne degli altri, ma non possiamo bloccare lo sviluppo umano che cancella lavori sbagliati in nome di questa ideologia, che poi davvero non vuol dire niente, che si perdono posti di lavoro. Quindi, un indicatore di civiltà è la capacità di distruggere lavori sbagliati e crearne, al loro posto, di buoni. Si misura anche così la civiltà di un paese.
Il lavoro è, quindi, più cose. La prima cosa che il lavoro è, è che è un mezzo per vivere. Quindi il lavoro avrà sempre una componente strumentale, non è solo remunerazione intrinseca, perché se è solo questo si chiama hobby, cioè il lavoro ha anche la componente… cioè, io lavoro anche per avere uno stipendio, altrimenti si parla di volontariato, c’è una dimensione che non vuol dire che il lavoro è solo o che la remunerazione è l’unica componente della dimensione del lavoro, ma c’è tanta gente che lavora per avere lo stipendio e che lavora fino in fondo e praticamente non le manca in qualche modo niente. Cioè, dobbiamo evitare questa retorica che oggi c’è un po’ in chi si occupa di motivazioni intrinseche, fra cui me in un altro passato, cioè che tende a dimenticare che il lavoro ha tante altre cose, ma ha anche questa dimensione. Altrimenti non spiegheremo perché le persone spesso svolgono attività lavorative che non amano, ma le fanno lo stesso. Non tutto il lavoro piace. Anche chi fa lavori meravigliosi come Salvatore Natoli che insegna all’università, che fa i libri su quello che vuole lui, ha una componente del lavoro che non vorrebbe fare: i registri, i verbali, certi consigli infiniti, eppure se non faI questo il lavoro diventa un’altra cosa.
Ecco perché la Bibbia ha associato il lavoro alla fatica sopratutto, non tanto alla dimensione che ti realizza; questa l’abbiamo aggiunta noi giustamente, ma il lavoro ha una componente che rimane e se manca quella componente il lavoro perde qualcosa, non possono essere appunto ricompense. Tanto che c’era un pensiero del Settecento, molto diffuso, cui ha dato voce Adam Smith, l’economista scozzese, che diceva: i lavori che piacciono devono essere pagati di meno, tra cui i lavori dei professori universitari. Lui diceva: più il lavoro piace, più lo devi pagare di meno perché il salario è proporzionale alla fatica e non al piacere.
Cosa completamente dimenticata oggi che parliamo molto poco di lavoro e di fatica e parliamo tanto di manager, io non so che cosa fatichino diciamo in certe imprese, e c’è questa idea profonda che non è da buttar via in una cultura che valorizza la motivazione intrinseche, perché il salario è legato anche a questa componente strumentale: io lavoro perché mi serve qualcosa per vivere, per far vivere i miei figli.
Mi ricordo che una volta un dibattito con una mia collega che diceva: ma io ho una badante (parola pessima, ma insomma teniamocela) che non è contenta, che non lavora con gioia, che lavora solo per lo stipendio. Ma scusa un secondo, ma questa donna viene dall’Ucraina è sola, senza figli e il marito, per pulire il sedere ai tuoi genitori, deve pure essere contenta? Non so, se lo è, è un di più, ma è già tanto se lavora. C’è questa dimensione del lavoro per avere uno stipendio e in quanto tale è degno, secondo me è molto importante ricordarci oggi, per ricordarci che il lavoro ha la dimensione di fatica, biblicamente fondata e antropologicamente fondata.
Evidentemente, non è solo questo il lavoro, quindi tutto questo gioco che c’è nel libro, a me piace molto un po’ scherzarmi, cioè a dire alla fine sembra che mi< convinca il discorso, ma alla fine no, non va, bisogna aggiungerci qualche cosa. Non è che nega il discorso fatto prima, però si capisce che apre un altro discorso, che il lavoro non è solo questo, il lavoro ha almeno altre quattro o cinque dimensioni: ve ne dico alcune, perché poi potrei aggiungerne altre 15 evidentemente fra quelle che conosco di più, queste sono un po’ nel testo.
Ora una seconda dimensione del lavoro, una seconda funzione, un’altra dimensione intrinseca del lavoro, è che esso è un linguaggio sociale. Cosa voglio dire? Che noi parliamo lavorando. Le persone si incontrano e dialogano non solo perché il lavoro ha da dire chi sono, ma siccome noi siamo qui dentro e possiamo fare una conferenza è perché abbiamo avuto un sacco di lavoratori che ce lo hanno consentito. Stamattina ho preso un treno a Cremona, volevo prendere un taxi per andare a prendere il treno, i taxi prima delle sette non ci sono a Cremona, cominciano alle sette a lavorare e come si va in stazione? A piedi, due chilometri, va beh, per fortuna che sono ancora giovane. Non ci sono taxi, però avrei voluto prendere un taxi, ho preso un treno, ci sono dei ferrovieri, ho pagato un biglietto, sono arrivato in stazione, ho preso un cappuccino, ho fatto colazione, tutto il sistema di Milano che lavora, i tram, arrivo qui, la luce elettrica, l’energia, il microfono, una cooperazione implicita con cui parliamo, ci conosciamo e parliamo fra di noi. Cioè, le civiltà stanno assieme lavorando, prima di far feste, messe, non so che cosa, partite di calcio; la prima grammatica che tiene assieme un città è il lavoro.
Perché dico questo? Se noi dovessimo immaginare un mondo, come alcuni lo immaginano, dove due terzi lavorano e un terzo sta a casa con l’assegno sociale, dovremmo domandarci: ma quel terzo lì come parla con gli altri? Cioè, che tipo di cooperazione immaginiamo in un mondo dove le persone non lavorano più? O lavorano in troppo pochi? Perché il lavoro è una cosa molto seria, è la prima cooperazione della città, la prima. Quindi, è molto poco romantico… eppure c’è tutta un’enfasi sulla cooperazione: è il di più, è l’amore civile, sì, ma la divisione del lavoro è una grande forma di cooperazione. Ecco perché gli economisti classici consideravano la divisione del lavoro un atto, una comunicazione superiore dell’essere umano perché in un mondo senza divisione del lavoro c’è meno cooperazione. Ognuno fa praticamente tutto quello di cui ha bisogno, o quasi, pensiamo al contadino che ha tutti gli strumenti per costruire le cose, si coltiva la terra, e coopera ogni tanto con i vicini per il maiale, per la mietitura. Però se noi poniamo la questione della divisione del lavoro, lo dice Smith, creiamo l’umanizzazione del mondo perché c’è più cooperazione, c’è più sociale agendo nel lavoro. È vero che poi ci possiamo anche alienare perché non vediamo più il prodotto finito, però la divisione del lavoro innanzitutto include anche persone più svantaggiate che possono fare delle attività che non potrebbero fare senza divisione del lavoro, magari più semplici. E quindi è una forma di cooperazione molto importante.
Ecco perché dobbiamo stare attenti anche a queste proposte che vengono da movimenti splendidi come le ACLI, che io amo, all’idea di assegno minimo di cittadinanza. Perché, in che senso minimo di cittadinanza? Un assegno che si vorrebbe dare a chi non lavora, come base per vivere. È una delle cose ottime se ci ricordiamo che la Repubblica è fondata sul lavoro, non sugli assegni sociali. L’obiettivo ultimo su cui combattere è che la gente possa lavorare non che possa vivere con un assegno. Perché non lavorando, non parliamo, cioè la gente che non lavora non è un problema di sopravvivenza con mille euro al mese, non è semplicemente un problema di dotazione, è un problema che se la gente non lavora non impara a cooperare dentro la fabbrica e con gli altri. Quindi ben venga come soluzione immediata per non morire di fame, ma non ci accontentiamo. Poi in Italia le cose cominciano transitorie e diventano definitive. Cioè, avere un terzo della popolazione che viene, diciamo, mantenuta per assicurargli l’esistenza sarebbe la negazione della Costituzione e non solo di essa.
Quindi, una terza dimensione del lavoro è quella che nel libro viene impostata, un po’ strana, non strana, originale nella sua ambivalenza, ambivalenza è la parola, e cioè l’antinarcisismo, l’ho chiamato così. Perché l’antinarcisismo? Poi provo a sentire cosa ne pensa magari Salvatore Natoli. Perché voi immaginate una società dove non c’è la divisione del lavoro e dove ci mettiamo insieme; potrebbe essere per esempio un villaggio, che so, tardo Ottocento, dove ci mettiamo insieme, una comunità utopica, non mettiamo su un mercato del lavoro ma ognuno fa ciò che ama. Cioè, ognuno fa ciò che gli piace in base alle proprie motivazioni intrinseche.
Un po’ mi diverto. Qual è lo scenario probabile in questo villaggio? Che avremo un eccesso di offerte di attività inutili, cioè avremo una quantità di persone che vanno a raccogliere funghi porcini, faccio tutto un elenco di osservatori di astri notturni, economisti, cioè gente che fa cose che ama ma che probabilmente avremo al tempo stesso una carenza di offerte, un eccesso di domande di attività poco piacevoli ma estremamente utili: gli spazzini, i muratori… Quindi, qual è lo scenario di questo villaggio? Che la gente non si incontra più, quindi avremo una situazione molto simile al narcisismo: ognuno sta lì a coltivare i propri interessi e non si incontra con gli altri.
Quindi il lavoro che cosa è essenzialmente quando esiste? Ti cura dal narcisismo, fa guardare il mondo con gli occhi degli altri e dice: benissimo Luigino: tu ami fare l’artista, benissimo; interessa a qualcun altro oltre a te questa cosa? C’è qualcuno che è disposto a scambiare con te per la tua arte? Sì, ok. Se non c’è nessuno, tu coltiva la tua passione ma cerca un lavoro per campare che serva agli altri non solo a te. Ti decentra e ti costringe a osservarti con gli occhi dell’altro. Ecco perché è una grande cura del narcisismo.
In realtà, chi ha dei figli, chi ha dei giovani, sa benissimo che si diventa adulti, quindi antinarcisisti, quando si comincia a lavorare. Finché stai a casa, ti alzi quando vuoi, fai quello che ti pare, in realtà la vera uscita di sé, il principio di realtà direbbe Freud, comincia quando esci di casa, vai a lavorare, hai dei colleghi, un capoufficio e lì cominci a capire che nel mondo che hai attorno c’è tutto l’universo e che c’è qualcun altro che ti guarda. Quindi il lavoro è una grande cura di questa malattia del nostro tempo che è il narcisismo, quando funziona.
Ma evidentemente, un altro punto che c’è nel libro è che il lavoro non è solo lavoro dipendente, e questo è un altro discorso che dovremmo discutere in Italia dove abbiamo costruito il concetto che lavoro è solo il lavoro dipendente. Anche l’imprenditore è un lavoratore; c’è un pezzo nel libro dove faccio vedere che anche l’imprenditore lavora (mi sembra il sesto capitolo), cioè non è che l’imprenditore è qualcos’altro. Noi abbiamo immaginato il lavoro, anche per motivi politici, molto legato alla fabbrica, agli uffici. E l’imprenditore una specie di figura astratta che crea lavoro. E in Italia, in particolare, ma non solo in Italia, in Europa e in America, il 90% delle imprese italiane hanno meno di 15 dipendenti. Cosa vuol dire? Che abbiamo quasi tutti lavoratori artigiani, imprenditori artigiani che lavorano nelle imprese insieme ai lavoratori. Il 79% delle imprese italiane sono imprese familiari, dove la famiglia ha ancora la maggioranza della proprietà dell’impresa. Cosa voglio dire? Che l’imprenditore è quasi sempre un lavoratore che lavora nella fabbrica insieme agli altri, nell’impresa.
E qui faccio nel testo un po’ di ragionamenti. E cioè se noi oggi volessimo capire che cosa sta accadendo nel nostro mondo del lavoro, non dovremmo utilizzare categorie… qui siamo marxisti: in che senso? Prima di Marx, un economista molto importante in Inghilterra era David Ricardo che aveva colto un elemento fondamentale del suo tempo, e del nostro. E cioè lui diceva nel suo modello teorico che il conflitto principale del capitalismo non è tra profitti e salari, ma tra rendite e profitti, perché c’è una tendenza nel capitalismo a far crescere le rendite, nel suo caso, diciamo, chi possiede le terre, che schiacciano verso il basso i profitti fino ad annullarli, e quindi lui diceva: la crisi del capitalismo sarà legata all’aumento ipertrofico della rendita sui profitti. Questa intuizione, che era molto importante in quel tempo che era legato a un contesto storico delle terre eccetera fino a tutto il periodo napoleonico, in Inghilterra, Francia e America, però è stata quasi del tutto dimenticata quando Marx ci ha detto in realtà che il conflitto vero della società è dentro la fabbrica fra capitale e lavoro.
Attenzione. Abbiamo spiegato molto dell’Ottocento e del Novecento con questa teoria, ma se tu oggi vuoi capire che cosa accade nell’economia mondiale, non devi guardare la fabbrica, non devi pensare che il conflitto è tra imprenditori e lavoratori, ma è tra le rendite e tutto il mondo del lavoro, lavoratore e imprenditore assieme. Cioè, c’è un sistema di rendite che sta schiacciando verso il basso tutto anche quando i fondi, i famosi equity fund, li comprano le imprese e sembrano loro i padroni, in realtà sono i fondi che comandano oggi molte imprese, fondi finanziari con padroni anonimi che stanno in quest’ultimo periodo veramente affamando l’imprenditore che soffre insieme ai lavoratori.
Quindi questa tendenza che già in Italia economisti come Francesco Ferrara, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto chiamavano parassitario carrierismo mediterraneo, è interessante. C’è un’intuizione molto bella nella tradizione italiana, ora dimenticata, che diceva che i paesi latini, cattolici, a clima appunto comunitario cattolico, hanno una tendenza parassitaria molto forte, cioè a trasformare gli imprenditori in speculatori. Cioè l’imprenditore nasce imprenditore, quindi attorno a un progetto, attorno a un flusso, attorno a un profitto, attorno a dei flussi annuali, cioè io non faccio profitto se ogni anno non innovo e non produco delle cose nuove, quindi il profitto è un flusso che nel tempo t zero produce reddito t zero. Molto più semplice è la rendita che nel tempo t 1 vivo con cose fatte nel tempo t zero, cioè io oggi ho un reddito che non deriva dal mio lavoro oggi, ma da quanto ho fatto io, o i miei genitori, ieri.
Dicevano questi autori che i paesi comunitari, credo sia vero, tendono a una crescita parassitaria attorno a chi produce reddito. Che cosa voglio dire? L’imprenditore inizia imprenditore e diventa speculatore, dopo un po’, invece di continuare a innovare, con la scusa che è stanco, che ha i figli, investe tutte le energie che ha per difendere le cose che ha fatto ieri, quindi le concorrenti, i diritti… Quindi invece di investire le energie per andare avanti le utilizza per andare indietro e quindi attorno al reddito si crea un sistema parassitario che vive di quel reddito. E questo è un’immagine molto interessante di questa tendenza.
Qualche mese fa, Pupi Avati, il regista, intervenendo a un convegno, non parlavo di questo, parlavo d’altro, però mi ha colpito l’esempio, disse: “Dovevo andare a Venezia negli anni Cinquanta per la prima volta, c’erano 98 film italiani e 50 critici cinematografici. Sono tornato oggi, ci sono 50 film e 2.500 critici”. C’è un sistema parassitario, cioè, attorno a chi produce si crea una specie di… e questo non l’ha capito semplicemente oggi Thomas Piketty in questo libro che ho citato anche troppo quando parla che la malattia del capitale è praticamente questa che ci sono rendite e non più profitti sui deflussi, lo ha capito in Italia un economista fondamentale che si chiama Achille Loria, si chiamava perché è morto, mantovano, totalmente dimenticato perché diceva esattamente questo. Lui diceva, da neo-ricardiano: la malattia del nostro sistema è la rendita, non sono i profitti, perché noi tendiamo a creare sistemi parassitari. Siccome era un isolato perché diceva questo in un tempo in cui tutti dicevano altre cose, o marxiste o liberali, lui stava lì in mezzo, è stato schiacciato, ma si trattava di un genio e infatti era tale e considerato tale finché non prevalse il paradigma neoclassico.
Allora, come dire, occorrono imprenditori oggi, i lavoratori hanno bisogno immenso di imprenditori perché se non ci sono persone che creano i flussi, il lavoro non c’è. Ora possiamo fare gli imprenditori collettivi, le cooperative, perfetto, però io sono molto preoccupato della tendenza forte che c’è oggi nelle scuole italiane, europee e mondiali, nelle business school, perché creano dei manager e non imprenditori. C’è una tendenza a produrre mestieri che gestiscono cose di altri che nessuno fa. Cioè se non nascono imprenditori che lavoro fa il manager se non c’è la capacità di un paese di generare lavoro, quindi figure che fanno nuove cose, che si inventano con creatività imprese? Invece noi tendiamo a produrre quantità enormi di dirigenti di imprese di altri che non ci sono. Per tante ragioni: uno perché è molto più semplice formare manager che imprenditori, a un imprenditore non si può far scuola, anzi guai! Se io vado a scuola da imprenditore farò semplicemente lo speculatore, uno speculatore e forse è utile così, per cui tutti l’hanno chiaro.
Maffeo Pantaleoni, che era un economista molto importante, fine Ottocento inizio Novecento, che ebbe un esito triste perché divenne alla fine antisemita, ma da vecchio, però da giovane era molto bravo, lui distingueva fra imprenditore e speculatore, poi praticamente l’ha ripreso anche Luigi Einaudi, e oggi Benettini. Questi dicevano: se io domandassi ad alcuni di voi qui che fanno gli imprenditori, supponiamo domandassi a lei: lei che cosa fa? L’imprenditore? Anzi, facciamo una cosa più semplice: dei giovani che vogliono fare gli imprenditori. Che cosa vuoi fare? Voglio fare un ristorante biologico. Bene. Tu che cosa vuoi fare? Cosa stai facendo? Un’impresa agricola con l’agricoltura dinamica. Bene. Tu? Un’impresa di scarpe dei miei genitori che voglio sviluppare. Questo è un imprenditore per Einaudi perché ha un progetto dove il profitto è un elemento che mi indica che il progetto funziona, non è il principale scopo. Se domandassi invece a un quarto: tu che cosa vuoi fare? Voglio fare soldi, non mi interessa come, anzi ditemi voi come, se è meglio farlo nel settore industriale, nel settore navale, perché il mio scopo è fare soldi. Direbbe Einaudi: questo si chiama speculatore, che non è un delinquente ma è un altro mestiere.
Ora, questa scuola dice: la tendenza latina, mediterranea, comunitaria, è che la gente nasce imprenditore e diventa speculatore, per un po’ ti scordi il progetto e ti appassioni ai soldi, che è legata un po’ all’età, è legata a tante cose, è legata a questa, diciamo, cultura che a volte l’iniziativa individuale viene un po’ soffocata, eccetera.
Quindi questo allora lo devo ricordare: se oggi non alleviamo imprenditori, cioè gente che si mette a rischiare con dei progetti, che cosa produce questo tipo di cultura economica? Dirigenti disoccupati, oppure dirigenti che si mettono a fare gli imprenditori senza avere la vocazione, il che è ancora peggio perché evidentemente l’imprenditore è un’invenzione molto specifica.
Ma infine, poi gli ultimi minuti li lascio per alcune sfide, il lavoro ha un’altra dimensione che nel mio libro c’è, enfatizzata anche perché sono un po’ esperto di queste cose, che è la dimensione del dono e la dimensione della vocazione. Cioè il dono, non il regalo, e la vocazione che c’è anche dentro il lavoro. Evidentemente, il lavoro è anche questo. Una tesi che io amo molto, non solo mia, se fosse mia non sarebbe interessante, ma di tanta gente è che nel lavoro c’è tantissimo dono, nel lavoro normale. Ora questa idea dove nasce? Perché nel lavoro normale c’è tantissimo dono? Vorrei dedicare qualche minuto per spiegarlo bene.
Parto da un’esperienza personale. Io insegno in una scuola, al mattino vado a fare lezione, entro in aula, mi fermo un attimo, e dico: bene, Luigino, l’allergia, i problemi, il sonno, l’azzardo (sono appena passato davanti a una sala giochi, sto male, sto male fisicamente, sto male, arrabbiato). Mi fermo un attimo e dico: vai a istruire questi giovani, dai il meglio di te, la creatività, l’entusiasmo, la passione che hai, voglio dire la gioia, perché un giovane ha diritto a vedere gli adulti felici, altrimenti lui si intristisce per primo. Se io queste dimensioni antropologiche, motivazioni spirituali, o le dono io, o non ci sono, cioè l’impresa mi può comprare il professor Bruni, ma non mi compra Luigino. Cioè non mi compra quella cosa che sta tra il contratto e la vita, mi può comprare le pubblicazioni, i libri che scrivo, a che ora entro e a che ora esco dall’ufficio, mi può incentivare la pubblicazione scientifica, anzi mi chiedo quali pubblicazioni vengono fuori se si tratta di incentivo, mi può incentivare questi aspetti oggettivi della vita, ma non mi compra la voglia di vivere, l’entusiasmo, la gioia.
Però qual è il problema? Che se manco, l’impresa fallisce. Quindi un paradosso dell’impresa contemporanea qual è? È bellissimo, lo studiano molti francesi, è questo: che l’impresa compra con i contratti le cose meno importanti, perché non riesce a comprare quello che probabilmente gli serve, cioè l’entusiasmo, la creatività, la passione che o è donata o non c’è. Quindi tutto il paradosso dell’impresa è che ha bisogno di quelle cose incomprabili, ma se mancano fallisce. Allora come fa? È tutto il dibattito che si apre e un po’ ne parlo nel libro.
Quindi c’è tutto un tema molto interessante sul tema del dono che è dentro il lavoro, cioè noi a volte abbiamo un po’ romanticizzato il lavoro, diciamo così, dicendo più che il lavoro, il dono, perché il lavoro è il lavoro, poi c’è il dono che è fare più straordinari, che so, fare il piacere al collega, prestargli il telefonino se deve chiamare la moglie se non c’è più la carica. Quello è il dono, tutto il resto è il contratto. In realtà il dono è intrinseco al lavoro, lo dicevo prima, cioè quella componente che non è niente di più del lavoro ma non è semplicemente contratto: è qualcosa che è tra il contratto e tutto ciò che si chiama vita.
Ora, ci sono degli studi interessanti in Francia, ripeto, empirici, di persone molto in gamba, sociologi del lavoro e antropologi, che hanno fatto degli studi a tappeto su alcuni ospedali francesi e su delle imprese nucleari, centrali nucleari francesi, sul perché la gente soffre nel mondo del lavoro, sul malessere lavorativo. E la cosa che hanno messo molto in luce ha a che fare esattamente col dono. Cioè che cosa viene fuori? Che siccome il lavoro è un pezzo di vita, l’impresa è un luogo sociale, dove tutte le pratiche sociali dal dono al contratto, perché non è che sia né più, né meno della politica. Quindi perché non ci dovrebbe essere in un’impresa, in una organizzazione, quel gioco di doni che c’è dappertutto? Non capisco perché no! In quanto l’uomo sociale è a tutto tondo.
Poi che cosa accade? E questo è un motivo interessante. Che se l’impresa nei suoi dirigenti riconoscesse il dono sarebbe obbligata alla gratitudine, perché il dono chiama gratitudine, è un uso, anzi un obbligo. Quindi, siccome sa che riconoscendolo si indebiterebbe, lo ruba, dicono loro, cioè lo prende senza riconoscerlo. Cioè lo prende perché se rimane questa dimensione del dono l’impresa fallisce, però se lo riconoscesse non avrebbe il linguaggio, uno per riconoscerlo, perché non sa farlo, non sa nemmeno dove reperire i soldi, gli incentivi… allora che cosa fa? Non lo riconosce, ma siccome gli serve, lo prende senza riconoscerlo.
E questo il lavoratore lo percepisce moltissimo, tanto che c’è tutta una percezione molto forte, non solo in queste imprese, ma dappertutto, cioè che nessuno riconosce abbastanza il lavoro vero, perché la gente vede semplicemente le prestazioni: si vedono le tracce del lavoro, ma non si vede il lavoro, cioè gli orari, l’uscita, ma qual è nel lavoro il motivo fondamentale? È che i responsabili del lavoro non stanno più in mezzo ai lavoratori, stanno lontani negli uffici.
Questo è un bellissimo libro di un francese che si chiama, Le travail invisible, Il lavoro invisibile, cioè che le cose più importanti del lavoro non vengono viste. Ma il lavoratore, davanti a questa non vista soffre molto perché ha l’impressione che fa delle cose importantissime e nessuno se ne accorge. E quindi che cosa dicono questi studiosi? La prima forma del riconoscimento del lavoro è esserci, è lo sguardo, è la vista, vedere il lavoratore mentre lavora, non le feste. Perché non c’è nulla di più gratificante per un lavoratore che chi deve vederlo, non solo il collega ma il responsabile, lo veda mentre lavora. Dopo ne parliamo di questo, c’è ancora qualcosa da dire sul pessimismo antropologico che c’è dietro al lato economico del lavoro, i fannulloni, i pigri, ecc.
Cioè l‘essere umano ha un bisogno immenso di riconoscenza: c’è una parola molta bella in Francia che noi abbiamo perso in italiano che è reconnaissance, che vuol dire al tempo stesso riconoscimento e riconoscenza. Se tu non riconosci il lavoro, non sei neanche grato, perché se tu non vedi il lavoro non vedi neanche il dono. Quindi questa dimensione di vista, di essere in mezzo al lavoro, è fondamentale: il lavoratore non vuole molto, vuole semplicemente essere visto, vuole che qualcuno ascolti i problemi che ha.
Sempre l’altro giorno mi raccontava una di queste studiose, molto brava: i lavoratori sanno in certi contesti che certe cose non sono risolvibili. Il classico esempio: siamo in pochi, non siamo abbastanza lavoratori, abbiamo stress lavorativo, abbiamo tante richieste e siamo pochi; loro sono i primi a sapere che il manager non può subito assumere qualcun altro perché hanno pochi soldi, però vorrebbero condividerla questa cosa, invece nelle riunioni lavorative del lunedì mattina si parla dei turni, degli orari, e non si parla del lavoro, cioè di questo tipo di problemi, non ci si confronta sul lavoro fatto, ma solo del lavoro prescritto, cioè di quello che dovremmo fare. Dicono queste persone che a volte al lavoratore basta che l’altro ascolti veramente, cerchi di farlo non tanto il coach, ma il dirigente, e deve sentire che almeno è consapevole che nonostante tutto tu lo fai lo stesso, anche se vai oltre a quello che tu dovresti fare. E anche se non mi dai la soluzione, però sei presente e condividi un’esperienza. Quindi questa dimensione di condivisione dei problemi è fondamentale nel mondo del lavoro perché è una forma di riconoscenza fondamentale.
Perché dico questo ? Perché questo aspetto del lavoro, il lavoro come dono, in quanto lavoro non in quanto straordinario non pagato, è fondamentale. Un mio amico, Sergio Previti (è uno psicanalista freudiano) mi diceva che un’espressione del complesso di Edipo (scusa se sbaglio, Salvatore) dal punto di vista psicologico è che ci portiamo dentro tutta la vita, la sensazione di non essere amati abbastanza, cioè che noi sentiamo di essere migliori di quello che gli altri vedono perché abbiamo uno scarto fra il riconoscimento, la riconoscenza e la nostra percezione.
Bene questo è vero e sarà sempre vero, però che cosa vuol dire? Che anche nel lavoro, anche a 60 anni l’essere umano ha bisogno di sguardi, ha bisogno di riconoscimento, di riconoscenza. Prendiamo il tema della stima; ci sono delle persone che si fanno del male perché non sono stimati, cambiano lavoro, perdono lo stipendio: non si sentono stimati non tanto dai colleghi, ma dal loro responsabile. Cioè, noi abbiamo bisogno pazzesco di sguardi giusti sul nostro lavoro ed è la prima forma di reciprocità. Invece, al mondo si pensa che la gente vuole appunto: bravo, grazie, parlano col telefonino per le scale: ottimo eh, bel lavoro: Questa dimensione di condivisione non è romanticismo, è lavoro.
Allora, perché dico questo? Perché contro questa visione del dono intrinseco al lavoro c’è tutta un’ideologia dominante oggi a scienze economiche, che però nasce dagli ingegneri, interessante. Ho letto l’altro giorno un libro molto importante su questo, di uno scienziato della politica americano che si chiama Prut Grant (?) che ha scritto un libro sulla storia dell’incentivo, cioè come nasce la filosofia dell’incentivo nelle grandi imprese fordiste americane ed è bello che nasce in contrapposizione con il comunismo dei paesi russi. Cioè il dire: se tu vuoi gestire delle masse di persone dentro le imprese senza creare un sistema collettivistico, devi reggere qualcosa che è apparentemente libero e che ha lo stesso effetto di controllo, che è l’incentivo. Quindi che dicono questi? Che cosa accade dagli anni Trenta e che è diventato oggi ideologia pervasiva nelle scuole, negli ospedali? Intanto incentivo nasce da incentivus, quindi un’etimologia interessante, che era, nel Medioevo, lo strumento a fiato che accordava gli strumenti, il flauto, ma era anche il flauto incantatore dei serpenti, era l’incentivus rider, la tromba dell’esercito. Cioè io ti porto a fare cose che non vorresti fare, ti incanto, la stessa etimologia, incanto, incentivo, incantesimo, cioè ti porto, ti allineo con i miei obiettivi liberamente, tra virgolette, perché c’è un contratto, l’incentivo è un contratto. E quindi c’è questa idea: che tu non faresti naturalmente certe cose, le fai se ti pago e ti controllo.
Qual è l’idea di fondo? Che c’è dietro un’antropologia fondamentalmente pessimistica, che l’essere umano è incapace di virtù ma solo di interessi, quindi, diciamo, se tu non lo orienti in qualche modo dall’esterno non fa ciò che dovrebbe fare. Perché la motivazione del lavoro ben fatto non è interna al lavoro ma esterna, quindi io lavoro bene se e quando mi pagano o mi controllano.
Quindi, vedete che c’è tutto il ribaltamento dell’etica delle virtù; cioè se non sbaglio, professore, nell’etica delle virtù uno dei pilastri qual è? Che la motivazione di un comportamento è legata alla natura profonda di quell’ambito. Cioè la ragione di un lavoro ben fatto è dentro alla pratica professionale, non è fuori. Se io avessi domandato al maestro di Enrico del libro Cuore, in pensione a 85 anni, a quei tempi: maestro di Enrico, scusa, ma perché tu eri un buon maestro? per lo stipendio? Per carità, era un’offesa, lo stipendio c’era, ma andava parallelamente, era un pezzo del lavoro, ma la motivazione profonda del lavoro ben fatto era interna a quella pratica professionale, era dentro, non fuori. Cosa fa l’incentivo? Me lo porta fuori e dice: no, io lavoro bene se pagato o se controllato, quindi se nessuno mi paga e nessuno mi vede lavoro male.
E qui volevo riportare il brano che c’è nel testo, che è notissimo, poi ci sono anche altri brani simili, sia di Primo Levi che di altri autori, quando Levi racconta l’esperienza che fece ad Auschwitz. Siccome lo so a memoria, posso non leggerlo, raccontarlo a memoria. Lui dice: ricordo ad Auschwitz un fatto curioso, c’era un muratore bergamasco che mi portava da mangiare per sei mesi di nascosto, mi ha salvato la vita; quel muratore odiava i nazisti, odiava la guerra, odiava la lingua, odiava tutto, ma quando lo mettevano a tirar su muri li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale. Cosa vuol dire questo? Che tu ti salvi persino in un campo di concentramento facendo i muri diritti, cioè che c’è una vocazione nel muro. Sto scherzando, ma questa è una cosa fondamentale, secondo me, che dice esattamente l’opposto della promozione dell’incentivo: non per obbedienza, ma per dignità professionale.
Io sono convinto, a parte che un giorno in un convegno si alzò un signore che disse: bella questa frase di Primo Levi, lo disse così in diretta, io sono un liutaio, intanto essere un liutaio ancora oggi già ti ascolto solo per questo. Disse: io so perché quel muratore faceva il muro dritto. Mi dica, perché faceva il muro dritto? Perché quel muro era lui. Sì, va bene Marx, Simone Weil, sappiamo, ma che cosa vuol dire veramente? Io sentivo che voleva dire qualcosa di bello. Secondo me, quel muratore voleva dire ai suoi aguzzini: voi avete ridotto Mario in carne e ossa, lo vedo distrutto, ma il vero Mario è quel muro. Dico: bello, mi piace; cioè io metto nel mio lavoro la parte migliore di me e quindi dico agli altri chi sono lavorando.
Cosa vuol dire questo? Che quando io lavoro male divento io storto, una cosa molto seria. Quindi la gente, se può, lavora bene, non è che lavora male, perché se uno per 40 anni guarda l’orologio, quando finisce e quando inizia, magari si fa anche santo perché in questo modo porta avanti la famiglia, però è dura la vita. Quindi gli esseri umani se possono i muri li fanno dritti. Anzi, io ho un piccolo teorema, diciamo: più un lavoro è sbagliato, più devo farlo bene per non morire, cioè se io lavoro male, un lavoro che non è la mia vocazione, mi perdo perché non c’è più nulla di vero a cui aggrapparmi, finito. Quindi, il lavorar bene in un luogo che non è vocazionale, perché non tutti facciamo un lavoro vocazionale, speriamo di riconoscerlo questo, lavoro e vocazione, perché la gente fa lavori che non vorrebbe fare, ma li fa per poter campare. Soprattutto, se questo tipo di lavoro aumenta allora si va in crisi. Oggi abbiamo un sacco di persone che perché hanno dei bambini da mantenere fanno lavori che non vorrebbero assolutamente fare. Ci sono degli avvocati che stanno lì a fare i cassieri, e ringraziano Dio, al supermercato. L’altro giorno, ormai è passato un po’ di tempo, ho incontrato una mia amica che stava, laureata in legge, bravissima, io stavo andando a far la spesa alla Coop, alla cassa tutta rossa. Ciao professore, mi fa, scusa se sto qua, e io: scusa di che? Che cosa volevo dirle, che poi ho scritto: non preoccuparti, se lo fai bene ti salvi, anche se ti sembra un lavoro, diciamo, che non è degno.
Quindi, non tutti facciamo lavori vocazionali, vocazione è bello, c’è gente che li fa, però una via di salvezza non è solo pensandoli come servizio, ma ancora di più, ma farli bene, perché nel far bene una cosa ti agganci alla verità che c’è nelle cose, ché c’è una verità nell’oggetto e non solo nel soggetto che ti chiama; c’è dentro e non solo fuori; non ci sono solo le motivazioni, c’è anche la realtà con cui mi confronto: se io l’aggancio la sua verità mi salva. È una cosa bellissima, questa, della vita e quindi consente a persone che fanno i lavori più disumani, persino in una sala giochi, attenzione, che magari qualcuno vorrebbe andar via ma non può perché ha un bambino che deve mantenere, persino lì. Dico una cosa e sto già male, puoi trovare una via di salvezza se in qualche modo ti agganci a qualcosa, che non so che cosa ci sia lì dentro.
Se abbiamo ancora tre minuti, volevo chiudere con delle sfide. Ne dico una, dai, perché non c’è tempo. Allora: il lavoro è la cura. Io sono molto amico di una filosofa canadese che si chiama Jennifer Nedelsky, una filosofa molto brava, che porta avanti un’idea che a me piace molto, anche molto pratica, lei è una femminista ma di quelle forti, in gamba. Una volta, mi ha scritto una signora su Avvenire che mi fa: ma lei parla di donne, ma solo le donne possono parlare di donne. Dico: va benissimo, e allora facciamo che solo i maschi parlano di maschi e così il cerchio si chiude, no? Dico: anzi spesso è l’altro che ti guarda che ti vede meglio. Io dico: benissimo le pagine più belle sui maschi le hanno scritte Simone Weil, Hannah Arendt, cioè è l’altro che ti vede e ti guarda. Comunque, io sono femminista perché anche se ci sono delle asimmetrie pazzesche fra uomini e donne che vanno ridotte e vanno possibilmente eliminate. Lei dice una cosa che mi piace molto: Secondo me, dice, tutto il dibattito sul lavoro oggi è totalmente da rivedere. Invece è buona questa cosa. Perché lei dice: in un mondo come il nostro dove l’età sta avanzando molto, con famiglie sempre più fragili, il tema decisivo è il tema della cura, cioè chi si prende cura delle persone. Lo stato non lo fa più, ed è anche bello, forse, perché non ha più soldi, non ha più fondi, grande attenzione non ne ha mai fatta come in America. Il mercato lo sta facendo, ma stiamo attenti perché se noi cominciamo a pensare che il mercato può far tutta la cura, cioè dai bambini neonati fino agli anziani, e qui mi piace molto la battuta di Roberto Benigni che commenta come me i Dieci Comandamenti, e lui molto meglio, quando dice: il comandamento “onora il padre e la madre” è rivolto a te, devi essere tu che te ne occupi, prima di tutto, perché è proprio della condizione umana, poi puoi patteggiare e farti sussidiare dal mercato, ma sei tu che devi occupartene: “onora il padre e la madre, tu”. È molto interessante, io condivido profondamente anche perché siamo di cultura contadina e sarebbe inconcepibile diversamente.
Comunque, cosa dice la Nedelsky? Dice questo: noi dobbiamo ripensare una cosa, che nel pacchetto di ore che una persona offre alla collettività si dovrebbero inserire non più di 30 ore di lavoro e non meno di 12 ore di cura. Cioè questo significa che tu, essere adulto, dai 15 anni fino ai 90 perché non si va in pensione nella cura, dice lei, quando ti pensi in rapporto agli altri, beh io ogni settimana dò agli altri 42 ore, minimo, di cui una parte è lavoro remunerato, e una parte è cura gratuita.
Due cose: prima di tutto ci sarebbe un effetto di distribuzione di ricchezza spaventosa perché dal miliardario al disoccupato, tutti offrono 12 ore. A chi? Dentro casa, e fuori, ne beneficia la comunità. In base alla vita, se hai due bambini piccoli le offri in casa e poi, finiscono i bambini, e le offri fuori. Con questa idea, dico: Jennifer, ma come fai a implementarla questa idea? Lei mi fa: beh, lo stato potrebbe fare qualcosa. Cosa? Tassare molto il lavoro oltre un dato numero di ore, quindi dovrebbe scoraggiare il lavoro quando supera un tot di ore, però il principale meccanismo di penetrazione è la norma sociale che si afferma per stima e biasimo sociale. Questo che cosa vuol dire? Ti faccio un esempio le mi disse: se io 100 anni fa avessi detto a Stefano, Stefano quanti anni hai? 40. Che lavoro fai? Nessuno. Perché? Sono nobile e non lavoro. Beato te, sei un nobile. E il non lavorare era segnale di nobiltà. Se oggi dico: Stefano, quanti anni hai? 40, non lavoro perché sono ricco, non voglio lavorare. Io dico: poveretto. Cioè, a parte che ti perdi tutto ciò che c’è di più bello al mondo che è il lavoro, ma poi, come dire, non funziona perché non lavori volontariamente, perché vivi di rendita.
Dice lei: dove dovremmo arrivare, lei donna concreta, non tra 10 anni, ma oggi. Partiamo dalle scuola. Per dire, tu, Stefano, che lavoro fai? Quante ore lavori alla settimana? 80 ore perché faccio il chirurgo. Quante ore offri di cura agli altri? Nessuna perché non ho tempo e ho abbastanza soldi per comprarle sul mercato. Risposta: non ti stimo. Cioè dovrei dire: io non ti stimo come persona perché non sei eccellente come persona ma solo come lavoratore. Cioè, l’eccellenza dovrebbe comprendere anche la cura. La dimensione di eccellenza umana dovrebbe andare oltre l’eccellenza lavorativa perché prendersi cura è condizione umana. Quindi ogni essere adulto deve essere capace di occuparsi degli altri. Quindi lei dice una battuta: se tu non sei capace nemmeno di lavarti i calzini da solo e usi per questo il mercato, io non ti stimo perché non sei una persona completa. Cioè la completezza dovrebbe includere la capacità di occuparsi, di prendersi cura di se stesso e degli altri. Lei mi diceva l’altro giorno: sto riflettendo se l’attività sportiva è di cura del proprio corpo fa parte delle 12 ore o no. Dico no, non la mettere dentro perché non è solo quello.
Comunque queste cose qua che sono molto serie sono completamente assenti dal job’s act, perché è troppo miope il dibattito sul lavoro: cioè si guarda a sei mesi, un anno; la troika, non siamo capaci di alzare lo sguardo e di capire che il mondo va avanti in direzione di un lavoro che va distribuito in parte. Oggi, al nostro tempo, c’è gente che lavora poco e gente che lavora troppo e quindi, entro certi limiti, io dico, perché non facciamo una cosa minimale, cioè di incentivare fortemente chi ha più di 55 anni di passare part time. Perché non si può immaginare che gli anziani creano un po’ di lavoro, certi lavori, lavori pubblici, lavori standardizzati, per i giovani? Dove sarebbe questo dramma? E dire: un po’ di distribuzione del lavoro, entro certi limiti, se non si pagasse troppo in termini attuali di INPS, ma questo è un altro discorso, ci vuole un patto sociale. Quindi il lavoro va in parte ridistribuito, e la cura va ridistribuita, non può essere solo delle donne, anzitutto (questo è un tema evidentemente che sta molto a cuore a tutti, maschi e femmine) per tutta la vita, fino a 90 anni.
Questa mi sembra una cosa molto seria. Io mi fermo qui, vi ringrazio ancora molto per aver scelto questo mio libro tra i vostri libri.